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Poesie per bambini di Osip Mandel’štam,  prima traduzione in italiano a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova da ”Il fornello a petrolio”, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, la struttura sincipitale della poesia per bambini

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Giorgio Linguaglossa

Sulla scrittura delle Poesie per bambini di  Osip Mandel’štam

Osip Ėmil’evič Mandel’štam nasce a Varsavia da una famiglia della media borghesia ebraica. I primi versi Osip li pubblica nel 1910 su «Apollon», la rivista della nuova scuola poetica: l’acmeismo. Nikolaj Gumilëv, l’inventore dell’acmeismo, nel 1913 scriveva: «In cambio del simbolismo sorge una nuova tendenza, comunque la si voglia chiamare: acmeismo (dalla parola acmè, il più alto grado di qualcosa, il fiore, la stagione del rigoglio), oppure adamismo (visione virilmente ferma e chiara della vita), che in ogni caso esige un maggior equilibrio di forze e una più esatta cognizione dei rapporti tra soggetto e oggetto di quanto non sia avvenuto nel simbolismo».

Nel 1912 Mandel’štam entra nella prima “Corporazione dei poeti acmeisti”, si lega con Nikolaj Gumilëv e Anna Achmatova. Nel 1913 pubblica Kamen (Pietra), nel 1922 Tristia. Le poesie per bambini Il fornello a petrolio di cui qui si presentano un congruo numero, sono del 1925. Nel 1923 Mandel’štam viene colpito dal primo «invito» a non pubblicare versi. Di qui in avanti il poeta vivrà unicamente dei magri redditi che gli derivano da traduzioni e da qualche sporadica collaborazione letteraria.

Nella notte tra il 13 il 14 maggio 1934 il poeta viene arrestato dagli agenti della polizia segreta. Durante gli interrogatori gli contestano una sua poesia scritta contro Stalin. Mandel’štam trascorre tre anni di confino a Voronež, durante i quali scrive le grandi poesie della maturità. Scontata la pena il poeta e la moglie tornano a Mosca, dove il 2 maggio 1938 Mandel’štam viene arrestato e deportato. Ufficialmente, la data della morte è il 27 dicembre 1938.

Tutta la poesia della maturità di Mandel’štam, se si fa eccezione di Pietra, che pur rivela una perfetta levigatezza del verso di squisita fattura ellenistica, poggia sulla consapevolezza che la concezione del mondo del poeta si trova sempre in contrasto con il proprio tempo, «contropelo rispetto al mondo». Nel Discorso su Dante egli parla di una capacità visiva affatto speciale e specifica del poeta che gli permette, al pari degli uccelli rapaci e dei defunti della Commedia, di distinguere gli oggetti lontani, di scorgere i particolari a distanze enormi, pagando lo scotto di ciò con la cecità verso il presente. Già in uno dei suoi primi saggi, Sull’Interlocutore, l’allora ventiduenne poeta parlava della «preziosa consapevolezza della verità poetica»; sin da giovane si considerava un «costruttore»: «dalla triste gravezza anch’io un giorno creerò il bello». Nessun disgusto per la materia grezza, la acuta percezione della sua pesantezza, delle sue qualità intrinseche (la solidità, il peso, il colore, l’incastro): di qui l’idea di una poetica non «di tipo normativo», bensì «biologica», basata cioè sulle qualità originarie, fisiologiche, della materia. Mandel’štam non usava mai il termine «creazione», né il verbo «creare», concetti questi che gli erano totalmente estranei; l’acmeista ha bisogno dello spazio tridimensionale, per lui la terra «non è un fardello, non è un caso infausto, bensì il palazzo donatoci da Dio». Se per Mandel’štam si può costruire soltanto nell’ambito della tridimensionalità, ne consegue che muta radicalmente lo sguardo dell’artista verso il mondo degli oggetti: questo mondo può essere ostile all’artista, ovvero al «costruttore», perché gli oggetti ci sono dati per fungere da materiale da costruzione. La pietra ne è un esempio eloquente. È «come se essa agognasse ad una esistenza diversa» e si volesse inserire «nella volta a crociera» di una «cattedrale gotica». E proprio come la cattedrale gotica rappresenta il compimento della pietra, «per l’artista la visione del mondo è un’arma e uno strumento, come il martello nelle mani del muratore; l’unica realtà è l’opera stessa» (Il mattino dell’acmeismo).

Mandel’štam aveva un concetto corporeo della parola, distingueva «la forma interna della parola dalla parola-segno e dalla parola-simbolo» cara ai poeti simbolisti. Accolse freddamente i celebri versi di Gumilëv sulla «parola» ma senza spiegarne mai il motivo; diversamente da Gumilëv intendeva anche l’importanza del numero dei versi e delle strofe di una composizione. Infatti, usava contare il numero delle righe e delle strofe di una poesia ed il numero dei capitoli nella prosa. A Voronež, Mandel’štam assiste meravigliato alla nascita di poesie di sette, nove, dieci, undici versi che entravano in azione gli uni con gli altri fino a comporre poesie più lunghe: stava nascendo una nuova forma. Venivano alla luce di getto, misteriosamente, nuove poesie di una lunghezza inusitata.

Nelle composizioni de Il fornello a petrolio si assiste ad una peculiarissima fusione delle immagini, dei concetti e delle rime dal punto di vista dell’occhio infantile. È il nuovo tipo di sguardo che determina la nuova forma della poesia.

Le poesie qui tradotte fanno parte di un ciclo di composizioni di genere «leggero», da non intendere nel senso di «cose minori», bensì nel senso di «esercitazioni», esercizi tematici con i quali spesso i poeti provano il proprio bagaglio tecnico in relazione ad oggetti «semplici», prima facie, ma che nascondono in sé notevolissime difficoltà di costruzione e di assemblaggio. Di tale natura è per l’appunto il tentativo compiuto con le poesie del ciclo Il fornello a petrolio. Innanzitutto, un oggetto di uso quotidiano (il fornello a petrolio, il ferro da stiro, le galline «parlanti» etc.), per un interlocutore letterariamente non smaliziato: i bambini, per i quali sarebbe superfluo approntare poesie stilisticamente elevate che rimarrebbero del tutto incomprese, meglio puntare sulla semplicità, mediante tecnicismi elementari ed universali che formano la base per la comprensione della poesia «alta», ossia i giochi di parole, i lapsus ed i giochi di immagini, con le parole di Mandel’štam, una struttura «sincipitale». Orbene, non si creda che un poeta del calibro di Mandel’štam voglia unicamente occuparsi di esercizi fonematici o di equilibrismi di immagini. Niente di più alieno dalle sue vere intenzioni. Il poeta russo tenta qui una vera e propria «muscolatura» delle immagini, pone in essere una ricca strumentazione di nervature interne sotto forma di gioco, di sciocchezze, di nugae. Ormai vicino alla morte, Mandel’štam in una lettera a Tynianov ci chiarisce il concetto di certa sua produzione: «È già un quarto di secolo che, mischiando le cose serie alle sciocchezze, io sputo sulla poesia russa, ma presto i miei versi entreranno in lei mutando qualcosa nella sua struttura e nel suo corpo…». C’è in queste poesie una sorta di sospensione del mondo degli adulti, dove le leggi stesse della gravità e della connessione spazio-temporale sembrano saltate. Ma non è Mandel’štam il poeta che aveva scritto: «L’uomo non è più padrone a casa sua… Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire… Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi?». Sì, è il poeta russo che si prova qui con il mondo degli oggetti che non obbediscono più alle leggi della fisica degli adulti. Gli oggetti sembrano essersi ammutinati e si comportano in modo bizzarro.

Dunque, «sciocchezze» di tipo superiore, «sciocchezze» per l’educazione estetica dell’umanità futura. L’interesse dei poeti verso l’infanzia lo si può riscontrare, in generale, quando le sorti dell’umanità seguono momenti di criticità, e non è un caso che un poeta come Mandel’štam si rivolga ai bambini russi quale concreto «interlocutore» della poesia a venire, quando la lotta per l’imposizione di un nuovo modello di poesia è divenuta problematica e l’esito stesso, la stessa sopravvivenza della poesia nel «nuovo» mondo appariva problematica. D’altra parte, Mandel’štam non aveva bisogno di un lettore qualsiasi. Non certo che disprezzasse i lettori come detestava gli attori che solevano recitare versi in stile «trombonesco», aveva bisogno di un «interlocutore», di qualcuno che lo ascoltasse quando leggeva i versi appena composti. Ma per questo ufficio era sufficiente la moglie Nadežda. L’educazione estetica dei lettori era un concetto che lo faceva sorridere di scherno; a questo ci pensavano già i simbolisti con la loro aura sacrale, i futuristi e i lefovci con l’estetizzazione della politica. Mandel’štam preferiva parlare degli «uomini», non dei «lettori»: «gli uomini conserveranno le poesie… se ne avranno bisogno, le troveranno da soli, trovano sempre quello di cui hanno bisogno».

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Nell’isola di Sevan, Mandel’štam aveva notato che le lenti del binocolo “Zeiss” aumentavano l’intensità del colore, lo rendevano più puro. Mandel’štam non si stancava mai di lodare le capacità di questo binocolo, finché non lo citò in una delle sue poesie più belle.

In un certo senso, l’operazione che il poeta compie in queste Poesie per bambini è di riuscire ad ottenere una poesia più immediata, ingenua, che lo conduca più in prossimità degli oggetti e ne sveli la particolare nobiltà «fisiologica»; tutto ciò senza ricorrere al alcuna nobiltà denominativa. Non per nulla Mandel’štam possedeva un acutissimo senso del tatto, come i bambini, toccare le cose lo aiutava a riconoscerle. Per lui il poeta «tocca» la forma interna degli oggetti ancor prima che questi si materializzino in parole. Il toccare lo aiutava a ricordare, ed il ricordo era lo stadio che immediatamente precedeva il vestito di parola. In queste poesie per bambini, Mandel’štam per prima cosa ricompone per lo sguardo infantile oggetti ad essi familiari, che nella vita quotidiana dell’epoca essi avevano continuamente sotto gli occhi (per esempio, il ferro da stiro incandescente che le nostre nonne ponevano sul davanzale della finestra per farlo raffreddare; il fornello a petrolio con le sue particolarità costruttive, etc.).Questi oggetti vengono animati dall’interno come se fossero delle entità viventi e parlanti: così l’elettricità è paragonata ad un «fuoco freddo» che fa illuminare la lampadina; il latte non bollito si trasforma in yogurt per via di trasmutazione quasi magica, e così via. Ovviamente, nella versione in italiano raramente è stato possibile rendere i parallelismi fonetici che stigmatizzano le trasmutazioni; cionondimeno, non tutta la freschezza e l’agilità di queste composizioni viene perduta; ciò che resta è sufficiente a farci apprezzare l’alta qualità della manifattura poetica che è alla loro base. Ad esempio, nella composizione numero dieci è stato possibile conservare la rima del testo russo con una analoga in italiano. Tanto basta a rendere lo squisito sapore dell’originale, nonché, degno di nota è il raffinatissimo nesso incrociato dei «violinisti» e dei «trombettieri» legati dalla giuntura della rima in «elle» e dall’unità di luogo e di tempo dell’azione: il mercato.

L’interesse per la poesia infantile era comune ai poeti della generazione di Mandel’štam; ricordiamo qui per inciso le poesie della bambina ucraina che Velimir Chlébnikov commentò già prima degli anni ’20, dove la ingenua «trasgressione… solleva il velo dai versi monotonamente rivestiti dal metro». Lo sforzo di Chlébnikov era orientato verso la rottura della struttura sillabico-tonica della versificazione simbolista. La trasgressione consapevole e ingenua era intesa nel senso di un recupero del parlato quotidiano. Se Chlébnikov fu il primo ad introdurre nella poesia russa le rime «marginali», prima di lui repertorio della poesia comica, un grande continuatore di questo indirizzo è rappresentato da Majakovskij e dalla rivista “Novij Satirikon”, nonché dal poeta umoristico Sasa Cërnyj, autore, tra l’altro, di uno splendido racconto lungo, Diario di un cane, pubblicato a Parigi nel 1926, dove il mondo degli adulti è illuminato dal riflettore del punto di vista dello sguardo infantile. Ad esempio, anche nella prosa il punto di vista infantile-ingenuo produrrà i racconti stranianti di Daniil Charms. La teorizzazione di Chlébnikov sulla lingua come di «un gioco alle bambole», così che «la parola è una bambola sonora e il dizionario una raccolta di giocattoli», fu una delle più feconde per la poesia russa. Poiché «la lingua si è naturalmente sviluppata a partire da poche unità basilari dell’alfabeto», compito del poeta per Chlébnikov sarà di riassemblare, sulla base di pochi «straccetti sonori» una lingua transmentale che si sviluppi a partire da pochi radicali con l’aggiunta di suffissi e affissi, in direzione di un linguaggio «stellare», «pentaraggiale», universale, dove i tradizionali nessi semantici e sintattici si affievoliscono per far posto ad un nuovo processo di etimologizzazione e semasiologizzazione dei testi. Se in Chlébnikov è uno sguardo infantile che osserva la lingua, in Mandel’štam lo sguardo infantile costruisce gli oggetti. Mandel’štam invidiava nei bambini quella loro particolare attitudine ottica che permette loro di ricostruire, da oggetti immobili gli oggetti in movimento; impadronirsi di questa facoltà avrebbe significato una grande acquisizione per un poeta. Affinare la facoltà ottica e tattile significava poter padroneggiare in misura eccelsa gli oggetti, riconoscerli in ogni loro istante, riuscire a rappresentarli in modo più icastico, completo. Per Mandel’štam i cinque sensi erano una «finestra sul mondo», in particolare, la vista ed il tatto, i più sublimi; facoltà che nell’uomo moderno erano ormai in declino. Tratti infantili erano presenti anche nella personalità di Mandel’štam, il quale era solito vantarsi, dinanzi all’Achmatova, delle prodigiose capacità della propria vista, e di frequente, per le strade di Pietroburgo, sfidava la amica poetessa a chi leggeva per primo il numero dei tram in arrivo. La moglie di Mandel’štam fungeva da arbitro. Con grande scorno di quest’ultimo, vinceva sempre la Achmatova. Mandel’štam era solito chiamarla la «piccola vespa», si era convinto della suprema acutezza della vista della Achmatova e la ammirava. Nessuno riusciva a capire perché mai Mandel’štam frequentasse assiduamente il museo zoologico di Pietroburgo: per sfogliare libri e studiare la struttura della vista di uccelli, insetti, lucertole, mammiferi. Fu così che «l’occhio sincipitale» degli insetti entrò in una delle sue poesie più alte. Mandel’štam era convinto che i bambini vedessero meglio e più in profondità degli adulti, fu per questo che intraprese a scrivere un ciclo di poesie per bambini, per tentare di impadronirsi di questa suprema capacità visiva. Era convinto che per poter costruire una grande poesia fosse necessario riconoscere gli oggetti in modo sintetico e diacronico, con sguardo plastico ed animistico, con occhio parallattico e sincipitale.

Risposta all’inchiesta “lo scrittore sovietico e l’ottobre” inaugurata dalla rivista “Citatel’ i pisatel’” (Lettore e scrittore) del 1928

La rivoluzione di ottobre non ha potuto fare a meno di esercitare un’influenza sul mio lavoro, poiché mi ha tolto la «biografia», la sensazione di un significato personale.

Le sono grato per aver posto fine una volta per sempre alla sicurezza spirituale e al vivere di rendita culturale… Mi sento debitore della rivoluzione, ma i doni che le offro non le sono, per ora, necessari.
La domanda su come debba essere uno scrittore, mi è del tutto incomprensibile: per rispondere dovrei inventare uno scrittore, il che significherebbe scrivere le sue opere in sua vece.
Sono altresì profondamente convinto che, sebbene gli scrittori dipendano dai rapporti di forza sociali e ne siano condizionati, la scienza moderna non possegga alcun mezzo per evocare la comparsa di questo o quell’autore che ritiene auspicabile. Dato lo stadio embrionale dell’eugeneutica, gli incroci e gli innesti culturali possono dare i risultati più inaspettati. È invece possibile una produzione in massa dei lettori. Per questo esiste un mezzo diretto: la scuola.

Mandel’štam aveva compreso un fatto fondamentale: che per fare poesia occorre ritornare ad avere uno sguardo, in un certo senso, «infantile» (dizione di Mandel’štam), che occorre ripristinare uno «sguardo sincipitale» (dizione di Mandel’štam) delle api e delle lucertole, e «stereometrico» (dizione di Mandel’štam), che occorre vedere la «parola» (del linguaggio poetico) dall’interno e dal di fuori, da destra e da sinistra, dall’alto e dal basso (dizioni di Mandel’štam)… e che questa particolare attitudine del linguaggio umano e di quello poetico è una attitudine naturale… soltanto le stratificazioni culturali ottundono lo sguardo costringendoci ad un VEDERE istituzionalizzato ed nomologato.. La poetica dell’acmeismo, nelle intenzioni del poeta russo mirava a mettere in risalto le cose non solo perché esse sono cose in senso ontologico ma perché le cose nel linguaggio sono altra cosa dalle cose in sé. Mandel’štam diceva che «bisogna considerare la parola come un fascio, ed il significato si stacca da esso in varie direzioni senza però dirigersi verso alcun punto ufficiale».

Straordinaria e acutissima intuizione.

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da Il fornello a petrolio di Osip Mandel’štam
I
Le belle gallinelle andarono dalle spocchiose pavonesse:
“Dateci almeno una pennuccia, suvvia, coccodè – coccodè”
“Ci mancherebbe altro!
Che vi siete messe in testa?
Pensate: a cosa vi serve?
Noi non siamo vostre amiche: ma pensa, coccodè – coccodè”

II

Un pan di zucchero
né morto né vivo.
Hanno preparato del tè fresco:
serviteci pure lo zucchero!

III

Per guarire e lavare
Il vecchio dorato fornello a petrolio,
gli tolgono la testolina
e lo riempiono d’acqua.

Il ramaio, dottore del fornello a petrolio,
guarirà il fornello malato:
lo pulisce con l’ago sottile.

IV

Amo molto la biancheria,
sono amico di una camicia;
non appena la vedo –
stiro, ripasso, scivolo:
– Se voi sapeste quanto
mi fa male stare sul fuoco!

V

“Per me che sono non bollito, rozzo,
è facile diventare yogurth!”
diceva a quello bollito
il latte non bollito.

Ma quello bollito
risponde con dolcezza:
“Io non sono un completo rammollito:
ho la pellicina”. Continua a leggere

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Iosif Brodskij (1940-1996), Lettera al generale Z. (1968), Brodskij e la Guerra, inedito, prima traduzione italiana a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

Onto brodskij

Iosif Aleksandrovic Brodskij è nato a Leningrado nel 1940. Nel 1964 fu arrestato con l’accusa di parassitismo e condannato, dopo un processo che scatenò violente reazioni nell’opinione pubblica mondiale, a cinque anni di lavori forzati. Rilasciato dopo 18 mesi tornò a vivere a Leningrado. Nel 1970 fu costretto dalle autorità sovietiche a emigrare. Si stabilì in USA, dove tenne corsi in varie università e svolse un’ampia attività pubblicistica oltre che poetica. Brodskij ha esordito pubblicando nel 1958 alcune poesie in una rivista clandestina. Venne subito riconosciuto come uno dei lirici più dotati della sua generazione. Ebbe il sostegno di Anna Achmatova che gli dedicò una delle sue raccolte (1963). Dopo il rilascio seguito alla prima condanna, si dedicò soprattutto alla traduzione di poeti inglesi (Donne, Hopkins). La sua raccolta di versi Fermata nel deserto, in cui l’introspezione con venature ironiche si unisce all’afflato metafisico, uscì a New York nel 1970 confermando lo straordinario estro poetico di Brodskij. Dopo l’emigrazione tenne corsi in varie università e svolse ampia attività pubblicistica (Fuga da Bisanzio (Less than one), 1986) e poetica (Elegie romane, 1982). Nel 1987 fu insignito del premio Nobel per la letteratura, e nel suo discorso a Stoccolma individuò le radici della sua opera di classico contemporaneo in quattro poeti: Anna Achmatova, Marina Ivanovna Cvetaeva, Robert Frost e W.H. Auden. Le motivazioni del Nobel: “for an all-embracing authorship, imbued with clarity of thought and poetic intensity”. Nel 1991 fu nominato poeta laureato degli Stati Uniti. Morì nel suo appartamento di Brooklyn per un attacco di cuore il 28 gennaio 1996. Innamorato dell’Italia, espresse il desiderio di venire seppellito a Venezia, città di acqua e canali come la natale Leningrado, e lì ha trovato per sempre riposo.

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IOSIF BRODSKIJ E LA GUERRA

 Nell’esemplare appartenuto all’autore del secondo tomo dei “Componimenti di Josiph Brodskij”, dopo la data 1968, veniva annotato: ”autunno; dopo l’invasione della Cecoslovacchia”. È plausibile che il modello della poesia fu suggerito a Brodskji dalla “Lettera al generale X“ di Antoine De Saint-Exupèry, uno degli scrittori preferiti della sua giovinezza. Pervaso dal pathos del pacifismo e dell’antitotalitarismo, il saggio fu scritto nel 1943 in una base militare del Nord Africa due mesi prima della morte dello scrittore e pubblicato postumo. In Russia circolò nei samizdat nella traduzione di Marina Kazimirovna Baranovich.

In Brodskij la Lettera al generale Z acquisisce una connotazione maggiormente ironica conservando, tuttavia, l’ambientazione tropicale che ricorda i film sulle imprese della Legione Straniera o di altri corpi di spedizione nei paesi caldi. In tal modo, a paragone delle posizioni di Brodskij su altre imperialistiche azioni del potere sovietico (vedi la poesia non pubblicata sulla rivoluzione ungherese del 1956), la Lettera al generale Z fu scritta in uno stile più iconoclastico, simbolico. Una particolare attenzione merita la ricorrente topica del gioco delle carte, l’iniziale calembour – carte geografiche/carte da gioco – della prima strofa che richiama l’avventurismo, il barare, lo spreco.

Un possibile impulso alla genesi del motivo delle carte fu il racconto, noto a Brodskji, della vedova di Bulgakov sull’incontro con Saint-Exupèry presso il consigliere dell’ambasciata americano a Mosca il primo maggio del 1935: ”Il francese – che risultò essere anche un pilota – raccontava dei suoi pericolosi voli. Faceva vedere inconsueti giochi di prestigio”.

Nei dettagli “LGZ” richiama sia la poesia del poeta americano Reed Whittemor Un giorno con la Legione Straniera, che Brodskji tradusse, che la lettera da lui scritta a Breznev sebbene qui il destinatario del poeta sia un’entità più surreale. Giova aggiungere che Brodskij rimandò la composizione di “LGZ” ai versi da lui composti sotto l’influenza poetica di Auden:

  “Ancora più acutamente il tema della responsabilità per gli atti storici della patria appare in Brodskij come un particolare sentimento di vergogna, disonore. Alla domanda se ci fossero stati momenti in cui aveva fortemente desiderato fuggire dalla Russia, rispose: «Sì, quando nel 1968 i carri armati sovietici invasero la Cecoslovacchia. Allora, ricordo, ebbi la voglia di fuggire ovunque possibile. Prima di tutto per la vergogna. Per il fatto che appartengo allo stato che compie queste azioni. Perché, bene o male, parte della responsabilità ricade sempre sul cittadino di questo stato». Reagì all’occupazione della Cecoslovacchia con la “LGZ”, il cui protagonista, un vecchio soldato dell’impero, si rifiuta di combattere. (dal libro di Lev Losev Josiph Brodskij, 2006)  

Stefania Pavan, saggio su Odissej Telemaku  (Odisseo a Telemaco) di Iosif Brodskij – La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo).

LETTERA AL GENERALE Z
La guerra, Vostra Grazia, è solo un gioco vuoto.
Oggi – fortuna e domani – un buco.
(Canzone sulll’assedio de La Rochelle) (1)

foto Kharkiv

Much-loved pub destroyed
In the city of Kharkiv, in north-east Ukraine, the beloved Old Hem bar – named after the owner’s literary hero Ernest Hemmingway – was destroyed by Russian shelling.
An extraordinary image shared widely on social media showed the building which once housed the pub reduced to rubble. The owner – now in western Ukraine – told the BBC that he hopes to return one day to his city and rebuild his bar.
“We will win and Hem will rise again,” Kostiantyn Kuts said [La scorsa settimana mi sono seduto in un parco del centro città, con l’erba tagliata con cura, le aiuole in fiore, e mi sono gustato un gelato al caffè. La città  (Kharkiv) è ancora in gran parte vuota, ma il numero di colpi di artiglieria russa è sceso da dozzine al giorno a solo una manciata. Le sirene dei raid aerei continuano a ululare regolarmente, ma Kharkiv non si sente più sull’orlo della catastrofe.]

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Generale! Le nostre carte sono una merda. Passo.
Il Nord non è affatto qui ma nel Circolo Polare Artico.
E l’Equatore è più ampio della banda dei vostri calzoni.
Perché il fronte, generale, è al Sud.
A una tale distanza una radiotrasmittente
trasforma qualsiasi ordine in boogie-woogie.

Generale! La confusione è degenerata in bordello.
L’impraticabilità delle strade non consentirà di ammassare riserve
e cambiare la biancheria: il lenzuolo è carta smerigliata;
questo, sapete, mi dà sui nervi.
Mai finora, credo, sia stato così
imbrattato l’altare di Minerva.

Generale! Stiamo così a lungo nel fango
che il re di cuori esulta in anticipo
e il cuculo tace. Dio ce ne scampi,
tuttavia, dall’ascoltare il suo verso.
Ritengo che bisogna dire merci
che il nemico non attacca.

I nostri cannoni stanno con le canne sprofondate a terra,
le palle si sono afflosciate. Soltanto i trombettieri,
estraendo le trombe dai
foderi, come accaniti onanisti,
le lucidano giorno e notte così che all’improvviso
quelle emettano un suono.

Gli ufficiali vagano, disprezzando il regolamento,
in calzoni a sbuffo e giubbe di diversi semi.
I soldati nei cespugli sulle terre arse
si abbandonano l’un l’altro ad una vergognosa passione
e arrossisce, abbassando il vessillo scarlatto,
il nostro sergente-scapolo.
————————————-
Generale! Io ho combattuto sempre e ovunque
per quanto fossero scarse e incerte le possibilità.
Non avevo bisogno di un’altra stella
oltre quella che è sul vostro cappello.
Ma ora sono come nella favola su quel chiodo:
piantato nel muro, privato della capocchia.

Generale! Purtroppo la vita è una.
Per non cercare maggiori prove,
ci toccherà bere fino in fondo
il nostro calice in questi boschi insignificanti:
la vita, probabilmente, non è così lunga
da accantonare il peggio a tempo indeterminato.

Generale! Solo alle anime sono necessari i corpi.
Certo le anime, si sa, sono estranee alla gioia maligna
e qui, penso, ci ha portato
non la strategia ma la sete di fratellanza: (2)
è meglio mettere bocca negli affari altrui
se non ci raccapezziamo nei nostri.

Generale! Adesso ho la tremarella.
Non capisco il perché: per vergogna o per paura?
Per mancanza di donne? O semplicemente è un ghiribizzo?
Non aiutano né il dottore né il guaritore.
Perché probabilmente il vostro cuoco
non distingue dove sia il sale, dove lo zucchero.

Generale! Ho paura che siamo finiti in un vicolo cieco.
Questa è la vendetta di uno spazio ampio.
Le nostre piche si arrugginiscono. La presenza di piche –
non è ancora garanzia di un bersaglio.
E la nostra ombra non si sposterà davanti a noi
persino all’ora del tramonto.
—————————————–
Generale! Voi sapete che non sono un vigliacco.
Tirate fuori il dossier, fate delle indagini.
Sono indifferente al proiettile. In più
non temo né il nemico né la posta in gioco.
Che mi piantino pure un asso di quadri
tra le scapole – chiedo le dimissioni!

Io non voglio morire per
due o tre re che
non ho mai visto in faccia
(non si tratta di paraocchi ma di tende impolverate).
Tuttavia non ho nemmeno voglia di vivere
per loro. A maggior ragione.

Generale! Sono stufo di tutto. Mi
annoia la crociata. Mi annoia
la vista nella mia finestra di montagne
immobili, boschetti, anse di fiumi.
E’ brutto quando il mondo all’esterno
è stato concepito da chi è tormentato dentro.

Generale! Non penso che, abbandonando
le vostre fila, le indebolirò.
Non sarà una grossa sciagura:
io non sono un solista ma uno estraneo all’ensamble.
Tolto il bocchino dal mio zufolo,
brucio la mia uniforme e spezzo la sciabola.
———————————————
Anche se non vedi gli uccelli, si sentono.
Il cecchino, tormentandosi di sete spirituale, (3)
non si sa se l’ordine o la lettera della moglie,
appollaiato su un ramo, legge due volte
e per noia il nostro artista si mette
a disegnare un cannone con la matita.

Generale! Soltanto il Tempo apprezzerà voi,
le vostre Cannes, le fortificazioni, l’accampamento, le coorti.
Nelle accademie andranno in estasi,
le vostre battaglie e le vostre nature morte
serviranno a far dilatare occhi,
sguardi sul mondo e l’aorta in generale.

Generale! Devo dirvi che voi
siete come un leone alato all’ingresso
di un portone. Giacché voi, ahimè,
non esistete proprio in natura. (4)
No, non è che siete morto
o siete stato battuto – voi non ci siete nel mazzo di carte.

Generale! Che mi mandino sotto processo!
Voglio portarvi a conoscenza del caso:
il totale delle sofferenze dà l’assurdo;
che l’assurdo abbia un corpo!
E si profila la sua sagoma
con qualcosa di nero su qualcosa di bianco.

Generale! Vi dirò un’altra cosa:
Generale! Vi ho usato per la rima con la parola
“è morto” – cosa mi è successo ma (5)
Dio non ha completamente separato
il grano dalla pula e adesso
usare questa rima – è una balla.
————————————————-
Nella landa desolata dove di notte ardono
due lampioni e marciscono i vagoni,
toltomi a metà il vestito
da clown e strappate le spalline,
mi blocco, incrociando lo sguardo
della macchina fotografica Leitz o gli occhi della Gorgone.

Notte. I miei pensieri sono colmi di una
donna, meravigliosa dentro e di profilo.
Quello che mi succede adesso
sta più in basso dei cieli ma più in alto dei tetti.
Quello che mi succede adesso
non vi offende.
———————————————
Generale! Voi non esistete e il mio discorso
è rivolto, come al solito, ora
in quel vuoto, i cui contorni sono i contorni
di un vasto, sordo deserto
che sulle mappe, cosa che voi ed io
abbiamo potuto vedere, non è nemmeno menzionato.

Generale! Se tuttavia voi mi
ascoltate, significa che il deserto cela
in sé una certa oasi, allettando
con ciò il cavaliere; e il cavaliere, quindi,
sono io; sprono il cavallo;
il cavallo, generale, non galoppa da nessuna parte.

Generale! Avendo combattuto sempre come un leone
lascio una macchia sulla bandiera.
Generale! Anche un castello di carte – è un porcile.
Vi scrivo un rapporto, mi attacco alla borraccia.
Per chi è sopravvissuto al grande bluff,
la vita lascia un brandello di carta.

(Autunno 1968)

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1) Nell’epigrafe, composta da B., il “buco” appare come metafora della morte a seguito di una pallottola.
2) Nella propaganda sovietica l’invasione della Cecoslovacchia veniva spacciata per “aiuto fraterno”.
3) Imprecisa citazione dalla poesia di Puskin “Il profeta”.
4) Nella sua corrispondenza da Mosca “Paris-Soir” Saint-Exupèry scriveva di Stalin: ”Si può quasi credere che non esista per quanto sia invisibile la sua presenza”.
5) In russo la parola “umiràl” fa rima con la parola “gheneràl” (generale).

 

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Vasilij Filippov, Poesie, Ho sognato di volare su una nuvola, a cura di Paolo Galvagni, La casa di Irina Aleksandrovna a Rževka, Nel 1980, all’età di venticinque anni, è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico in seguito a una gravissima crisi, che per poco non ha avuto un epilogo tragico. Questo primo ricovero, durato quasi cinque anni, è stato seguito da altri. Dal 1993 è ospitato costantemente in strutture psichiatriche.

Lucio Mayoor Tosi frammenti blu e celeste 2021

Lucio Mayoor Tosi, frammento, blu e celeste, 2021

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Vasilij Filippov

Ho sognato di volare su una nuvola

Vasilij Anatol’evič Filippov è nato nel 1955 nei pressi di Sverdlovsk (oggi Ekaterinburg) sugli Urali. Negli anni Settanta ha frequentato la facoltà di biologia presso l’università di Leningrado, ma in realtà era ben altro ciò che lo appassionava veramente: la letteratura, la filosofia, la teologia. Partecipava attivamente agli incontri del circolo letterario guidato da David Dar (1910-80), carismatico letterato leningradese. Ha scritto articoli filosofici e teologici per “37”, autorevole rivista “Samizdat”, che prendeva nome dall’appartamento n. 37 del civico 20 di via Kurljandskaja a Leningrado, epicentro degli ambienti underground. Nel 1980, all’età di venticinque anni, è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico in seguito a una gravissima crisi, che per poco non ha avuto un epilogo tragico. Questo primo ricovero, durato quasi cinque anni, è stato seguito da altri. Dal 1993 è ospitato costantemente in strutture psichiatriche. A tutt’oggi le sue condizioni di salute lo costringono a condurre una vita appartata.
Filippov è diventato poeta, essendo già malato mentale, in condizioni che parrebbero provocare l’annientamento di ogni energia creativa. Ha cominciato a scrivere poesia nel 1984, dopo il primo ricovero. Dalla fine degli anni Ottanta i suoi versi sono apparsi sulle riviste “Vnl”, “Tret’ja modernizacija”, “Volga”, “Arion”, “Zerkalo”, “Futurum Art” e nel volume collettaneo Stichi v Peterburge. XXI vek [Versi a Pietroburgo. Il XXI secolo] (2005). Sono uscite tre raccolte: Stichi [Versi] (1998), Stichotvorenija [Poesie] (2000), Izbrannye stichotvorenija [Poesie scelte] (2002). Nel 2001 è stato insignito del prestigioso premio letterario Andrej Belyj, il più antico premio indipendente nella Russia contemporanea: viene attribuito regolarmente dal 1978.
Con l’esattezza di un diario (1), le liriche fissano i fatti minimi e le impressioni più minute dell’autore. Si può parlare di una poetica della registrazione spontanea di quanto viene visto. Praticamente ogni testo contiene tutto il mondo poetico dell’autore, e talora anche il suo background storico e letterario. I nomi dei poeti russi venerati da Filippov – Elena Schwartz, Sergej Stratanovskij, Aleksandr Mironov – costantemente citati nei versi, poco a poco si tramutano in emblemi polisemici:

Si illumina la mente coi versi di Elena Schwartz.
C’è la giornata alla finestra, ma non mi serve.
Meglio la notte e la cena.

Così come le immagini dei genitori, la nonna e Asja L’vovna Majzel’, la fedele amica che per più di vent’anni ha sostenuto e incoraggiato Vasilij, raccogliendo e conservando i suoi versi, che altrimenti sarebbero andati perduti:

Asja L’vovna accudisce me-mostro,
Batte a macchina i miei versi,
Parteggia per me presso le edizioni “Aurora”.

Filippov scrive la cronaca della sua vita: una vita trascorsa tra le cliniche e la periferia leningradese, in compagnia dei poeti “del sottosuolo”. Sono versi che compongono un originale diario lirico, appunti documentaristici. Si descrivono fatti a prima vista prosaici, banali, ma che in realtà si tramutano in arte, tanto raffinata e soave è la vista del poeta. Si può parlare di un racconto che esplode con metafore inattese:

Oggi tutta la sera starò a casa,
E la paglia del sole
Avvamperà sulle ciglia.

Poi volterò l’ultima pagina
E mi caccerò sotto la coperta,
Affinché la nonna nella stanza accanto taccia sino al mattino

La nonna guarda le mie narici con gli occhietti di mercurio,
Ha portato su un piattino una codina di topo.

Ma in camera sono solo.
Il duello di mani e piedi,
Quando mi alzo.
Attraverso il bicchierino-vetro guardo la strada.

È inconsueta la visuale del poeta, che tramuta la Leningrado degli anni Ottanta in uno spazio vibrante, dove si confondono la realtà, i sogni, le visioni (2):

Sonnecchia la città, avvolta nel giornale del mezzogiorno…

La Neva, come una vena,
Respira,
Mi sente,
E mi sembra di stare sul tetto del Pamir…

Mi sveglio –
Si spalancano i mille occhi di una libellula,
Mille violette si aprono in mille pupille,
E sopra di esse – il manto celeste.

Lucio Mayoor Tosi frammento con rosso 2021Sono versi naturali come il respiro, a scatti, nervosi. Versi liberi con la sintassi della prosa, con la rima facoltativa.
Michail Šejnker (3) parla di una forte eccitazione intellettuale e creativa, che si è manifestata in Filippov sotto forma di persistente contrapposizione alla vita quotidiana. Preferendo alla normalità prosaica il mondo delle passioni poetiche, egli ha compiuto una scelta tragica, che l’ha certamente condannato alla sventura, ma che gli ha anche concesso di realizzarsi appieno nella sfera letteraria. Si può presupporre una “forte febbre creativa”, connessa tanto al manifestarsi del talento poetico, quanto all’insorgere della malattia.
Il procedimento sicuramente più originale di Filippov consiste nell’accostare, attraverso il trattino, parole appartenenti a sfere diverse (parole apposizioni):

Domani lei ricamerà merletti-parole,
Passerà l’arancio-mano sui miei capelli…

Sulle strade volano le mosche – gli egizi,
Nelle case le api – gli assiri…

Alla finestra la primavera-vespa
Punge col calore…

Si muovono i vermi-parole nel crisantemo della mano.
La Fanciulla sfoglia i versi.

In questo si vede la rifrazione di un mondo nell’altro, che si realizza non nel tempo, ma nello spazio, come l’intersezione geometrica di superfici. Si può parlare di una somiglianza tra il mondo paradossale di Filippov e il Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll. (4) In entrambi gli autori lo sdoppiamento non porta alla frattura, all’incubo, in quanto si compie in superficie, al livello della lingua, senza sfiorare la disgregazione di coscienza e corpo.

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Note
1) V. Šubinskij, “Stichotvorenija Vasilija Filippova” [Le poesie di Vasilij Filippov], in “Novaja russkaja kniga”, n. 6, 2001.
2) A. Urickij, “Peterburgskie sny” [Sogni pietroburghesi], in “Znamja”, n. 1, 1999.
3) M. Šejnker, “Neskol’ko slov o Vasilii Filippove” [Qualche parola su Vasilij Filippov], introduzione al volume Izbrannye stichotvorenija, [Poesie scelte], Moskva 2002.
4) M. Bondarenko, “Čtoby kniga stala telom” [Affinché il libro diventi corpo], in “Znamja”, n. 8, 2001

La casa di Irina Aleksandrovna a Rževka (1)

Irina Aleksandrovna taglia prudentemente con le forbici
I delfini azzurri.
La sua casa assomiglia a una clinica.
E l’iris azzurro.
Il suo petalo è picchiettato, assomiglia a un ideogramma-pantera.
E ai tre gatti non bastano i topi per pranzo.

La sua casa è la casa di Pljuškin. (2)
La desolazione si riflette negli specchi e nelle enormi icone.
Nel verde incolto, che circonda la casa, avverto una piacevole stranezza,
Quasi io fossi appena uscito dalla nebbia londinese
E fossi capitato in paradiso, dove i gatti cantano “Osanna”,
E accanto la casa di Kolja Vasin è Cana. (3)

Irina Aleksandrovna siede a tavola.
Il tè indiano le sta davanti.
Lei parla finemente
Della veduta che si apre alle finestre.
E i delfini ormai sulla tavola
Stanno al caldo.
Assomigliano ad animali –

I fiori,
Come conchiglie di madreperla.

E il gatto Bottone in cucina
Mangia il pesce.
Lui e Irina Aleksandrovna si vogliono bene,
Il cavalletto aspetta il gatto.

Irina Aleksandrovna dice che ha paura per me,
E abbassa le ciglia.
Il suo ricevimento si protrae
Nella seconda capitale russa.

“Meglio se non scrivete nulla, – dice lei
E mi versa del vino, –
Piuttosto pregate Dio,
Annusate l’iris, senza accostarvi alla stanza nuziale.
Meglio la via che passa per la cruna dell’ago.”

Noi parliamo.
I gatti cominciano a evitarci
Dopo un’ora.
Il delfino nel vaso non si è ancora spento,
E l’iris si apre per un’ora,
Un’ora di soave conversazione.

Nello specchio si riflette la mia schiena,
E sembra che tra un uomo e una donna non ci sarà mai la guerra,
Perché la camera della conversazione
È addobbata con fiori vivi.
E per il vino
I fiori e i gatti
Si sono mescolati nei nostri occhi.

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1) Località nei pressi di San Pietroburgo.
2) Personaggio de Le anime Morte (1842) di Nikolaj Gogol’. Rappresenta l’avidità e la tirchieria.
3) Nikolaj (Kolja) Vasin (1945), fan russo dei Beatles, che fin dagli anni Sessanta cominciò a predisporre una ricca collezione legata al gruppo di Liverpool.

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Filippov Vasilij Anatol'evich-1

Vasilij Filippov

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Una coppa

Di che cosa parlare, se è stato detto tutto.
Di che cosa, se la coppa è vuota,
Un tempo colma di vino,
Dorata.

***

La camerata

Sentire i lugubri fischi delle ambulanze.
Vivere in una selva umana.
Una statua intelligente guarda una lampadina.
In manicomio c’è silenzio.
Leggo Plotino,
Vivo col terrore gnostico –
L’autobus sulla strada per l’ospedale psichiatrico.

***

Ricordare poco

Ricordare poco
Le vetrate di luce e i tetti sotto il sole di mezzogiorno.
Il piano superiore. La finestra
È spalancata. E non c’è nessuno.
Magari si incontrasse la creatura tanto cercata.

***

Sonno

Dormire e guardare il mondo del sonno
Con gli occhi ben spalancati.
Ecco si vede una chiesa
Con tre cupole.

***

Ecco sono nuovamente solo.
Ciò che è stato nella giornata – è come non fosse stato.
Quanti volti hanno sorriso, riso e cantato nelle ore diurne,
Sembra perfino di aver visto un angelo alla svolta della strada.

***

Una stella

Ho attraversato il fiumicello dei morti, forse dei vivi
E a lungo ho cercato una traccia.
La sabbia marina, ma il mare aveva cancellato tutto.
Solo una sigaretta “Vega” marcisce nell’erba.

***

Il cinguettio degli uccelli non mi ha colmato
Oltre le pareti, alla finestra.
Qui invece l’appartamento a forma di trapezio
È colmato dalla brocca – sonno.

***

Il cancello del recinto ripete esattamente il fregio dell’acqua.
Un’enorme pupilla nera è la macchia di petrolio.
La spazzatura. Un camion. L’edificio
È una vecchia dacia,
Dove le finestre brillano al sole.

***

Quasi non fossi stato in una casa vuota,
Dove aleggia l’odore di medicine e vernice,
Ma un pensiero mi tormenta,
Che tornerò là tra due settimane, e sussurra: “Voltati”.
Me n’andrò nella palude, dove la salvezza
È dissolta dall’orizzonte.

***

Una passeggiata

Solo orologi, semafori a tutti gli incroci.
Balenerà il verde e si potrà passare
In questi cortili, ricoperti di calce,
In questi cortili, da cui poi non si andrà via.

Passeggiando a lungo su un viale polveroso,
Cerchi una panchina e un giardinetto, dove fumare.
Le pareti si stringono al volto.
Si dipana la memoria-filo.

***

Una farfalla

Guardo il cielo. Gli occhi si dischiudono,
Come due dalie.
Forse è colpa del movimento di una nuvola,
Che spinge il bulbo oculare verso la radice del naso,
Dove si è posata una farfalla.
Non spaventarla, non spaventare il cielo!

***

Vasilij FILIPPOV Paolo Galvagni cover

Nella stanza, che sa di alloggio,
Gli anniversari sono
I banchetti funebri, i funerali. I soldati
Guardano dalle pareti, dalle fotografie.
E l’acqua del corpo nel letto.

***

L’odore del fieno di agosto solletica le narici-ninfee.
Sulla finestra gli orci di latte.
L’odore dei viveri dello spaccio rurale è diffuso sull’orizzonte.
E gli ombrelli degli abeti
Sui funghi – la gente di città.

***

Ieri sono stato da Asja L’vovna.
L’ho incontrata per la strada.
Asja L’vovna ha agitato una mano – rametto di lillà,
“Vasilij!” – ha urlato.

Asja L’vovna mi ha dato ciò che aveva promesso, –
Marina Cvetaeva con la copertina-camicetta
Per una notte.

Asja L’vovna mi ha dato il caffè e mi ha messo a letto
A dormire.

Asja L’vovna ha anche scelto le poesie migliori
E mi ha chiesto di scrivere una dedica.

Sedeva con le gambe piegate sotto di sé,
Dondolando la testa a tempo, come un cobra.

Sul volto fioriva il crisantemo di un sorriso,
E la mia coscienza era malferma
Dopo il caffè al limone.

Asja L’vovna, entusiasta per i versi, ha applaudito
E mi ha invitato a fare il bis.

Dalle labbra è caduto un iris
E si è appigliato al mento-cornicione.

Il suo cane Jolie, simile a una pecora, si metteva sulle zampe posteriori,
E mi pareva che fosse Ochapkin (*) travestito.

Jolie afferrava coi denti le nostre gambe, come fossero topi,
Ed echeggiava un ringhio e un ululato indecente.

Jolie è un cane intelligente.
Non lo scaccerai dalla stanza, finché ci sono ospiti,
Neanche col formaggio, neanche con la voce-bastone.

Asja L’vovna mi ha versato il caffè,
Mi ha avvicinato i funghetti, che adoro,
Ha profetizzato una lunga navigazione per me-nave.

Asja L’vovna mi ha avvolto le gambe con uno scialle
E mi ha guardato con un mite sorriso-mestizia.

Poi mi ha condotto in un’altra stanza a dormire
E mi ha sistemato nella Penisola arabica – il deserto-giaciglio.

Mi sono svegliato ormai col buio,
Ricordando la funzione e i lumi sulla croce nel tempio.

Asja L’vovna mi ha accompagnato alla porta,
Le sue labbra bisbigliavano: “Credo nel tuo futuro, Vasilij, ci credo”.

Sono andato a casa con un pegno di amicizia –
La raccolta di versi della Cvetaeva,
L’ho letta sul mètro,
L’ho letta sotto le ruote del tram.

E ora a casa
Bevo un tè –
I rivoli del Lete.

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* Oleg Ochapkin (1944-2008), poeta degli ambienti underground leningradesi.

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Antologia della poesia di Nikolaj Gumilëv (1886-1921), Prima traduzione in italiano, a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova 

          

Nikolaj Stepanovič Gumilëv nacque a Kronnstadt, nel 1886 e morì nel 1921 fucilato dai bolscevichi. Studiò in un liceo diretto dal poeta Annenskij. Cominciò a pubblicare poesie dal 1902. Nel 1905, ancora al liceo, uscì la sua prima raccolta poetica, Il cammino dei conquistatori. In seguito si trasferì a Parigi per studiare alla Sorbona. Nel 1909 fonda il giornale “Apollon”.
Nel 1910, alle celebrazioni del poeta simbolista Ivanov incontrò la poetessa Anna Achmatova che sposò pochi mesi dopo. Nel 1911 fondò con Gorodeckij l’associazione “Gilda dei poeti” per tornare alla concretezza e alla solidità del lavoro dell’artigiano. Presero parte della Gilda anche Anna Achmatova e Osip Mandel’štam, il movimento fu denominato Adamismo ma passerà alla storia come acmeismo (da acmé, vertice).
Gumilëv tradusse in russo Gilgamesh, Leopardi, Gautier, Shakespeare, Baudelaire, Browing e altri. Dopo la Achmatova, nel 1919, sposò Anna Engel’gardt, L’ultimo libro è Colonna di fuoco del 1921. Arrestato il 3 agosto 1921 con la falsa accusa di partecipazione a un complotto monarchico, della congiura di Tangacev – fu fucilato il 25 agosto con altri compagni. Un aneddoto raccontato dalla moglie di Mandel’štam, Nadezda, lo descrive bene. Siamo nel gelido inverno di Pietroburgo, nel 1919, la temperatura è abbondantemente sotto i venti gradi. Un ricevimento in un salone terribilmente gelido. Si presenta Gumilëv con un leggerissimo abito estivo (non possedeva abiti invernali), e cammina senza battere ciglio nel salone gelido come se nulla fosse. Ufficiale zarista, era stato insignito di una importante onorificenza di guerra per il coraggio mostrato in combattimento. Parteggiò per i bianchi. Fu arrestato la sera e la mattina seguente venne ucciso dai bolscevichi.

nikolaj-stepanovic-gumilev

Nel ringraziare Giorgio Linguaglossa e “L’ombra delle parole“ per l’ospitalità data al nostro lavoro su un poeta poco tradotto e, di conseguenza, poco conosciuto in Italia, vorremmo attirare l’attenzione del lettore sulla poesia “Il tram che si era perso” che è considerata una delle più misteriose della poesia russa. Lo stesso Gumilëv raccontò che l’aveva scritta in pochi minuti come se qualcuno “dal di dentro” gli dettasse i versi che combinano i due generi della visione e della ballata. Come il protagonista della “Commedia” di Dante, l’io lirico della composizione si trova fin dall’inizio in un luogo sconosciuto ma, se Dante vede dinanzi a sé un bosco, Gumilëv delinea un paesaggio fortemente urbanizzato.

In una sorta di reincarnazione (tema già affrontato nella poesia “Il ricordo”) il poeta rivive tre rivoluzioni: quella francese, la rivolta di Pugacëv del 1773 e la rivoluzione bolscevica. Per la prima notiamo i rimandi alla figura del boia (raffigurato qui per licenza poetica in camicia rossa e non nella consueta camicia bianca), le teste mozzate, la cesta sul cui fondo giacciono, le insegne insanguinate. La rievocazione della figura di Mar’ja (Mascia), la protagonista del racconto di Puskin La figlia del capitano, ci riporta all’epopea di Pugacëv: anche qui una licenza poetica. Gumilëv “inventa” un altro finale, dal momento che nell’originale la nostra eroina non muore ma sposa felicemente il suo amato. Ma in Mascia si compone l’immagine della Russia prerivoluzionaria, quella che Gumilëv tanto amava e riteneva essere la vera Russia.

L’immagine del tram simboleggia la rivoluzione del 1917 e l’invocazione “Fermate, conducente// fermate il vagone” esprime compiutamente la posizione del poeta nei confronti dell’epoca che viveva e che, come è noto, lo portò davanti al plotone d’esecuzione. Ma nessuno ormai poteva fermare il vagone e Gumilëv doveva andare avanti, riconoscendo con amarezza che “la casa con tre finestre e il prato grigio” che baluginavano sarebbero rimaste per sempre nel passato: “Non ho mai pensato// che si possa amare così ed essere tristi”.

Anna Achmatova scrisse: “Gumilëv è un poeta ancora non compiutamente letto. E’ un visionario, un profeta. Predisse la sua morte con ogni particolare fino all’erba autunnale”.

Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

Poesie di Nikolaj Stepanovič Gumilëv

Cosa ho letto? Vi annoiate, Leri, *
E se ne sta sotto il tavolo Socrate.
Siete stufa dell’antica fede?
– Che bel ballo in maschera!
Eccomi nella mia angusta stanzuccia
mi rallegro per la vostra lettera.
Com’è adorabile il cappello di Faust
sul caro volto di fanciulla.
Ero con voi, completamente innamorato,
me ne andai, stringendomi per la nostalgia.
E’ più terribile di un cappello calzato
Il gesto di una mano che si allontana.
Ma serbai il ricordo
Dei giorni stupendi e inquieti,
il mio pavido fantasticare
sui vostri dolci occhi.
Davvero li rivedrò di nuovo
e resterò immobile per il dolore e l’amore
e a loro, splendenti, avvicinerò
i miei occhi tartari?!
E di nuovo ricominceranno i nostri incontri,
il vagabondaggio notturno a casaccio
e le nostre chiacchierate maliziose
e le Isole e il Giardino d’Estate?
Ma, ah, potrò forse io non essere cupo,
posso forse scacciare il dubbio?
Eppure la malinconia può
essere appena
una bella avventura.
e, giustamente, il giorno ingrigendo colse
di nuovo Socrate sul tavolo,
perciò “Emaux et carmees”
con “La faretra” nella stessa polverosa foschia.
E così voi, simile ad un gatto,
dicevate al notturno: “Addio!”
e vi porta velocemente verso la Psiconeuroska, **
risuonando e saltando, un tram.

(1916)

* Larissa M. Rejsner
** istituto dove la Rejner studiava

*

ad  Anna Achmatova 

Mi avete dato un album aperto, *
vi cantavano corde di lunghi versi,
io lo portai via e, arrabbiato,
lungo il cammino chiusi di scatto la serratura.
Brutto segno! Mi tormentavo,
dinanzi a lui leggevo versi,
pregavo ma non si aprì,
era più spietato delle furie della natura.
E mi toccherà abituarmi
alla consapevolezza, colma di nostalgia,
che devo penetrarvi dentro
come nel vostro cuore – come un ladro.

(maggio 1917)

UN SOGNO

Cominciai a gemere per un brutto sogno
E mi svegliai davvero afflitto:
sognai che amavi un altro
e che lui ti aveva offesa.

Correvo via dal mio letto,
come un assassino dal suo patibolo
e osservavo come fiocamente rilucevano
i lampioni con occhi di fiera.

Ah, forse, così randagio
non vagava nessuno
in quella notte per le vie oscure,
lungo letti di fiumi asciutti.

Ecco, starò davanti alla tua porta,
non mi è concessa altra via
sebbene io sappia che mai
oserò oltrepassare questa porta.

Lui ti ha offeso, lo so,
sebbene fosse solo un sogno
tuttavia sto morendo
dinanzi alla tua finestra chiusa.

(1917)

MEMORIALE

Ed eccola tutta la vita! Turbinio, canto,
mari, deserti, città,
immagine baluginante
del per sempre perduto.

Infuria la fiamma, suonano le trombe
e volano rossi cavalli,
poi labbra che emozionano
parlano, sembra, della felicità.

Ed ecco di nuovo estasi e dolore
di nuovo, come sempre, come sempre
Il mare agita la canuta criniera,
si alzano deserti, città.

Quando alla fine, ribellatomi
al sonno, io sarò di nuovo io –
un semplice indiano che si è assopito
nella notte sacra vicino al ruscello?

(1917) Continua a leggere

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Aleksandr Aleksandrovič Blok, Poesie, La sconosciuta e altre poesie, nuova traduzione in italiano a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

foto spavento Il momento dello sbalordimento e del terrore è il momento in cui l'homo sapiens si accorge di avere un linguaggio.

Giorgio Linguaglossa: «Il momento dello sbalordimento e del terrore è il momento in cui l’homo sapiens si accorge di avere un linguaggio.»
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Aleksandr Blok (San Pietroburgo, 28 novembre 1880 – 7 agosto 1921) il maggiore poeta simbolista russo – era nato a Pietroburgo nel 1880. Esordì con il ciclo Ante lucem (1898-1900), di cui facevano parte poesie pubblicate più tardi nel volume Versi sulla Bellissima Dama (1905). In questi versi Blok, seguendo le dottrine del poeta filosofo Vladimir Solovjov (1853-1900), canta la quintessenza umana della femminilità eterna, invoca la Sposa celeste in un rapimento estatico, saturo di sensualità, di teneri sospiri, di sensazioni ineffabili.
Il fallimento della rivoluzione del 1905, in cui aveva creduto, infrange nel poeta le speranze di un rinnovamento spirituale e politico della società, e a partire dal 1906 la sua voce rivela delusione e amarezza. L’ironia, unita a un sentimento di rivolta e di insofferenza, trova posto nella sua anima ormai libera dall’estasi e dai sogni giovanili.
Nel dramma La baracca dei saltimbanchi, rappresentato a Pietroburgo nel 1906, Blok deride con spietato sarcasmo, in un susseguirsi di immagini grottesche e illusorie, le sue precedenti esperienze mistiche. Nei versi del ciclo Il mondo terribile, la Sposa celeste è ormai una creatura terrena, una prostituta. Pietroburgo è uno squallido aggregato di bettole fumose e sporche, di vecchi straccioni mendicanti, di vagabondi, di relitti alla deriva. Nel dramma La sconosciuta il sacro tempio si trasforma in una casa di tolleranza.
L’amore ideale, nebuloso, ormai svanito, lascia il posto all’amore per la Russia, che Blok vede come entità concreta e divina, come una creatura sofferente. «La Russia resta sempre la stessa: un’entità lirica», scriveva alla madre nel 1909, e aggiungeva: «Qualunque cosa accada, essa resterà sempre la Russia dei miei sogni». Da questo amore, dall’entusiasmo suscitato in lui dagli avvenimenti del 1917 e soprattutto dalle giornate di Ottobre, nacquero due poemi: I dodici e Gli Sciti, entrambi scritti nel 1918.
Blok sentì la «musica» della Rivoluzione, presagì l’ineluttabilità del cataclisma che avrebbe spazzato via tutte le ingiustizie del «mondo terribile», del vecchio mondo. Nei Dodici sono mirabilmente amalgamate le emozioni e i presentimenti dell’imminente lotta sociale. Nei giorni in cui lavorava a questo poema, il poeta incontrò alcuni noti esponenti del Partito comunista e così si espresse con loro: «A voi interessa la politica, il partito, mentre noi poeti cerchiamo l’anima della Rivoluzione. Essa è stupenda, e qui siamo tutti con voi».
A confermare il carattere «sacro» della Rivoluzione appare in chiusura l’immagine di Cristo, quasi in contraddizione con tutto il contenuto del poema. Cristo che avanza davanti alle dodici guardie rosse, simboleggianti gli apostoli, è un puro simbolo poetico che sta ad esprimere la benedizione etico-religiosa della Rivoluzione da parte del poeta. Tutto il poema è in movimento continuo, movimento irrefrenabile che ha un’unica direzione: «Avanti!». La ricchissima gamma di contrasti lessicali, la sequela di immagini come lampi di magnesio, le dissonanze, gli elementi polifonici che si fondono in un’armonia superiore, tutto ciò concorre a creare quel ritmo incalzante, terribile e continuo, che si fa particolarmente solenne nelle strofe finali. In questa creazione il genio musicale e pittorico di Blok raggiunge il vertice. In seguito, svanito l’ardente entusiasmo dei primi mesi della Rivoluzione, oppresso e deluso dall’arido e pedantesco apparato burocratico che lo circondava, avvilito da difficoltà e incomprensioni, il poeta si abbandonò a un cupo pessimismo. Stanco e isolato si spense il 7 agosto del 1921.
(Paolo Statuti)

Aleksandr Blok
Aleksandr Blok

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La sconosciuta

Nelle sere, nei ristoranti
l’aria calda è selvaggia e sorda
e governa le grida degli ubriachi
lo spirito dannoso e primaverile.

In lontananza, sulla polvere dei vicoli,
sul tedio delle dacie fuori città
sembra quasi d’oro la ciambella del fornaio
e risuona un pianto di bambini.

Ed ogni sera, al di là delle sbarre,
con le bombette alla ventitrè,
passeggiano con le dame in mezzo ai borri
navigati bontemponi.

Sul lago scricchiolano gli scalmi
e gridolini femminili risuonano
e nel cielo, a tutto abituato,
senza senso si incurva il disco.

Ed ogni sera l’unico amico
nel mio bicchiere si riflette
e dalla misteriosa ed aspra umidità
è, come me, stordito e sottomesso.

Accanto ai tavoli vicini
se ne stanno assonnati lacchè.
E gli ubriachi con occhi di coniglio
gridano: ”In vino veritas!”1

Ed ogni sera, all’ora stabilita
(o è soltanto un mio sogno?)
una figura di fanciulla, avvolta nelle sete,
si muove nella finestra nebbiosa.

E lentamente, passando in mezzo agli ubriachi,
sempre senza accompagnatori, sola,
esalando profumi e nebbie,
si siede vicino alla finestra.

E sanno di antiche credenze
le sue elastiche sete
ed il cappello con le piume da lutto
e la sottile mano inanellata.

E, raggelato dalla strana vicinanza,
scruto dietro il velo scuro
e vedo una riva incantata
ed una incantata lontananza.

Profondi misteri mi sono affidati,
mi è stato affidato il sole di qualcuno
e tutti i meandri dell’animo mio
penetrò un aspro vino.

E le oblique piume di struzzo
dondolano nel mio cervello
e gli azzurri occhi senza fondo
fioriscono su una riva lontana.

Giace nella mia anima un tesoro
e la chiave solo a me è affidata!
Hai ragione, mostro ubriaco!
Lo so: la verità è nel vino!

1 In latino nel testo russo

(24 aprile 1906)

*

Aveva aspettato tutta la vita. Era stanca di aspettare.
E sorrise. E si chinò.
Una ciocca non raccolta di capelli
calò sulle spalle scure.

Il mondo non è né grande né ricco.
E non bisognerebbe guardare con sguardo scuro!
Ma la gente dice solo
che bisogna aspettare ed essere docili…

Ma qua un piffero
canta straziante, dolente, delicato:
“Dondola la culla di un’altra,
accarezza il bimbo non amato…”

Io anche sono qui. Col mio destino,
sulla lira adirata come una scure.
Così sottomesso e rabbioso.
Faccio affari nei mercati del mondo…

Credo alla foschia dei tuoi capelli
e alla tua magnificenza.
Il mio animo orfano – il tuo cane fedele,
fa risuonare ai tuoi piedi la catena…

Ed ecco di nuovo, ecco di nuovo,
incontrandomi con questo sguardo scuro,
voglio chiamarti per nome,
respirare e vivere con te accanto…

Sogno! Cos’è il sonno della via?
Veleno – dietro altro veleno…
Io tradirò te, come quel sogno
senza tradire, senza fingere…

E’ divertente vivere! E’ divertente sapere
che sotto la luna non c’è nulla di nuovo!
Che ad un morto è concesso di generare
una parola brulicante di vita!

E nessuno si preoccupa
di ciò che io darò alla gente, di ciò che tu hai dato a me
ma la gente – sulla lapide
scriverà come epitaffio – Poeta.

(13 gennaio 1908)

*

Oh primavera senza fine e senza limiti –
senza fine e senza limiti è il sogno.
Ti riconosco, vita! Ti accolgo!
E ti saluto col suono dello scudo!

Ti accolgo, fallimento
e, fortuna, a te il mio saluto
nella incantata regione del pianto,
nel mistero del riso non c’è vergogna!

Accolgo le dispute insonni,
il mattino nelle scure cortine della finestra
affinché i miei occhi infiammati
irriti ed inebri la primavera.

Accolgo deserti paeselli!
E pozzi delle città della terra!
L’illuminata vastità del cielo
e la sofferenza del lavoro dei servi!

E ti incontro sulla soglia –
col vento impetuoso nei riccioli di serpente,
col nome enigmatico di Dio
sulle labbra fredde e serrate…

In previsione di questo incontro ostile
non abbasserò lo scudo…
Tu non allargherai mai le spalle
ma sopra di noi – un sogno inebriante!

E guardo e misuro l’ostilità
odiando, maledicendo e amando!
Nonostante la sofferenza, la morte – lo so –
fa lo stesso: io ti accolgo!

(14 ottobre 1907)

*

Aleksandr Blok 6

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Nove poesie di Boris Pasternàk, dal romanzo Il dottor Živàgo (1959), a cura di Antonio Sagredo

Pasternak e Mayakovsky
 .
Delle 25 poesie che Mario Socrate tradusse per pubblicarle nel novembre del 1957 in prima edizione mondiale dall’editore Feltrinelli, scrive che sono “Poesie di Jurij  Živago”; mentre  A. M. Ripellino, che ne tradusse 8, scrive: “Dal romanzo Il dottor Živàgo” (1959), marcando una distinzione tra il personaggio e l’autore. Di queste 25  ne scelsi 17, quasi 40 anni fa, che tradussi e che dopo  alcune rivisitazioni abbandonai  perché distratto e pressato da altri studi e impegni della quotidianità.
  Clara Strada Janovic, in un recente pubblicazione, quasi giustamente osserva, nella prefazione al testo tradotto e pubblicato (Feltrinelli, 2018) che “I versi del protagonista non sono un’appendice, bensì sono un complemento del racconto in prosa che li precede . Anzi, il rapporto tra le parti del romanzo può essere rovesciato: i versi finali come momento essenziale, rispetto ai quali la narrazione costituisce, a modo di introduzione, la biografia del loro autore, il dottor Živàgo. O di Boris Pasternak? Infatti le poesie del dottor Živàgo sono l’estremo frutto della creatività di Pasternàk, l’estremo approdo della sua visione di sé e del mondo, e sono da lui donate al suo eroe”.
   Si può essere quasi d’accordo con tutto, ma con l’appunto che se sono questa poesie “ l’estremo frutto della creatività di Pasternàk”, non certo sono il suo miglior frutto. E di certo se sono” l’estremo approdo della sua visione di sé e del mondo , e sono da lui donate al suo eroe”, per quanto mi riguarda – se estremo vale cronologicamente come  ultimo approdo – va bene; ma quanto alla estrema visione “di sé e del mondo”, se davvero era estrema non coincide affatto con una elevata visione della Poesia o della sua: questo era appannaggio delle sue prime raccolte.
E non sono nemmeno certo se il poeta Pasternàk le ha “donate al suo eroe”, poiché è risaputo che il poeta è un fingitore! (Pessoa). Dunque, sollecitato dal direttore di un blog che voleva una poesia sul Natale per pubblicarla, mi sono ricordato dei versi de “La stella di Natale” di Pasternàk, che ho letto e rivisitato ancora una volta; e poi sodisfatto del risultato mi son detto se valeva ancora la pena di rivisitare tutte quelle 17 che avevo scelto allora; tranne ovviamente quelle tradotte da A. M. Ripellino nel 1959.
   Mi son messo di nuovo al lavoro e armato della mia conoscenza del poeta (ho curato i tre Corsi di A. M. Ripellino rispettivamente su Majakovskij, Pasternàk e Mandel’štam con centinaia di note allo scopo di saperne mai abbastanza) e con la passione, la devozione, senza inventarmi nulla, con la lezione che la mia stessa poesia mi ha sempre donato: immaginazione più l’estro stilistico che la distingue… mi son messo dunque alla ricerca del loro “duende” (secondo quanto intende F. G. Lorca),  e il tutto contraddistinto dal dettame dello stesso Pasternàk a proposito del lavoro del traduttore, e cioè che :
Il traduttore non deve fare il calco dell’oggetto che copia, ma dare la forza vitale di questo oggetto tramutando una copia in un’opera originale, che viva a livello dell’originale in un altro sistema linguistico. Noi non rivaleggiamo con nessuno nel tradurre, curando le singole righe, ma disputiamo con intere costruzioni. Noi vogliamo assoggettare tutto quello che traduciamo al nostro sistema personale di linguaggio. I rapporti tra l’originale e la traduzione devono essere un rapporto fra base e derivato, fra tronco e pollone; la traduzione deve emanare da un autore, il quale abbia provato l’azione dell’originale molto tempo prima del lavoro di tradurre. Essa deve essere frutto dell’originale, ma anche sua conseguenza storica”.
  Adesso che il mio lavoro è terminato e rileggendolo ancora posso dirmi davvero sodisfatto. La lettura di queste 17 poesie scorre leggera anche nelle profondità e nelle complessità delle metafore e delle metonimie ecc., dei concetti, delle atmosfere tipiche del poeta… talmente leggera e comprensibile all’ascolto che si adatta perfettamente ad essere  declamata con un recitar-cantando beniano.
Otto di queste poesie sono state già pubblicate sul blog Poliscritture di E. Abate. Spero allora che queste mie traduzioni libere, e “liberate” da certe incrostazioni traduttive-stilistiche, possano suscitare un apprezzamento e, se non, almeno curiosità, non solo verso i lettori, amatori della Poesia, pure presso gli studiosi. Aggiungo che alcune poesie dello Živàgo sono state anche tradotte dal polonista e russista Paolo Statuti; dallo scrittore Paolo Ruffilli, e infine dalla stessa Clara Strada Janovic.
*
Ancora di questi tempi, anni ’70, è usanza che i bambini portino alberi di Natale ai cimiteri. Tanto ricorrente questo tema che vi è una poesia di Andrej Voznesenskij (1933-2010), intitolata Alberi di Natale: Ali / a reazione / di alberi / sfondano i soffitti… / e l’irruenza dell’albero / è come una donna nel buio / tutta nel futuro / tutta perle / con gli aghi sulle labbra. Vedi anche il Corso monografico su Majakovskij del 1971 di A.M.Ripellino op.cit., p. 76. Nel Natale di Majakovskij c’è un risentimento verso questa festività, tant’è che dice: ”Ci sarà un pieno Natale/ Così che/ persino/ si avrà noia di celebrarlo.”, ma siamo nel 1916! – Il poeta Pasternàk torna, da una passeggiata nel bosco – forse c’è stata una bufera di neve – verso casa, e si vede lui stesso come albero di Natale in movimento (4°, 5° e 6° verso). Siamo vicino ai giorni di Natale, e tutto è visto dagli occhi del poeta come evento puramente festoso: egli ama il tepore della casa, della sua camera, e quello dei parenti che gli si stringono intorno con tutte le dicerie e chiacchiere tipici del periodo natalizio. È, dunque, tutto visto, come con un occhio di bue teatrale più che cinematografico, ma non vi sono lampi di luce che saettano di qua e di là, i quali sono invece armonici e partecipano essi stessi all’evento; e mettono in evidenza ciò che si svolge fuori, come quinte esterne (le mele, i pini, il giardino, ecc. e i profumi e gli aromi relativi), mentre all’interno si muovono personaggi e cose umanizzate, recitando le rispettive parti natalizie; e ogni cosa (al melo le mele) e ogni persona, al loro posto; così le camere sono cosparse di profumi. Non c’è dissonanza, non ci sono urli, e tanto meno infelicità e tristezze, ma solo contentezza intima, privata, che traspare anche dai volti dei famigliari e degli ospiti. E poi le figure femminili vestite a festa che irrompono e che sono motivo per il poeta di “attrazione femminile che continuerà ad essere associata nell’immaginario pasternakiano al profumo degli agrumi. Nella famosa festa dell’albero di Natale dagli Sventickij Juij Živago s’inebria del profumo dei mandarini e di Tonja, premendo alle labbra il fazzoletto di lei. Ma già nell’Infanzia di Ženja Ljuvers la sensualità della madre passa alla figlia per mezzo di uno spicchio di mandarino che la rinfresca durante il viaggio nel treno”, in Boris Pasternàk, Il soffio della vita, op. cit., nota 53, p. 82; prefazione di Evgenij Pasternàk. La camera di lavoro di Pasternàk così è descritta da suo fratello Aleksandr Leonidovič: “La sua camera, già nella giovinezza, era un esempio di rara severità, di semplicità e di vuoto: un tavolo, una sedia uno scaffale per i libri. Nessun quadro, nessun oggetto d’abbellimento,. Era rimasto così anche dopo, nelle varie fasi della sua vita. Non l’ho mai conosciuta altrimenti”, in Boris-Aleksandr-Evgenij Pasternàk, La nostra vita, op. cit., p. 142. La foto di copertina di questo libro ritrae il poeta nella sua camera; si evince anche che era mancino (!?). In una seconda foto (parte inferiore della copertina) compaiono i fratelli Pasternàk con la loro madre durante una villeggiatura estiva. Il valzer a cui si riferisce Pasternàk è probabilmente quello del compositore viennese Joseph Lanner (1801-1843); ma pensiamo anche ai valzer polacchi, di cui si sentì molto attratto! Poesia gioiosa, che contrasta con un anno che ha colpito duramente il poeta, p.e. dalla morte per suicidio della Cvetaeva il 31 agosto del 1941 qualche giorno dopo aver saputo della morte di suo marito Sergej Efron.
  Pasternàk  reagisce nella maniera che gli è più congeniale: rivolgendosi alla Natura, vivificando in essa ogni creatura umana felice o infelice che sia stata; reagendo con serenità alle vicende belliche in corso (l’8 settembre del 1941 comincia l’assedio di Leningrado che termina con la vittoria russa il 27 gennaio 1944), contrapponendo alla tragedia la sua visione ottimistica, ma non certo per calcolo o opportunismo: è che il poeta guardava al dopo, quando tutto è già passato, tant’è che una sua raccolta di fine guerra s’intitola Quando il tempo si rasserena. In una poesia di questa raccolta Dopo la tempesta di neve più che simbolicamente nei primi due versi così dice: “Appena la tempesta s’è calmata,/tutt’intorno subentra la quiete”.
  Fedele a un suo principio che detta “si vive per vivere e non per prepararsi a vivere”, va avanti così tutta la sua vita; ed è quasi una risposta, forse polemica, all’amico Majakovskij tutto proiettato nel futuro, perché “malato di futuro” scrive nella sua Autobiografia Pasternàk. Queste  poesie qui presentate  sono poesie dolorose per  la Crocifissione e gioiose per la Risurrezione del Cristo, poesie per la Natura, per la Storia, per l’Uomo, e infine per la Poesia stessa.
(Antonio Sagredo, dall’Ombra delle Parole del 25 dicembre 2020)

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Separazione

Fissa un uomo dall’entrata gli interni
e non riconosce le stanze.
La partenza di lei fu come una disfatta.
E su ogni cosa segni di scompiglio.

E in ogni camera una desolazione.
E per le copiose lagrime non distingue
quanto è angosciosa la rovina,
e quanto per una inattesa emicrania.

E dal mattino che gli risuonano le orecchie.
E non sa se è cosciente, o sogna?
E perché gli ritorna in mente
il mare come pensiero ricorrente?

Fuori, più in là della brinata alla finestra,
– non si manifesta più il mondo di Dio,
presente è l’ infelice mestizia
simile a un mare desolato.

Di certo lei gli era tanto cara
in ogni sua movenza,
come alle onde sono cari gli arenili
lungo i margini della risacca.

Sono sommersi i giunchi
dai marosi dopo la burrasca,
così le sue sembianze e forme
giù nel fondali della sua anima.

Negli anni e nei tempi delle avversità
e di una esistenza inconcepibile,
la furia di un’onda della sorte
l’aveva riportata su dal fondo .

Era lei tanti ostacoli da non contarli,
abbattendo ogni lusinga,
la stessa onda le aveva data la forza
di stringersi a lui intimamente.

E, decisa, infine è partita,
è stata obbligata, forse.
La separazione logora tutti e due,
il tormento li azzanna fino alle ossa.

L’uomo è cauto e guardingo:
osserva il disordine che lei, prima
di andar via, ha causato…
il comò è svuotato.

Lui fa ordine, è quasi buio,
tutto rimette a posto come prima,
anche le stoffe disseminate ovunque
e pure un modello di taglio.

Ma con un ago lasciato
sul cucito si è punto,
ricorda che pure a lei capitava
e comincia a lacrimare di nascosto.

Convegno

La neve ammanta già le contrade,
s’accumula sui tetti sghembi.
Esco fuori per distendermi,
io ti vedrò dalla soglia:

avvolta nel pastrano autunnale
non hai cappello e né calosce,
che combatti sola col tuo smarrimento
e schiacci la neve che hai sulle labbra.

Gli alberi e i recinti
nell’oscurità si appartano.
Sola, nei turbini della neve,
sei immobile in un cantuccio.

Minuti rivoli d’acqua dai tuoi capelli
fin sulle maniche, dietro la piega.
Tutta la chioma è un luccichìo
di goccioline di rugiada.

Ma solo un ciuffo dorato
ti ravviva il volto,
il fazzolettino e la figura
e il tuo piccolo cappotto.

Sulle tue ciglia acqua e neve,
negli occhi tuoi il tormento,
e tutta la tua figura è fusa
come in un solo ammasso.

Quasi che con un pezzo di ferro
impregnato d’antimonio
t’avessero segnata
a righe sul mio cuore.

E s’è stampata per sempre
la dolcezza di quei segni,
e adesso poco m’importa
che la terra abbia un cuore di pietra.

Ed è così che s’è divisa in due
l’intera notte nevosa
e non sono capace nemmeno
di segnare un limite tra me e te.

Perché, chi siamo e di dove,
noi due già assenti alla terra,
quando solo le maldicenze
restano di questa epoca?

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Anna Achmatova, Video di Alessandro Barbero sulla poetessa russa, e alcune poesie

achmatova seduta

ritratto di Anna Achmatova

Anna Achmatova Profilo

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Anna Achmatova

Anna Achmatova 1

Anna Achmatova 2

Anna Achmatova 3

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

Anna Achmatova 4

 

Anna Achmatova 7

Anna Achmatova 8 Continua a leggere

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Sul tema: Con chi parla il poeta? – Con chi parla Osip Mandel’štam? a cura di Antonio Sagredo con due poesie, versione di Angelo Maria Ripellino

Gif neve nel bosco

Osip Ėmil’evič Mandel’štam (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938) nasce a Varsavia da una benestante famiglia ebraica. Nel 1900  Mandel’štam si iscrive alla prestigiosa scuola Teniševskij, sul cui annuario, nel 1907, appare la sua prima poesia. Nel 1908  entra alla Sorbona di Parigi per studiare letteratura e filosofia, ma già l’anno seguente si trasferisce all’Università di Heidelberg e, nel 1911, a quella di San Pietroburgo. Nel 1911 aderisce alla «Gilda dei poeti», fondata da Nikolaj Gumilëv e da Sergej Gorodeckij, gruppo intorno al quale si svilupperà il movimento letterario dell’acmeismo di cui Mandel’štam, nel 1913, redige in gran parte il manifesto che verrà pubblicato nel 1919. Nello stesso anno appare la sua prima raccolta di poesie, Kamen’ (Pietra). Nel 1922  si trasferisce a Mosca con la moglie Nadežda, sposata l’anno precedente e pubblica la sua seconda raccolta, Tristia. Da questa data escono vari scritti di saggistica, critica letteraria, memorie: Il rumore del tempo e Fedosia, entrambe del 1925, e brevi testi in prosa, Il francobollo egiziano, del 1928. Nel 1933 pubblica una poesia contro Stalin, una sarcastica critica del regime comunista. Sei mesi più tardi viene arrestato una prima volta dal Nkvd, e inviato con la moglie al confino sugli Urali, a Čerdyn’. In seguito, dopo un suo tentativo di suicidio, la pena verrà attenuata in divieto di ingresso nelle grandi città e, con Nadežda, sceglie di stabilirsi a Voronež. Nel 1938  viene nuovamente arrestato. Condannato ai lavori forzati, è trasferito all’estremo oriente della Siberia dove muore a fine dicembre nel gulag di Vtoraja  rečka, un campo di transito presso Vladivostok.

Antonio Sagredo Alfredo de Palchi

Antonio Sagredo con Alfredo de Palchi

Il punto di vista di Antonio Sagredo

Con chi parla Mandel’štam?
Con il Tutto e con tutti; comincia con la parola, poi con la quotidianità; poi forzato a parlare con la scopolamina, poi Stalin, e infine al telefono, ecc.ecc.

da: Mezzanotte a Mosca

È tempo che sappiate, anch’io sono contemporaneo,
io sono un uomo dell’epoca del Moskovšvéj,
guardate, come è stropicciata la mia giacca,
come so parlare e camminare bene!
Provatevi a strapparmi dal secolo! –
vi avverto, vi romperete il collo!

Io parlo con l’epoca, ma forse
la sua anima è la canapa, e forse
essa si è acclimatata da noi in maniera ignobile,
come una bestiolina grinzosa in un tempio tibetano, –
si gratta anche in una vasca di zinco –
descrivicela, Maria Ivanna!

(maggio – 4 giugno 1932 )

*
E che voglia ho io di scatenarmi,
di mettermi a parlare, di pronunciare la verità,
mandare la malinconia alla nebbia, al diavolo, alla forca,
prendere qualcuno per mano: – Sii gentile… –
digli, – noi andiamo per la stessa strada con te…

luglio-settembre 1931. Mosca.

*

Leningrad   

Sono tornato nella mia città, nota sino alle lacrime,
sino alle nervature, sino alle glandole gonfie dell’infanzia.

Tu sei tornato qui – dunque inghiotti al più presto
l’olio di pesce dei fanali del fiume di Leningrado!

 Riconosci al più presto il giorno di dicembre,
dove il sinistro catrame è mescolato al giallo d’uovo.

Pietroburgo, io non voglio ancora morire:
tu hai i numeri dei miei telefoni.

Pietroburgo! Io posseggo ancora gli indirizzi,
dove  troverò la voce dei morti.

Io vivo su una scala nera, e sulla tempia
mi batte un campanello strappato con la carne.

E tutta la notte io aspetto ospiti cari,
squassando i ceppi delle catenelle della porta.

(dicembre 1930. Leningrado)

 (trad. A. M. Ripellino)

antonio sagredo-1971

antonio sagredo-1971

(mia nota 179 dal Corso su Mandel’štam 1974-75 di Angelo Maria Ripellino)

Osip Mandel’štam, Lettera da Voronež. E a proposito di spedire prodotti e alimenti. All’epoca del Secondo quaderno di Voronež (6 dicembre 1936-fine febbraio 1937), quando Nadežda era insieme ad Osip, sappiamo che “il fratello di Nadežda Jakovlevna spediva loro ogni mese i duecento rubli che V. Višnevskij e V. Šklovskij gli consegnavano”. Cambia drasticamente lo stato del poeta, in peggio, all’epoca del Terzo quaderno di Voronež (marzo-maggio 1937). Il poeta scriverà a Kornej Čukovskij agli inizi del ’37 “Mio fratello Evgenyj Emilevič non mi dà un centesimo!” e in una lettera precedente allo stesso: “Sono malato. Non posso restare solo neanche per un momento. Adesso si prende cura di me la madre di mia moglie, una vecchietta. Se restassi solo mi sbatterebbero in un manicomio” (vedi Nadežda Mandel’štam, Le mie memorie, op. cit. 396; e cap. Lettere di Mandel’štam, pagg. 389-400). Di certo, Nadežda è sostituita da sua madre, poi che è partita per Mosca, dove cercherà aiuto non solo materiale, p.e. dai poeti Pasternàk e Achmatova; cerca anche un lavoro per non chiedere soldi agli amici; tenterà poi di parlare con qualche autorità per rendere più vivibili le condizioni del poeta. In questo stato terribile il poeta non si perde d’animo: ha fede nella sua poesia tanto che a Jurij Tynjanov [il celeberrimo critico formalista] scrive: “È atroce. È già un quarto di secolo che, mischiando le cose serie alle sciocchezze, sputo sulla poesia russa; ma presto i miei versi entreranno in lei mutando qualcosa nella sua struttura e nel suo corpo”.(lettera da Voronež del 21 gennaio 1937). A questa fede si alterna il momento della disperazione: ”Ormai non posso fare niente altro che chiedere aiuto a chi non vuole che io soccomba fisicamente”.(dalla lettera K. Čukovskij dell’inizio 1937); da Nadežda Mandel’štam, Le mie memorie, op.cit. pgg.396-397.

(dal Corso su Mandel’štam 1974-75 di Angelo Maria Ripellino – pag. 50) Continua a leggere

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Arkadij Kutilov (1940 – 1985) POESIE SCELTE a cura di Paolo Statuti

 

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L’illusione è la realtà che si guarda allo specchio

Presentazione di Paolo Statuti

Poeta, prosatore e pittore russo. E’ nato il 30 maggio 1940 nel villaggio di Rys’ja (regione di Irkutsk) ed è morto a Omsk nel mese di giugno del 1985. E’ uno dei più luminosi e originali poeti russi del XX secolo. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza nel villaggio di Bražnikovo, nella regione di Omsk. Un ruolo  particolarmente importante nella sua formazione ebbero la sua insegnante di russo e il bibliotecario, che consigliava il giovane nella scelta dei libri. Nella biblioteca del posto Kutilov trovò una piccola raccolta di Marina Cvetaeva e, grazie a ciò, fece per la prima volta conoscenza con la poesia caduta in disgrazia. La forza e la bellezza dei versi della Cvetaeva fecero nascere in lui un irresistibile interesse per la poesia. Le prime sue composizioni poetiche risalgono al 1957 (fino all’età di diciassette anni la sua passione principale era stata la pittura). Iniziò con versi il cui contenuto era genericamente chiamato “lirica della taigà”. All’inizio degli anni ’60 svolse il servizio militare a Smolensk, dove in veste di poeta principiante entrò nell’ambiente letterario, e partecipò a numerosi seminari. I suoi versi apparvero su diverse riviste locali. Un fatale avvenimento lasciò in lui un marchio che influì sul suo futuro destino. Il poeta e un gruppo di commilitoni presero una sbornia bevendo liquido antigelo. Restò vivo soltanto Kutilov. Per questo motivo dopo la cura che ne seguì, fu congedato. Tornò a Bražnikovo. Su questo periodo il poeta scrisse in una nota autobiografica: «Nel mio stato depressivo, avendo perso interesse per ogni cosa, vivevo nel villaggio, contando sullo scorrere della vita. Il fatto più brillante di quel tempo è stato il momento in cui per la prima volta ho apprezzato seriamente la vodca. Lavoravo come corrisponente per una rivista regionale, bevevo smodatamente, conducevo una vita scapestrata e neanche provavo a migliorare la mia condizione.» Dopo qualche mese fu licenziato dalla rivista per ubriachezza. Nel 1965 sue poesie apparvero sul giornale di Omsk “Il giovane siberiano”. Dopo la morte della madre, avvenuta nel 1967, Arkadij Kutilov con la giovane moglie e il figlio tornò nella regione di Irkutsk, sua terra natale, dedicando molto tempo ai viaggi. Discordie famigliari costrinsero poi  il poeta a tornare a Omsk.

Per un certo tempo condusse una vita nomade di giornalista di campagna, lavorando per diversi giornali, senza mai trattenersi a lungo in un luogo. Iniziò il periodo di vagabondaggio che durerà diciassette anni: la sua casa e il suo studio diventarono le soffitte e le cantine, dormiva nelle stazioni e nei cimiteri.

…Triste mondo nel balbettio del transistor,
la gente canta canzoni non proprie…
E nel Paese dei minchioni gemono i cigni,
piangono le pietre e gracidano gli usignoli… 

 Fu ritenuto incapace di adattarsi socialmente e psicologicamente malato, e quindi costretto a intraprendere una cura psichiatrica e, conformemente alla legislazione sovietica, fu accusato di parassitismo e vagabondaggio. Nel 1971, trovandosi in carcere, scrisse il racconto “Il granello di polvere”. Dalla metà degli anni ’70 Kutilov scriveva ormai senza alcuna speranza di vedere i suoi lavori pubblicati, e perfino il suo nome era interdetto, a causa dei suoi versi ritenuti sovversivi, degli scandali letterari e politici, delle “mostre” provocatorie di quadri e disegni nel centro della città, del disprezzo del passaporto sovietico, le cui pagine aveva riempito di poesie.

Alla fine di giugno del 1985 il poeta fu trovato morto in un giardinetto di Omsk con gli abiti sporchi e stracciati. Le circostanze della morte non furono mai chiarite. Si dice che sia stato ucciso per motivi politici, in quanto dissidente. Il cadavere fu identificato, ma nessuno richiese la salma all’obitorio. A lungo il luogo esatto della sepoltura del poeta, alla periferia di Omsk, restò sconosciuto. Finalmente nel 2011 riuscì a scoprirlo Nelli Arzamasceva, direttrice del museo “Arkadij Kutilov”. Il poeta Evgenij Evtušenko scrisse di lui: «Nella città di Leonid Martynov è vissuto un altro meritevole poeta, non apprezzato da noi quando era in vita. I suoi versi, sono diversamente giudicati, ma in essi ci sono lampi di genialità.»

La sua unica raccolta di poesie pubblicata, uscita a Omsk nel 1990, ha un titolo che si  addice perfettamente al suo tragico destino –

Lo scheletro di una stella:
La mia stella lavora bene,
la mia cara privata stella…
Si è accesa alquanto di recente,
di recente…Pensavo – per sempre…
Ma si raffredda nel gelido buio,
e di colpo si spegnerà quest’anno…
Il deserto – ai leoni, il bosco – agli uccelli,
e a me – accendete una nuova stella!

Si  ritiene che abbia scritto più di 2000 poesie, testi di prosa stupefacente, e abbia creato un’intera galleria di opere figurative. Purtroppo gran parte di questa produzione non ci è pervenuta.

Le sue poesie sono già tradotte in diverse lingue, non so se anche in italiano. In ogni caso ho pensato di rendere un omaggio personale a questo geniale e infelice poeta russo, forse il più dimenticato del XX secolo, la cui breve vita raminga e turbolenta, e la misera fine mi ricordano Chlebnikov e Esenin.

Arkadij Kutilov image

Io vedo il suono e il silenzio

Poesie di Arkadij Kutilov

Io vedo il suono e il silenzio

Io vedo il suono e il silenzio,
c’è l’antimondo nel mio quaderno…
Io vedo il paese-Africa,
dalla finestra innevata…

Io sento il buio e la luce lunare,
e dietro la parete del vicino
sento di notte il decrepito nonno
litigare con la moglie nel sonno.

La vecchia, è vero, è morta,
e il nonno mi fa compassione…
Ma così stanno le cose con noi:
noi vediamo ciò che nessuno vede.

Noi dell’ardente sangue di Puškin,
per noi – sette venerdì a settimana,
per noi – un usignolo a gennaio,
e d’estate – musica con bufera.

E a marzo dai tetti lungo i muri
scorre la voce di Nefertiti…
O mio lettore! io mi batto,
perché tu possa scorgere il mondo.

 

*
Idee selvatiche ingoio,
leggo Brehm e Diderot…
Tutta la notte siedo, immagino
un piatto, un cucchiaio e un secchio…

James Watt è il mio capo diretto,
tutto il mondo non è che merce…
Ho immaginato una teiera,
una bicicletta e un samovar…

Un raggio di stella ho scisso in anelli,
ho scoperto una nuova specie di pesci.
Ai confini della musica e del canto
ho immaginato il cigolio di un carro.

Io dal cielo le stelle non afferro,
ma scroscia l’estasi creativa…
E io di nuovo immagino
un’ascia, una sega e un water…

Io – esclusione di ogni principio,
con distorta visione del mondo…
Col cervello tragicamente guasto,
e niente può più ripararlo!

 

*
E nell’infanzia tutte le inezie
sono piene di significato e ragione:
la luce del giorno, il buio della notte,
un’ala, un remo e l’altalena…

E una scaglia di luccio screziato,
un pulcino ucciso da un nibbio,
e il grido della civetta e un maggiolino,
e un prato dopo averlo rasato.

Come nel sangue – una molecola di vino,
come in un cervello sensibile – un verso,
come in una notte di luglio – la luna, –
nella coscienza entra il punto di vista.

Foto Oxford

Perché non mi amavi,/ mi sopportavi, torcendo la bocca?

Il figliastro

Una buona volta in un’azzurra sera,
senza pensieri, senza amore e sogni,
a un tratto lascerò la Russia,
cominciando a darle del “tu”…

Perché non mi amavi,
mi sopportavi, torcendo la bocca?..
Negli assalti di mite ardore
io con te stringevo un legame.

Mi sono arreso alle tue promesse,
aspettavo a lungo una dichiarazione.
Prendi adesso, nell’ora dell’addio,
la mia testa come amuleto!

Addio, e dimentica i falsi giudizi.
La gente per essi è portata!
…Gli otturatori della mia doppietta
scatteranno – e tutti sull’attenti!

Alla fine di una notte lirica,
quando una mucca muggirà,
i miei occhi sbatteranno le ciglia
e rumorosi nell’azzurro voleranno!

 

Divorzio

Se ne va l’amore. Gelo nell’anima.
Sbiadiscono parole e oggetti.
Sul caro volto appare ormai
La maschera postuma di Giulietta.

La ragione frena il bollore del sangue…
Il tuo sguardo è più azzurro d’un pugnale…
E, forse, non il dito, ma la gola dell’amore
L’anello nuziale ha serrato.

E’ invecchiato settembre e la tua figura,
I tuoi contorni si fanno grossolani…

Sembra che mi stiano per fucilare,
E I NOSTRI NON ARRIVERANNO MAI.

 

*
Vita mia, poesia, amica…
Io nei versi annegavo, ardevo e gelavo…
Gli occhi la tormenta non mi ha cavato,
benché abbia percorso tante verste.
Diranno: è una posa? Sì è possibile…
La vita è fatta di pose e altre inezie.
Che perisca la rosa schiacciata,
e nel marcio spunti un cardo!
Io l’immortalità non aspetto,
a me è più caro – le dita sulle corde –
sedere con le prostitute che parlano
allegramente di me.

 

Bosco d’inverno

Si gelano i pini e gli abeti,
il bosco non allieta lo sguardo.
Il bosco ha un abito nuovo –
d’un biancore mortale.

Come un vecchio sul letto,
condannato a morire…
Come in una stanza d’ospedale,
solo un medico – l’orso.

Questo sembra da lontano,
questo sembra così…
Ma svolazzano le cince
e i fringuelli sui cespugli…

E, accostando alle tremule
la guancia, come un figlio,
senti battere forte
la loro anima.

 

Allegato al mio libretto del lavoro

Ecco io morirò e subito piangerà
la pazza stirpe di beoni e randagi…
…Io ero un pope, – e ciò è importante.
Io ero un organizzatore, – e non è poco!

Io ho scavato con la draga da ubriaco.
Io con l’ascia penetravo nel bosco azzurro.
Io ero pescatore e nel fiume Vitim
il mio zar-pesce nuota ancora.

Io ero nella compagnia di mia zia.
E a Smolensk le mucche altrui pascolavo.
Io ero corrispondente di un giornale
e alla tomba due redattori ho scortato.

Ho insegnato ai bambini a leggere
e a diventare dittatori della Terra…
E un anno dopo gli allegri marmocchi
mi hanno incendiato la casa!

Ho gestito il club di un villaggio.
Ho diretto il dramma “Carnevale all’inferno”…
E il protagonista, dalla scena, col fucile
ha ucciso un papavero del partito.

Ero un randagio e mi celavo ai cieli.
Ero in bancarotta – non ho potuto uccidermi…
Ero…ero…ero…Chi non sono stato!
Me stesso?.. Ma come si può esserlo?..

 

*
Non sono un poeta. La poesia è una cosa sacra.
In essa tutto è lieve, tenero e luminoso…
Dammi un oggetto che toccandolo – canti per me,
o che per lo meno mi bruci le dita.

*
La poesia non è una posa o un ruolo.
E’ una lotta eterna, come la vita sotto il sole,
la poesia è la mia reazione al dolore,
la mia autodifesa e la mia vendetta!

*

Versi miei, miei santi peccati,
Prolifici come microbo letale…
Sentiti della morte i comuni indizi,
Inchioderò per loro una bara speciale.

E questa cassa con garbo e cortesia
Il postero dalla terra riceverà…
E dallo zinco e dal freddo l’esperanto –
Nel cuore del postero la gru canterà!

E balzerà la pace da questo canto,
E balzerò anch’io dal funereo torpore…
Il mio compito è concluso con onore:
Il postero piange.
Forse per me…

 

Foto Musée D'Orsay

Non sono un poeta. La poesia è una cosa sacra.

Paolo Statuti è nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Da alcuni anni pubblica le sue versioni poetiche sulla rivista internazionale “Poesia”. Nel 1987 sono usciti in Italia due libri di favole: “Il principe-albero” e “Gocce di fantasia” (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è stata pubblicata anche in Polonia con il titolo “L’albero che era un principe” (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989).
Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia.
Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia.
A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica anche le sue traduzioni di poesia polacca, russa e inglese. Negli ultimi anni sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie polacche di: Marek Baterowicz, Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska, Konstanty Ildefons Gałczyński, Anna Kamieńska, Anna Świrszczyńska. Della poesia russa: 32 poesie di Aleksander Puškin, “Il demone” di Michail Lermontov, poesie scelte di Boris Pasternak e Osip Mandel’štam. A gennaio del 2016 è uscita la sua prima raccolta di poesie “La stella errante” (Ed. GSE).
Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.

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POESIE EDITE E INEDITE di MARINA CVETAEVA (1892-1941) e ARSENIJ TARKOVSKIJ (1907-1989) – Una storia d’amore in versi – A cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

arsenij 6

Arsenij Tarkovskij

Nessuna di queste poesie di Marina Cvetaeva è stata tradotta in italiano ad eccezione di “Elabuga”, pubblicata e tradotta da Gario Zappi nel suo Poesie scelte di Arsenij Tarkovskij, Scheiwiller, Milano, 1988.
Si tratta di un ciclo di poesie palesemente scritte da Arsenij Tarkovskij à la màniere della Cvetaeva (vedi l’uso delle lineette). L’uno risponde all’altra.

“Io ascolto, non dormo, mi chiami, Marina…”
Gli ultimi anni della vita di Marina Cvetaeva sono stati studiati a fondo ma l’esatta data del suo incontro con Arsenij Tarkovskij non si trova da nessuna parte. E’ noto che pretesto della conoscenza fu la traduzione da parte di Tarkovskij dei versi del poeta turkmeno Kemine. Il titolo completo dell’opera è “Raccolta di canti e versi nella traduzione di Arsenji Tarkovskji con l’aggiunta di racconti popolari scelti sulla vita del celebre poeta”. L’accordo per l’edizione fu stipulato il 12 settembre del 1940 ed il libro uscì probabilmente dopo un mese.
La famosa brutta copia della lettera della Cvetaeva a Tarkovskji, appuntata nel quaderno di ottobre del 1940, fu ricopiata per qualcuno da Ariadna Efron. (1)

marina cvetaeva 1914

Marina Cvetaeva, 1914

“…Caro com.(pagno) T.(arkovskij),
la Vostra traduzione è una meraviglia. Che cosa potete fare – quando siete Voi stesso?
Perché per un altro poeta potete – tutto. Trovate (amate) – e le parole saranno vostre.
Presto Vi inviterò – una di queste sere – ad ascoltare versi (i miei) di un libro futuro. Per questo datemi il vostro indirizzo affinché l’invito non vada vagando – o non resti qui come questa lettera.
Vi pregherei molto di non mostrare a nessuno questa mia letterina, io sono una persona appartata e scrivo a Voi – a che vi servono gli altri? (mani ed occhi) e non dite a nessuno che presto, uno di questi giorni, sentirete le mie poesie, presto ci sarà da me una serata aperta ed allora verranno tutti. Io adesso Vi chiamo da amico.
Ogni manoscritto – è indifeso. Io nella mia interezza – sono un manoscritto
M. C.”

Questa tarda lettera dell’ultima Cvetaeva è totalmente giovanile nello spirito.
La traduzione di Tarkovskij capitò alla Cvetaeva, probabilmente, tramite una sua intima conoscente, la traduttrice Nina Gherasimovna Berner Yakovleva. In gioventù aveva preso parte ad un circolo artistico-letterario alla Bolshaya Dmitrovka, di cui era coordinatore Brjusov. Lì aveva visto per la prima volta Marina ed Asja Cvetaeva, accompagnate da Maximilian Voloscin.
Se giudichiamo dalla lettera, essa è indirizzata ad un uomo già conosciuto, per il quale è nata una simpatia. I due poeti potevano già essersi incontrati a qualche serata letteraria o ad una riunione di traduttori … Ma la Berner asserisce che si conobbero proprio da lei.
E’ sicuramente noto il loro incontro nella casa di Nina Gerasimovna nel vicolo Telegrafnij.

Marja Belkina ricorda quella stanza nella “kommunal’ka” : “…pareti verdi, dove si trovava una mobilia antiquata fatta di un legno rosso e negli scaffali libri francesi con le copertine di pelle.”

Marina Arsen’evna Tarkovskaja, figlia del poeta, nel suo libro Schegge di specchio, uscito di recente, ricorda così: “Sono andata laggiù diverse volte con la mamma – lei era amica di Nina Gherasimovna. La stanza era pitturata di un color verde antico – questo in un’epoca di carta da parati a basso prezzo e decorazioni di argento costoso. Ricordo che c’era lì una mobilia di un legno rosso – uno scrittoio, un divano e una credenza sormontata da un antico specchio. Sia il colore delle pareti che il mobilio si addicevano molto alla padrona di casa , una snella bella donna dai capelli rossi che anche negli anni maturi era assai piacente.”
La stessa Nina Gherasimovna ricordava: “ Si sono conosciuti a casa mia quel giorno. Ricordo molto bene quella giornata. Per qualche motivo uscii dalla stanza. Quando tornai, erano seduti vicini sul divano. Dai loro volti emozionati capii: era successa la stessa cosa alla Duncan e ad Esenin. Si sono incontrati, si sono librati in alto, si slanciati l’uno verso l’altro. Un poeta verso un altro poeta…”.

arsenij 10

Un poeta verso un altro poeta… Questo è molto importante. Quando Tarkovskij giunse nel 1925 a Mosca per studiare, Marina Cvetaeva già da tre anni viveva in Cecoslovacchia. Ma i suoi versi erano molto conosciuti da coloro i quali si interessavano di poesia. I suoi testi si potevano trovare nei negozi di libri usati, potevano essere letti o scambiati tra amici. Il giovane poeta stimava molto la Cvetaeva come un maestro, come un “maitre”, una collega più grande. Marina Arsen’evna scrive che a lei, nata nel 1934, Tarkovskij aveva dato il nome Marina in onore del poeta Cvetaeva.

Quando si incontrarono, Marina era appena tornata dalla Francia. Tarkovskij in quell’estate del 1939 con la sua seconda moglie Antonina al e la loro figlia Elena viveva in Cecenia Inguscezia, dove traduceva i poeti locali.
Aveva alle spalle l’antico, amaro amore per Maria Gustavovna Fal’z, dopo il fortunato matrimonio con Maria Ivanovna Visnjakova, la nascita in famiglia dei due figli Andrej e Marina, poi l’uscita dalla famiglia per Antonina Aleksandrovna Trenina per un amore appassionato… Scrive i suoi splendidi versi ma per l’uscita del suo primo libro ci volevano ancora degli anni, per cui la vita lo costringeva a darsi da fare con le traduzioni.
Tarkovskij non è semplicemente un poeta – è un vero poeta.
Egli non poteva non apprezzare i versi di Marina Cvetaeva, non poteva non passarle accanto anche nella vita senza fermarsi.
Si, sugli anni ’40 della Cvetaeva è stato scritto non poco. Fu un periodo difficile, pesante, insopportabile…tutte queste parole sono appropriate… Tuttavia per un poeta sempre- al di là di tutte le sciagure ed infelicità – più terribile di tutto è il vuoto del cuore.
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Stefania Pavan, saggio su Odissej Telemaku  (Odisseo a Telemaco) di Iosif Brodskij – La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo).

Testata azzurro intenso

Laboratorio gezim e altri

Realizzazioni grafiche di Lucio Mayoor Tosi

da http://www.collana-lilsi.unifi.it/upload/sub/libro%20pavan/pavan_libro_collana.pdf

Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.

Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.

Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(1972, traduzione di Giovanni Buttafava)

ОДИССЕЙ ТЕЛЕМАКУ

Мой Tелемак,
Tроянская война
окончена. Кто победил – не помню.
Должно быть, греки: столько мертвецов
вне дома бросить могут только греки…
И все-таки ведущая домой
дорога оказалась слишком длинной,
как будто Посейдон, пока мы там
теряли время, растянул пространство.

Мне неизвестно, где я нахожусь,
что предо мной. Какой-то грязный остров,
кусты, постройки, хрюканье свиней,
заросший сад, какая-то царица,
трава да камни… Милый Телемак,
все острова похожи друг на друга,
когда так долго странствуешь; и мозг
уже сбивается, считая волны,
глаз, засоренный горизонтом, плачет,
и водяное мясо застит слух.
Не помню я, чем кончилась война,
и сколько лет тебе сейчас, не помню.

Расти большой, мой Телемак, расти.
Лишь боги знают, свидимся ли снова.
Ты и сейчас уже не тот младенец,
перед которым я сдержал быков.
Когда б не Паламед, мы жили вместе.
Но может быть и прав он: без меня
ты от страстей Эдиповых избавлен,
и сны твои, мой Телемак, безгрешны.

Testata azzurra

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Questa poesia è stata scritta da Brodskij nel 1972 ed è senza dubbio una di quelle che maggiormente ha attirato l’attenzione dei critici. Ljudmila Zubova ha analizzato con molta attenzione Odissej Telemaku (Odisseo a Telemaco), mettendone in rilievo i numerosissimi riferimenti intertestuali: con altre poesie dello stesso Brodskij e quindi con la sua biografi a, pur evitando interpretazioni semplicistiche; con altri poeti russi; con poeti italiani; quello che invece è restato alquanto nell’ombra, o non è stato sufficientemente messo in luce che dir si voglia, è l’intertesto greco e latino. Questo articolo di Zubova, preziosissimo e denso di suggerimenti, fornisce sin dall’inizio la tesi interpretativa, all’interno della quale viene quindi analizzata la poesia.

La poesia «Odisseo a Telemaco», scritta nel 1972, quando Iosif Brodskij fu costretto ad emigrare, parla dell’esilio come destino e tira le somme dell’esistenza già trascorsa. Zubova prosegue citando le famosissime frasi di Brodskij sul proprio interesse verso il tempo e quello che il tempo fa all’uomo, come metafora di quello che il tempo fa allo spazio e al mondo. In tal senso, aggiungiamo, è logico dedurre che il tempo sopravanza la storia, narrazione di cui gli uomini sentono la necessità per illudersi di comprendere e quindi dominare il tempo.

Irina Koval’ëva, a sua volta, dedica alcune pagine a questa poesia nel saggio209, dove sottolinea la novità e l’importanza dell’intertesto con la poesia di Umberto Saba Lettera e porta un nuovo rimando alla poesia del 1910 di Kavafi s Itaca, utilizzata da Brodskij con inversione del significato dei motivi.

Brodskij ha tradotto Itaca assieme a Šmakov, anzi sarebbe forse meglio dire che Šmakov ha tradotto Kavafi s e che Brodskij ha curato soprattutto la redazione della traduzione quando l’amico era già gravemente malato210. Brodskij ha anche tradotto svariate poesie di Umberto Saba, poeta che ammirava moltissimo, e tra queste anche Lettera. A proposito di Saba, vanno però fatte alcune osservazioni: la poesia di Saba che rimanda più direttamente a Odissej Telemaku è invece e più probabilmente Ulisse che, ad una prima lettura, si presta ad essere interpretata come una metafora della vita, cammino difficilissimo che va sempre e comunque affrontato ed accettato. Si può anche ricordare come Saba, a causa delle leggi razziali del 1938, dovette lasciare Trieste per Roma e quindi per Milano, e ritornò a Trieste solo nel 1948; le origini ebraiche erano tratto comune sia di Brodskij che di Saba e hanno contribuito a rendere ancora più complicato il loro viaggio esistenziale.

Odissej Telemaku è del 1972; Ljudmila Zubova collega la poesia alla certezza dell’emigrazione coatta; Irina Koval’ëva rileva il possibile intertesto con la poesia 1972 god (anno 1972); né l’una né l’altra rilevano che Brodskij ha forse pensato di scrivere questa poesia in forma di lettera come testamento per il figlioletto Andrej, che sarebbe quindi adombrato nella figura di Telemaco. La prima variante della poesia è dei primi mesi del 1972; il poeta la rivede qualche mese dopo, quando è già negli Stati Uniti211. Senza voler entrare nella sfera del privato brodskiano in modo imbarazzante, sono noti l’attaccamento che in quegli anni egli ha nei confronti del primo figlio e il dispiacere perché costui non porta il suo cognome. Soprattutto la seconda parte della poesia, gli otto versi che la concludono, sembrano un lungo e doloroso saluto al figlio che deve abbandonare e che non potrà seguire da vicino né veder crescere: «Расти большой, мой Телемак, расти» (Diventa grande, mio Telemaco, grande), esorta il figlio a crescere, in senso fisico e metaforico; «Лишь боги знают, свидимся ли снова» (Solo gli dei sanno, se ci rivedremo), la nota è accorata e dolente, il dolore trattenuto e non urlato di un padre che forse sarà per sempre separato dal fi glio; «Но может быть и прав он: без меня / ты от страстей Эдиповых избавлен, / и сны твои, мой Телемак, безгрешны» (Forse, egli ha ragione: senza di me / sei preservato dalle passioni di Edipo, / e i tuoi sogni, mio Telemaco, sono innocenti), i riferimenti all’intertesto antico greco, che spiegano chi sia «egli», saranno esaminati più avanti, qui leggiamo solo la speranza, che lenisce il dolore del distacco, che dall’assenza del padre al figlio possa derivare del bene.

Testata viola

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Passando all’analisi di Odissej Telemaku, cercando di tenere presente il mondo culturale dei miti classici, va notato come Brodskij scelga il nome Odisseo e non la variante latina Ulisse. Odisseo sarebbe stato generato da Sisifo che, per vendicarsi del furto della propria mandria di bestiame sull’istmo di Corinto da parte di Autolico, ne Odissej Telemaku  sedusse la figlia Anticlea; costei era già sposa di Laerte l’Argivo, padre ufficiale del bambino nato da quell’unione. Appunto le circostanze del concepimento ne spiegano l’astuzia e il soprannome di Ipsipilo, forma maschile di Ipsipile. Ora, Sisifo, nome interpretato dai Greci come ‘molto saggio’, è una variante greca di Tesup, il dio ittita del sole, che si identifica con Atabirio, il dio solare di Rodi cui era sacro il toro. Odisseo significa ‘iroso’ e si riferisce al volto rosso del re sacro. Allo scadere del termine concesso al re sacro, dopo che egli ha regnato per cinquanta mesi lunari come marito della grande sacerdotessa, venivano celebrati i giochi, sia Nemei che Olimpici.

Ulixēs, invece, è la variante latina, parola formata probabilmente da vulnus = ferita e ischia = cosce, con allusione alla cicatrice prodotta da una zampa di cinghiale, che la vecchia nutrice riconosce quando egli torna a Itaca dopo il suo lunghissimo viaggio. Odisseo si è procurato questa ferita alla coscia proprio durante una visita al padre Autolico. Le riflessioni sui nomi Odisseo/Ulisse permettono sia di escludere un ruolo qui dominante della letteratura latina sia di altre narrazioni, più moderne, del viaggio di Ulisse, quali ad esempio quella di Joyce, che Brodskij conosceva molto bene.

Le medesime riflessioni inducono, soprattutto, a prendere le distanze, a considerare con maggiore attenzione e cautela, la tesi invalsa secondo la quale tre precedenti poesie di Brodskij formino, nel loro complesso, il protesto di questa: Ja kak Uliss del 1961, Pis’mo v butylke (La lettera nella bottiglia) del 1964, Proščajte, mademuazel’ Veronika (Addio, mademoiselle Veronica) del 1967213.

La poesia è ancora una volta imitazione di una lettera, scritta da Odisseo al figlio Telemaco; la convenzione poetica, l’esistenza del genere, permette di accettare la mistificazione di una lettera che forse non raggiungerà mai il proprio destinatario. Chi scrive è Odisseo, il primo verso è formato dal normale inizio di una lettera: «Мой Телемак» (Mio Telemaco) e il secondo verso rispetta anche visivamente la composizione di una lettera, poiché esso inizia alla riga successiva e dopo uno spazio lasciato bianco, esattamente dopo la virgola: «Троянская война / окончена. Кто победил – не помню» (La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo). Odisseo, colui che ha escogitato lo stratagemma che ha posto fine alla guerra di Troia, non ricorda chi sia stato il vinto e chi il vincitore. Questi versi, apparentemente assurdi, sottolineano il lunghissimo lasso di tempo già intercorso dalla fine della guerra, da quando la nave di Odisseo ha lasciato le coste di quella Tracia dove la tradizione colloca l’antica città di Troia; il viaggio durò dieci lunghissimi anni, inaccettabili e incomprensibili a guardare la distanza relativamente breve che separava la città dall’isola di Itaca.

Testata polittico

alcuni poeti della NOE, grafica di Lucio Mayoor Tosi

A proposito del viaggio di Odisseo, della sua durata e del ritorno, Zubova osserva che:

Il ritorno di Odisseo, secondo l’antico sistema mitosimbolico corrisponde alla vittoria sulla morte, alla resurrezione, al ritorno dal mondo dei morti. Il «vello d’oro» di Odisseo acquisisce, in tal modo, il senso di vittoria sulla morte, sul naturale principio retrivo, privo di creatività del mondo materiale.

Zubova segue la lezione di Jerzy Farino, da lei citata, dove lo studioso affronta la narrazione del viaggio di Odisseo/Ulisse come motivo che più di ogni altro lega la poesia di Puškin a quella di Mandel’štam; a questa tesi fondamentale lo studioso aggiunge una digressione che prende succintamente in esame anche la poesia di Brodskij, e sottolinea la particolarità per cui il suo è un Odisseo che non fa ritorno a casa.

In realtà, bisogna invece ricordare che il ritorno dal viaggio nel sistema mitopoietico non corrisponde soltanto alla vittoria sulla morte, quanto alla rinascita ad una nuova vita, alla vita di adulto, e in tal senso ci si trova sovente di fronte ad un’azione rituale e non solo ad una narrazione; ancora più importante, il viaggio e il raggiungimento della meta è topos del viaggio dell’anima, del suo peregrinare lungo il cammino impervio della conoscenza. La conoscenza, meta suprema dell’uomo, isola irraggiungibile: «Pàntes ànthropoi toù eidenai orégontai phýsei» (Tutti gli uomini tendono per natura al sapere).

La poesia, come già osservato, si apre con i primi due versi che, anche graficamente, ricordano una lettera e, soprattutto, una lettera molto personale, familiare, che inizia con quell’aggettivo possessivo «мой» (mio) denso di amore. È vero, come sostiene Zubova, che l’uso dell’aggettivo possessivo prima del nome proprio non pertiene alla norma del vocativo russo e denota quindi un evidente significato di possesso; in questo caso, però, bisogna  ricordare la grande tradizione di epistolé e epistulae nelle letterature greca e latina, persino Dante e Petrarca, che Brodskij conosce molto bene, sono stati autori di Epistulae, scritte in latino in conformità alle leggi della retorica.

Onto brodskij

grafica di Lucio Mayoor Tosi, Brodskij

Odissej Telemaku

I pis’ma (lettere) in Brodskij rappresentano un documento umano, notevole in sé come segno di confessione, che costruisce davanti al lettore il sé del poeta e dell’uomo. Sono un documento poetico per intendere la biografia umana e artistica del poeta; sono una testimonianza artistica di vita spirituale, che modella anche l’immagine dei corrispondenti; sono materia personale che diviene materia di poesia e di riflessione metafisica; sono modello di stile e disciplina classiche.

Odisseo è, comunque, un principe greco, un guerriero che ha partecipato alla lunghissima guerra contro Troia, una guerra che ha sconvolto e interrotto la sua vita e questo evento costituisce il primo argomento della lettera: «Троянская война / окончена. Кто победил – не помню» (La guerra di Troia / è terminata./ Chi ha vinto, non ricordo). Odisseo sa che la guerra è terminata ma, il che ci appare assurdo, non ricorda il nome del vincitore: greci o troiani? La tradizione non ci consegna un Odisseo immemore di chi abbia vinto la guerra estenuante, poiché è stata proprio la sua astuzia ad escogitare lo stratagemma che vi ha posto fine. Si apre un ventaglio di ipotesi.

I due versi possono voler indicare il lunghissimo lasso di tempo già intercorso dal termine della guerra, da quando Odisseo ha lasciato sulla sua nave e assieme ai suoi compagni le coste dell’Asia Minore. Odisseo è stanco e provato dal viaggio che sembra non avere fine, le speranze di un ritorno a Itaca si sono affievolite e il risultato bellico non ha importanza, l’evento non è più tanto significativo da dover essere conservato nella memoria dell’eroe. Opportuno, a questo punto, ricordare che Odisseo è un eroe anomalo nell’epos antico-greco: il suo valore di guerriero, ma soprattutto la sua forza, non sono messi in dubbio, basti ricordare come ha saputo tendere l’arco e quindi sterminare i Proci dopo il ritorno ad Itaca; la sua caratteristica principale è però l’astuzia, non il coraggio e la curiosità intellettuale in lui non coincide propriamente con l’esperienza culturale; l’Iliade non ci tramanda episodi rilevanti sul coraggio di Odisseo, consegna invece alla nostra memoria culturale un eroe dall’astuzia eccezionale, quella stessa astuzia che lo sorregge durante il viaggio di ritorno e gli permette di riacquisire il posto e il ruolo che gli spettano. Non a caso, egli è protetto da Atena e non da Ares. Continua a leggere

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Fëdor Ivanovič Tjutčev Ultimo amore Poesie in vita e in morte di Elena A. Denis’eva – a cura di Christoph Ferber, Traduzione di Christoph Ferber e Aurelio Buletti

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“Beato e fatale” chiamò Fedor Ivanovič Tjutčev (1803-1873), poeta russo fra i più importanti dell’Ottocento, il giorno in cui si innamorò di Elena Aleksandrovna Denis’eva, di ventitré anni più giovane di lui, e svegliò in lei una passione che fu – come l’autore ammette – più forte nell’amata che in lui. Tjutčev era un diplomatico, sposato, padre di quattro figlie adulte. Elena aveva frequentato l’esclusivo Istituto Smol’nyj per Nobili Fanciulle a San Pietroburgo ed era anche nipote dell’ispettrice. Il legame doveva diventare uno scandalo, che colpì la donna molto più che il poeta: la particolare tragicità della loro relazione è legata in buona parte, anche se non solo, proprio a questo squilibrio di sofferenza. Alcune delle circa venticinque poesie, nelle quali l’autore esamina questa sua più profonda relazione d’amore, diventano così un resoconto severo e passionale – e il poeta si addossa tutta la colpa. Immediatezza e sincerità di queste poesie, in parte apparse postume, l’ultima nel 1932, non sarebbero pensabili se l’autore non le avesse scritte per sé stesso ma per il pubblico dei lettori. È questo che maggiormente le distingue dai versi di altri poeti e assegna loro un posto nella storia della poesia amorosa russa che non solo è altissimo, ma anche unico.

Le poesie di questo “romanzo psicologico”, come fu definito spesso, sono qui riunite per la prima volta in lingua italiana.

(Christoph Ferber)

Poesie di Fedor Ivanovič Tjutčev

Sulla Neva

E una stella ancora gioca sopra la Neva
nella leggera schiuma delle onde
e ancora l’amore le affida
la sua segretissima barca.

La barca scivola fra schiuma e stella
come dentro in un sogno
e porta due fantasmi insieme a sé
lungo l’onda, lontano.

Porta bambini che in futile lentezza
sprecano il tempo della quiete notturna?
O due beate ombre
che se ne vanno dal mondo terrestre?

Tu, estesa come il mare,
meravigliosa-rigogliosa onda,
tuteli nel tuo spazio
il segreto di quell’umile barca.

Luglio 1850

*

Per quanto fiati il mezzogiorno afoso
dalla finestra aperta,
in questa camera tranquilla dove
tutto è calmo e scuro,

dove profumi vivi
si aggirano nell’ora del crepuscolo,
dolce crepuscolo del dormicchiare,
immergiti e riposa!

Qui un’inesauribile fontana
giorno e notte canta nell’angolo,
di rugiada invisibile cosparge
le tenebre incantate.

E nei chiarori della mezza luce
invasa già da segreta passione
aleggia il lieve sogno
del poeta innamorato.

Luglio 1850

 

Predestinazione

Ah! l’amore, l’amore! lo si dice
l’unione di due anime sorelle,
il loro accordarsi, la loro fusione,
il fatale fluire attorcigliate,
il loro inevitabile duello.
Tanto più dolce l’uno,
tanto più disuguale la lotta dei due cuori:
inevitabilmente, di sicuro,
ama e soffre il più tenero di più,
langue nella tristezza.
Senza più forza alla fine si spegne.

Prima metà 1851

*

Potresti biasimarmi, però non angustiarmi,
dei nostri due destini è il tuo più da invidiare,
il tuo amore per me è sincero e ardente,
io invece ti guardo con rabbia e gelosia.

Rimasto senza fede e misero stregone
in un mondo stregato creato da me stesso,
io riconosco arrossendo in me stesso
il morto simulacro dell’anima tua viva.

Prima metà 1851

*

Ho conosciuto occhi – quali occhi! –
e quanto li ho amati Dio lo sa:
magici come passioni notturne,
non ho potuto distoglierne l’anima.

E dentro quello sguardo inafferrabile
che svelava la vita denudandola
si percepiva una grande inquietudine
e la profondità della passione.

Era uno sguardo dal respiro triste,
fitto nell’ombra delle amate ciglia,
affaticato, pallido, dolcissimo,
intensamente sofferto, fatale.

Era uno sguardo che mai mi successe
d’incontrare – incantevoli momenti! –
senza sentire in me la commozione,
di averne meraviglia senza lacrime.

Prima metà 1851

*

Ultimo amore

Da vecchi amiamo con più tenerezza
e amando siamo più superstiziosi …
O splendi, splendi luce dell’addio,
dell’ultimo amore, del tramonto!

Metà del cielo l’ha avvolto l’ombra,
solo a occidente ancora qualche luce,
indugia, indugia, giorno serale,
dura ancora, dura, o incanto!

Certo avrò meno sangue nelle vene,
ma nel cuore non cala la dolcezza …
O tu, ultimo amore!
Beatitudine e disperazione.

Inizio 1854

*

Lei tutto il giorno avvolta nell’oblio
e già le ombre tutta la avvolgevano.
Cadeva una calda pioggia estiva,
frusciavano i suoi raggi nelle foglie.

E lentamente lei si risvegliava,
cominciava a ascoltare quel fruscio,
a lungo lo ascoltava – affascinata,
immersa in un pensiero consapevole.

Ed ecco, come dicendo a sé stessa,
cosciente del suo dire pronunciò
(io ero lì, annientato ma vivo):
“Oh, come ho amato tutto questo!”

………………………………………

Tu hai amato e così tanto amare
mai a nessuno era riuscito!
Sopravvivere, Dio, a tutto questo
senza che il cuore mi si strappi a pezzi!

Ottobre 1864

 

La bise si è calmata … Più leggera respira
l’azzurra onda delle acque ginevrine
e nuovamente la barca le solca
e vi scivola il cigno di bel nuovo.

Il sole è come estivo tutto il giorno,
variopinti gli alberi scintillano
e l’aria in un’amorevole onda
ne accarezza l’antica abbondanza.

E di là, in una calma regale,
dalla mattina, attorniata di nubi,
è rilucente la Montagna Bianca
come rivelazione non terrena.

Di tutto, qui, di tutta la sua pena
il cuore perderebbe la memoria
solo se là, nel paese natio,
una tomba di meno si contasse.

11 ottobre 1864

*

Ci sono nel campare mio straziato
ore e giornate più di altre crude
– giogo pesante, carico fatale –
ed il mio verso non le può esprimere.

Tutto muore ad un tratto – tenerezza
è vietata, tutto è vuoto e scuro,
non si libra il passato in ombra lieve
ma sotto terra come salma giace.

Ah, sopra, nella chiara realtà,
ma senza amore né raggi di sole,
lo stesso mondo c’è, disanimato,
ignaro ed immemore di lei.

Io, solitario, tristemente ottuso,
vorrei conoscermi e non ci riesco –
barca rotta portata via dall’onda
e senza nome su sponda selvaggia.

Dammi, o Signore, un soffrire ardente,
ravviva Tu la mia anima morta,
lei me l’hai presa, lasciami il ricordo,
la viva pena lasciami di lei.

Di lei che ha compiuto la sua opera
fino alla fine, in lotta disperata,
raggiante, a volte ardentemente amante
sfidando sia la gente che il destino.

Di lei che il suo destino non ha vinto
ma che da esso non s’è fatta abbattere,
che è riuscita fino alla fine
a soffrire, a pregare, a credere ed amare.

Fine marzo 1865

*

Sono quindici anni, oggi, amico,
dopo quel giorno beato e fatale
nel quale lei ha posto tutta l’anima
in me, donandomi tutta sé stessa.

E ora già da un anno, senza lamento e biasimo,
tutto avendo perduto, accetto il mio destino:
sarà fino alla fine del tutto solitario –
come solitario nella tomba sarò io.

15 luglio 1865

*

                                                              (in foto Christoph Ferber)

Alla vigilia dell’anniversario del 4 agosto 1864

Ecco che vado sulla strada lunga
nella luce tranquilla del crepuscolo …
Sento mancarmi le forze, sto male …
Ma tu mi vedi, cara mia amata?

Si fa sempre più scuro sulla terra,
se n’è andato l’ultimo bagliore …
È questo il mondo dove insieme fummo …
Ma tu mi vedi, caro mio angelo?

Domani, giorno di mesta preghiera,
avrò memoria di quel dì fatale.
Ma tu, angelo mio, ovunque sostino
le anime, mi vedi?

3 agosto 1865

fedor-tjutcev-copertina

Ediz Quaderni di Erba D’Arno

Un’altra volta sono ritornato
e ancora, come in un tempo passato,
guardo – che io sia ancora vivo? –
l’incanto delle acque della Neva.

Non c’è un bagliore nell’azzurro cielo
e tutto tace in un abbraccio pallido,
solo la luce chiara della luna
scivola sulla Neva pensierosa.

È in un sogno che mi appare questo
o guardo veramente, realmente
quello che con la medesima luna
l’un l’altro vivi guardavamo insieme?

Giugno 1868

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