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INVITO al LABORATORIO PUBBLICO GRATUITO di POESIA mercoledì, 8 marzo 2017 presso la libreria L’Altracittà di Roma, via Pavia, 106 h. 18:00 – tel fax 06 64465725 – Referente Silvia Dionisi – Programma degli interventi – Contributi per una riflessione sul Novecento

gif-roy-lichtenstein-a-parigi-la-pop-art-in-mostr-l-lxgcovLa «Nuova Poesia» non può che essere il prodotto di un «Nuovo Progetto» o «Nuovo Modello», di un lavoro tra poeti che si fa insieme, nel quale ciascuno può portare un proprio contributo di idee: questa è la finalità del Laboratorio di Poesia che la Redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole intende perseguire. Sarà presente la Redazione.
L’Invito a partecipare è gratuito e rivolto a tutti e tutti saranno i benvenuti. Vi aspettiamo.
Programma di base:

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1) Giorgio Linguaglossa: Lettura e Commento di una poesia di Tomas Tranströmer. La metafora quadri dimensionale e il tempo interno.
2) Chiara Catapano: Odisseo Elytis La metafisica della luce.
3) Steven Grieco Rathgeb: Lettura e Commento di una Poesia di Antonio Sagredo.
4) Letizia Leone: Tempo e materia. Una prospettiva quadridimensionale in una descrizione veneziana di Iosif Brodskij. Letture da Fondamenta degli incurabili.
5) Donatella Costantina Giancaspero: Lettura e Commento di una poesia di Kjell Espmark (da La creazione, Aracne, 2016 trad. Enrico Tiozzo)
6) Franco Di Carlo Commento a Trasumanar e organizzar (1971) di P.P. Pasolini.
7) Donato Di Stasi Commenta il libro di Antonio Sagredo Capricci (2017) con lettura di poesie dell’Autore.
8) Ospite: Donatella Bisutti parlerà del proprio itinerario poetico.
9) Ospite: Vincenzo Mascolo parlerà del proprio itinerario poetico.
10) Interventi e Letture del Pubblico.

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Ringraziamo la libreria L’altra Città per la disponibilità e invitiamo i partecipanti a sostenere la Libreria indipendente con l’acquisto di un libro di loro interesse.

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  1. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/28/pittura-e-poesia-rosario-la-polla-gino-rago-noi-siamo-qui-per-ecuba-metafora-delle-vittime-rimane-lei-per-sempre-la-regina-il-figlio-dun-eroe-spaventa-i-vincitori/comment-page-1/#comment-18410

    Gino Rago
    QUASI UN BILANCIO DELLA POESIA ITALIANA DEL ‘900

    La poesia italiana del ‘900, da rileggere?

    Siamo ben oltre i tre lustri del XXI Secolo. Per chi agisce nel regno della poesia, come autore di versi, come critico letterario, come interprete, o anche semplicemente come lettore/amante della lirica contemporanea, è inevitabile che noi de L’Ombra delle Parole ci poniamo alcune domande, tutt’altro che oziose:

    – Cosa davvero sappiamo, che pensiamo ormai della poesia italiana del ‘900?
    – Le polemiche, i dibattiti, perfino gli scontri degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono ancora vivi o appartengono a un’epoca remota?
    Nei nostri giorni sono ancora immaginabili o appaiono impossibili?
    – La lingua degli ideologi di quelle stagioni (Sanguineti – Fortini – Pasolini) oggi è ancora comprensibile e/o traducibile in atti di poesia?
    – Nelle Università italiane “ sulla poesia “ si tengono corsi, si assegnano tesi di laurea, si organizzano convegni?

    Forse sì. Ma, se avviene, si tratta di eventi rari, di eccezioni.
    Eppure, alla presenza di alcuni critici letterari e di alcuni poeti a Berlino, all’Istituto Italiano di Cultura, ben tre giorni ( di conferenze, seminari, letture di testi critici e poetici ) sono stati dedicati alla nostra poesia dagl’inizi del Novecento a oggi.

    I risultati più importanti? Eccoli, in breve sintesi:

    La poesia italiana di tutto il Novecento andrebbe riletta (anche sulla poesia di questi anni non sono mancati e non mancano disaccordi). Dell’ermetismo, sia di quello eminentemente legato alla “poetica della parola” (Bigongiari-Luzi- Parronchi), sia di quello “mediterraneo” (Gatto, Bodini, Quasimodo, De Libero, Sinisgalli) non si parla più. Ungaretti vale soprattutto per la sua prima stagione lirica. Luzi resta interessante ma soltanto se letto accanto ai suoi coetanei: Bertolucci, Caproni, Sereni. I quali, secondo alcuni, (e qui il giudizio si lega alle metodologie critiche), superano in valori poetici i leggermente più giovani Zanzotto e Pasolini. Il primato di Saba e Montale resta indiscusso.

    «Sperimentalismo»,« impegno», «avanguardia», « formalismo» sono termini ed esperienze ormai fuori corso. Giovanni Giudici, considerato il vero erede di Gozzano (e Saba ) sembra quasi dimenticato. La neoavanguardia degli Anni ’60 è considerata come una costruzione soprattutto ideologica.
    Sandro Penna con Amelia Rosselli hanno più di altri influenzato le nuove generazioni. Non Marinetti (poeta-vate elettrizzato) ma Campana – Rebora – Sbarbaro sono stati i veri « poeti moderni » della poesia italiana del Novecento. Il “Postmoderno”? Su proposta di Alfonso Berardinelli, tutti l’hanno accolto come «Sperimentalismo neoclassico».

    Un sentito ringraziamento da parte di tutti è da rivolgere ad Angelo Bolaffi (direttore dell’Istituto di Cultura Italiana di Berlino) e alla Literaturwerkstatt berlinese, se non altro per la coincidenza quasi millimetrica delle conclusioni “berlinesi” con quelle emerse dai lavori proposti su L’Ombra delle Parole, dagli esordi della nostra Rivista di Letteratura Internazionale ad oggi.

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  2. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/28/pittura-e-poesia-rosario-la-polla-gino-rago-noi-siamo-qui-per-ecuba-metafora-delle-vittime-rimane-lei-per-sempre-la-regina-il-figlio-dun-eroe-spaventa-i-vincitori/comment-page-1/#comment-18412

    Alfonso Berardinelli
    LA POESIA ITALIANA TRA GLI ANNI SETTANTA E OTTANTA

    […] Con Franco Fortini sembra concludersi una fase della poesia italiana che va dall’acquisizione delle poetiche simboliste all’autoriflessione politica della lirica come falsa libertà del soggetto.
    La categoria di «sperimentalismo», elaborata da Pasolini alla metà degli anni Cinquanta, costituì un momento di sintesi carica di possibilità negli anni che vanno dall’esaurimento dell’engagement neorealistico e del montalismo all’avvento delle nuove avanguardie. Il luogo di elaborazione delle ipotesi «sperimentali» fu la rivista bolognese “Officina“, una piccola rivista artigianale, dal pubblico estremamente limitato, che uscì dal 1935 al 1958 a Bologna, diretta da Roberto Roversi, Franco Leonetti e dallo stesso Pasolini. In questi tre scrittori (anche Leonetti e Roversi, come Pasolini, sono poeti e autori di opere narrative e di assemblaggi autobiografico-saggistici) la scelta definibile come sperimentale corrisponde ad un atteggiamento di opposizione, di aggressività «angry», ma anche ad una situazione di isolamento politico, in parte subìto, e in parte voluto, e fonte di continue oscillazioni.

    Della perpetua lotta e rincorsa fra una scrittura poetica disposta a qualsiasi avventura linguistica e funzionale, e una realtà odiata-amata in costante movimento, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) ha fatto il centro surriscaldato di tutta la sua opera. Un’opera che sembrava attentissima alla costruzione di un proprio programma strutturale e strategico, e che poi si è mostrata disposta ad andare letteralmente allo sbaraglio, rischiando tutto e tendenzialmente autodistruggendosi come tale, pur di mantenere la propria «presa diretta» sul presente. Perciò la passione e l’ideologia dello «sperimentare», attraverso la «disperata vitalità» della trascrizione improvvisata, non potevano che portare Pasolini alla fine di ogni «stile» (magari intesa come rinuncia e autospossessamento dell’autore incalzato dai suoi traumi e dalle sue disperazioni personali).
    La versatilità creativa e intellettuale di Pasolini (se si considerano i limiti rimasti sostanzialmente inalterati della sua cultura: una cultura quasi esclusivamente, e anche limitatamente, letteraria, molto italiana e in fondo refrattaria alle influenze della maggiore cultura europea del novecento) ha dato vita ad un’opera eccezionalmente vasta: di narratore, di regista, di critico letterario (soprattutto con Passione e ideologia, 1960, e con Descrizioni di descrizioni, 1979, postumo), di poeta. E la poesia di Pasolini, dalle liriche dialettali e mistico-erotiche (La meglio gioventù, 1954); L’usignolo della Chiesa Cattolica, 1958) ai poemetti «civili» degli anni Cinquanta (Le ceneri di Gramsci, 1957; La religione del mio tempo, 1961) fino ai poemi-collages e agli articoli in versi (Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971) è documento di un trauma personale e storico; dovuto non solo al fallimento fatale di una ipertrofia narcisistica del soggetto-scrittore, ma anche alla involuzione della democrazia italiana, soffocata dalla meschinità conformistica della sua cultura politica e del suo ceto medio.

    In Pasolini, del resto, e in toni di violenza nostalgia, parlava un’Italia non ancora «razionalizzata» dallo sviluppo industriale: un’Italia rurale e municipale, frammentata nei suoi localismi regionali, e perciò «umile», legata alle sue origini contadine e preborghesi. Questa aderenza biologica al suolo rurale, inteso come protezione materna e come nutrimento primordiale, è presente, sebbene in forme molto diverse, anche nella poesia di Andrea Zanzotto (1921-2012). Zanzotto ha sperimentato su una base di partenza diversa: ha rinnovato la transizione orfica ed ermetica, spingendo la sua ricerca di laboratorio fino alla dissociazione molecolare delle unità del linguaggio, giocando contemporaneamente sula massima astrazione stilistica (con recuperi petrarcheschi, bucolici, arcadici) e su uno smembramento analitico che risospinge il linguaggio alle soglie dell’afasia, verso le sillabazioni e i balbettamenti infantili. Qui l’atteggiamento «sperimentale» non solo tocca i suoi limiti estremi, ma nel momento in cui, Zanzotto riesce a scrivere una stupenda lirica carnevalesca e apocalittica, mostra anche il rischio che l’esibizione del laboratorio, mostra anche il rischio che l’esibizione del laboratorio rovesci il meraviglioso spettacolo linguistico nel grigiore del gratuito e dell’inerte.

    Un caso a sé, in assoluto fra i più originali degli ultimi decenni, è quello di Giovanni Giudici (1924-2011). Con Giudici si misura la distanza che può separare un autentico scrittore in versi di questi anni da tutto quanto si è discusso, agitato e rimescolato nella cultura poetica italiana di circa mezzo secolo. Galleria ironica, funebre o sentimentale di personaggi in movimento, di situazioni grottesche e senza sbocco, in una inesausta recitazione stilistica, la poesia di Giudici (La vita in versi, 1965; Autobiologia, 1969; O Beatrice, 1972; Il male dei creditori, 1977) scavalca le scuole novecentesche, ritrova levità melodiche e attitudini realistiche settecentesche, attraversando Saba, Gozzano e Pascoli. Ma il suo protagonista è l’uomo medio dell’Italia impiegatizia, aziendale e democristiana…1]

    1] A. Berardinelli La cultura del 900 Mondadori, vol. III 1981, pp. 350, 351, 352

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  3. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/28/pittura-e-poesia-rosario-la-polla-gino-rago-noi-siamo-qui-per-ecuba-metafora-delle-vittime-rimane-lei-per-sempre-la-regina-il-figlio-dun-eroe-spaventa-i-vincitori/comment-page-1/#comment-18413
    Giorgio Linguaglossa
    Anni Cinquanta-Settanta – La dissoluzione dell’unità metrica e la poesia dell’Avvenire

    Qualche tempo fa una riflessione di Steven Grieco Rathgeb mi ha spronato a pensare ad una Poesia dell’Avvenire. Che cosa significa? – Direi che non si può rispondere a questa domanda se non facciamo riferimento, anche implicito, alla «Poesia del Novecento», e quindi alla «tradizione». Ecco il punto. Non si può pensare ad una Poesia del prossimo futuro se non abbiamo in mente un chiaro concetto della «Poesia del Novecento», sapendo che non c’è tradizione senza una critica della tradizione, non ci può essere passato senza una severa critica del passato, altrimenti faremmo dell’epigonismo, ci attesteremmo nella linea discendente di una tradizione e la tradizione si estinguerebbe.

    «Pensare l’impensato» significa quindi pensare qualcosa che non è stato ancora pensato, qualcosa che metta in discussione tutte le nostre precedenti acquisizioni. Questa credo è la via giusta da percorrere, qualcosa che ci induca a pensare qualcosa che non è stato ancora pensato… Ma che cos’è questo se non un Progetto (non so se grande o piccolo) di «pensare l’impensato», di fratturare il pensato con l’«impensato»? Che cos’è l’«impensato»?
    Mi sorge un dubbio: che l’idea che abbiamo della poesia del Novecento sia già stata pensata. Come possiamo immaginare la poesia del «Presente» e del «Futuro» se non tracciamo un quadro chiaro della poesia di «Ieri»? Che cosa è stata la storia d’Italia del primo Novecento? E del secondo Novecento? Che cosa farci con questa storia, cosa portare con noi e cosa abbandonare alle tarme? Quale poesia portare nella scialuppa di Pegaso e quale invece abbandonare? Che cosa pensiamo di questi anni di Stagnazione spirituale e stilistica?

    Sono tutte domande legittime, credo, anzi, doverose. Se non ci facciamo queste domande non potremo andare da nessuna parte. Tracciare una direzione è già tanto, significa aver sgombrato dal campo le altre direzioni, ma per tracciare una direzione occorre aver pensato su ciò che portiamo con noi, e su ciò che abbandoniamo alle tarme.

    Anni Cinquanta. Dissoluzione dell’unità metrica

    È proprio negli anni Cinquanta che l’unità metrica, o meglio, la metricità endecasillabica di matrice ermetica e pascoliana, entra in crisi irreversibile. La crisi si prolunga durante tutti gli anni Sessanta, aggravandosi durante gli anni Settanta, senza che venisse riformulata una «piattaforma» metrica, lessicale e stilistica dalla quale ripartire. In un certo senso, il linguaggio poetico italiano accusa il colpo della crisi, non trova vie di uscita, si ritira sulla difensiva, diventa un linguaggio di nicchia, austera e nobile quanto si vuole, ma di nicchia. I tentativi del tardo Attilio Bertolucci con La capanna indiana (1951 e 1955) e La camera da letto (1984 e 1988) e di Mario Luzi Al fuoco della controversia (1978), saranno gli ultimi tentativi di una civiltà stilistica matura ma in via di esaurimento. Dopo di essa bisognerà fare i conti con la invasione delle emittenti linguistiche della civiltà mediatica. Indubbiamente, il proto sperimentalismo effrattivo di Alfredo de Palchi sarà il solo, insieme a quello distantissimo di Ennio Flaiano, a circumnavigare la crisi e a presentarsi nella nuova situazione letteraria con un vestito linguistico stilisticamente riconoscibile con Sessioni con l’analista (1967). Flaiano mette in opera una superfetazione dei luoghi comuni del linguaggio letterario e dei linguaggi pubblicitari, de Palchi una poesia che ruota attorno al proprio centro simbolico. Per la poesia depalchiana parlare ancora di unità metrica diventa davvero problematico. L’unità metrica pascoliana si è esaurita, per fortuna, già negli anni Cinquanta quando Pasolini pubblica Le ceneri di Gramsci (1957). Da allora, non c’è più stata in Italia una unità metrica riconosciuta, la poesia italiana cercherà altre strade metricamente compatibili con la tradizione con risultati alterni, con riformismi moderati (Sereni) e rivoluzioni formali e linguistiche (Sanguineti e Zanzotto). Il risultato sarà lo smarrimento, da parte della poesia italiana di qualsiasi omogeneità metrica, con il conseguente fenomeno di apertura a forme di metricità diffuse.

    Dagli anni Settanta in poi saltano tutti gli schemi stabiliti. Le istituzioni letterarie scelgono di cavalcare la tigre. Zanzotto pubblica nel 1968 La Beltà, il risultato terminale dello sperimentalismo, e Montale nel 1971 Satura, il mattone iniziale della nuova metricità diffusa. Nel 1972 verrà Helle Busacca a mettere in scacco queste operazioni mostrando che il re era nudo. I suoi Quanti del suicidio (1972) sono delle unità metriche di derivazione interamente prosastica. La poesia è diventata prosa. Rimanevano gli a-capo a segnalare una situazione di non-ritorno.
    Resisterà ancora qualcuno che pensa in termini di unità metrica stabile. C’è ancora chi pensa ad una poesia pacificata, che abiti il giusto mezzo, una sorta di phronesis della poesia. Ma si tratta di aspetti secondari di epigonismo che esploderanno nel decennio degli anni Settanta.

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    I contributi critici di Alfonso Berardinelli (“La poesia italiana fra anni Settanta e Ottanta”) e di Giorgio Linguaglossa (“La dissoluzione dell’unità metrica e la poesia dell’avvenire”) gettano nuove luci sul tentativo, che prima o poi dovrà essere affrontato, e scartocciato nelle sue linee fondamentali, di una rilettura del ‘900 poetico italiano.
    Anche se molti aspetti già compiutamente emergono sia come “conseguenze” poetiche di suggestioni e influenze lontane, sia come basi estetiche verso un nuovo corso poetico italiano. Qualche deduzione sull’orizzonte operativo della “nuova” poesia italiana quindi forse è possibile, forse può essere tentato:

    – sembra in via di liquidazione l’intimismo, almeno quello che in termini di teorie simboliste, ha permeato la lirica dai crepuscolari agli ermetici;

    – pare definitivamente in crisi l’istanza di quel realismo di matrici sociologiche e marxiste, con tutti gli estri rivoluzionari a farsi interpreti di quella massificazione a opera d’una società industriale avanzata;

    – si colgono, disseminati e sparsi qui e là, taluni semi e segni di una certa critica del linguaggio tradizionale (Crovi, Ceronetti, Pignotti) tesa alla ricostruzione d’una espressione in grado d’inglobare in sé tutti i frammenti – mitici – delle idealità perdute.

    Forse in una certa misura, con la rottura dell’unità metrica segnalata nel suo lavoro critico da Giorgio Linguaglossa, sul finire del ‘900 la lirica italiana prende atto del fatto che il “come evolversi esteticamente” per lei significasse passaggio a nuova vita, senza rimpianto per le vecchie forme passate.

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