Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma

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Gif: «Ogni meriggio può arrestare il mondo»

Paolo Valesio è nato nel 1939 a Bologna. É Giuseppe Ungaretti Professor Emeritus in Italian Literature all’Università di Columbia a New York e presidente del “Centro Studi Sara Valesio” a Bologna. Oltre a libri di critica letteraria e di critica narrativa, a numerosi saggi in riviste e volume collettivi, e a vari articoli in periodici, ha pubblicato: Prose in poesia (1979), La rosa verde (1987), Dialogo del falco e dell’avvoltoio (1987), Le isole del lago (1990), La campagna dell’Ottantasette (1990), Analogia del mondo (1992, Premio di poesia “Città di San Vito al Tagliamento”), Nightchant (1995), Sonetos profanos y sacros (originale italiano e traduzione spagnola, 1996), Avventure dell’Uomo e del Figlio (1996), Anniversari (1999), Piazza delle preghiere massacrate (1999, Premio “DeltaPOesia” – rappresentato in versione teatrale a Roma e a New York), Dardi (2000), Every Afternoon Can Make the World Stand Still /Ogni meriggio può arrestare il mondo (originale italiano e traduzione inglese, 2002, seconda edizione 2005 – rappresentato in versione teatrale a Forlì e a Venezia), Volano in cento (originale italiano, traduzione spagnola e traduzione inglese, 2002), Il cuore del girasole (2006, Premio “Colli del Tronto”, 2007), Il volto quasi umano (2009) e La mezzanotte di Spoleto (2013). È autore di due romanzi: L’ospedale di Manhattan (1978) e Il regno doloroso (1983); di una raccolta di racconti, S’incontrano gli amanti (1993), di una novella, Tradimenti (1994), e di un poema drammatico in nove scene, Figlio dell’Uomo a Corcovado, rappresentato a San Miniato (1993) e a Salerno (1997). Da anni Valesio è impegnato nella scrittura parallela di quattro romanzi diari, ovvero, romanzi quotidiani, che costituiscono una quadrilogia narrativa ancora per la maggior parte inedita (a eccezione di alcune anticipazioni su riviste).

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A beautiful prison once was here…

Se un disperato, che si vuole suicidare, chiede a chi cerca benevolmente di dissuaderlo, quale sia il senso della vita, il salvatore è perduto e non sa nominarne alcuno; appena ci prova, può essere confutato, eco di un consensus omnium, che porterebbe il conforto al suo nocciolo: l’imperatore ha bisogno di soldati. Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione. Tuttavia il contrario, il nichilismo astratto, dovrebbe ammutolire di fronte alla contro domanda: perché vivi tu allora? Il mirare al tutto, calcolare il profitto netto della vita, è appunto la morte, cui la cosiddetta domanda sul senso vuole sfuggire, anche nella misura in cui essa, non avendo altro scampo, si fa entusiasmare dal senso della morte.

(Th. W. Adorno Dialettica negativa trad. it. Einaudi, 1970, p. 340)

Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza

(W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi 1970, p.232)

La storia però non è il terreno per la felicità. Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti.

(Friedrich Hegel)

Ogni felicità è frammento di tutta la felicità, che si nega agli uomini e che essi si negano.

(Th.W. Adorno op. cit. p. 365)

Paolo Valesio

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il «frammento» è il luogo privilegiato in cui si mostra la modernità. Il frammento è la dimora dell’Estraneo. La patria ideale dell’Estraneo è il frammento, ho scritto in altra occasione in un diverso contesto. Era tempo che mi muovevo intorno a questa aporia pensando alla poesia di Paolo Valesio quando, all’improvviso, ho compreso che l’Estraneo che fa ingresso nel «frammento» valesiano, nella sua «gabbia dorata» è nientemeno che «dio», l’innominabile, l’impronunciabile. E allora tutto mi si è fatto chiaro. L’aporia massima è nella profondità del fondamento: la struttura del fondamento è aporetica per eccellenza, ciò significa che detta aporia si riproduce in ogni minimo luogo in cui essa può essere ri-trovata: in ogni minimo dettaglio del quotidiano essa si cela e si svela; a volte si cela, a volte si mostra ammiccando e sottraendosi alla vista, auto negandosi e auto confermandosi. Inspiegabile in quanto incondizionata, l’aporia è la massima espressione del pensiero che pensa l’incondizionato, del pensiero che osa pensare l’Assoluto.

All’improvviso, ho capito: ecco la ragione del disagio di Valesio, ho pensato, a maneggiare l’orizzonte eventico delle parole del «poetico». Ho capito finalmente che la poesia valesiana vuole muoversi fuori dell’orizzonte ontico del «poetico», o meglio, sulla soglia di quell’orizzonte, al confine con un altro orizzonte, nello spazio-tempo di un altro universo privo di spazio-tempo che si rivela tra le parole  del «teologico» e quelle del tempo mondano, in quel limen tra i due orizzonti. Di qui il disagio e l’angoscia del poietes, l’aleatorietà delle parole che si indeboliscono e che Valesio vorrebbe «forti», durature, quel sentirsi sospesi tra una «gabbia dorata» e l’altra, tra una «prigione» e l’altra, senza soluzione di continuità, in quella curvatura degli orizzonti dove «la scimmia del pensiero» si rivela fallace ed effimera, inquieta nella sua impotenza, derisoria nella sua inidoneità a raffigurare l’Assoluto. «Il pasto dell’avvoltoio», poesia compresa ne Il dialogo del falco e dell’avvoltoio del 1987 è uno dei punti più alti della poesia valesiana; non c’è scampo alla vastità del deserto:

Tutta la terra dunque è sconsacrata
da cupidigia di picchetti e pali.
Territorio vien da terrore.

«Gli Dei del passato sono fuggiti e si attendono quelli che verranno», ha scritto Hölderlin. La interrogazione che Paolo Valesio ripete a se stesso in modo ossessivo nelle sue poesie suona così: è ancora possibile fare poesia dopo l’eclissi del sacro e la caducazione dello scenario metafisico, come scrive Carlo Livia? Valesio, come Eliot, si aggrappa alla fede, soltanto la fede può salvarlo dall’abisso che si apre appena al di sotto delle parole. E la fede si porta dietro necessariamente la certezza di un «senso», che la vita abbia un «senso». Di conseguenza, la poesia di Valesio si incarica di cercare questo «senso», di tendergli delle trappole, di scovarlo, di catturarlo.

La poesia di Valesio ruota intorno al terribile quesito se la vita abbia un senso e se ha senso vivere per cercarne il senso. Valesio, da credente, è convinto di sì, e si ribella alla metafisica delle parole del «mondano» ormai incapaci ad attecchire ad una metafisica, quella iperuranica del pagano Platone ma non quella che abita l’éskaton, la prospettiva infuturante degli abitatori del presente. Ma forse, come dice Adorno, «una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione». E qui, attorno a questo punto ruota tutta la ricerca poetica di Paolo Valesio, nel tentativo di rispondere poeticamente a questo quesito senza cadere nel nichilismo di chi semplicemente si limita ad assistere al declinare del senso della vita, di ogni senso. E forse, pur tuttavia anche questo è un senso, per quanto paradossale e contraddittorio esso sia.

testi tratti da Il servo rosso/The Red Servant: poesie scelte 1979 – 2002, puntoacapo Editrice, 2016

.

Da  La rosa verde (1987)

Vedi?
Qui c’era una bella prigione…

La gabbia era dorata era sospesa
e sotto: Terra terra terra, vola!
Una prigione dorata? Magari …
(« la dorata prigione del vizio»,
disse un papa al bambino nell’udienza;
e quel sottile, quell’eretto e bianco
offriva — non già la salvezza
ma la speranza di una nobiltà
a lui plebeo confuso che guardava).
Ma qui non c’è l’oro matto del vizio;
nemmeno l’oro puro della gioia.
È solo la indoratura
della umana ragione.
Adesso l’aurea crosta si è staccata,
e tra le sbarre della gabbia fradicia
la scimmia del pensiero è ormai fuggita.

Piazza del Duomo, Milano

 

From The green rose (1987)

Do you see?
A beautiful prison once was here…

The cage was gilded and it was suspended
and underneath: Land land land, fly away!
A gilded prison? Would that it were so…
(“the gilded prison of depravity,”
a pope told a little boy at his audience;
and that upright, that pale and slender fellow
was offering – not salvation all at once,
but instead the hope of a nobility
to the boy, a confused plebeian who stared at him).
But here there is not depravity’s mad gold,
nor is there even the pure gold of joy.
There’s only the gilding
of human reason.
The golden crust has all come off by now,
and from between the bars of the rotted cage
the monkey of thought has long since fled away.

Cathedral Square, Milan

[MP]

.

Da Il dialogo del falco e dell’avvoltoio (1987)

Il pasto dell’avvoltoio

Morire è facile.
Ma essere sepolti: è un’arte filosofica.
Bisogna farsi seppellire
col vestito del dì delle nozze.
Tu riaffermi la linea di una vita
con un solo vestito buono
dallo sposalizio alla terra.
Sperando che così ritroverai –
al taglio decisivo, e sopra l’ultima
lama della luce di coscienza –
i padri dei padri dei tuoi padri.
Le madri dovrebbero
sopravvivere ai figli per poterli
piangere degnamente. Solo esse
esperte in corruzione delicata
in cure morbide
in vizio dolce dei figli,
solo le beneficamente corrotte
sanno fare il corrotto sul cadavere.
Il vestito all’antica è un argine di stoffa.
Ma non è semplice
la vita che così muore.
Troppe radici terrose
s’intralciano a fiore di terra.
Caccia alle nicchie libere,
gara di cadaveri ammonticchiati
che attendono i turni.

Tutta la terra dunque è sconsacrata
da cupidigia di picchetti e pali.
Territorio vien da terrore.
La spada scava terra
poi subito scava il collo.
Dicono i Parsi:
la terra è sacra –
dunque non può essere polluta
dal cadavere;
l’acqua è sacra –
e non può essere
intorbidita da carcasse;
Il fuoco è sacro –
dunque non può esser profanato
bruciando un corpo;
l’aria è sacra –
non può essere offuscata da ceneri.
Quale luogo, allora, al cadavere?
La tomba semovente che preclude
tutti gli elementi, li taglia
fuori dalla sua angusta volta buia:
l’avvoltoio.
A volte ho pensato il contrario:
terra e acqua
fuoco e aria –
sono tutti polluti e bruttati,
nessuno degno più di ospitare
l’unico simulacro di purezza:
il corpo umano.
Ma –
mentre cammino lungo il viale grande
(Bombay ai piedi sotto la collina)
osservando le Torri del Silenzio
comprendo di dover tornare

alla chiara visione dei Parsi:
l’avvoltoio.
Angusti pozzi profondi
torri rovesciate
dentro il ventre dentro la terra.
Là sono gettati i cadaveri.
E su tutte le palme intorno,
gli avvoltoi ristanno.
Grandi, cùprei, calvi,
con i colli incassati tra le spalle.
Gli avvoltoi son filosofi nudi
(mostrano quanto assurdo
sia il filosofo vestito).
Gli avvoltoi sono critici:
prima d’ogni altro membro,
ingoiano gli occhi.
Nel loro stomaco
la morte si purifica,
la ruota si riavvia.

.

From The dialogue between the hawk and the vulture

The Vulture’s Feast

Dying is easy.
But being buried is a philosophic art.
A man ought to be entombed
in his wedding day apparel.
You avow the course of a lifetime
with just one good suit
from wedding to funeral.
With the hope of finding then –
at the decisive breach, and on that final
blade of the light of consciousness –
the fathers of your forefathers’ fathers.
Mothers should outlive
their children so as to properly
mourn them. For only they
understand the subtlety of the passing,
the tender care and
the habits of nourishment of children,
only they, charitably aged,
know how to wail over the body.
The traditional garments are fabric retainers.
Yet it’s not a simple matter
for a life to pass away.
Too many earthen roots
entangle just above ground.
The hunt is on for available nooks,
piles of corpses
waiting their turn.
Earth itself is thus profaned
by greed for posts and stones.
Territory comes from terror.
The spade digging the soil
digs then right into the neck.
The Parsis say:
The earth is sacred –
therefore it cannot be polluted
with cadavers;
the water is sacred –
so it cannot be fouled
with carcasses;
the fire is sacred –
therefore it cannot be profaned
by a burning corpse;
the air is sacred –
it cannot be darkened by ashes.
Where, then, is the place for the dead?
In the self-propelled tomb that rules out
all the elements, that shuts them off
in its narrow black vault:
the vulture.
Sometimes I think the opposite:
earth and water
fire and air –
they are all polluted and soiled,
no longer worthy of hosting
the only simulacrum of purity:
the human body.
Yet –
as I walk along the wide avenue
(Bombay at my feet below the hill)
observing the Towers of Silence
I realize I must return
to the lucid vision of the Parsis:
the vulture.
Narrow deep wells
upturned towers
inside the womb inside the earth.
There, corpses are discarded.
Perched atop the palm trees all around,
the vultures wait.
Large, coppery, bald,
with necks shunted into their shoulders.
The vultures are naked philosophers
(showing how absurd
the robed philosopher is).
The vultures are critics:
before any other part,
they swallow the eyes.
In their viscera
death is purified,
the wheel keeps going round.

[GS]

Da Anniversari (1999)

Il servo rosso

Stamattina ha cavato fuori l’anima.
Era prima del sole
(se non si desta nel vibrar del buio
perde il suo appuntamento con l’alba).
Ha affondato pian piano la mano
dentro la gola
per alcuni minuti: dolore
(gli sembrava di mordersi la gola
con i suoi stessi denti),
e ha posato il minuscolo uomo
rosso come lacca
(era unto di sangue)
sul tavolo; l’ha ripulito,
quasi fosse cornice d’argento,
con un lembo di pelle di camoscio.
Al momento di riporlo,
le mani hanno un poco tremato:
se non avesse più trovato il posto?

25 gennaio, 1995

The Red Servant

This morning he took out his soul.
It was before sunrise
(if he doesn’t wake in the humming of the dark
he misses his appointment with the dawn).
He ever so slowly and gently sank his hand
into his throat
for a few minutes: pain
(he seemed to bite his throat
with his own teeth)
and he placed the tiny little man
red as lacquer
(he was oily with blood)
on the table: he cleaned him up,
rubbing him with a strip of chamois
as if he were a silver picture frame.
But when he put him back,
he felt a bit of a tremor in his hands:
what if he were not to find his place again?

January 25, 1995

[MP]

Da Volano in cento (2002)
Dardo 1

Mi dicono che sei Cristo di dolore
ma per me sei qualcosa come un sole
impassibilmente ardente.

Dardo 1

They say you are a Christ of grief,
yet for me you are something like a sun
forever burning unperturbed.

.
Dardo 2

Ti prego prego prego, prego prego:
portami all’ombra delle tue candele.

Dardo 2

I pray and pray and pray and pray to you:
I beg you take me please
into the shadow of your candles.
Dardo 3

                                         Per Bonnie Müller

Ti regalo la ira mia o Signore
(trasformala in passione non furore)
come in punta di spada s’offre un fiore.

Dardo 3

                                       For Bonnie Müller

I offer you my wrath O Lord
(may you convert it into fire not fury)
as one bestows a flower on a sword’s tip.

.
Dardo 4

                                     Per Graziella Sidoli

Ascoltami se vuoi: la preghiera
è un intraversabile burrone
e da una ad altra sponda ci intendiamo
a cenni perché le parole
si sfilano nel tempo lasciando unica traccia
smorfie su labbra e come
possiamo intrascoltarci?

 

Dardo 4

                                For Graziella Sidoli

Hear me if you wish:
prayer is an uncrossable cliff
and standing on opposite shores
we speak in signs because
words come unthreaded in the wind
leaving a grimace as their sole trace
and how can we
interlace our listening?

.

Dardo 7: Contra Platonem

(Simposio, 203b)

Se Eros nasce dalle furtive nozze
di Povertà e Ingegno in giardino
quale mai dio scugnizzo e fosco
(dio-demone della mia vita)
nasce dal congiungimento
del Silenzio e la nuda dei boschi,
la Nulla?

Dardo 7: Contra Platonem

(Simposium, 203b)

If Eros is born of the furtive nuptials
between Poverty and Wit in the garden,
then what sort of dark urchin god
(demon-deity of my life)
is born of the embracement
of Silence and the naked creature in the woods,
Nothingness herself?

Dardo 8

                               Per Assunta Pelli

C’è chi sotto
lo schiaffo del dolore
socchiude gli occhi e chi grandi li apre.
Lo spirito nei primi
scivola dietro i muri,
nei secondi s’affaccia alla finestra
piano-scostando il vetro delle lacrime.

 

Dardo 8

                               For Assunta Pelli

There are some who
beneath grief’s blows
half-open their eyes
while others open them wide.
The spirit of the former
glides and hides behind walls,
the latter leans over windows
softly sliding the glass of tears.

Dardo 65

Nei rari momenti (ad esempio
nello specchio abbrumato di un motel)
in cui lo sguardo declina
verso il corpo in sua povertà
(defoliato dagli anni) e nudità
intorcigliato intorno all’indifeso
oscuro pene contro
il pallore del ventre
dunque in disperata purità
là dove la miseria
escludendo vergogna
è la modesta via maestra
verso la dignità –
ecco io allora scorgo il corpo di Gesù.

Bloomington, Indiana

Dardo 65

In the rare moments (for instance
in a motel’s misty mirror)
when my glance turns
to the body in all its poverty
(parched by time) and its nudity,
twisted around the defenseless
dark penis lying against
the pallor of the belly
hence in forlorn purity
where misery,
having chased shame,
is the modest high road
towards dignity –
then I catch sight of Jesus’ body.

Bloomington, Indiana

Dardo 97: Discesa

La umiltà invisibile per esser percepita
è costretta a scoscendere un gradino
e adottare il passo claudicante
e i panni-stracci dell’umiliazione.
Chiunque poi l’abbracci
discende un’altra china:
è subito accusato di arroganza.

Dardo 97: Descent

Humbleness invisible is forced
to descend a lower step to be perceived
and it must learn to limp
and wear the ragged cloth of humiliation.
Whoever then will embrace it
descends further down another slope,
and is suddenly accused of arrogance.

.
Dardo 98

Sento a volte una voce di pastora
sull’altra riva del lago – una voce
un po’ roca e velata (è una pastora
che non disdegna il bere e l’abbracciare):
«Fammi morire, che ti voglio bene.»

 

Dardo 98

I hear the voice of a shepherdess sometimes
slightly coarse and veiled, coming
from the other end of the lake
(she does not disdain
drinking and embracing):
«Ravish me, for I do love you so.»
[GS]

Da Ogni meriggio può arrestare il mondo (2002)

 

Sonetto transtiberino 2:
Villa Medici

Ogni vero giardino è un labirinto
ogni sommersa visita è silente
ogni panca è solenne come un plinto
ogni pianta è un cero verde-ardente

ogni coppia si scioglie in vertigine
ogni pozza può risucchiare al fondo
ogni grata è fiorita di rubìgine
ogni meriggio può arrestare il mondo.

Alla volta di un viale l’ha smarrita
ma ne ha sentito il piede sulla ghiaia:
non-morsa-dal-serpente, è riapparita.

Guardano dagli spalti il Muro Torto
sulla soglia di un’umile legnaia:
eretta, lei; e lui, sull’ombra sporto.

Biblioteca Sterling, 17 agosto 2000

Transtiberine Sonnet 2:

Villa Medici

Every true garden is a labyrinth
every underwater call’s a silent scene
every bench sits as solemn as a plinth
every plant’s a candle tipped with firegreen
every couple melts into a vertigo
every pool can swirl down to the depths at will
every grate is blooming with a ruby glow
every afternoon can make the world stand still.
He lost her on an avenue when it turned
but heard her walking on the gravel: then,
unbitten-by-the-serpent, she returned.
From the buttresses they see the Muro Torto, in
the doorway of a very humble woodshed:
she, standing up; he, leaning toward the shade.

Sterling Memorial Library, August 17, 2000

[MP]

41 commenti

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41 risposte a “Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma

  1. gino rago

    Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma


    Paolo Valesio (è giusto ciò che afferma Giorgio Linguaglossa nelle
    riflessioni racchiuse nella sua nota critica) fissa possiamo dire lo sguardo
    sui frammenti “per farne delle immagini dialettiche” e ci conduce all’interno del mistero dell’esistenza dell’uomo occidentale.
    I versi di Valesio, di chiara impronta cristologico-cristiana, si vanno a inserire nell’alveo, invero non abbastanza esplorato dalla nostra “critica
    letteraria”, di quella lirica detta “religiosa” che da Jacopone da Todi e Francesco d’Assisi giunge fino alle intense esperienze poetiche di Clemente Rebora, dopo la conversione, e di David Maria Turoldo ricordando
    ai lettori, con quella immagine del fiore alla punta d’una spada, che Cristo
    non venne in mezzo a noi a portare pace… sed gladium.
    Gino Rago

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  2. Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma


    Il linguaggio non-poetico e poroso

    Le vie verso la verità sono sentieri interrotti

    (Friedrich Nietzsche)

    C’è oggi una poesia, come quella di Vincenzo Mascolo e di Paolo Valesio, che «vuole» parlare in poesia tramite un linguaggio non-poetico, «poroso», un linguaggio da carta assorbente. È come se un filosofo volesse parlare in filosofia con un linguaggio non filosofico, contaminato dalle scorie e dai resti del linguaggio della comunicazione. Dobbiamo forse accettare che oggi il linguaggio poetico è diventato un «luogo» aporetico per eccellenza, che in esso trovano posto come non mai le antinomie del contemporaneo.
    Vero è che un certo linguaggio poetico, mettiamo quello di Andrea Zanzotto e di Edoardo Sanguineti, entra in crisi di identità quando il marxfreudismo di Sanguineti e lo sperimentalismo del significante di Zanzotto vengono superati e fatti collassare dal ’68. Sono i sommovimenti sociali epocali che fanno collassare i linguaggi poetici e filosofici.

    Oggi che alla crisi è succeduta la post-crisi, è avvenuto che al minimalismo sia succeduto il post-minimalismo. È paradossale dirlo: ma oggi la crisi si è stabilizzata, la crisi governa la crisi; i linguaggi artistici, e quelli poetici in particolare, sono diventati tanto «deboli» da essere invisibili e quindi invulnerabili; questi connotati, tipici del nostro tempo non devono affatto meravigliare, sono i connotati dello Zeit-raum che è diventato un contenitore vuoto, contenitore di altro vuoto, i linguaggi poetici contengono un linguaggio invisibile, poroso, e quindi non fungibile. È come se la legge di gravità che tiene insieme le parole fosse diminuita; forse dovremmo accettare una filosofia «debole», che accetti di misurarsi con una «ontologia debole», che respinga al mittente le categorie «forti» proprie di un concetto «rotondo» del fare poesia; forse dovremmo accostumarci ad accettare la «debolezza ontologica dei frammenti». Ed è quello che tenta di fare la «nuova ontologia estetica», che sorge quando i linguaggi epigonici collassano sotto il peso della propria insostenibilità, non da un sommovimento sociale ma sì da un sommovimento epocale: dalla consapevolezza della messa in liquidazione dei linguaggi poetici «rotondi».

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  3. Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma


    Concordo con Gino Rago nel definire “non abbastanza esplorato” dalla critica letteraria l’alveo della nostra lirica religiosa .Che i critici siano tutti calvinisti?, o atei, o attratti da altri campi di esplorazione dello spirito? Come mai, però, cadiamo tutti in ginocchio davanti al Paradiso di Dante?

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  4. Claudio Borghi

    Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma


    Singolare questa domanda, non tanto perché la pone, sulla scia dell’intervento di Gino Rago, Anna Ventura, la cui limpidezza e coerenza sono indiscutibili, quanto per il fatto che Giorgio Linguaglossa e Mario Gabriele, ovvero i due esponenti più influenti della NOE, abbiano in più occasioni mostrato scarsa attenzione, per non dire aperta conflittualità, nei confronti di una poesia di matrice metafisica o spiritualistica o religiosa, al punto da considerare oscurantista il pensiero di chi ha cercato di proporre una ricerca legata alla teologia e alla mistica, di San Giovanni della Croce o di Meister Eckhart, proponendo temi di discussione potenzialmente ricchi di interesse in relazione alla filosofia del Novecento, ad esempio di Heidegger o Wittgenstein. Ritengo molto interessante l’opera di Valesio, come quella di Morasso, pur su diverse lunghezze d’onda, proposta qualche giorno fa. Rimango sconcertato di fronte a una linea di pensiero in cui fatico sempre più a trovare una coerenza, visto che di questa NOE, a parte la ribadita attenzione al frammento e la volontà di rinnovamento, capisco ben poco in termini di visione comune e di chiarezza di intenti condivisi. Devo concludere che una poesia metafisica o religiosa è un esempio di poesia debole, nell’ottica della crisi generalizzata del pensiero e dei linguaggi artistici? Come devo interpretare Linguaglossa quando scrive che “forse dovremmo accettare una filosofia «debole», che accetti di misurarsi con una «ontologia debole», che respinga al mittente le categorie «forti» proprie di un concetto «rotondo» del fare poesia; forse dovremmo accostumarci ad accettare la «debolezza ontologica dei frammenti»?”. Significa che anche la poesia religiosa, nella forma espressiva in cui si è risolta in Luzi o Valesio, deve essere inquadrata come forma particolare dell’ontologia debole in cui ogni forma d’arte, religiosa o meno, sta spegnendo ogni possibilità di conoscenza e di apertura sul mistero del mondo, di cui deve rassegnarsi a raccogliere solo disperate briciole di pensiero e immagini senza luce? E contro quale “concetto rotondo” si scaglia una tale ontologia debole, visto che la stessa poesia religiosa nasce da un fondo tragico di inquietudine inappagabile dello spirito, quand’anche voglia affidarsi a una luce di verità trascendente?

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  5. Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma


    Caro Claudio, io credo che il fatto che non tutto coincida,nel pensiero di chi opera nella NOE,non sia un dato negativo; guai se diventassimo una confraternita autoreferenziale, portatrice di un pensiero univoco,dogmatico.Cerchiamo di scandagliare il mare magnum della poesia , sempre nella speranza di incontrare nuove rotte, nuove vele al vento. Tutte volte verso l’approdo della conoscenza.

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  6. Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma


    caro Claudio,

    mi rendo conto che mi sono espresso male. E lo ripeto. Qui, intendo nella NOE, nessuno di noi si sogna di ripristinare antiquati concetti usati in modo «politico» nel corso del secondo novecento come quelli di «canone», di «Gruppo», di «Scuola» (orfica, sperimentale, materialistica, mitopoietica, della parola innamorata etc. e chi più ne ha più ne metta), tutti concetti da cui noi prendiamo le distanze; e adeguate distanze le prendiamo anche da chi intende suddividere la poesia in cattolica, valdese, mussulmana, protestante, materialistica, spiritualistica (ma che cosa significano poi queste etichette?)…

    Quando io parlo di «ontologia debole», questa è una locuzione precisa che ha un suo preciso significato filosofico (si consulti wikipedia), concetto che utilizzo nella mia ermeneutica (spero che mi sia concesso). Tu mi parli di Luzi. Ma quello è un altro discorso, Luzi apparteneva generazionalmente parlando ad una generazione che impiegava categorie «forti»; analogamente, un altro poeta di sponda opposta che utilizzava categorie «forti» era Franco Fortini, un altro era Pasolini… Nel 1976 Maurizio Cucchi pubblica Il disperso. E da qui la poesia italiana diventa «debole», nel senso che accetta di costruire con categorie «deboli»; ma oggi il mondo è cambiato, è cambiato talmente che se uno riproponesse in poesia le categorie «forti» di un Fortini o di un Luzi farebbe sorridere… Insomma, la storia passa, ci pone ogni giorno nuovi problemi esistenziali ed estetici, saperli individuare, questo occorre! La NOE è un tentativo di leggere il «contemporaneo» con categorie «leggere» (so che questo termine non ti piace), ma «leggere» non equivale affatto a «superficiali», non considero affatto Il disperso di Cucchi una poesia di «superficie», per essere precisi: C’è modo e modo di impiegare le parole e le categorie del pensiero, e non vorrei venire frainteso.

    Sembra quasi che tu mi rimproveri perché apprezzo la ricerca poetica di un poeta come Paolo Valesio in quanto «credente». Allora, tenterò di spiegartelo. Lo apprezzo proprio in quanto Valesio parte da una «metafisica» (che sia quella del pensiero anche teologico è inessenziale, l’importante è che si scriva a partire da una metafisica) per giungere ad una «fisica». Tutti i veri poeti sono partiti e partono da una «metafisica», non c’è nulla di disdicevole in questa parola, purché poi giungano ad una fisica delle parole…

    Il problema della forma-poesia riconoscibile.

    Il problema che vorrei porre in evidenza è di carattere macro stilistico, o extra stilistico, se volete, e concerne la totalità o quasi della poesia che si è fatta in Occidente nel Novecento. La poesia intesa come momento lineare ha promosso un concetto di forma-poesia nella quale lo spazio e il tempo sono il rispecchiamento dell’io nella vita quotidiana. A distanza di più di venti anni dalla fine del secolo scorso, è lecito sollevare dubbi e eccezioni a questo concetto e a questa pratica della poiesis. Così, la poesia occidentale ha seguito il modello unilineare e cronologico della vita quotidiana, ed è finita dritta nella falsariga del riconoscibile, nella rappresentazione mimetica. Il romanzo ha fruito di una uscita di sicurezza data dai suoi svariati generi e sotto generi: il giallo, il noir, il fantastico, il fantasy, il semi giallo, il quasi fantasy, il gotico, il gotico-fantasy, il giallo-fantasy, il fantasy e basta etc.; la poesia non ha avuto, per ragioni storiche, una altrettanta versatilità di forme e di generi, quindi era più vulnerabile, più esposta, e ne ha pagato le conseguenze.

    Il problema che si è trovato davanti la poesia del Novecento è quello di una forma-poesia «riconoscibile» con un linguaggio sempre meno «riconoscibile». Il problema di una forma-poesia riconoscibile si è posto alla poesia occidentale nel corso dell’ultimo secolo: con l’«io» posto in un luogo, immobile, e l’«oggetto» posto in un altro luogo, immobile anch’esso; di conseguenza, il discorso lirico si è ridotto ad uno schema, un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico ha assunto una struttura cronologica e lineare. Senza considerare la possibilità che se l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non sarà più l’oggetto dell’attimo precedente; di più, se anche l’io si sposta di un centimetro, vedrà un oggetto nuovo. E così, il discorso lirico o post-lirico si è sviluppato tra queste due postazioni immobili. Un’altra via sarebbe stata in potenza percorribile, con le due posizioni che cambiano il loro luogo nello spazio e nel tempo, come avevano ben intuito Mandel’stam negli anni Dieci e Eliot con The Waste Land del 1922, ma dopo le avanguardie del primo Novecento la forma-poesia è ritornata all’ordine e si è assestata sul modello cronologico e lineare, trascurando il fatto che già Mallarmé aveva distrutto quel modello lineare dimostrando che era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, sarebbe stato preferibile derubricarlo per sondare le possibilità di un’altra e diversa forma-poesia.

    La poesia del Novecento ha così ripiegato sulla stazione immobile dell’io, con l’io al centro del mondo, attorno al quale ruota la fenomenologia del mondo intrapsichico. È stato il modello vincente che ha imposto i suoi binari: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte. Questo tipo di impostazione ha condotto la poesia inevitabilmente al pendio elegiaco, e il rapporto tra l’io ed il suo oggetto si è rivelato un dialogo posizionale, «convenzionale».

    Che cos’è l’«esperienza»?, è possibile una poesia dell’ «esperienza»?; l’idea più diffusa che si ha oggi in Occidente è quella di una poesia significativa di una esperienza genericamente «corporale» o genericamente «spirituale». Concetto quanto mai rarefatto e indiziario quello di «esperienza» che non è possibile identificare filosoficamente con cognizione di causa come acutamente ha detto Gadamer: come e quando nasce una esperienza?, come e quando finisce? – come nasce una intenzione significante?, come e quando finisce?, questa sarebbe stata una problematica da investigare. Una intenzione significante non è il prodotto stocastico, statistico, probabilistico di tutti i tentativi di intenzionare un significato?, è ancora possibile esperire questo trapassare di tutte le cose in «altro»?, in che modo scrivere in questa fluidificazione universale?, con quale sintassi?, con quale lessico?, siamo immersi tutti i giorni nella fluidificazione di tutte le forme e nei vasi comunicanti, usiamo quotidianamente trasmettitori elettronici, il linguaggio è cambiato, e così anche il linguaggio poetico.

    Quello che la poesia del tardo Novecento è diventato non ha più nulla a che vedere con le questioni filosofiche classiche come la «radura», l’«apertura» all’essere o la «distanza» dall’essere, o l’«oblio» dell’essere, l’«impegno» nel mondo; la poesia degli ultimi cinquanta anni in Occidente si è ridotta ad una segnaletica microscopica dell’io, con attigua a questa dimensione una «zona franca» di frastagliature, di arcipelaghi, di smagliature semantiche e lessicali, strettoie linguistiche, ostacoli, dossi, segni in agitazione perpetua dove ciò che le carte nautiche possono indicare è una miriade di arcipelaghi e di isolotti dell’io lirico ormai de-fondamentalizzato e de-funzionalizzato.
    La poesia è diventata una «zona franca» come scriveva Pasolini negli anni Sessanta?. più che «zona franca» opterei per la definizione di «zona neutra» nella quale essa è finita. Mi chiedo: è ancora possibile esperire una esperienza?, è ancora possibile il «viaggio»?, come si pone l’«esperienza» nella nuova condizione della termodinamica delle strutture dissipative e della catastrofe permanente del mondo di oggi?, non siamo già da tempo dentro la catastrofe permanente?
    La poesia del Novecento ha il merito di aver scoperto la «crisi» e il «vuoto», e ne è rimasta fulminata.

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  7. Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma


    Vorrei spezzare una lancia, come dice Giorgio Linguaglossa nei suoi commenti, a favore della NOE, da alcuni vista come una creatura aliena, venuta ad occupare spazi, già conquistati dai terrestri. Senza aprire un discorso filosofico di concetti e teoresi varie, mi limito a riportare una visione del mio viaggio poetico connesso alle varie stazioni fenomenologiche e come ruota di scorta della NOE. Ecco in sintesi i punti chiave.
    La poesia italiana, dopo l’esperienza dell’Avanguardia, non ha prodotto grandi trasformazioni, rimanendo chiusa nel suo estetismo, prevalentemente lirico. Il postmoderno, ha cercato di aprire uno spiraglio intorno alla questione del sapere come elemento di diffusione verso la società, così, come teorizzato da Lyotard. E’ proprio su questo principio che si immette la Nuova Ontologia Estetica associata al frammento, con un proprio spazio aperto ai lettori più aggiornati ed esigenti, non più rimandabile. Con il declino della metafisica occidentale, nasce il “pensiero debole” di Vattimo, che si sposta anche nella poesia rimasta in un cratere il cui fondo è il Vuoto dove si connette un linguaggio afasico e monoestetico. Il sistema politico-economico del grande Capitale ha determinato una Cultura minoritaria declassando ogni fenomeno innovativo, a semplice prodotto di mercatino Secondo Habermas, la caduta di tensione della cultura sarebbe la prima causa ad aver infranto i valori fondamentali su cui poggia ogni mutamento emancipativo della parola e il suo dispiegamento in nuove aree formali: un cambio di rotta che solo per riattivarlo occorrerebbe un nuovo Illuminismo. E’ questo, oggi, il tentativo che si propone la nuova poesia nel voler percorrere altri sentieri, come un cambiamento di rotta che è già nella struttura portante della Nuova Ontologia Estetica, che col frammento si lega con il tempo interno e il tempo esterno, dove non pochi sono i “correlativi oggettivi” che esprimono il ricambio del Logos, che finisce con l’essere un nuovo reperto per la semiologia e l’ermeneutica.Tutto questo non è stato possibile attuare perché
    la muraglia poetica del Novecento non ha concesso altre strade alternative a quella della Tradizione, perché così faceva comodo alle Case Editrici, ai poeti e ai critici. Un esempio ne è la Letteratura Italiana Otto-Novecento, di Gianfranco Contini,- Sansoni, 1974, che tralascia l’Avanguardia di Giuliani e Sanguineti, mettendo fine alla sua Antologia con la linea lombarda e recuperando a stento Pier Paolo Pasolini. E’ evidente che ogni antologista traccia le geografie poetiche secondo i propri gusti e la propria sensibilità, omettendo e recuperando nomi illustri o poco conosciuti. Ma non sempre questo metodo ha fatto da guida alle antologie degli anni 80 e di fine secolo. Dice Mario Lunetta nella sua “Poesia Italiana oggi”- Newton Compton, 1981, a distanza di sette anni da quella di Contini, che “nessun antologista è onnisciente. Pur aspirando ad esserlo, nessun antologista è ubiquo”. Certamente chi redige una antologia sa benissimo che la sua Opera è il riflesso del proprio gusto poetico e critico che non può totalizzare tutti gli eventi sopravvenuti alla data della compilazione dell’antologia. Ma se questo può sembrare un alibi accettabile, non lo è se si omettono le proposte alternative, rispetto alla comune prassi linguistica. Ciò che importa è non trascurare le piattaforme poetiche e stilistiche che si vengono a formalizzare, accantonando qualsiasi pregiudiziale che non aiuta a documentare una realtà diversa da quella acquisita o già omologata. In realtà il territorio di indagine su cui esplorare non è facile, se non vi è un return critico e pubblicitario che dia ampio spazio e informazione.Dovrebbe essere sempre una scelta relazionante su forma e espressione, al fine di surrogare tempi poetici afonizzati e senza via di uscita. La caduta di tensione poetica e culturale del nostro Paese e i danni provocati dalla Crisi, hanno allontanato buona parte della platea dei lettori che al tempo delle Giubbe Rosse del Caffè fiorentino erano sempre in soprannumero. Oggi se ne contano poco meno di una ventina di buoni ascoltatori, anche se si nota un risorgimento dei laboratori di poesia che su Facebook appaiono giorno dopo giorno.Il fenomeno dell’Assoluto in poesia non esiste. Sono evidenti, invece, le nuove start-up poetiche come la NOE, in qualità di nuovo lavoro inventivo, specificamente osmotico con il frammento, che è una delle vie più difficili da percorrere, in quanto deve armonizzarsi con il tessuto globale e strutturale della poesia. Direi che fare questo tipo di discorso non è facile.Si tratta di un nuovo intermezzo linguistico che apre significativi squarci di orizzonti e di spazio – tempo, pregressi e contemporanei. Nessuno ipotizza un effetto di massa di questo nuovo trasloco formale e psicoestetico. Si vuole solo uscire da un “misticismo” di versi non più assoggettabile ad una vecchia identità trasfusa di spiritualismo tout court, che mette un freno ad ogni rinnovamento, tra l’altro necessario e urgente, quando i tempi non possono ulteriormente passare come fantasmi. Ciò, -scrive Lunetta nella sua antologia- vuol dire anche, ma non da ultimo, optare per la professionalità (che non è puro e semplice professionismo), realizzando il massimo del rigore; operando insomma, per (e con ) una letteratura di poesia che contenga sempre al suo interno polisenso la consapevole teoria critica del proprio prodursi.

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  8. Claudio Borghi

    “Il fenomeno dell’Assoluto in poesia non esiste”. Vero, in quanto l’Assoluto non è un fenomeno, è ciò a cui i fenomeni tendono e che ne costituisce il fondamento immutabile. Al di là di qualsiasi intenzione polemica, credo che circa la poesia abbia senso parlare di una ricerca della bellezza, che nelle diverse epoche storiche rivela la sua essenza atemporale, unica e molteplice allo stesso tempo, come l’Aleph di Borges. Cambia solo la sensibilità che accoglie la visione, non la visione in sé. Inviterei in questo senso a pensare in una diversa ottica la Tradizione, non come un’involuzione o un arresto autocompiaciuto in forme anacronistiche, ma come una conquista che si dà in forme diverse nelle diverse epoche storiche. Sono convinto che ogni ricerca, stilistica o contenutistica, si muova nella consapevolezza dell’apparenza del moto nella totalità dell’Essere, che non è statica quiescenza, ma dinamica sintesi di una pluralità di istanze, idee e invenzioni.

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  9. mariella Bettarini

    Grazie, e un caro augurio e saluto da

    Mariella Bettarini

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  10. Cara Mariella Bettarini,
    a nome della redazione tieni presenta la disponibilità della rivista ad ospitare una tua Auto antologia con almeno 10 12 poesie esemplificative del tuo percorso storico, dalla prima pubblicazione all’ulotima. La rivista sarebbe onorata di una tua partecipazione. Grazie e saluti cordiali.

    g.l.

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  11. caro Claudio Borghi,

    io penso che la tua poesia cada nell’errore di sopravvalutare il momento spirituale di fronte a quello sensoriale, accentuando il ruolo del «soggetto» a scapito di quello dell’«oggetto». Un eccesso di soggettività ti impedisce di vedere l’oggetto… In te noto una sorta di «resistenza» (intellettuale, emotiva, esistenziale) ad accettare alcune idee della nuova ontologia estetica (ad esempio il concetto di presentazione di un Evento e di una Esperienza significativa)… che, penso invece ti sarebbero molto utili per modificare la forma-poesia che tu «abiti»… quella «forma» è ormai un abito che non ti sta più bene indosso, credimi, non lo dico per soperchieria o per presunzione, è una «forma» troppo abusata, che è stata troppo indossata e mostra le pieghe, le toppe, le consunzioni…

    In via generale, più la problematizzazione del «soggetto» investe il pensiero più il soggetto esperiente si rivela colpito dal tabù della nominazione. Che l’atto della nominazione si riveli essere il lontanissimo parente dell’atto arcaico del dominio, è un dato di fatto difficilmente confutabile e oggi ampiamente accettato. Ma quando la problematizzazione investe non solo il soggetto ma anche e soprattutto l’oggetto, ciò determina un duplice impasse narratologico, con la conseguenza della recessione del dicibile nella sfera dell’indicibile e la recessione di interi generi a kitsch. Mai forse come nel nostro tempo la dicibilità della poesia come genere è precipitata nell’indicibile: una grande parte dell’esperienza significativa della vita di tutti i giorni è oggi preclusa alla poesia, per aderire al genere romanzesco della narratività. Direi che l’ordinamento delle istituzioni poetiche con il suo semplice prescrivere il dicibile, bandisce tutto ciò che non è immediatamente dicibile nei termini della sua sintassi e del suo lessico. L’indicibile è ciò che non è più raggiungibile e possibile. Ecco spiegata la ragione del trionfo del minimalismo come cannibalismo della comunicazione.

    Oggi i poeti non presentano più una «esperienza significativa», si limitano a comunicare il comunicabile, non fanno altro che fagocitare la tautologia. C’è oggi un’oggettiva difficoltà ad affrontare, in poesia, la problematica di un’«esperienza significativa». Che cos’è una esperienza significativa? Che cosa è un Evento?. La «scrittura poetica» contemporanea propone una sorta di registrazione del quotidiano o del passato del quotidiano o del passato della cronaca con l’impudenza della propria imprudenza. Conseguenza inevitabile dell’impasse in cui è caduta questa cosa chiamata poesia è che si parla molto più del «soggetto», dei suoi ruoli e del suo luogo, che dell’«oggetto», perché il soggetto ha cessato di funzionare come principio, come principio regolatore; per contro, si parla molto meno dell’«oggetto» che del «soggetto», così che il discorso poetico si dissolve in una miriade di appercezioni soggettive, in una fenomenologia delle sensazioni del «soggetto». Si scrive secondo un logos sproblematizzato, di conseguenza, i modi di espressione della soggettività vengono falsati, il logos subisce il tabù della nominazione.

    A pensarci bene, è paradossale ma vero: la poesia dell’«esperienza» ha bisogno di un universo simbolico nel quale prendere dimora e di un rapporto di inferenza tra il piano simbolico e l’iconico; in mancanza di questi presupposti la poesia dell’io esperiente cessa di esperire alcunché e diventa qualcosa di terribilmente autocentrico ed egolalico, diventa la carnevalizzazione del soggetto, esternazione del dicibile sul piano del dicibile: ovvero, tautologia.
    .
    Se il senso della poesia manca, manca la poesia il suo bersaglio. Non v’è orientazione semantica senza orientazione del significato. La poesia esprime il senso che può, al di qua di ciò che intende e al di là di ciò che attinge. Il compito che oggi arride alla poesia dei «poeti nuovi» è appunto ricostruire una relazione tra il significato e il significante, ma in termini del tutto diversi rispetto a quelli che abbiamo conosciuto nel Novecento.
    In un mondo in cui i rapporti umani sono diventati un problema tra gli esseri riprodotti come talismani magici e ridotti a vasi incomunicanti di un «messaggio» che è stato soppresso dalla prassi sociale, resta il problema di come problematizzare l’«oggetto», come liberare le «emozioni» dalla cella dell’io (presunto).
    Oggi, forse, è davvero possibile soltanto una poesia dell’inautenticità e del falso, come il tinnire di una moneta falsa la poesia la devi lasciare nel suo brodo di intrugli e di piccoli trucchi per poterla rubare agli dèi?. Forse.
    Giorgio Linguaglossa

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  12. gino rago

    Isola Tiberina

    La voce di un uccello che chiama la primavera,
    solitario contrappunto alla melodia del Tevere
    – dell’acqua che infrange contro il fondo sassoso
    giare di canti – interroga il futuro.
    Dal passato, che anch’esso detta le sue leggi,
    giunge il ritmico grido delle legioni
    che marciano sui ponti Cestio e Fabricio.
    Il mio passo tenta di unirsi al loro
    – mi precedono sempre di un lampo di spada.
    Anche l’acqua è più rapida correndo immutabile verso il mare,
    dove Nettuno possiede da secoli
    la corona abbandonata dei cesari.
    L’Isola Tiberina salpa allora verso la sorgente del fiume
    come nave che mi porta fino alla prima goccia
    del sangue di Remo.

    Quali, e quanti poeti ‘laureati’ de Lo Specchio (Cucchi o Mussapi, Santagostini o Valduga) o di Einaudi o di Garzanti ci hanno proposto
    versi come codesti di ‘Isola Tiberina’?
    La domanda non è rivolta soltanto a Claudio Borghi, ma a tutti i competenti frequentatori de L’Ombra delle Parole.
    Gino Rago

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  13. caro Gino Rago,

    ma quella di cui parli è la poesia del target di un ufficio stampa! la poesia italiana sta da un’altra parte…

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  14. Caro Borghi, non neghi la possibilità di avvicinarsi alla NOE, e a ciò che essa propone con i suoi interventi disgiuntivi, aggregativi, e propositivi. Accetti le ragioni, il Progetto, e i parametri con cui ci confrontiamo ogni giorno nel redigere i testi senza che lei rinneghi il suo DIO-Poesia, come fece San Pietro a chi gli chiedeva se era Amico di Gesù! Mi creda, se non ci fossero risultati estetici e concettuali così palesi e riformatori, non credo che mi sarei avventurato in una ricerca estetica così conflittuale rispetto al parere e ai gusti di diversi lettori. Sarei rimasto nella mia poesia carica di emozioni, quelle che piacciono a Martino, e di cui non mi sono estraniato con le mie pubblicazioni degli anni 80. Ma i tempi cambiano. Mutano i gusti letterari. Si sprovincializza la comunicazione.Cambia il mondo del lavoro. La società è multietnica. Culturalmente plurale. Rimanere affossati ad una cultura, assoluta e poco elastica, significa piantonarsi in un castello medievale con Re Artù e i suoi soldati. Si rende necessario l’uso di una nuova circolazione estetica. E’ la razionalità dell’Essere sulla postmodernità e sul pensiero dell’Otto-Novecento.La poesia non è un evento immutabile e irreversibile.Diceva bene Heidegger (ancora Lui!) quando affermava che il pensiero è come un – viaggio-. “la ratio si dispiega nel pensare. Il più considerevole nella nostra epoca preoccupante è che noi ancora non pensiamo”. Quindi occorre il viaggio del pensiero per conoscere altre stazioni, altri panorami. “L’inizio non è alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato. Ma ci sta di fronte. Davanti a noi”.

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  15. Claudio Borghi

    Creare contrapposizioni tra poeti che pubblicano presso editori di nome, come fossero tutti necessariamente omologati, e poeti che pubblicano presso editori minori, o non pubblicano proprio, per quanto ci sia senz’altro del vero circa la possibile maggior qualità fuori dai grandi circuiti editoriali, è una assunzione necessariamente semplicistica. Come semplicistica e riduzionistica è la critica della poesia lirico-elegiaca, come fosse per definizione tutta da scartare, in nome della poesia oggettiva: anche qui ci può essere del vero, ma c’è grande poesia lirico-elegiaca e scadente poesia oggettiva e, ovviamente, viceversa.
    Quanto a me, mi limito a osservare che i miei libri sono nati in buona parte da riflessioni filosofiche e scientifiche, filtrate attraverso una immersione profonda nella poesia come possibile sintesi e convergenza di diverse forme di pensiero. Credo e ho sempre creduto che la poesia debba essere capace di generare luce, esprimere la tensione dell’anima di fronte all’inesplicabile, accettare “come sono” le cose e il mondo, e il Logos che li rischiara. Il mio è tutt’altro che un ripiegamento soggettivistico – in cui non vedo comunque nulla di male, se produce bellezza .
    Basterebbe rendersi conto, e in questo mi richiamo idealmente al caro Ubaldo De Robertis, di quanta poesia c’è nel pensiero filosofico e scientifico e di quanta vicissitudine intellettuale può riempirsi un’opera poetica quando la mente si affaccia sulla profondità inosservabile del mondo, lasciando a terra la presunzione di cui si riempie quando confonde la rappresentazione con la conoscenza.
    Mi limito a ricordare una delle principali linee guida della mia ricerca poetica, filosofica e scientifica: quella sul tempo. Mi permetto di ricordare che Giorgio ha pubblicato qualche mese fa su questa rivista un estratto da un mio articolo fisico-epistemologico, “Il tempo generato dagli orologi” e, come esempio di visione alternativa in ambito poetico-metafisico, mi permetto di citare un breve estratto dal mio ultimo libro, uscito il mese scorso presso Negretto Editore, “L’anima sinfonica” (elaborato in buona parte nel 1978-80, prima dei miei studi scientifici), in cui pensare, come scrive Giorgio, sia “sopravvalutato il momento spirituale rispetto a quello sensoriale” è, temo, un’interpretazione riduzionistica, a fronte a una densa intensa rapsodia di intuizioni sospese tra mistica e filosofia, poesia e scienza.
    Si parla, come in tanti passi del libro, del tempo. E l’intuizione (soggettiva o oggettiva? fisica o metafisica?) supera d’un balzo la distinzione, fasulla e approssimativa, tra tempo interno e tempo esterno:

    La materia diviene, ma l’anima è ferma.
    L’anima si imbeve di divenire – è un filtro immobile attraversato dall’onda.
    L’anima sente il trascorrere del mondo attraverso sé – non dentro sé – e chiama questo flusso tempo.

    L’anima fluttua nel rigenerarsi di un centro innominabile – in un respiro di infanzia, in cui affondano radici senza tempo.

    Il divenire disegna la melodia del cuore vivo – l’immanente crearsi della musica che si abbevera alla fonte dell’Uno, che trascorre nel canto nascosto.

    Con imbarazzo prendo atto della conclusione di Linguaglossa: “Oggi, forse, è davvero possibile soltanto una poesia dell’inautenticità e del falso, come il tinnire di una moneta falsa la poesia la devi lasciare nel suo brodo di intrugli e di piccoli trucchi per poterla rubare agli dèi? Forse”:

    Se così è, caro Giorgio, come la mettiamo con Heidegger, a cui spesso ti affidi come guida spirituale? Non credi di percorrere una strada pericolosa, oscillando tra autentico e inautentico? Ed è un grave errore pensare che ci siano pochi lettori capaci di valorizzare la ricerca autentica e profonda, come scrive Gabriele. Ci sono in realtà tanti ottimi potenziali lettori che hanno grande bisogno di autenticità e profondità e, soprattutto, occorre riconoscere che un testo poetico non è solo opera di chi lo scrive, ma anche, in misura non minore, di chi è in grado di valorizzarlo.

    P.S. Ho scritto il commento prima di aver letto l’intervento di Gabriele, a cui credo comunque di aver implicitamente risposto. Devi riconoscere, Mario (non è il caso di darci del tu?), che l’importante è confrontarsi apertamente e, soprattutto, leggersi e quindi conoscersi a fondo prima di esprimere giudizi, che rischiano di essere sommari e riduttivi. Sulla questione della “poesia dell’emozione” ci sarebbe un discorso a parte da fare, che possiamo sviluppare, volendo, in un’altra occasione.

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  16. Claudio Borghi

    Errata corrige:

    a fronte a una densa
    con
    a fronte di una densa

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  17. caro Claudio,

    Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma


    io non creo “contrapposizioni” fra editori maggiori e minori, mi limito a constatare un dato di fatto (rilevato già negli anni Settanta da Fortini) che la poesia la decidono gli uffici stampa degli editori maggiori. Non credo di dileggiare qualcuno o creare contrapposizioni, mi limito a prendere atto di un dato di fatto. Del resto, ciascun ufficio stampa fa la propria «politica editorial culturale», questo è talmente ovvio che soltanto un cieco potrebbe negarlo. Io la penso come Mario Gabriele, sennò staremmo qui ancora «con Re Artù e i suoi soldati»…

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  18. Claudio Borghi

    D’accordo, Giorgio, ma non dimenticarti che i libri non li compra quasi nessuno, in particolare quelli di poesia, e che i poeti che presenti sulla tua rivista sono più letti di quelli che pubblicano Einaudi e Mondadori. In sostanza, se esiste un establishment, discutibile finché si vuole, creato dagli uffici stampa dei grandi editori, si possono creare tanti anti-establishment con altrettanta se non superiore capacità di penetrazione presso il grande pubblico. In questo senso, dai tempi di Fortini è cambiato molto.

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  19. Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma


    Caro Giorgio, non mi dire che “la poesia la decidono gli uffici stampa degli editori maggiori”,perchè mi fai morire.E allora, noi, che ci stiamo a fare? Solo per remare contro corrente? Dobbiamo costruire un’altra etica della poesia:più libera, più coraggiosa, capace di superare le secche della poesia di regime; più meno, come fece Lutero con la chiesa cattolica.

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  20. mi correggo: “più o meno”….

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  21. IL VICOLO CIECO DELLA POESIA ITALIANA
    Cara Anna Ventura,

    Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma


    in effetti quel poco che possiamo fare lo stiamo già facendo… possiamo fare ancora qualcosa di più e meglio, intendo a livello organizzativo e pubblicitario, forse, ma credo che anche sfruttando al massimo internet e i social media, non possiamo certo invertire il corso degli eventi, gli eventi lo decidono le politiche editoriali e pubblicitarie degli uffici stampa degli editori maggiori, e questo è un dato di fatto. Altro dato di fatto, purtroppo, è che i libri di poesia non li acquista più nessuno (altro dato di fatto, che ha anche un risvolto positivo, paradossalmente); che in questi ultimi quattro decenni la politica editoriale degli uffici stampa dei due maggiori editori (che adesso sono diventati un unico editore: Mondazzoli) ha imposto certi nomi, ha creato un brand, un target e che ad essi si sono accodati tutto ciò che gira intorno a certi autori portati dagli uffici stampa e dalle istituzioni pubbliche legati politicamente a quegli uffici stampa e agli interessi macro editoriali… una specie di corto circuito in perenne funzionamento…

    In sostanza, l’unica cosa che possiamo fare è lavorare seriamente, con onestà intellettuale, e quindi dire le cose come stanno, sapendo però che così, indirettamente e direttamente, scaveremo un vuoto intorno a noi… cercheranno di creare una zona di silenzio, di silenziarci, di fasciarci con cuscinetti aproteici…

    Tieni presente che i mediocri sono centinaia, e anche ben organizzati, hanno in mano premi di poesia, manifestazioni, risorse economiche, l’appoggio delle istituzioni partitiche e clientelari… e chi vale siamo in pochi… c’è un enorme disequilibrio tra i due piatti della bilancia… non possiamo certo competere con un esercito tanto diffuso e bene armato… l’unica nostra risorsa è mettere sul piatto della bilancia la qualità… e attendere tempi migliori… Nel frattempo diamo la possibilità alle giovani generazioni, tramite questa rivista letteraria che si fa in diretta, di potersi approvvigionare di cibo intellettuale, di mantenere in vita la “tradizione”… Paradossalmente, siamo noi i veri continuatori e custodi della tradizione della poesia dell’antico novecento…

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    • Caro Giorgio, essere custodi della grande tradizione della poesia dell’antico Novecento non è poco;significa essere custodi di una nuova era della poesia, nata dopo le varie fioriture dei secoli precedenti,con tutto il carico che la Storia aveva messo in aggiunta.Ma io oso sperare di più: essere custodi di tutta la tradizione poetica italiana,mai del tutto separata dall’istanza della realtà,neanche da quella realtà pericolosamente esposta al campanilismo , alle mode del momento, a questo o a quel “regime”
      politico/estetico imposto dalle circostanze.Il poeta libero sarà sempre pronto ad asserire che “eppur si muove”.

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      • Caro Giorgio,
        hai aperto un problema molto serio. L’ombra ha bisogno di poesia è vero, ma anche di apporti economici per aprire un discorso più ampio, se non simile a quello organizzativo delle Grandi Case Editrici, ma almeno starci vicino.Occorre chiedere contributi per attività culturali al Comune di Roma e alla Regione. Trovare un aggancio con qualche mecenate. Istituire un Premio di Poesia con la Rivista dell’Editore Progetto Cultura. Agganciarsi con la TV locale, con le piccole e grandi Riviste e perchè no? chiedere un piccolo contributo di 10 euro al mese a chi frequenti il Blog. Non mi vengono altre idee. Se ve ne sono altre, che ben vengano. Vediamo come va a finire!

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        • Caro Mario Gabriele, io credo molto alla tua intelligenza preparazione, memoria poetica e immaginazione, ma questa tua affermazione finale mi sembra una “battuta” di spirito. E in questo do pienamente ragione a Giorgio che è un pragmatico, oltre che poeta visionario (nonostante la sua passione per il nichilismo.) Ripeto dunque le sue parole con il copia.incolla:
          .”.. non possiamo certo invertire il corso degli eventi, gli eventi lo decidono le politiche editoriali e pubblicitarie degli uffici stampa degli editori maggiori, e questo è un dato di fatto. Altro dato di fatto, purtroppo, è che i libri di poesia non li acquista più nessuno (altro dato di fatto, che ha anche un risvolto positivo, paradossalmente); che in questi ultimi quattro decenni la politica editoriale degli uffici stampa dei due maggiori editori (che adesso sono diventati un unico editore: Mondazzoli) ha imposto certi nomi, ha creato un brand, un target e che ad essi si sono accodati tutto ciò che gira intorno a certi autori portati dagli uffici stampa e dalle istituzioni pubbliche legati politicamente a quegli uffici stampa e agli interessi macro editoriali… una specie di corto circuito in perenne funzionamento…”. Noi non possiamo , ANZI NON DOBBIAMO COLTIVARE LA SPERANZA DI ENTRARE NEL CIRCUITO PERVERSO DEGLI UFFICI STAMPA E DELLA ISTITUZIONI PUBBLICHE, cosa necessaria se vogliamo chiedere finanziamenti!!!! Sarebbe come rinnegare tutto quello in cui abbiamo sempre creduto, i valori che ci sostengono nella lotta per il rinnovamento della Poesia e del PENSIERO CONTEMPORANEO APPIATTITO E LIVELLATO DA MEDIA, INTERESSI, CONFRATERNITE, ENTI FASULLI, FONDAZIONI CREATE APPOSTA PER GUADAGNARCI SOPRA etc. etc. Andare alla ricerca di finanziamenti, oltretutto, ci attirerebbe addosso l’odio di coloro che già non ci amano per la nostra passione per la verità e la giustizia, oltre che per la Bellezza!
          Restiamo quelli che siamo, i “visionari della NOE” a parere di alcuni, o meglio diventiamo quello che siamo…perché ancora l’EGO non è abbastanza morto in nessuno di noi…e finché non lo sarà…non vedremo nascere SPLENDIDA E REALE LA NUOVA POESIA!!!!!!!
          Non posso che compiacermi con Claudio Borghi per il suo ritorno a dibattere le importanti questioni che animano i nostri incontri virtuali…e con Mario Gabriele che ha superato la spina conflittuale nell’ accogliere generosamente la persona dell’ “altro”, invitandolo a partecipare e a non desistere dalla comune lotta per la Poesia!
          Io sarò con voi tutti, amici della parola, per incoraggiarvi a non desistere mai e spero che anche voi lo facciate con me (questo va soprattutto riferito a Lucio Mayoor…Lucio non mi snobbare!:-)
          E poi, ogni tanto, chiediamo aiuto all’ironia che ci fa vedere tutto con il distacco necessario!

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          • Cara Mariella, se ti riferisci alla quota di 1o euro moltiplicata per 2.ooo,quante sono le digitalizzazioni, fanno 2.ooo euro. Cifra minima che non ha accolto il parere di nessuno.Trattandosi di un errore di battitura devi intendere 1o.ooo euro al mese, che ammonterebbero sempre moltiplicati ‘per 2.000 a 2oo,ooo mila, una cifra enorme che si potrebbe affrontare, almeno una volta ogni tanto.

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            • Caro Mario Gabriele, non mi riferisco alla cifra che potremmo versare noi, anzi sarei contenta di farlo, ma a quello che tu hai detto a proposito dei finanziamenti:
              “Occorre chiedere contributi per attività culturali al Comune di Roma e alla Regione. Trovare un aggancio con qualche mecenate. Istituire un Premio di Poesia con la Rivista dell’Editore Progetto Cultura. Agganciarsi con la TV locale, con le piccole e grandi”. Questo mi sembra molto impegnativo e credo che, se fosse stato possibile, Giorgio l’avrebbe già fatto. Comunque il mio è solo un punto di vista…

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