Lucio Mayoor Tosi, Covid garden blues, 2020
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L’epoca del disagio nel capitalismo liberale
I tratti culturali della nostra epoca, all’incrocio tra collasso economico e collasso ecologico, sono iscritti in una “maniera apocalittica” di vedere i tempi all’opera, nella quale l’insoddisfazione generale per il sistema capitalistico, raddoppiata dal carattere sociale e politico della fine di un certo mondo, che proviene dalle resistenze delle società soffocate dalle violenze politiche e dalle oppressioni di tutte le forme di totalitarismo, lascia il posto ad una sorta di freudiano Unbehagen, di “disagio” nel capitalismo liberale. Già un antropologo italiano come Ernesto De Martino aveva puntato lo sguardo sul discorso della fine del mondo nella particolare congiuntura culturale degli anni della “mutazione antropologica” e dell’“industria culturale”, e nel 1980 Jacques Derrida parlava di “un tono apocalittico adottato di recente nella filosofia”. Già allora si trattava della medesima domanda sulla fine, su temi escatologico-messianici della fine della storia e delle fini dell’uomo.
Il tropo della fine del sistema capitalistico è oggi annunciato in perpetuo. La parata mediatica dei discorsi attuali sulla fine producono un infinito finire del mondo dentro il capitale, che pone la cognizione stessa del presente fuori di sé, in un tempo non-coincidente e penultimo, disturbato e differito, insieme attuale e a-venire, eccedente e folle. È secondo questa intonazione retorica della fine che Slavoj Žižek avvia le sue analisi sulle contraddizioni culturali del tardo capitalismo nel suo libro dal titolo più che esemplificativo in tal senso, Vivere alla fine dei tempi: il sistema capitalistico si sta avvicinando ad un apocalittico punto zero. Secondo il filosofo sloveno nell’attuale stato del capitalismo globale emergono “quattro cavalieri dell’Apocalisse”: il collasso ecologico, la riproducibilità biogenetica, i mutamenti interni al sistema finanziario, l’esplosione violenta delle esclusioni sociali (p. 10).
La premessa di base del libro è che viviamo alla fine dei tempi del capitalismo, mentre le coordinate della nostra percezione sono assoggettate ad una patologica “negazione feticistica collettiva” (p. 11) che oscilla tra clonazioni del terrore e pedagogia della paura. In tal senso Žižek organizza il libro secondo lo schema delle cinque fasi di elaborazione del lutto (rifiuto, collera, venire a patti, depressione, accettazione), ripreso dalla psicologa Elisabeth Kübler-Ross, con quattro “interludi” che costituiscono una variazione sul motivo dello stato di menzogna vissuta della nostra vita quotidiana. In questa sorta di moltitudine che vive l’esperienza del lutto “è possibile scorgere le stesse cinque figure nel modo in cui la nostra coscienza sociale prova ad affrontare l’imminente apocalisse”(p. 13). Il fascio di tenebra che riceviamo in pieno viso da questo “universo senza mondo”, il quale è anche il fascio di tenebre del tempo, della cultura e della storia, rivela il fallimento degli ordini simbolici – l’idea di natura, il lacaniano “grande Altro” – e il rifiuto ideologico che normalizza l’evento “impossibile” – l’uragano Katrina, il crollo dell’11/9 – traslocando nel nudo reale le “incognite ignote” del trauma: “Il capitalismo globale genera dunque una nuova forma di malattia che è essa stessa globale, indifferente alle distinzioni più elementari come quella tra natura e cultura” (p. 409). Per tale ragione lo schema del lutto viene ripensato attraverso la formulazione critica di Catherine Malabou, come rapporto tra l’inconscio freudiano e l’inconscio cerebrale, ovvero il passaggio dalle “incognite note”, l’inconscio, alle “incognite ignote”, cioè il trauma. Per Žižek la nostra realtà socio-politica impone molteplici versioni di intrusioni esterne, “traumi, che sono solo questo, interruzioni brutali ma senza significato, che distruggono il tessuto simbolico dell’identità del soggetto” (p. 406).
La condizione luttuosa globale
Dopo il “soggetto scabroso” che mette indubbio la modernità singolare del Ventesimo secolo dunque, Žižek osserva ora l’emergere, in questa condizione luttuosa globale, di un nuovo soggetto, il “soggetto post-traumatico” del Ventunesimo secolo, una figura di sopravvissuto la cui sostanza libidinale è costituita interamente dalla ferita irrevocabile del trauma (clandestini, rifugiati, vittime del terrorismo, sopravvissuti ai disastri naturali, vittime del neocolonialismo, nuovi poveri). Se per l’Occidente “post-politico” il trauma è una temporanea intrusione violenta che disgrega la normalità della nostra vita, per le soggettività dilaniate dalle guerre o dai totalitarismi “il trauma è uno stato di cose permanente, un modo di vita” (p.407). Per l’inconscio cerebrale non c’è alcuna possibilità di essere presenti alla propria ferita, non c’è alcuna rappresentazione, alcuna scena per questa “cosa”che non è una cosa.
Il punto interessante della riflessione di Žižek sui “nuovi feriti” che vivono la fine dei tempi, consiste nel cogliere uno dei tratti propriamente apocalittici del nuovo millennio: “emerge un nuovo soggetto che sopravvive alla propria morte,la morte (o la cancellazione) della sua identità simbolica […]. Questo soggetto vive la morte come una forma di vita” (p. 408). È la condizione del Ventunesimo secolo e del soggetto “post-traumatico”, un’epoca di violenza politico-economica“astratta” che trae le proprie risorse dal misconoscimento e dalla rinuncia al senso propriamente politico della violenza, per cui “ogni ermeneutica è impossibile” (p. 409). Il primo paradosso è che l’oggetto-causa del desiderio – l’objet a di Jacques Lacan – diventa esso stesso un’esca, un sostituto vuoto che sta al cuore stesso dell’ordine simbolico, ma che nel medesimo movimento dimostra qualcosa in questa illusione, qualcosa di reale: “l’oggetto del desiderio nella sua natura positiva è vano, ma non il posto che esso occupa, il posto del Reale” (p.115). Le modalità della nostra sopravvivenza simbolica e materiale dipendono dunque dalla possibilità di intravedere, nel “posto del Reale”, ciò che resiste all’assedio del presente, giacché la nostra specie è divenuta una condizione naturale, un agente geologico sul pianeta. Da questa sponda antropologica Žižek osserva uno dei quattro cavalieri dell’apocalisse, l’ecologia: il passaggio dal Pleistocene all’Antropocene (p. 459) è il risultato del mondo divenuto “umano, troppo umano”, il cui effetto è di aver minato la distinzione tra natura e storia umana. Ecco dunque l’altro paradosso dell’apocalittismo contemporaneo:
“Possiamo preoccuparci quanto vogliamo delle realtà globali, ma è il Capitale che è il Reale della nostra vita” (p. 464).
Ad un mondo più compiutamente umano, fa da speculum l’umano divenuto integralmente “naturale”. L’attenzione portata da Žižek al discorso sull’ecologia si sposta proprio nella direzione dello “sforzo impersonale del capitale stesso a riprodursi” (p. 464). Il conflitto tra capitalismo ed ecologia non è il semplice “conflitto d’interessi patologici”: sono le nostre “preoccupazioni ecologiche” ad essere fondate su un utilitario senso della sopravvivenza, per cui la stessa idea di “natura” di cui disponiamo, sia essa declinata in termini di decrescita che di sviluppo sostenibile, contiene in sé una minaccia apocalittica di riproducibilità del capitale in accordo col suo concetto, come ci suggerisce il discorso sul “capitalismo dei disastri”.
La conclusione provocatoria di questa diagnosi apocalittica del Ventunesimo secolo, per Žižek, potrebbe essere questa: dobbiamo avere il coraggio di accettare che il nostro diritto fondamentale è solo quello di partecipare alla jouissance della servitude volontaire e del suo surplus di godimento (p. 334)? Oppure nell’immaginario collettivo, tra i desideri che occupano il posto del Reale, è visibile qualcos’altro? Il punto di partenza delle risposte abbozzate da Žižek “è imparare a essere terrorizzati da noi stessi” (p. 14), dallo stato “spontaneo” di menzogna vissuta per rendere ancor più oppressiva “quest’atmosfera di base letargocratica”, ma allo stesso tempo isolare i germi di una cultura opposta eutopica che passa dalle comunità dei topi di Kafka ai reietti freaks di Heroes (p. 506).
È l’epiciclo utopico dell’apocalittica, lo “sguardo impossibile” di quei potenziali di resistenza che sopravvivono “in qualità di spettri storici” (p. 133), “versioni alternative del passato che persistono in forma spettrale e che costituiscono l’apertura ontologica del processo storico” (p. 134). È la “formula del ‘E se?’” (p. 136) che Žižek indica come l’occasione unica che si rovescia in modo auto riflessivo sul presente, e fa del “contemporaneo” una specie di storia alternativa che si è realizzata. In tal senso Vivere alla fine dei tempi presenta una relazione singolare con il proprio tempo, che aderisce ad esso, al suo continuo finire, ma insieme ne prende le distanze, esattamente come “la politica à la Bartleby” citata nelle ultime pagine (p. 553). Preferire di no è sospendere l’investimento libidinale, smettere di fare sogni sul potere e sul potere di godimento, autosabotare l’inconscio freudiano e l’inconscio cerebrale per rintracciare nel desiderio (l’1 + 1 + a della matematica lacaniana) il posto del Reale, e nel posto del Reale il proprio desiderio, o per dirla con Lacan-Žižek, il desiderio di avere il proprio desiderio.
Ecco un mio inedito dell’Epoca del disagio nel capitalismo liberale, con protagonista il filosofo Žižek.
da Il Signor K. prese le sembianze di Klint Eastwood
Storia italiana del Covid19
III parte
«3 + 3 x 3 – 3 + 3», qual è la soluzione?»,
chiese Azazello
entrando nel supermercato di via Gabriello Chiabrera “Emmepiù”
a due passi dall’abitazione di Linguaglossa.
Proprio in quel frangente, fece ingresso nel locale adiacente
Korra Del Rio, la famosa pornostar
con un completo latex rosso e zeppe di 16 cm
lasciando dietro di sé una scia di Chanel n. 22
che proseguì fino all’Ufficio Informazioni Riservate
di via Pietro Giordani dove villeggiava il poeta Linguaglossa.
Il mago Woland trasse dalla tasca interna della giacca a righe del filosofo Žižek il revolver con il manico di madreperla di Madame Colasson e lo consegnò al commissario Ingravallo il quale fece 2 + 2 = 4.
E disse:
«Signor Žižek, la dichiaro in arresto.
È lei l’assassino».
«L’effetto è già nella causa, anzi, è prima della causa.
Infatti, non ci sono più cause, ma solo effetti.
Non ci sono più affetti ma effetti.
Il mondo esiste in effetti grazie ad una sequenza di effetti.
Gli effetti sono senza ragione, sono irragionevoli.
Nel frattempo Dio è morto, anzi, no,
mi correggo,
è l’effetto dio che è stato diseffettuato.
Ed io non mi sento poi tanto bene.
– così si difese il filosofo Žižek –
Il reale è diventato in sé un manufatto psicopatologico».
«L’anagramma, l’ipogramma, il palindromo, l’acrostico, l’inversione,
la rima, l’assonanza, la consonanza,
il distico, il tristico, il polittico, la strofa, la catastrofe, l’apocatastasi,
il pastiche, il patchwork
sono non solo categorie dell’estetica e della poetica
ma anche della psicopatologia.
C’è qualcosa di sbalorditivo nella metalepsi.
Il politico è diventato un campo di azione per la metalessi.
C’è predestinazione perché c’è procrastinazione»,
aggiunse Žižek, lasciando di stucco il commissario.
Così è come fu, il mondo è tutto ciò che accade.
Woland prese Azazello sotto braccio e si recarono al chiosco
degli stagni Patriarsci
dove incrociarono il critico letterario Ivan Bezdomnyj
il quale era debole in matematica e sbagliò la risposta.
Poi la coppia entrò nel bar “fulmini e saette” di via Pietro Giordani dove consumò un cappuccino con brioches alla crema.
«Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto», disse Woland
agli avventori del bar, ma quelli risposero picche.
«Il reale emerge come un trauma» disse Žižek.
È qui che fece invece ingresso la crossdresser Moyra Lamp
con un tubino nero antiaderente che aveva una cerniera che le arrivava
fino al collo
in compagnia del suo sceriffo, il dott. Macaulay,
controfigura di Klint Eastwood nei western all’italiana di Sergio Leone.
Consumò un aperitivo e accavallò le gambe.
«Dove c’è l’Es non ci sono io» disse la bambola,
passandosi il pollice sulle labbra come Humphrey Bogart nel film Casablanca.
Kim Kills and Kristal Rye giocano a tennis on Camp David Store
per fare incetta di profilattici.
La teen ager Amanda Fox tenne un briefing sulla pop-poesia e l’ossimoro.
«Tutto è bene quel che finisce bene», chiosò un avventore del bar
mentre ingollava un crodino…
«Cari amici, la poesia la facciamo al bar»,
disse Mary.
«Ho mal di testa, Albert».
«Che fai sabato? È aperto il “Krank”?».
«Anch’io ho mal di testa».
«Non saprei, Olga, sabato vado sugli sci».
«Sai Olga, non ho più… orgasmi, è che non riesco
più…».
«Non ti preoccupare, Albert, ci sarà tempo…
non credi?».
«Sì, Olga, forse,
non so…»
Se una pera marcisce davanti a uno sguardo e lo sguardo sta davanti alla mente allora la pera esiste al di fuori. Se lo sguardo sta dentro la mente e anche la pera che esiste e marcisce, allora la pera e il suo marcire non esistono. Ma se esiste anche la mente oltre alla pera che esiste e marcisce pur non esistendo o marcendo, allora la mente può creare la pera e, separato da questa, il suo marcire (non più suo) e metterli in relazione senza tempo, o in più relazioni di tempi.
Il vettore della mente può procedere continuamente nella mente e perdersi in essa e viaggiare continuamente senza morte, nella morte, facendo della morte una vita, una non-morte. La mente può cominciare a inseguire se stessa, e, attuando questo processo, tutti gli oggetti materiali sono assenti nel non presente della mente.
Ora questa apparenza mentale ha una continuità fisica di luogo (che è Realtà) che mentalmente occupa il materiale e la materialità e le rifonda mentalmente. Si avrà un mondo circostante dal corpo mentale, e la sua natura continua (continuamente riscritta) fonderà nell’assenza lo smeteorizzarsi del soggetto.
Il “soggetto post-traumatico” decide di abbandonare la materialità univoca perché costretto, perché insopportabile, perché ormai collassata su sé, ripetitiva, gira nel vuoto svelando il suo fulcro, la dipendenza dal Capitale, da quel grano che nutre e permette il replicarsi dell’umanità. L’essere umano mette in dubbio il suo destino umano, il rinascere degli altri, spezza il corso umano, ha bisogno di interromperlo per far prendere respiro al suo pensiero, alla mente che lì dietro chiede di continuare nell’altrove di se stessa. L’umanità si ferma nella mente per riprincipiare il suo corso, altrove (nel mentale). Ciò che lascia è lasciato, ciò che acquista è assurdo! Può l’umanità vivere la Realtà di fondamenta mentali su cui by-passare continuamente la materialità? Se la materia oscura esiste, e anche l’energia oscura esiste, e alle spalle della materia ordinaria, e rappresenta più del novanta percento dell’universo, allora può esistere una materialità che è fisica perché mentale. Che sia questa una liberazione da un trauma? Se è umana l’identità che cerchiamo di affermare penso lo possa essere.
caro Jacopo,
«Con la piena cognizione dell’origine aumenta l’insignificanza dell’origine», scrive Nietzsche all’aforisma 44 di Aurora. Con il che getta nella spazzatura del pensiero due millenni di chiacchiere teologiche e pseudo filosofiche.
Far significare l’insignificante e derubricare il significante, questo è il vessillo di un intellettuale degno di questo nome di oggi, perché non c’è e non ci sarà alcuna Apocalisse, siamo noi che viviamo presi in un incanto (incantamento, fantasmagoria, incantesimo, sortilegio e affini) a parlare dell’incanto, ma è la nostra falsa coscienza che ci induce in errore.
Oggi viviamo sotto il Codice il quale non è scritto da nessuna parte, così nessuno potrà confutarlo o criticarlo. L’astuzia del Capitale è appunto questa. Così, il significante derubricato ad informazione, è stato smobilitato molto prima che lo facesse la poetry kitchen.
Nessuno ha visto in faccia l’Essere, nessuno ha visto in faccia l’Apocalisse, nessuno ha visto in faccia il Codice, nessuno ha visto in faccia dio. È questa la forza inaudita del Codice (e di dio), che combattiamo contro un nemico che non vediamo, che è dappertutto e in nessun luogo, che è a noi sconosciuto e che non potremo mai sconfiggere. Non c’è nessuna Bastiglia da espugnare. Avete visto come va con i vaccini?, la gente preferisce morire di Covid piuttosto che vivere con i vaccini. La gente è preda di follia auto distruttiva, dell’istinto di morte. E allora bisogna seguire il dettato di Wittgenstein,dopo che siamo saliti sulla scala per andare nel solaio, gettare via la scala, restare lì, costi quel che costi.
La mente ha grandi potenzialità. E allora liberiamo la mente dai lacci e dai lacciuoli che la limitano e la indeboliscono. Se il reale è fantasmagoria e sortilegio, rilanciamo il guanto di sfida e facciamo una poesia del sortilegio e della fantasmagoria. La poesia della poetry kitchen è tutta in questo atto di accettazione, in questo atto di rilancio. Perché non avremmo comunque alcuna possibilità, perché abbiamo dato un calcio alla scala su cui siamo saliti e ci troviamo nel vuoto…
Allora, non ci resta che innestare la marcia della verificazione del vero mediante la falsificazione del falso, e viceversa; non la parodia del vero o la parodia del falso, la realtà è imparodiabile, auto fagocitatoria, resiste perfino alla simulazione e alla dissimulazione; il reale è quella cosa lì che si ripresenta nella realtà sempre ogni volta di nuovo. Nessun disincanto ci risparmierà dall’incanto. Del resto, non possiamo saltare al di là della nostra ombra, siamo condannati a dimorare nel sortilegio.
Il protagonista del romanzo di Philip Dick, Ubik è in lotta contro forze oscure per la causa dell’amico crionizzato e scopre d’essere lui stesso nient’altro che un morto vivente, racchiuso immobile nella cella crionica, eppure in giro per il mondo per effetto dell’attività allucinatoria del cervello sotto ghiaccio.
Grazie sempre, e molti cari auguri e saluti da
Mariella Bettarini
A me sembra che sia questo, dell’interessantissimo lavoro pubblicato da Giorgio Linguaglossa su L’Ombra di oggi, il passaggio decisivo prima della politica di Bartleby del preferirei no:
“[…]Da questa sponda antropologica Žižek osserva uno dei quattro cavalieri dell’apocalisse, l’ecologia:
il passaggio dal Pleistocene all’Antropocene (p. 459) è il risultato del mondo divenuto “umano, troppo umano”, il cui effetto è di aver minato la distinzione tra natura e storia umana.
Ecco dunque l’altro paradosso dell’apocalittismo contemporaneo:
“Possiamo preoccuparci quanto vogliamo delle realtà globali, ma è il Capitale che è il Reale della nostra vita” (p. 464)[…]”.
Le influenze di pensieri come questo sono innegabili sulla nostra Letteratura (poesia, prosa, saggistica, prefazioni, ermeneutiche, esgesi, ecc.) e questa frase dello stesso Linguaglossa che estraggo da Il Signor K. prese le sembianze di Klint Eastwood
Storia italiana del Covid19
III parte
[…]
Nel frattempo Dio è morto, anzi, no,
mi correggo,
è l’effetto dio che è stato diseffettuato.
Ed io non mi sento poi tanto bene.
– così si difese il filosofo Žižek -[…]
ne è una conferma.
L’argomento Philip Dick mi tocca da vicino… francamente, più di Žižek – “L’oggetto del desiderio nella sua natura positiva è vano, ma non il posto che esso occupa, il posto del Reale” che, maiuscolo, apre in me una pagina bianca… P. Dick mi porta a considerare il punto di osservazione del poeta, dove si pone il poeta – logicamente tenendo conto che Dick non era poeta, né ho mai trovato interessante il suo stile di scrittura, che si rivela piuttosto ordinario anche in traduzione. –
Ora non più, ma dieci anni fa mi immaginavo abbandonato sul pianeta da una nave spaziale, ferma nelle vicinanze della Terra, invisibile perché mossa da una vibrazione ultra sottile che le consente di sottrarsi alle leggi fisiche dei corpi celesti, impermeabile allo spazio tempo. Comunque sia, mi lasciarono in un fosso; come dire che sulla Terra basta arrivarci, poi sono affari tuoi; perché sulla nave spaziale pensano ancora che la Terra sia un paradiso terrestre. Per qualche anno ci siamo tenuti in contatto con il pensiero, che avendo fisicità si rende trasmissibile. Dieci anni fa scrivevo poesie che erano messaggi informativi per i miei amici extraterrestri. In quegli anni scrissi “La casa di vetro”, una poesia racconto che L’ombra delle parole mi pubblicò. Ora posso dire che Philip Dick mi tenne distante da Montale, del quale non ho mai capito il pensiero filosofico, dove andasse a parare; fin dagli esordi, di una debolezza! che in Satura si è poi aggiustata. Comunque, grande poeta!
Ora scrivo qualcosa sul posto che occupa la sedia.
Del davanzale ormai sappiamo tutto.
– Non può finire qui, abbiamo ancora da rubare
passanti: tre caviglie, un piede sospeso. Il fiato del cane.
Dire “un metro per due” e “Telegiornale al tatto”.
Pubblico se mi prende un gigante sule spalle.
Sono Black, il cane di prima.
May. oggi
Questo instant poetry (aderisco con entusiasmo a questa definizione, che è di Giorgio) va inteso nel contesto della pandemia in corso. Ogni cosa che ho scritto quest’anno, e dipinto, appartiene a questo periodo di privazione. morte e desiderio di cambiamento sociale.
Una volta ho scritto a una poetessa che era «senza voce». Il risultato fu una telefonata nella quale mi chiedeva spiegazioni.
Questo per dire la difficoltà di scrivere di critica.
Un’altra volta scrissi di una certa poesia di un certo poeta che la sua poesia era «porosa». Apriti cielo, l’autore non mi ha rivolto più la parola. Così è. Chi pratica poesia non sa nulla della poesia, lo fa in modo estroflesso, come una emanazione dell’anima o del corpo o di che cosa dio solo sa. Un atto teologico, come dice Carlo Livia, un atto ipnagogico.
Ecco, questo per dire che la instant poetry di Lucio Mayoor Tosi è un quid che accade in un punto in cui il tempo perpendicolare incontra la coordinata orizzontale. E nulla più. E nulla di meno. Io invece adotto il metodo della «durata». Lo decide lo scorrere del tempo se una mia cosa è passabile oppure no. Ma non escludo a priori il valore e l’utilità della instant poetry, che è legata alla attimità, ad un atto immediato di voce, un atto senza intenzione significante, senza ancora la parola. Perché la voce che interessa la nuova poesia è la voce che si situa «prima» che si metta in moto il macchinario della significazione.
È nel linguaggio e attraverso il linguaggio che l’essere umano si costituisce come soggetto, e quindi la ricerca di un’«esperienza originaria» porta a qualcosa che è prima del soggetto e prima del linguaggio. Agamben chiama quest’esperienza «in-fanzia», nel senso etimologico in cui il prefisso in- nega il verbo
fari, parlare. La teoria dell’esperienza diventa quindi una teoria dell’in-fanzia, dove questa non è uno stato soggettivo e psicologico che precede cronologicamente il linguaggio e che cessa di esistere quando l’in-fante acquisisce il linguaggio, ma è invece l’«origine trascendentale del linguaggio» (AGAMBEN 2001a: 49), coesiste originariamente col linguaggio e si costituisce proprio nell’espropriazione che il linguaggio ne attua:
«Come infanzia dell’uomo, l’esperienza è la semplice differenza fra umano e linguistico. Che l’uomo non sia sempre già parlante, che egli sia stato e sia tuttora in-fante, questa è l’esperienza». (1 AGAMBEN 2001 p. 40)
L’umano non è per Agamben, come per la tradizione della metafisica occidentale, zoon logon echon, l’animale che ha il linguaggio, ma piuttosto l’animale che, a differenza degli altri animali che «sono sempre assolutamente nella lingua» (2 AGAMBEN 2001 p. 50), ne è privo e deve riceverlo dal di fuori, e quindi dimora nella scissione tra lingua (il sistema dei segni) e parola (l’uso).
Nel tentativo di ciascuno di noi di sostare in una lingua abitabile, sia mediante la instant poetry che mediante la poetry kitchen, cerchiamo la disappropriazione del linguaggio per potercene appropriare. E questo è per l’appunto il nostro modo di essere nel linguaggio.
1 Agamben, Giorgio (2001a) [1979], Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia. Nuova edizione accresciuta, Torino, Einaudi
2 Ibidem.
Di certo in comune vi è l’immediatezza del linguaggio, che è prerogativa del dettato poetico. In queste particelle si condensa l’esperienza maturata fin qui con L’ombra. Accade anche un fatto curioso, che la “voce” si rende ancor più distinta proprio grazie al fuori-senso; perché è lì che la “voce”, accorrendo, si rivela.
il problema è che non c’è alcuna “esperienza originaria” che possa essere resuscitata, siamo noi che dobbiamo andare alla ricerca delle immagini e delle parole equivalenti lungo l’asse sinonimico e metaforico. Non c’è un’anima che è la guardiana della originarietà, l’anima, se c’è, è un repertorio di cose senza parole che devono indossare un vestito di parole.
La gallina, la ferula, il filosofo
con una sedia imbrattata, conservano l’alibi della specie.
L’ordine sopraggiunse in versi sciolti,
dalla voce dispari, dalle persiane attente dell’universo.
Si aggiunse pure una canzonetta piena di colori.
“Grazie sempre, e molti cari auguri e saluti da Mariella Bettarini.”
(un’avveretenza: i video devono partire simultaneamente!)
grazie Ombra.