Mario M. Gabriele, Poesie n. 35-41, da Remainders (Progetto Cultura, 2021, pp. 90 € 12), Nota di lettura di Marie Laure Colasson e un Appunto di Giorgio Linguaglossa, Una organizzazione caosfonica, cacofonica e caosferica, l’ordo idearum del nuovo homo sapiens dell’epoca cibernetica

Retro di Copertina di Remainders

Che cosa sia la poetry kitchen lo dice bene la poesia di Mario Gabriele, il capostipite di questo genere di poesia. Poetry kitchen è tutto ciò che resta nella dispensa, nei cassetti dimenticati del frigidaire. Possiamo a ragion veduta dire che Mario Gabriele è hölderlinianamente, pieno di merito e poeticamente abita la terra, proprio come la gallina della cover della poetry kitchen, che becca il mangime lasciato cadere per terra dagli umani. Oggi il poeta è diventato non più e non solo uno «straccivendolo» ma anche un ladro di becchime, usa le parole a perdere della civiltà dello spettacolo e del consumo e le reimpiega; oggi la poesia è un oggetto-da, è fatta da oggetti-da, che provengono dal ciclo della produzione e della sovrapproduzione per finire nella pattumiera che segue al consumo, in questo modo la terra può essere di nuovo abitata e resa abitabile, le parole anche possono essere rese abitabili una volta recuperate e riciclate dalla loro opacità e insignificanza. Banditi per sempre l’epifania, il quotidiano, il sublime, il genere elegiaco con gli ideologemi collegati con chihuahua e smart working, ciò che resta lo fondano i poeti nell’«universo in espansione» con la «porta principale bloccata». Dall’implosione dell’ordine Simbolico quello che ci resta è il misto fritto di una poesia fatta «con uno specchio retrovisore/ recuperando figure in bianco e nero», «gostbusters» e «ologrammi».

(Giorgio Linguaglossa)

Commento di Marie Laure Colasson

Una poesia che ci porta dirimpetto al fondo che fa da sfondo del nostro modo di vivere, una poesia altamente civica perché corrisponde al numero civico che abitiamo, un numero ipoveritativo perché corrisponde alla nostra esistenza privata e anonima, anonima in quanto privata, anonima in quanto distopica. Un pittore come Edward Hopper  trarrebbe vanto da queste poesie, paralipomeni del vuoto a perdere come una scatoletta di Brillo box di Warhol, un aperitivo Crodino o un apericena delle 18.00 in punto quando scocca l’ora della libera uscita degli impiegati dagli uffici. Mario Gabriele quale capostipite della poesia kitchen italiana dà qui il meglio di sé, con una auto ironia affilata quanto inquietante ci conduce nel rumore delle parole, perché la poesia kitchen è solo rumore di fonemi, una rumoresque, rumore di ferramenta, un rumoreggiare non più pallido e assorto, non c’è alcun pallore in queste parole ricche di bric à brac, di monemi e di lessemi di provenienza angloamericana. Ne esce una lingua in volgare, un italiano che non sai se sia una lingua smarrita o una lingua ottusa, pervasa da forestierismi e da innocui bellicismi vocali. Un linguaggio poetico tattico e paratattico che ha smarrito il suo luogo, che forse non ha mai avuto alcun luogo e ha del tutto rinunciato al luogo e al logo. Una poesia ilarissima perché tristissima. Un tristissimum eloquium. Un vaniloquium.  Mario Gabriele ha preso atto che il disordine permanente che attecchisce alle percezioni dell’uomo di oggi è costitutivo del suo essere-nel-mondo, le messaggerie del mondo social mediatico con le sue innumerevoli emittenti ha preso definitivamente possesso dell’ordo idearum dell’homo sapiens, e così replica con una poesia rigorosamente organizzata in polimeri paratattici e disparati, distici un tempo prerogativa del classico vengono catapultati in una organizzazione caosfonica, cacofonica e caosferica. Una tipica poesia della fine dell’epoca della metafisica. Scrive Paul Valéry al Collège de France nel  1937: «Diversi indizi possono far temere che l’accrescimento di intensità e di precisione, così come lo stato di disordine permanente nelle percezioni e nelle riflessioni generate dalle grandi novità che hanno trasformato la vita dell’uomo, rendano la sua sensibilità sempre più ottusa e la sua intelligenza meno libera di quanto essa non sia stata».

35

I ricordi sono bottoni di madreperla
attaccati al blazer di primavera.

Nella rastrelliera c’erano scarti di Poly Max,
e tubetti Kutecur per la pelle lesa.

E’ un’ora che le signorine attendono in sala
l’inizio di CineMusic.

Oggi ho avuto parole tristi
per come Laika se ne sia andata.

New York brucia lungo le strade.
”America quando sarai angelica?”

Una monetina gettata in aria
ci dirà se vinciamo al super-game.

In questo mese di assoluto silenzio
c’è la mostra di Rebecca Warren.

Domani rimetteremo tutto a posto
lasciando l’hotel e il caffè bar.

Qualcosa ha temuto Sophia
se non è venuta ai musei vaticani.

Questo è un altro anno
dove non siamo andati da nessuna parte
a causa di Larry e delle sue infelici stagioni.

36

Fermati Klaus! Rallenta il passo.
Non andare oltre la tramontana.

Cominciano ad arrivare le sfumature in bianco e nero.
Il meteo ha cambiato l’organigramma.

Un altro tsunami in vista? Torna nella tua stanza, Emy,
a salvare la cristalliera con le edizioni Black Panthers.

Puffy dov’è? Non c’è più nella lettiera.
Ore 8 del mattino. C’è sangue nella terra di Abu Mazen.

Il Signor T. voleva farla finita barricandosi in casa
con la donna di Burchina Faso.

Pare abbia la Sindrome di Ménière
dopo il crash sull’autostrada.

Tutto bene? Klaus? Bene proprio no
se ripenso a Rushdie a cavallo di Quichotte.

Sono vivo, più o meno
quando leggo Zerocalcare in Ritorno a Kobane.

Giuditta è diventata anarcoide
con le spallucce curve e le braccia a ramo di pesco.

Venga dott. Brown. Il cuore è in aritmia.
Non vorrei metterle addosso la croce del mondo.

Il posto è diventato oscuro da quando
la signora delle ciliegie ha trovato l’orto devastato.

L’Ispettore Barnabey si è fermato a considerare
i nomi lasciati su vetroresina e marmo: N.U. S. V.
fino a George Floyd e a tutti i legal thriller.

Ristretta in mq 100, la casa al terzo piano,
ascensore e garage, con diritto di superficie,
sarà venduta o ristrutturata in un unico saloon.

Non mancheranno in quel giorno borscht & tortillas,
quando Warhol avrà rifatto il rossetto a Marilyn.

37

Doctor Smith vuole la ricetta elettronica?
Non serve! Così come non sono serviti Radesckyi
e le serenate nei giardini della Geheime Statspolizei.

Ieri sera con l’amico Perry
siamo stati a vedere il ponte di Genova.

Antinori dice che ci passerà con la figlia
dopo essere stata in vacanza con il Signor Huliot.

Da qui all’eternità il passo è breve.
Siamo stati dietro lo Zenith ma non abbiamo trovato Orione.

Un giorno ideale sarebbe come il Mistero buffo
di Majakovskij.

Ecco, ti passo i numeri della fiaba:
La morte di Annele e di Artemio Cruz,
quella di un Commesso viaggiatore e dell’Arcivescovo.

Questa estetica del Nulla fa risvegliare Fedro e Felix Vargas.
Si vis pacem, para bellum.

Di guado in guado passiamo il giorno e la notte.
Camilla chiede Enantyum e l’acido ialuronico.

Le darò una mistura di foglie d’erbolario,
meno la cicuta e l’ibuprofene.

Ci si sveglia lontani dall’Isola che non c’è.
Louis ha cancellato le mail del Giardino dei Supplizi.

Una scarpa che non si trova, un pugno in alto, le aftosi,
la fioriera senza più acqua e l’autobus che non arriva.
Venti dollari la settimana a Eugenia
per portare il labrador nei giardini.

Abbiamo dovuto rimandare ad altra data
il fumo degli arrosti.

Rivediamo il consumo di luce e gas.
Leonor riscopre il Decumano e il Marrakech Express.

Qualche storia di guerra
c’è sempre quando Rose e Kerry
si ritrovano complici e rivali.

Dicono, dietro le quinte, che “i vecchi non muoiono,
un giorno si appisolano e dormono troppo a lungo”.

38

Ormai sta diventando un’abitudine.
Il Soufflè non lo prendi più.

Non rispetti le cadute di stile
con la Signora Carter.

Dimentichi le maiuscole quando scrivi a Robert.
Lo sai bene. Per questo non te ne parlo.

Immagino che anche questa notte
ti sia venuta a trovare La Nouvelle Vague.

Di questo volevo parlarti. Difficile farti capire
la bancarella dei versi frammentati.

Oggi è una giornata con pochi mercatini rionali
e pickup lungo l’autostrada.

Si è trattato di una ripresa di costumi
con il banking money chiuso nei giorni dispari.

Nella xilografia policroma di Katsuschika Hokusai
c’è tutto il mondo che vorresti avere e non hai.

Una sirena parte dall’Hospital People.
Che c’è? Dobbiamo dire Addio a Diletta?

Ottimo questo caffè misto a gocce di Remy Martin.
Un rimedio omeopatico per Carmen Solera non c’è.

Dio, sceso dal letto, riprese a suonare la Balalaika.

39

Un giorno di ectasie e caffeina
con il lato oscuro delle metamorfosi.

Finirono gli antiemetici
e l’azione terapeutica dell’Ayurveda.

Sorin terminò l’ultimo whisky Dalmore
fermandosi alla sigla editoriale di Bolling Prize.

Mancavano la poetica delle cose
e i principi del Laissez-faire.

Ellen non volle fare un Ballo in Maschera
temendo le vertigini.

Il concerto di Ludwig
calmò il rumore di Virulandia.

Si può viaggiare da fermi
anche pensando ai diari di George Orwell.

Tra le Storie del 48
c’era Le coup de Prague di Jean –Luc Fromental.

A far rinascere Banksy
furono le vendite online
ai collezionisti di Hong Kong.

Max ha usato la piattaforma audiolibri
per recuperare le voci perdute.

Le ultime battute non le dirai dicendo:
cari fratelli e care sorelle!

Stando a casa come in un Kibbutz
abbiamo pensato al Muro del Pianto e di Berlino.

Non ci sono parole per nuovi mondi
anche se sfogli il taccuino Live.

L’incubo per Jerome è Jasmin
quando se ne va nel finale di partita.

40

Il regista provò la scena tra teoria e pratica
sul set di Cabaret.

La cicogna preferì partorire altrove
sentite le note del fox trot.

Anche Cheney concluse affari
con la Deutsche Bank in via Largo dei Pini.

Il quadretto familiare si ricompose
e per un anno la Priston Society
non ebbe nulla da ridire.

L’ospite inatteso arrivò con ritardo.
Adesso possiamo ricaricare l’azzurro in cielo.

La grazia è non aver sofferto
con la garrota e il Menabò.

Senza alcuna pretesa di andare in un nuovo tour,
siamo rimasti in una zona off-limits.

Kerouac confessò a Berrigan
che la sua poesia era jazz-pop
fino all’ultimo respiro.

Burton lasciò La Bufera
per un sito d’Art Noveau.

Su un muro della mansarda
c’era un codice C 305368443.

Parker aveva un tic
che sembrava invitare tutti al bar.

Una filmmaker disse: Signore, il regista vorrebbe parlarle
ma non sa come chiamarla.
Si inventi un nome, gli dica che il viaggio è stato duro
e che essere qui è veramente un delitto criminale.

41

Una Jeep Renegade ferma davanti alle VideoNews.
Signorina Borromeo, l’aspettiamo qui
dove meglio si possono leggere i suoi pamphlets.

Esterno. Campo vietato. Bandiere a mezz’asta.
Resiste in classifica
L’Enigma della camera 622 di Joel Dicker.

Meg ha in mente un viaggio all’estero
lasciando la speranza ai poveri e i copecki ai ciechi.

Un Webdesigner accende il PC
per correggere i fogli di Criminal Found.

Rivediamo i Mondi di Oz
anche se Turner lo fa di malavoglia.

Il cane bassotto
non trovò le tracce dell’assassino della piccola Maddie.

Tace la radio Deejay. Non c’è nessuno
che ascolti gli Scorpions.

Tornano in gioco Hamm e Clov
nella Febbre del Sabato Sera.

Volano i tweet. – Andrà tutto bene.
Ne sono sicuro – , disse il tutor su Instagram.

Si è fatto tardi. Silenzio blu notte
con flash mob lungo il colonnato.

Una farfalla muore sul poster di Guernica.
La guardo se mai dovesse volare via.
0864587128 è il nunero del Call Center
per vedere Shining in Homevideo.

-Manca l’attitudine a produrre storie-
riferì il critico all’autore del libro.

Ginsberg, in quarantena, rivolle Howl.

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017), Registro di bordo (2021). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). È presente nella Antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019

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40 risposte a “Mario M. Gabriele, Poesie n. 35-41, da Remainders (Progetto Cultura, 2021, pp. 90 € 12), Nota di lettura di Marie Laure Colasson e un Appunto di Giorgio Linguaglossa, Una organizzazione caosfonica, cacofonica e caosferica, l’ordo idearum del nuovo homo sapiens dell’epoca cibernetica

  1. L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
    Commento di Marie Laure Colasson

    Una poesia che ci porta dirimpetto al fondo che fa da sfondo del nostro modo di vivere, una poesia altamente civica perché corrisponde al numero civico che abitiamo…

  2. letizialeone

    La poesia di Mario Gabriele si manifesta quale unico corpus esorbitante e anomalo nelle poetiche contemporanee, atto artistico e filosofico, o per meglio dire estetico, meta-poesia e gioco d’artificio epistemologico di profonda portata ontologica. Poesia dal futuro, di chi si è tirato fuori dall’emergenza storica, e guarda a distanza dalla prospettiva del drone che sorvola le “diescta membra” della civiltà umanistica e artistica novecentesca. Eppure qui si tratta di “rimanenze” fossili, sebbene così contigue ai nostri indirizzi, alle nostre abitazioni culturali. Poesia civile in quanto caricata di tritolo critico pronto ad esplodere. Scrive bene Marie Laure Colasson: «una poesia altamente civica perché corrisponde al numero civico che abitiamo, un numero ipoveritativo…». Poesia dal vuoto, anzi frivolezza del déjà-vu, direbbe Baudrillard. Poiesis confinante, come scrissi in altra occasione, con esperienze artistiche contemporanee di matrice neo-concettuale, si pensi a certi esperimenti di Anish Kapoor, alla monumentale messa in opera del vuoto delle sue sculture, per esempio. Eppure sostanzialmente diversa: ogni sintagma, frammento, citazione implicita od esplicita, registrazione o traccia comunicativa, (cesellata dalla materia grigia di una continuata interferenza cacofonica di comunicazioni “usa e getta”) è frutto di grande perizia poetica. Una consapevole «decostruzione riflessiva» come ha scritto Linguaglossa (che ha il grande merito di un profondo lavoro ermeneutico sulla poesia di Gabriele). In “Remainders” si opera per riciclaggio di scarti e materiali inerti ma anche di simulacri e prodotti, e la Poesia Kitchen, trafugando simboli, marche di prodotti, fantasmi, cartoni animati potrebbe funzionare come un’analitica strutturale nel nostro esistenziale.
    Perfezione delle forme effimere. Efficacia del paradosso: nel ciclo delle apparenze (e nella moda), scrive Baudrillard, si ritrova quell’innocenza che Nietzsche attribuiva ai greci: «loro si sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie; all’increspatura della scorza, adorare l’apparenza, credere a forme, suoni, parole (..) Questi Greci erano superficiali – per profondità!».
    Allora buona vita al grande Mario Gabriele!

    Un giorno ideale sarebbe come il Mistero buffo
    di Majakowskij.

    Abbiamo dovuto rimandare ad altra data
    il fumo degli arrosti.

    Questa estetica del Nulla fa risvegliare Fedro e Felix Vargas.
    Si vis pacem, para bellum.

  3. Poesia Disneyland, modello perfetto di tutti i modelli di simulazione deiettati nello spazio dell’immaginario iperbolico.
    Una Grande Disneyland, con le sue montagne russe, le sagome per le fucilazioni,i navigli dei corsari e gli autoscontri, pirati contro cow boys, bambole di polistirolo contro Machi Superstar… Nembo Kid contro Klint Eastwood…
    Metalinguaggio degenerato della seduzione, mescolato al metalinguaggio degenerato del politico, mixato al metalinguaggio degenerato del poetico; metalinguaggio di metalinguaggio, kantianamente senza finalità, senza scopo, senza mittente e senza destinatario con tanto di ordine di cattura dell’immaginario e dell’ordinario; metalinguaggio senza interesse per materie prive di interesse, metalinguaggio come gioco d’artificio fine a se stesso, metalinguaggio come via di fuga dai linguaggi del normologismo di oggi, membra disiecta più che frammenti, dissezione più che confusione, caosfusione più che o meno che di ciò che si esime dalla normologia applicata… alla prigione all’aria aperta del nostro mondo, come diceva il filosofo Adorno in tempi non sospetti, negli anni cinquanta…
    Simulazione di Disneyland è il modello perfetto di questo tipo di poesia. Poesia della simulazione dissimulata. Poesia della dissimulazione simulata. Poesia della simulazione di significazioni, poesia di gadget, di loghi e di marchi… e di marchette culturali, poesia di rifritture e di marchettifici, poesia di packaging di spettri e di loghi. È questa la poesia minimarket del nostro mondo logografico e logologico.

  4. Mimmo Pugliese

    SUL PARAPETTO

    Sul parapetto del ponte c’è la sera
    ha indosso un abito di gramigna
    aspetta la pioggia o forse un amante
    che la porti a cena con i droni.

    Un aereo è pronto al decollo
    le sue ali sono coltelli aratri
    quando tremano le fondamenta
    e i polsi si consegnano alla sorte.

    Bulbi e licheni non hanno sangue
    invadono la strada oltre il cancello
    uccidendo consapevolmente
    quello che da bambini pareva uno zoo.

    Tutte le sedie sono al loro posto
    il parcheggio è pieno di giorni
    nuvole senza cielo mordono
    gomitoli di canapa diventati roveti.

    Pochi sguardi sghembi bastano
    per vedere insieme pipe e piume
    consumare le creste delle montagne
    intrise di nervi e vasi sanguigni.

    • Mimmo Pugliese

      MImmo Pugliese. Nato nel 1960 a San Basile (Cs) , paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato , nel maggio 2020, “Fosfeni”, edito da Calabria Letteraria- Rubbettino, una raccolta di n. 36 poesie.

    • Per le cinque strofe di Mimmo Pugliese, (così come per i testi di Mario Gabriele e per la ermeneutica su di essi puntuale, rigorosa di Letizia Leone, Marie Laure Colasson, Jacopo Ricciardi e Giorgio Linguaglossa)
      suggerisco di approfondirne la lettura nel rapporto dialettico-osmotico fra parola/ immagine non necessariamente in senso ecfrastico ma nel senso del pensiero centrale di Andrea Emo.

      Emo scrive:
      «In principio era l’immagine e per mezzo di essa tutte le cose furono fatte: l’immagine è in principio (creatrice e creatura della sua negazione).
      […]Noi, svolgendo la nostra vita e avendone coscienza, la rappresentiamo mediante immagini.
      […] Noi creiamo immagini; la nostra conoscenza è continua creazione di immagini. […]
      Ogni immagine tende sempre a trasformarsi in azione, appunto perché rivela la possibilità, l’attitudine ad un’azione; ed un’azione dopo avere in sé assorbite e distrutte le immagini […]permette il sorgere di nuove immagini».

      Mimmo Pugliese nei suoi versi parte dalle immagini, da immagini come correlativi oggettivi, le quali invocano le parole giuste, le parole esatte, né in eccesso, né in difetto.

      Credo che Mimmo Pugliese, legato anche al fenomeno linguistico del trans-linguismo, lo suggeriscono le sue origini italo-albanesi , sia in viaggio verso la sua autentica patria linguistica che, in pieno accordo con Giorgio Linguaglossa, si identifica e coincide con quella porzione di mondo delle “parole-abitate” dal poeta…

  5. Jacopo Ricciardi

    Se l’ego dell’autore scompare o semplicemente è assente, è chiaro che le parole e ciò a cui si riferiscono sono immediatamente loro stessi, liberi di esistere con il loro universo specifico di ‘cosa’ sola. Così non essendoci più l’ego che le sminuisce, le parole e le ‘cose’ cui si riferiscono offrono esattamente se stesse, sole, isolate, universali frammenti, di una concretezza che sposa la ‘cosa’ della parola e che è ‘cosa’ di una realtà vera. Verità che si realizza concreta e fisica, attivando i sensi, proprio perché l’essenza di quanto materialmente esiste è in realtà mentale. Quindi la mente incontra se stessa in modo tanto naturale in un frammento di Mario Gabriele, che la cosa del frammento è mentale ma anche fisica nella materia attraverso la mente. Ma non c’è fine nella concretezza tout court, bensì questa è talmente naturale e concreta mentalmente che fa sentire il luogo della natura mentale in cui i frammenti e le ‘cose’ nascono. La falsità è definitivamente vera, e la mente si libera e prova godimento, questo accade alla lettura di una poesia di Mario Gabriele.

    I fatti raccontati da questi versi accadono nell’indeterminatezza della mente, e non hanno la determinatezza univoca (temporale e spaziale) di un fatto materiale raccontato nel mondo univoco fuori dalla mente. Fuori dalla mente le cose accadono con precisione e unicità, bloccate in un tempo e uno spazio. Invece nelle poesie di Mario Gabriele i fatti appaiono senza quella determinazione univoca esterna, ma appunto appaiono in una perdita di tempo e di spazio, e in una possibilità di tempi e di spazi, ogni ‘cosa’ può essere un’altra ‘cosa’, eppure “Fermati Klaus. Rallenta il passo.” primo verso della poesia 36, o “Doctor Smith vuole la ricetta elettronica?” primo verso della poesia 37, o “Ormai sta diventando un’abitudine.” primo verso di 38,  o “Un giorno di ectasie e caffeina” primo verso della poesia 39, o “Una Jeep Renegade ferma davanti alle VideoNews.” non hanno niente di particolare e niente in questi versi ci aiuterebbe a capire la loro particolarità. Tenendo conto che spessissimo i primi versi di ogni breve strofa non brillano di alcun particolare creativo. Sapere che sono dei frammenti con tutta l’importanza che gli si attribuisce teoricamente non aiuta l’esperienza di letture di questi versi. Eppure questi stessi versi hanno sfumature che li rendono vivi nella mente. Ma come raggiungere questa vitalità (ebollizione) mentale che procurano? Essi sono frammenti già da soli ma lo divengono sempre dal salto impossibile che li lega al secondo verso e oltre nella stessa frase o in più tronconi di frasi. Per esempio “Un giorno di ectasie e caffeina/con il lato oscuro delle metamorfosi.” dove le ‘cose’ tra un verso e l’altro iniziano a formare una rete neurale tra loro nel vuoto mentale che viene abitato. E tanto è il vuoto che c’è tra i due versi che restano connessi che essi fanno apparire il vuoto tra le parole e le ‘cose’ dei versi, e ogni verso si popola di possibili (mentali) connessioni neurali. Un salto mentale tra primo e secondo verso genera salti mentali tra le ‘cose’ parole. Queste connessioni neurali tra parole si scambiano e mutano e si rinnovano; si arriva a un punto nella rilettura in cui la parola “oscuro” del secondo verso popola l’oscurità della mente, colta nella sua concreta dinamicità.
    Ogni strofa è autonoma e trova nei versi successivi al primo il motore di connetterli nella mente come fattori mentali, come ‘modi’ mentali. Quindi questo tipo di poesia richiede l’attivazione della mente come spazio autonomo e vivo e visitabile e abitabile con la poesia. Il testo insegna alla mente ad aprirsi in quanto luogo o vuoto, e in questo stato di mente aperta e viva il testo funziona immediatamente come fatto di rigenerazione neurale tra le ‘cose’ parole. La lettura a questo punto è immediata nel godimento della mente che gode di se stessa. E mai si stanca di questo processo perché Mario Gabriele adotta una impossibilità di contatto di senso tra versi, o brani di verso e parole, che generano i frammenti, che strutturalmente non è mai uguale e varia, per esempio addirittura “Ieri sera con l’amico Perry/siamo stati a vedere il ponte di Genova.” dove la strofa è plausibile nel senso, ma se messa nello stato di apertura del vuoto della mente già il nome Perry si dissolve per tempi e spazi perduti e come tale si mostra attivo, la “sera” la mente la sente come connessione instabile e pluri concreta, e il “ponte” è diviso in tre nel tempo tra i due ponti (prima del crollo e ricostruito) e il ponte distrutto e il tempo stesso è trino (fuori da ogni religione), oscillante tra l’uno e l’altro, e questo non sapere il tempo li tiene tutti e tre a galla nella mente, e la mente respira una propria aria naturale di verità.

  6. «I fatti raccontati da questi versi accadono nell’indeterminatezza della mente», scrive Jacopo Ricciardi.
    Concordo. La mente agisce come un ricettacolo di sintagmi, di resti linguistici, di in put, di post it. Fino al punto che tutti questi sintagmi morti vengono dispossessati, disappropriati, e finalmente possono essere di nuovo fatti propri, appropriati, in quanto ripristinati a nuova vita, seppur larvale.

    Per Agamben la lingua è ciò che vi è di più intimo e proprio, e però essa avviene al parlante dall’esterno, deve essere appresa, e viene imposta all’in-fante; essa è, inoltre, per definizione condivisa da altri ed è oggetto, come tale, di uso comune. Essa sembra naturale e quasi congenita; e tuttavia come testimoniano i lapsus, i balbettamenti, le improvvise dimenticanze e le afasie «essa è e resta sempre in qualche misura estranea al parlante».
    I poeti:

    «devono innanzitutto abbandonare le convenzioni e l’uso comune e rendersi, per così dire, straniera la lingua che devono dominare, iscrivendola in un sistema di regole arbitrarie quanto inesorabili, straniera a tal punto, che secondo una tenace tradizione, non sono essi a parlare, ma un principio divino (la musa) che proferisce il poema a cui il poeta si limita a prestare la voce. L’appropriazione della lingua che essi perseguono è, cioè, nella stessa misura una espropriazione, in modo che l’atto poetico si presenta come un gesto bipolare, che si rende ogni volta estraneo ciò che deve essere puntualmente appropriato».2

    L’uso è quindi un campo di tensioni tra l’appropriazione e l’espropriazione, in cui la lingua viene trasformata fino a diventare nuova e irriconoscibile. Ed è proprio per questo che la lingua è, heideggerianamente, la «casa dell’essere», nella cui dimora abita l’uomo: come paradigma dell’uso, essa illumina l’inoperosità come potenza specificamente umana, espone, nell’uso, la «potenza» del corpo umano, e lo apre anuove possibilità. Proprio come «usare», anche «parlare», significa «incessantementeoscillare tra una patria e un esilio: abitare».3

    1 G. Agasmben, L’uso dei corpi, 2014, p. 121
    2 Ibidem p. 122
    3 Ibidem p. 123

  7. Il diritto e la religione sono nati, infatti, per cercare di legare le parole alle cose, alla poiesis il compito di scollegare i due terminali, le parole dalle cose, per ricollegarle in un altro modo. Est modus in rebus!

  8. “Dicono, dietro le quinte, che “i vecchi non muoiono,
    un giorno si appisolano e dormono troppo a lungo”. -M.M.Gabriele-

    La barba che pende dai rami ha la punta sommersa,
    la semina vuota sconnessa che vortica nei solchi operai.
    *

    (ci sono nei frammenti dei semi iperattivi che generano vita
    che ancora assecondano la stessa poesia. Generare nell’inganno.
    Generare per errore, in nome di un padre sconosciuto, di una regola
    universale, generare per imperfezione.

    Nei solchi della frammentazione, dei versi in distici, della contaminazione seriale, nei versi di M.M.Gabriele, si ravvisano ancora germinazioni valide,
    “civili” che corrispondono a semi inoculati e sfuggiti agli stessi scarti, al riciclaggio continuo e che ancora riescono a far esplodere poesia.)

    • mariomgabriele

      Grazie,
      Mauro Pierno del tuo intervento, che non sono sono riuscito a inserire perchè pubblicato quasi contemporaneamente.

  9. mariomgabriele

    Non so se dopo queste formulazioni culturali ed estetiche, espresse da critici e lettori, con i loro principali temi di riflessione sui miei testi, disvelati nel loro stato larvale, i cui termini dissolventi si ricompongono in una nuovo -asset- formale, con evidenti assorbimenti in tema di linguistica e fonologia, possano seguirne altri, da parte di nuovi interlocutori. Una cosa è certa, e che su codesta nave ammiraglia ci sono Ufficiali di Crociera che hanno saputo attraccare la -poesia, su porti sicuri.
    L’atto linguistico di un poeta è un coagulante le cui piastrine fermano ogni dissanguamento lessicale, se tenuto nei giusti termini e valori di un emocromo lessicale, con i giusti rapporti naturali e fisiologici tra le varie analisi estetiche.
    Riconosco che la quadrilogia da me iniziata con l’Erba di Stonehenge (a cui Giorgio Linguaglossa e Letizia Leone hanno espresso il meglio della loro “personalissima Nouvelle critique), seguita poi da In viaggio con Godot, Registro di bordo e ora da Remainders, è un papiro composto di tanti geroglifici linguistici, che si avvalgono, ciascuno per proprio conto, di schermature differenti onde evitare l’autodissolvimento.
    La verità è che oggi hanno preso forma le schermature politiche, economiche, imperialiste, e la letteratura ne segue il ritmo sostanziale senza alcuna soluzione alternativa.
    Il poeta, nell’atto dello scrivere, è un costruttivista architettonico della forma a cui si aggiungono i pilastri metaforici di vario genere, resi solidi da diverse culture, citazioni, frammentismo, ideologia, filosofia, e via dicendo, come fondamenti di una società al limite della coscienza infelice, resa oggi ancora più collettiva con il Covid19.
    Freud ci ha insegnato una cosa: CAPIRCI DENTRO”,
    trovare nell’Arte, nella Pittura, nella Scultura, nella Filosofia, ma anche nella Scienza, il nostro divario tra ciò che è, e ciò che non è. Il percorso è difficile tanto che già da adesso si intravvedono Hacker e Guerrieri,
    mentre in altre parti periferiche si cominciano a vedere perlustrazioni nell’estetica relazionale, come stanno facendo i maggiori produttori di collettivi d’Arte dalle varie sigle extraeuropee e perché no anche con la poesia Kitchen o Buffet. Qui mi fermo riconoscendo tutta la mia ammirazione per Marie Laure Colasson, Gino Rago e Jacopo Ricciardi che hanno dato un ulteriore elemento conoscitivo dei testi da non lasciare vuoti spazi e friabilità gnoseologiche.

  10. TRAVERSATA DI NUMERI A PARTE

    I primi al comando. Il trend Atlantico
    E dunque il veleno di Messalina per Nerone

    Tutti nello stesso seme e che la schiusa sia perfetta.
    Prendetene tutti, due pesci si moltiplicano per tre bachi e la rete cala giù.

    Pescheremo lune dal lato sordo della galea.
    Forse un tonno saprà di tromba.

    Il capodoglio ucciso nell’ esofago riprende fiato.
    Reclama un cuore dall’Orsa Maggiore.

    Cos’è questo vestito di struzzo?
    Prima o poi nasceranno denti a sciabola.

    Molte primavere divorarono le stesse cifre:
    La sposa del mandorlo ha tette rifatte
    E il ciliegio adora il pigreco

    Stanotte si fa surf alle matrici
    Domani affronteremo l’Americas’ Cup.

    Una lucciola vale Mandrake
    E la credenza è luogo adatto per Pigafetta.

    Destino è friggere finchè l’oro non si separi.
    Impanare e deglutire l’ algebra di Boole.

    Una barca di Caronte nel coledoco.
    Vidi cose che voi umani immaginate in un cucchiaio.

    Registri di bordo mangiucchiare vermi
    Pellerossa su stoviglie d’alluminio

    Tutti in riga però
    Affrontando bisonti e capo Horn.

    Furono siringhe a organizzare il picnic
    Alle otto, si disse, o si muore senza audience
    Così indossammo scarponi e montature nere sulle occhiaie

    Giulio Cesare scese dalla cinquecento
    In mezzo a noi con la gonna di Barby.
    Un figurone da grattarsi il ventre.

    Questa volta invece ci travestiremo d’asparagi
    E una fava avrà il posto di Violetta

    Esca dal mazzo a implorare il cavolfiore
    Aprile è il mese giusto. Dopo c’è marzo

    Se ci aggrada abbiamo possibilità
    Di rientrare in una cover.

    La terra divisa in spicchi d’aglio
    un ritorno di Magellano sulla lingua

    puzza di finisterrae
    la mitraglia al posto dell’alabarda.

    (Francesco Paolo Intini)

  11. A proposito del nome di Dio (atto performativo o speech act)

    Scrive Carlo Salzani in
    https://www.academia.edu/14325340/Il_linguaggio_%C3%A8_il_sovrano_Agamben_e_la_politica_del_linguaggio

    In un saggio pubblicato nel 2005, «Parodia», Agamben definisce l’ontologia come «la relazione – più o meno felice – fra linguaggio e mondo» .

    «Ogni nominazione, ogni atto di parola è… un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s’impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che in esso si realizza» (AGAMBEN 2008b: 63).

    Con il passaggio al monoteismo il nome di Dio nomina il linguaggio stesso, è il logos stesso a essere divinizzato come tale nel nome supremo, attraverso il quale l’uomo comunica con la parola creatrice di Dio: «il nome di Dio esprime, cioè, lo statuto del logos nella dimensione della fides – giuramento, in cui la nominazione realizza immediatamente l’esistenza di ciò che nomina» (AGAMBEN pp. 71-72).

    Questa struttura, in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato, è quella che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» ( speech act; cfr. AUSTIN 1962), e «io giuro» è il paradigma perfetto di un tale atto. Collegando l’analisi di Usener alla teoria di Austin, Agamben sostiene che i performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere». (pp. 74-75)

    La struttura denotativa e quella performativa del linguaggio, conclude Agamben, non sono caratteri originari ed eterni della lingua umana, ma appartengono pienamente alla storia della metafisica occidentale, che egli fonda appunto nell’esperienza di parola che individua nel giuramento. Con la «morte di Dio» (o del suo nome), questa storia sta giungendo a compimento, come mostra anche la contemporanea decadenza del giuramento nelle nostre società (nota che apre e chiude il libro). Una vita sempre più ridotta alla sua realtà puramente biologica e una parola sempre più vuota e vana segnano il momento critico in cui la metafisica, e con essa la sua politica e il suo linguaggio, dovranno arrivare a una svolta e a una trasformazione.

    Cfr. Giorgio Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza (2008)

  12. Stante quanto sopra, che lo speech poetry sia ridotto alla registrazione di uno stato-di-cose, come appare evidente nella poesia di Francesco Paolo Intini ma anche nella poesia di Mario Gabriele e, in genere, nella poetry kitchen, penso sia un fatto auto evidente.

    Nella poetry kitchen il linguaggio dismette l’abito denotativo-semantico per aggiudicarsi un abito meramente indicativo-nomenclatorio.
    Ed è questo, penso, l’aspetto rivoluzionario della poetry kitchen.

    Il momento dello sbalordimento e del terrore è il momento in cui l’homo sapiens si accorge di avere un linguaggio.

    • Scrive Agamben che i poeti:

      «devono innanzitutto abbandonare le convenzioni e l’uso comune e rendersi, per così dire, straniera la lingua che devono dominare, iscrivendola in un sistema di regole arbitrarie quanto inesorabili, straniera a tal punto, che secondo una tenace tradizione, non sono essi a parlare, ma un principio divino (la musa) che proferisce il poema a cui il poeta si limita a prestare la voce. L’appropriazione della lingua che essi perseguono è, cioè, nella stessa misura una espropriazione, in modo che l’atto poetico si presenta come un gesto bipolare, che si rende ogni volta estraneo ciò che deve essere puntualmente appropriato».1

      1Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, Vicenza, Neri Pozza 2014, p. 122.

  13. Inedito di Mario M. Gabriele

    da http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-6/?fbclid=IwAR3RK7qBq-5OAOBxD5hQmazOO8vvDUsrGpDEz9xFjpuBUlYaEf4gcfVR6aI&doing_wp_cron=1618304775.2853360176086425781250

    Sally ha separato la Bibbia in due parti:
    la vera da quella falsa.

    L’attitudine a produrre storie
    ha fatto di Ramirez
    il miglior regista di Puerto Escondido.

    L’Ufficio oggetti-smarriti
    ha ritrovato Anna Katarinova.

    Il tormento s’affossa nel ricordo
    ed è il punto più oscuro di una colonia di figure.

    Percorso del Tempo: andata e ritorno dell’Universo:
    data 2 Novembre, 2020 da D.R. Multiservice.

    Egregio Signore,
    con la presente, la nostra Società la invita a rispettare
    la data di scadenza relativa alle lampade votive accese ai morti.

    Melania hai parlato col regista?
    E che ti ha detto? Cosa pensa di fare
    con la tua storia in videogame?

    Fermarci è stato duro quest’anno.
    Molte cose sono rimaste nel fondo del trolley.

    La vita è uno stato mentale,
    la qual cosa ha fatto di Jerzy Kosinskj
    un docente di teleipnosi.

    Ho una pattuglia di anni che ha fretta
    di andare altrove.

    Non è macinando l’uva di novembre
    che riuscirai ad avere in modalità blended
    un vino dorè.

    Zia Ester, esperta sui social in estetica digitale,
    chiede perché le si sono scucite le anche.

    Girerò così poco questa estate
    che vien voglia di restare sul balcone
    con il gatto Manosckji a catturare i magnifici Ghost.

    • mariomgabriele

      “Ho una pattuglia di anni che ha fretta
      di andare altrove”. Qui il logos è chiaro, meno evidente è il locus non esposto, perché metaforico Tu, caro Giorgio, ne hai decriptato il senso del geroglifico nascosto, riportandolo fuori dalla sua archeologia e temporalità.

  14. Poetry kitchen

    La rivoluzione linguistica non sta nella distruzione della tradizione e nella creazione ex nihilo di una nuova tradizione, ma nella sua dismissione, che dis-mette, lascia cadere la tradizione e, con questo, rende possibile la sua innovazione.

  15. Tiziana Antonilli

    La prima considerazione da fare è che i testi di Mario Gabriele sono fulminanti, leggerli e rileggerli provoca una scossa benefica.
    Giorgio Linguaglossa, inoltre, mi ha fornito due spunti di riflessione. Il primo riguarda le definizioni usate per la poesia kitchen, di cui Mario Gabriele ci offre una prova eccellente . ‘ Poesia di gadget, di loghi, di marchi’. Invito, a questo proposito, a guardare l’opera di Ashley Bickerton dal titolo’Tormented Self-portrait’ (1988). Il nostro autoritratto viene reso come un assemblaggio di loghi e di marchi, le nostre scelte di consumo ci definiscono, pare dire l’autore. A proposito di Disneyland ( il modello perfetto di questa poesia è Disneyland, scrive Giorgio ), ricordo quello che mi disse la mia amica veneziana: sai, oggi Venezia è come Disneyland. La poesia kitchen sta alla
    poesia tradizionale come Disneyland sta a Venezia ?

  16. milaure colasson

    Scrive Giorgio Agamben:

    «Ogni nominazione, ogni atto di parola è… un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s’impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che in esso si realizza».
    (AGAMBEN, Giorgio [1982], Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, terza edizione accresciuta, Torino, Einaudi 2008, p. 63)

    Nella poetry kitchen la nominazione è invece un atto gratuito, scambiabile con qualsiasi altro atto linguistico. E in questa interscambiabilità e gratuità si può misurare come e quanto la parola kitchen sia distante dal “giuramento” di cui parla Agamben, e il motivo è semplice: nella poetry kitchen non c’è più corrispondenza tra le parole e le cose.

    Ci troviamo nella Disneyland dove le parole sono finalmente libere, sono state liberate dalle cose. E c’è allegria.
    Forse è questa la fine della metafisica. Forse è questa la condizione ontologica nella quale ci troviamo nella attuale fase della nostra civiltà.

  17. Nanin si è invaghita di Petty, l’uccello di Madame Colasson, Nanin si abbandona al flusso di coscienza.
    Gino Rago
    *
    La gallina Nanin e l’Uccello Petty di Marie Laure Colasson

    La gallina Nanin è ubriaca e comincia il suo flusso di coscienza.

    La gallina Nanin.
    «Adesso basta, non voglio più sentire
    per tutto il giorno il blaterare di mio papà
    che si lamenta come un bambino
    a cui hanno rotto il trenino
    e la trombetta della Befana
    non voglio perdere la mia tranquillità!
    Adesso gli fo vedere io!».

    Intanto, accade un fatto strano.
    Il poeta pentastellato Lucio Mayoor Tosi ha perduto la camicia a righe.
    La cerca.
    Si accorge che anche i colori in acrilico e i pennelli non ci sono più.
    Cerca di qua, cerca di là.
    La Fiat Panda del 1985 non c’è più.
    Era parcheggiata davanti casa.
    Anche il berretto verde con la stella dei Cinque Stelle non c’è più.
    Sono scomparsi anche i pantaloni.
    Gli hanno lasciato le mutande.
    La cover della gallina Nanin non c’è più, è scomparsa anche lei.
    Qualcuno l’ha trafugata.

    Che è che non è il pittore penta stellato interpella
    il critico Linguaglossa dell’Ufficio Affari Riservati.
    Chiede l’intervento dei blucerchiati,
    gli ispettori segreti dell’Ufficio Segretissimo.
    Intervengono gli ispettori che acciuffano la gallina Nanin
    che attraversa la strada di Candia Lomellina,
    la ammanettano e la riportano dal suo legittimo proprietario.
    Cosa fatta capo ha.

    La gallina allora manda un sms alla pittrice Marie Laure Colasson,
    le dice che è stata sequestrata dagli agenti di quel manigoldo di Linguaglossa,
    che renderà edotto della questione il nuovo Presidente del Consiglio
    Mario Draghi… E chi più ne ha più ne metta.
    Comincia il flusso di coscienza.
    Scrive:
    «Non me ne importa nulla/ se tornando a casa/ troverò porta e finestra chiuse/ se nessuno distinguerà i rumori delle ali/ se il mio papà non saprà chi sono/ perché sempre mi diceva/ non metterti/ in cammino/ non partire se intendi tornare/ non m’importa nulla del maestro/ di Margherita/ di Molly, di Lolita/ non voglio diventare come loro/ per sempre ferme nelle stesse pagine/ negli stessi libri/ credevo di essere nelle grazie/ del presidente Mario Draghi e della sindaca pentastellata di Roma/ ma non mi hanno dato un baiocco/ hanno paura di tirar fuori quattro soldi per lo spirito/ da ardere/ Dio ci scampi e liberi anche di Madame Bovary/ e dei suoi mali che racconta a tutti/ Dio ci scampi e liberi / anche della Meloni, di Salvini/ di Angelo Maria Ripellino, di Franco Fortini/ di Saba, Ungaretti e Pasolini e delle loro manie/ di far sempre i soliti discorsi / di terremoti/ maremoti/ borgatari/ baraccati/ proletariati/ rivoluzioni culturali e fine del mondo…/ non voglio stare in questo secolo/ e ho le scatole piene/

    anche di Anna Achmatova/ e del cucù dell’orologio/ voglio interferenze/ influenze/ ibridizzazioni/pasticci/ disturbi/ contaminazioni/ gli elegiaci/ i lirici/
    è meglio che vadano all’ospedale/ dove tutto è sanificato / ma / qui lo dico/ anzi lo grido/ che mi ci vorrebbe/ forse un mese per cacciarglielo bene in testa/ma che razza di paese è questo/ sono ammalata cronica/ soggetto fragile/ e il Generale Figliuolo non manda nessuno/ né Moderna né Pfizer/ tanto lo sanno tutti che con AstraZeneca io non mi vaccino… ».

    Intanto, a Piazza Navona zampetta tra i turisti l’amante segreto
    della gallina, il piccione Calimero (perché è tutto nero)
    che ha dei baffi da dittatore
    e che frequenta i cassonetti della Capitale.
    Cerca la gallina di Lucio Mayoor Tosi.

    Madame Colasson tira fuori dalla borsetta Birkin un foglietto e una matita.
    Scrive un messaggio al direttore dell’Ufficio Affari Riservati
    di via Pietro Giordani, il critico Giorgio Linguaglossa:
    «La gallina Nanin va ricoverata,
    bisogna mandarla in un centro di disintossicazione linguistica.
    Non si contano più i suoi flussi di coscienza,
    delira,
    non sa da che parte stare,
    confonde lo spettro solare di Newton
    con la teoria dei colori di Goethe…
    Intervenire con la massima urgenza,
    con l’atelier alla Circonvallazione Clodia,
    i Notturni con le sedie pitturate,
    e Strutture dissipative con la poesia milanese. .. ».

    La gallina Nanin si scola una bottiglia di grappa barricata.
    Interviene il commissario Montalbano.
    «Signora Nanin, apra subito la porta. Deve seguirci
    al commissariato della Garbatella,
    non opponga resistenza, siamo agenti speciali dell’antiterrorismo.
    Il direttore dell’Ufficio Affari Generali, il critico Giorgio Linguaglossa,
    vuole interrogarla.
    Lei è accusata di schiamazzo notturno contro l’elegia,
    disturbo della quiete notturna,
    improperi contro l’idillio e terrorismo parolaio
    avverso agli aggettivi qualificativi del mini canone lombardo!
    Si arrenda!
    Getti la pistola!».

    Irrompe sulla scena Sherlok Holmes.
    Scende da un taxi giallo-verde guidato da un cappello senza testa.

    «Signor Linguaglossa, liberi subito la gallina Nanin
    e la sostituisca con l’uccello Petty di Madame Colasson
    così sabotiamo il pentastellato Lucio Mayoor Tosi
    e la cover dell’Antologia Poetry kitchen!».

    Marie Laure Colasson scrive un altro biglietto:
    «Egregio poeta Gino Rago,
    il problema è che non c’è alcuna “esperienza originaria”
    che possa essere resuscitata,
    siamo noi che dobbiamo andare alla ricerca delle immagini
    e delle parole equivalenti
    lungo l’asse sinonimico e metaforico.
    Non c’è un’anima che è la guardiana della originarietà,
    l’anima, se c’è, è un repertorio di cose senza parole
    che devono indossare un vestito di parole.
    Notte stellata su di Lei,

    À la prochaine fois, d’accord ?».

    • Gino Rago come nelle favole antiche, raccontandoci le vicissitudini della gallina Nanin e dell’uccello Petty, opera in una situazione ontologica tipica della modernità avanzata in cui i segni linguistici si sono moltiplicati a dismisura, senza fine e senza alcuna finalità se non l’uso improprio che ne fa la società della comunicazione infinita. Al contrario di quanto invece accade in un orizzonte linguistico primitivo – uno stadio nel quale lo scambio rituale di dono e contro-dono i segni linguistici sono contingentati entro la cornice di una diffusione limitata – dove i segni si trovano in una condizione privi di libertà di produzione e di uso.
      Il poeta calabrese invece crea un duplice spazio: per un verso quello delle «parole liberate», usabili secondo il proprio desiderio e circolanti come valore di scambio; per l’altro verso quello in cui le parole non hanno né valore d’uso né valore di scambio ma vivono in un luogo dove la disponibilità del materiale linguistico è riservata all’uso simbolico.
      Il poetico simula nel linguaggio una situazione non ragguagliabile a quella delle società primitive, stabilisce una festa dello scambio e del dono come nella circolazione incessante di scambio/dono, l’unico stratagemma che consente di adire a una ricchezza inesauribile che non ammette il residuo. L’opulenza del linguaggio lascia il posto all’efficacia simbolica dei segni. Proprio come nelle formule pronunciate dagli sciamani che si servono di particolari e determinate parole magiche che operano direttamente sul mondo, nello scambio rituale simbolico della poesia kitchen avviene una simmetrica e risolutiva restituzione a beneficio di un senso non più subordinato al referente e al suo valore d’uso. Gino Rago opera una rivoluzione dove il poetico può liberamente espandersi, mette in atto una sovversione che stermina il valore d’uso e attua la reversibilità totale del senso. Attraverso questo percorso la commutabilità dei termini e la loro equivalenza vengono meno. Rago abbatte ogni possibilità che ci sia un residuo. La funzione della poesia, la sua utilità non è più accidentale ma necessaria allo scambio perpetuo della parola con un’altra parola la quale fa sì che si avvii una rispondenza nello scambio perpetuo, una vera e propria festa della parola, una festa che ci rammenta le parole di Benjamin della lingua degli uccelli che si parla la domenica festiva, tra gli alberi e le nuvole.

  18. milaure colasson

    Scrive Linguaglossa:
    Il momento dello sbalordimento e del terrore è il momento in cui l’homo sapiens si accorge di avere un linguaggio.

    L’homo ciberneticus
    Il momento dello sbalordimento e del terrore è il momento in cui l’homo ciberneticus si accorge di non avere un linguaggio.

  19. ricordo quello che mi disse la mia amica veneziana: sai, oggi Venezia è come Disneyland.
    (T,Antonilli)

    Ho una pattuglia di anni che ha fretta
    di andare altrove.
    (M.M.Gabriele)

    Se ci aggrada abbiamo possibilità
    Di rientrare in una cover.
    (F. P.Intini)

    La barba che pende dai rami ha la punta sommersa,
    la semina vuota sconnessa che vortica nei solchi operai.
    (M.Pierno)

    Il momento dello sbalordimento e del terrore è il momento in cui l’homo sapiens si accorge di avere un linguaggio.
    (G.Linguaglossa)

    Ma come raggiungere questa vitalità (ebollizione) mentale che procurano?
    La falsità è definitivamente vera, e la mente si libera e prova godimento,
    (J. Ricciardi)

    In un saggio pubblicato nel 2005, «Parodia», Agamben definisce l’ontologia come «la relazione – più o meno felice – fra linguaggio e mondo» (C.Salzani).

    Eppure qui si tratta di “rimanenze” fossili, sebbene così contigue ai nostri indirizzi, alle nostre abitazioni culturali.
    (L.Leone)

    Ogni immagine tende sempre a trasformarsi in azione, appunto perché rivela la possibilità, l’attitudine ad un’azione; ed un’azione dopo avere in sé assorbite e distrutte le immagini […]permette il sorgere di nuove immagini».
    (A. Emo citato da G. Rago)

    grazie Ombra

    Ricordo quello che mi disse la mia amica veneziana: sai, oggi Venezia è come Disneyland.

    Ho una pattuglia di anni che ha fretta
    di andare altrove.

    Se ci aggrada abbiamo possibilità
    Di rientrare in una cover.

    La barba che pende dai rami ha la punta sommersa,
    la semina vuota sconnessa che vortica nei solchi operai.

    Il momento dello sbalordimento e del terrore è il momento in cui l’homo sapiens si accorge di avere un linguaggio.

    Ma come raggiungere questa vitalità (ebollizione) mentale che procurano?
    La falsità è definitivamente vera, e la mente si libera e prova godimento,

    In un saggio pubblicato nel 2005, «Parodia», Agamben definisce l’ontologia come «la relazione – più o meno felice – fra linguaggio e mondo»

    Eppure qui si tratta di “rimanenze” fossili, sebbene così contigue ai nostri indirizzi, alle nostre abitazioni culturali.

    Ogni immagine tende sempre a trasformarsi in azione, appunto perché rivela la possibilità, l’attitudine ad un’azione; ed un’azione dopo avere in sé assorbite e distrutte le immagini […]permette il sorgere di nuove immagini».

    Grazie Ombra

  20. ad un poeta che mi ha inviato i suoi lavori in lettura ho risposto di leggere bene con attenzione la poesia di Mario Gabriele.
    Lui mi ha risposto che dopo la lettura aveva le idee ancora più confuse, ed io ho replicato che era già sulla buona strada, perché ciò voleva dire che le sue idee sulla poesia, quelle che si teneva stretto, erano già sul punto di sfaldarsi. Che doveva dismettere tutti quei luoghi comuni, lasciarli andare a fondo, fare vuoto nella sua mente. Soltanto a quel punto avrebbe dovuto di nuovo ri-leggere le poesie di Gabriele. Ed ho aggiunto: «devi staccare la spina dalle idee correnti, staccare la spina dalle cose».

  21. antonio sagredo

    Scrive Agamben che i poeti:

    «devono innanzitutto abbandonare le convenzioni e l’uso comune e rendersi, per così dire, straniera la lingua che devono dominare, iscrivendola in un sistema di regole arbitrarie quanto inesorabili, straniera a tal punto, che secondo una tenace tradizione, non sono essi a parlare, ma un principio divino (la musa) che proferisce il poema a cui il poeta si limita a prestare la voce. L’appropriazione della lingua che essi perseguono è, cioè, nella stessa misura una espropriazione, in modo che l’atto poetico si presenta come un gesto bipolare, che si rende ogni volta estraneo ciò che deve essere puntualmente appropriato».1

    Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, Vicenza, Neri Pozza 2014, p. 122.
    ——————————————————————————————————
    ….a mio modo di vedere le cose “poetiche” o di non vederle affatto, Sagredo ha realizzato quanto è scritto nella citazione agambeniana, anzi è andato oltre vanificando il pensiero stesso del filosofo. Si deve saper leggere, e dunque il filosofo ammette la teatralità nella poesia come parte fondamentale e costituente la poesia stessa., poiché il poeta usa spesso e volentieri vari timbri di voce. Il concetto dello straniamento della voce è quel concetto di “straniero ” o “estraneo”, che fa della voce del poeta stesso una latra voce, qui si dice di “musa” ma altrove è il “duende”, e talvolta coincidono. Più affascina la poesia di Sagredo e più è meno compresa la sua sostanza ed essenza, poiché non vengono analizzate a dovere le fonti a cui attinge di continuo, ma non si possono analizzare perché c’è troppa profondità: abissi neri e bianchi, e di grigio non c’è nulla, se non la vacuità del ricercatore.

  22. milaure colasson

    Nell’epoca moderna, che va da Hegel ad oggi, “l’arte è l’Annientante che attraversa tutti i suoi contenuti senza poter mai giungere a un’opera positiva perché non può più identificarsi con alcuno di essi. E, in quanto l’arte è divenuta la pura potenza della negazione, nella sua essenza regna il nichilismo. La parentela fra arte e nichilismo attinge perciò una zona indicibilmente più profonda di quella in cui si muovono le poetiche dell’estetismo e del decadentismo: essa dispiega il suo regno a partire dal fondamento impensato dell’arte occidentale giunta al punto estremo del suo itinerario metafisico. E se l’essenza del nichilismo non consiste semplicemente in un’inversione dei valori ammessi, ma resta velata nel destino dell’uomo occidentale e nel segreto della sua storia, la sorte dell’arte nel nostro tempo non è qualcosa che possa essere decisa sul terreno della critica estetica o della linguistica. L’essenza del nichilismo coincide con l’essenza dell’arte nel punto estremo del suo destino in ciò, che in entrambi l’essere si destina all’uomo come Nulla. E finché il nichilismo governerà segretamente il corso della storia dell’Occidente, l’arte non uscirà dal suo interminabile crepuscolo.”1

    Certo, leggendo la poesia di Mario Gabriele prendiamo atto che siamo arrivati a buon punto nella discesa nel nichilismo. Nella sua poesia cogliamo la poesia nel punto più profondo di quell’auto annientantesi nulla nel quale consiste. Gabriele intende bene che non c’è nulla di serio nel Museo delle collezioni, il nostro mondo è diventato un Museo delle ombre (le collezioni) che comunica con il Museo della spazzatura, C’è un collegamento tra i due Musei. E’ l’eleganza con cui Gabriele pone nel nulla il nulla ciò che fa la differenza… mai una parola, una allusione sulla sua persona, all’io, mai un accenno a quell’involucro che contiene il nulla, con buona pace del pericardio accarezzato e coccolato dai poetini del pericardio e della pericardite e della peritonite. Dalla lettura di questa poesia ne usciamo fortificati, ne esco fortificata. Lo stesso mi accadeva quando leggevo la poesia di Mario Lunetta, e bene ha fatto Vincenzo Petronelli a ricordarlo. Lunetta è stato probabilmente il poeta italiano più importante dopo la generazione dei Pasolini. Auguro a Mario Gabriele di poter essere riconosciuto non soltanto da noi abitanti dell’Ombra ma anche dagli abitanti dello stivale poetico come il poeta più importante di questi ultimi decenni, so che quel che dico risulterà ostico all’uditorio dei poeti del pericardio e della pericardite, ma è quello che penso.

    1 G. Agamben, L’uomo senza contenuto, pp. 86-87

  23. milaure colasson

    Proverei orrore nel parlare di me… non saprei proprio da dove cominciare… penso sia più interessante parlare di altro, dire del mio immaginario, questo sì che lo ritengo interessante. Ma il mio immaginario io non lo trovo se non cercandolo con accanimento. Non potrei mai incontrare il mio immaginario immersa in una sospensione ipnagogica, non so neanche che cosa voglia dire ipnagogico!.
    Le immagini sorgono in me quando io le cerco. Se voi mi chiedeste quali sono le immagini, che so, archetipiche, originali, primordiali o che… io scoppierei in una risata. In me non c’è nulla di archetipico o originario, quelle cose lì dormono il loro sonno profondissimo, e forse è meglio che se ne stiano lì a dormire. Penso che i fantasmi siano più interessanti, ma i fantasmi concreti, quelli realmente esistenti, non so se mi spiego.

    «Le cose non sono fuori di noi, nello spazio esterno misurabile, come gli oggetti neutrali (ob-jecta) di uso e di scambio, ma sono invece esse stesse che ci aprono il luogo originale a partire dal quale soltanto diventa possibile l’esperienza dello spazio esterno misurabile, sono cioè esse stesse prese e com-prese fin dall’inizio nel topos outopos in cui si situa la nostra esperienza di essere-al-mondo, La domanda dov’è la cosa? è inseparabile dalla domanda dov’è l’uomo? Come il feticcio, come il giocattolo, le cose non sono propriamente in nessun posto, perché il loro luogo si situa al di qua degli oggetti e al di là dell’uomo in una zona che non è più né oggettiva né soggettiva, né personale né impersonale, né materiale né immateriale, ma dove ci troviamo improvvisamente davanti questi x in apparenza così semplici: l’uomo, la cosa».

    (G. Agamben, Stanze, p. 69)

    «Il “disagio” che la forma simbolica porta scandalosamente alla luce è quello stesso che accompagna fin dall’inizio la riflessione occidentale sul significare, il cui lascito metafisico è stato raccolto senza beneficio d’inventario dalla semiologia moderna. In quanto nel segno è implicita la dualità del manifestante e della cosa manifestata, esso è infatti qualcosa di spezzato e di doppio, ma in quanto questa dualità si manifesta nell’unico segno, esso è invece qualcosa di ricongiunto e di unito. Il simbolico, l’atto di riconoscimento che riunisce ciò che è diviso, è anche il diabolico che continuamente trasgredisce e denuncia la verità di questa conoscenza. Il fondamento di questa ambiguità del significare è in quella frattura originale della presenza che è inseparabile dall’esperienza occidentale dell’essere e per la quale tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di un’esclusione nel senso che il suo manifestarsi è, nello stesso tempo, un nascondersi, il suo essere presente un mancare. È questo coappartenenza originaria della presenza e dell’assenza, dell’apparire e del nascondere che i Greci esprimevano nell’intuizione della verità come aleteia, svelamento […] Solo perché la presenza è divisa e scollata, è possibile qualcosa come un “significare”; e solo perché non vi è all’origine pienezza ma differimento (sia questo interpretato come opposizione dell’essere e dell’apparire, come armonia degli opposti o come differenza ontologica dell’essere e dell’essente [corsivo nostro]) c’è bisogno di filosofare. Per tempo, tuttavia, questa frattura viene rimossa e occultata attraverso la sua interpretazione metafisica come rapporto di essere più vero e di essere meno vero, di paradigma e di copia, di significato latente e di manifestazione sensibile.»

    (G. Agamben, Stanze, p. 61)

  24. Una Azienda americana ha messo a punto un cocktail di Anticorpi monoclonali.
    Gli anticorpi monoclonali hanno il vantaggio di essere efficaci da subito (anche se la loro protezione è transitoria): potrebbero servire in situazioni, come per esempio un focolaio in una casa di riposo, in cui non c’è tempo di aspettare le due settimane canoniche di reazione immunitaria che richiedono i vaccini.
    Ecco, io penso che la poetry kitchen abbia le stesse facoltà: è in grado di agire da subito, in situazione di emergenza, per liberarci dalle idee consunte e provocare in noi una reazione immunitaria alle idee correnti sulla poiesis senza aspettare i canonici 15 giorni che occorrono ad un comune vaccino.

  25. Se la metafisica – secondo Agamben – non è che l’oblio della differenza originaria tra significante e significato, la fine della metafisica ci pone il problema di pensare una parola che dismette quella frattura, la lascia cadere nel pozzo senza fondo della differenza.
    Si auspica un diverso e originario statuto della parola poetica, un’esperienza della parola che apra lo spazio della gratuità e del dono che non presupponga alcuno scambio di equivalenti.

  26. Guy Debord ha coniato la definizione «società dello spettacolo» nell’omonimo libro del 1967 per indicare lo stadio ultimo e la mutazione qualitativa del capitalismo. Lo “spettacolo”, per Debord, “non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini”; esso descrive l’ultimo stadio dell’accumulazione capitalistica, che vive una sorta di “transustanziazione” del capitale in una forma immateriale, in una fantasmagoria spettacolare. Il capitale giunto ad un alto grado di accumulazione diventa immagine, fantasmagoria, irrealtà.

    Il Grande Spettacolo della poetry kitchen è composto dal fuoco d’artificio delle icone e degli avatar nella cornice di una spazialità plurale. Il mondo è diventato un gigantesco equivoco, un bisticcio plurale dove le parole sono diventate entità modulari e componibili, una serie infinita di icone mobili: poesia puzzle dove il linguaggio continua a vivere in una sfera separata in cui non rivela e non comunica più nulla. La spettacolarizzazione dello spettacolo in fantasmagoria e fuoco d’artificio iconico e linguistico indica senza equivoci lo sradicamento dell’uomo di oggi dalla sua dimora nella lingua, ammicca, accenna a qualcosa come una possibilità: che oltre di essa non sia possibile andare; giunto al suo stadio ultimo di insignificazione non è più possibile neanche la parodia o la auto parodia. Ciò che resta è il pastiche e il patchwork, simulazione e dissimulazione. Forse proprio questo sradicamento estremo può rendere possibile per la prima volta fare esperienza del linguaggio, del linguaggio che comunica se stesso, della stessa essenza linguistica dell’homo sapiens dell’epoca cibernetica, del fatto stesso che in qualche modo si continui a parlare.

  27. vincenzo petronelli

    Ogni occasione di incontro con la poesia di Mario Gabriele è un momento epifanico, un’ermeneutica delle concrezioni profonde, un lessico della trascendenza della parabola dell’esistenza, che esalta il ruolo demiurgico della poesia. Ha assolutamente ragione il nostro Jacopo Ricciardi nell’evidenziare che “i fatti raccontati da questi versi accadono nell’indeterminatezza della mente”: è esattamente l’essenza della “poetry kitchen”, della NOE, la frammentazione della superficie sensibile del reale, per ritrovare in quei lacerti la radice profonda, la monade dell’esperienza umana. Aprire le pagine delle poesie di Mario vuol dire imbarcarsi in un viaggio che si amplia e si accresce ad ogni verso, perché ogni verso, ma addirittura ogni singola parola utilizzata da Mario, essendo una monade, ha un semantica precisa, racchiude in sé una rappresentazione del cosmo. Possiamo solo ringraziare l’infaticabile opera e ricerca poetica di Mario Gabriele, che ci offre un modello affinato ed insostituibile di espressione di “poetry kitchen”, punto di riferimento imprenscidibile per chiunque voglia cimentarsi con una poetica che trascenda i limiti dell’esperienza sensibile. Buona domenica a tutti voi, amici dell”‘Ombra”,

    • mariomgabriele

      Ciò che scrivi, caro Vincenzo, non può che aiutarmi a risolvere un mio problema ed è questo: occorre scrivere poesia alla mia età? Non lo so, ma i versi mi stanno dietro allontanandomi dall’Alzheimer e da ogni depressione psichica. Ai giovani non chiediamo di essere i continuatori di poesia con i tempi che corrono. Adeguiamoci ad essi e partecipiamo con le nostre idee. Un caro saluto e grazie.

      • vincenzo petronelli

        Caro Mario,
        la tua replica è straordinaria e denota l’elevazione del tuo spessore intellettuale, come del resto ho avuto modo di apprezzare in questi anni. Io rispondo risolutamente al tuo quesito – in cui si annida tutta la tua straordinaria modestia – ribadendo l’assoluta necessità che la tua inesauribile vena continui a scorrere attarverso la tua penna. In parte forse, c’è anche – lo dico con ironia ed affetto – un orientamento “Interessato” da parte mia nel dirti questo, non solo perché la tua poesia è per me linfa vitale in questo percorso lungo, ma avvincente e comunque inesorabile, di revisione della mia scrittura, ma anche perché rispondere a questo tuo dubbio, mi permette in qualche modo di offrire risposta anche al mio (mi scuso per l’irriverenza dell’accostamento, ma come premettevo è un’esternazione ironica), di fronte all’incertezza che talvolta mi assale per aver scritto ancora poche cose degne di tale rinnovamento nella mia ricerca, dubbio di fronte al quale rispondo però con un deciso ribadimento. Al di là della boutade e ricollegandomi direttamente al tuo intervento, sono testimone del grande fascino che la tua poesia esercita su giovani cui ho avuto modo di sottoporre la lettura di alcune tue poesie (ho la fortuna di avere una figlia di 14 anni con interessi creativi e contornata da amici con cui condivide le stesse passioni, oltre ad occuparmi con la mia associazione di proposte di letture poetiche per i giovani), che mi hanno riportato commenti entusiastici sulla tua scrittura, dicendo che un tale approccio alla poesia restituisca il piacere della lettura poetica contro la visione sclerotizzata dell’insegnamento scolastico e che il tuo modo di scrivere è “beat”, “rock” “cool”, giocando a loro volta con il tuo registro metalinguistico. Caro Mario, la tua poesia è un bene prezioso, cui penso non si possa rinunciare.
        Un caro abbraccio.
        Vincenzo

        • mariomgabriele

          Caro Vincenzo, grazie di ciò che hai scritto, trasmettendo ai tuoi amici, la mia poesia, con l’apprezzamento anche di tua figlia. E’ una fortuna avvicinarsi alla poesia nel modo più variabile possibile, anche perché la letteratura non sempre è di aiuto ai giovani nel puzzle psicologico in cui vivono. Un caro saluto. Mario.

  28. La poesia di Mario Gabriele opera una peritropè della ipoverità: la adotta, e la ribalta nel suo contrario, mette in naftalina i frasari delle ipoverità dell’evo mediatico, mostrandone la intima vacuità, mostrando quanto i frasari della superficie della comunicazione siano non-significanti, neutri, asessuati. Gabriele dunque adotta il realismo post-veritativo e ne fa una nuova forma-poesia, adotta la diafania dei frasari post-veritativi mostrandone il vuoto sotto vetro che aleggia intorno ad ogni frase ipoveritativa e celebrativa. Lì non c’è nulla da capire, nulla da segnalare… tutti quei messaggi comunicazionali sono finzione, sono messi alla berlina della loro intima insignificanza. Il punto è che Gabriele, al contrario degli autori ipoveritativi che della ipoverità ne fanno un sistema significativo, adotta le ipoverità per mostrarne il loro involucro vuoto, assolutamente vuoto di significati. La «nuda vita» di Agamben qui dà luogo alla «nuda verità». E questo è lo statuto di verità del discorso poetico gabrielano: il suo tendere al sotto-zero delle parole raffreddate e ibernate.

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