di Vincenzo Petronelli
Promemoria per l’anno 2022 che ci lasciamo alle spalle
lombradelleparole.wordpress.com
Miroslav KrležaNOTTURNO
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Giorgio Linguaglossa (@glinguaglossa) December 31, 2022
Senza dubbio, quest’articolo [ https://lombradelleparole.wordpress.com/2022/12/09/ilya-yashin-il-testamento-di-un-oppositore-russo-colpevole-di-aver-detto-la-parola-guerra-giunti-alla-fine-della-seinsvergessenheit-adesso-sappiamo-da-massimo-cacciari-krisis-d/comment-page-1/#comment-80210 ] ci pone di fronte ad una riflessione cruciale per le sorti del sapere e della poesia odierni, dato che il crocevia rappresentato degli avvenimenti succedutisi in questi ultimi anni, ci ha fatto comprendere l’inevitabilità di interrogarci sui modelli gnoseologici, ontologici e di rappresentazione del mondo consolidatisi nei decenni scorsi, a partire dal riflesso individualistico, sfociato nell’edonistico dagli anni’80 del secolo scorso. Sappiamo peraltro come in Italia, questa stagnazione abbia investito in modo particolare la poesia, in buona parte, nelle sue forme dominati, relegata ad arte da salotto o da festival; ciò non toglie, ovviamente, che anche nel periodo suddetto ci siano state voci che abbiano tentato di fare poesia seria, ma indubbiamente l’orientamento prevalente è andato in un’altra direzione.
Le vicissitudini di questi ultimi anni hanno dimostrato anche a coloro maggiormente adagiati sul senso di un falso benessere ed acquiescenza proprio della società occidentale, come gli schemi siano ormai saltati completamente e che le false certezze su cui tale senso si è basato non hanno ormai più alcuna valenza. La poesia ed i linguaggi della cultura in generale, nelle loro versioni addomesticate agli interessi dominanti (che in particolare poesia italiana coincidono con i modelli prevalenti della produzione poetica) si sono trasformati in una sorta di nullità reazionaria, svilita completamente della componente rigeneratrice che dovrebbe sottendere l’uso della parola letteraria, piegatasi in questo caso all’uso della concezione quotidiana della lingua. Probabilmente, è da considerare questo come uno degli aspetti più deleteri che la cosiddetta “poesia del quotidiano” ha comportato come riflesso non solo sulla prassi, ma sulla stessa espressività poetica: non tanto l’introduzione nella poesia di temi tratti dal quotidiano (che anzi, trattati con il giusto “velo” poetico hanno rappresentato un’estensione del dicibile o del rappresentabile in poesia), quanto l’idea di ridurre la lingua della poesia a quella del quotidiano, appiattendone e svilendone la potenzialità filosofica, antropologica, soteriologica immanente alla lingua poetica, soteriologica (o se vogliamo taumaturgica nei confronti della lingua in generale) perché he più di altre forme d’arte, i canoni linguistici della poesia hanno la possibilità di agire come un bulino, nei confronti della lingua tutta.
Anche la poesia ha invece abdicato a tale ruolo, contribuendo così alla grande semplificazione che caratterizza la comunicazione del nostro tempo, funzionale al progetto di “normalizzazione” politica cui ormai la società occidentale è sottoposta dalla metà ann’80 del secolo scorso e che è ormai giunto al livello del parossismo delle coscienze.
La bellissima allocuzione di Ilya Jashin ci conduce direttamente al nocciolo di questo discorso, con il suo tentativo di rischiarare le menti obnubilate dalla propaganda russa a proposito dell’intervento armato in Ucraina ed in generale del liberticidio che contraddistingue sempre più il regime politico dello zar di tutte le Russie. L’esempio russo è particolarmente calzante nella misura in cui ci troviamo di fronte alla “macchina politica” che in questo momento ha probabilmente portato al massimo livello la propaganda tramite l’informazione digitale, divenendo il burattinaio che muove i fili di gran parte degli attuali movimenti demagogico – populisti che minacciano la nostra democrazia, che per quanto imperfetta, è pur sempre un valore da difendere, pena il regresso dell’Europa e della società occidentale ad epoche nefaste del nostro passato.
A partire dagli ultimi anni, gli effetti di tale manipolazione politica della comunicazione sono emersi in maniera drammatica e siamo di fronte senza dubbio, ad uno dei problemi principali della nostra società in questo momento; le storture operate da questo sistema di controinformazione populista, con le varie declinazioni operate in Ungheria, Polonia, Rep.Ceca, Serbia, ma anche in Grecia, in Spagna ed in Italia, sono sotto gli occhi di tutti, con politiche ammiccanti ora ad istanze di una destra nazionalista, xenofoba, fondamentalista cristiana, ora ad istanze di sinistra troppo sbrigativamente pauperiste e classiste, assolutamente fuori tempo massimo o che, per meglio dire, di fronte al rischio di una nuova polarizzazione della ricchezza, propongono soluzioni legate al comodo sbandieramento di slogan di sicuro effetto, solo perché consolidati nei vecchi proclami storici, ma che rischiano in realtà di trasformarsi in pura propaganda con possibili esiti imprevedibili e nefasti come la storia ci ha del resto già insegnato.
La semplificazione, l’appiattimento del linguaggio è stato naturalmente lo strumento privilegiato di questo rimescolamento delle coscienze, in un progetto in cui la parola si avvizzisce nel suo potere creativo, producendo una lingua scialba, incolore, amorfa, monocorde, di facile presa popolare e di grande “resa” politica.
È stato questo, in realtà, un punto d’arrivo di un processo avviato già con il dissolvimento della parabola del mondo socialista e l’assurgere di un padrone unico sullo scenario politico mondiale, percorso che recava con sé la necessità di limitare la complessità del confronto dialettico, tendenza abbinata all’edonismo che ha caratterizzato la cultura occidentale di quegli anni di ripiegamento sull’individualismo e di tramonto delle utopie collettive. Una delle testimonianze più significative di questo nuovo ordine venutosi a creare in quegli anni, l’abbiamo avuta in Italia con una delle voci poetiche più alte della nostra storia del secondo dopoguerra, che ha scelto la musica come campo d’espressione per veicolare la sua poesia e cioè Fabrizio De Andrè, che nel suo album Le nuvole, apparso nel 1990 ritrae questo mondo caratterizzato da un potere sempre più ammorbante, soverchiante, annichilente nei confronti della società, il cui controcanto è dall’altra parte quello di un popolo sempre più rintanato sui fatti propri e che, nella misura in cui il potere glielo consente, continua a vivacchiare facendosi i fatti propri, ignorando (o fingendo di ignorare) la sciagura che sta per abbattersigli addosso. Un brano particolarmente rappresentativo di questa fotografia che il disco riprende è ‘A çimma, scritto in genovese con Ivano Fossati e Mauro Pagani, il cui protgonista è un cuoco – alle prese con la preparazione per una cerimoni, dell’omonimo piatto tipico della cucina genovese – circondato da un mondo prossimo allo sbando, che racchiude tutta la sua vita nella sua cucina, trovando motivo di indignazione solo nella riprovazione del comportamento degli astanti che mandano in fumo il suo lavoro dopo aver consumato la pietanza.
Il cuoco di Agamennone ha preso il posto del Re
Briseide tiene al laccio Achille
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Giorgio Linguaglossa (@glinguaglossa) December 31, 2022
Il disagio indotto da questa situazione di monopolio politico – culturale, ha però prodotto delle conseguenze, dalle pretese palingenetiche, che però già a partire dagli anni ’90, si rivelano essere peggiori del male che intendevano curare, dando vita – sempre nel nome dell’illusione di poter trovare scorciatoie per problemi complessi – a pericolosi intrecci populistici, estrinsecati tramite una politica divisiva il cui unico effetto è la creazione di slogan imbonitori, che racchiude la retorica nazionalistica e xenofoba delle piccole patrie egoiste delle regioni europee più ricche, la paradossale politica dell’antipolitica, altro inganno di facile presa, che ha sdoganato nell’arengo della discussione politica le chiacchiere da parrucchiere di fronte alle quali un tempo persino chi le esprimeva provava pudore, con le loro derive dell’ “uno vale uno” e della totale elisione della competenza: posizioni politico-ideologiche che hanno di fatto assunto naturalmente come elemento distintivo culturale l’isterilimento del linguaggio, in quanto meccanismo di controllo dal basso, per avvalorare l’inganno della pretesa democrazia.
Questa falsa, subdola idea di democrazia prêt à porter, organica in realtà a questo disegno destabilizzante per la vera democrazia, ci ha condotti in questi ultimi anni ad assistere alla formulazione di teorie farneticanti che, deformando il concetto di controinformazione alla luce di queste categorie annichilenti del pensiero, hanno ribaltato l’idea della stessa controinformazione rendendola strumento di questo progetto demagogico, molto semplicisticamente partorendo un modello per cui sarebbe sufficiente sovvertire la realtà di fatto per dar prova di un esercizio di vaglio critico che vada a scovare, in un presunto altrove – identificabile con le proprie pulsioni, frustrazioni, aspettative – le spiegazioni profonde della contemporaneità.
È sottinteso che in tale contesto ognuno possa ritagliarsi il nemico che meglio risponda ai propri fallimenti personali, grazie alla duttilità delle parole d’ordine coniate e contenute in questi messaggi improntati appunto ad una semplificazione scarnificante del linguaggio, che consente di trasformare i messaggi in veri e propri slogan, volutamente eclettici proprio per il loro minimalismo.
Appare così evidente l’intento destabilizzante per la democrazia insito in tale disegno, capace di spacciare misure di carattere puramente assistenzialistico, da sempre serbatoio di clientelismo politico, per politica progressista; di ribaltare conquiste storiche della scienza vengono messe in discussione nel nome di un’interpretazione nichilistica del senso della libertà personale, in cui è assente qualsivoglia attenzione per il bene collettivo; di mettere in discussione libertà sociali ormai consolidate, per il tramite di nuovi predicatori dell’integralismo religioso; di esaltare uno dei peggiori despoti della storia contemporanea, re-incarnazione delle figure più sinistre della storia passata e già autore di vari episodi di genocidio ed annientamento di popoli, come liberatore del neo-nazismo, paradossalmente pur essendo movimenti che spesso e volentieri strizzano l’occhio a quell’eredità e che hanno nello stesso despota il loro punto di riferimento. Proprio gli eventi della guerra di aggressione russa all’Ucraina, costituiscono una sorta di apoteosi di questo processo, momento culminante di questa politica che proprio dalla disinformacija russa trae la sua maggior propulsione, funzionalmente agli interessi del neo zar di ridefinire le parabole della storia, alimentando i propri disegni imperialistici.
Un corollario inevitabile di questo atteggiamento è la creazione di un bacino di divulgatori politici, culturali, di un’intelligencija di riferimento (influencers come si sogliono definire nel vocabolario dei nuovi media), il più delle volte costituito di una pletora di intellettuali del tutto improvvisati, pronti ad approfittare della possibilità di salire sullo scranno donato loro, il cui compito (come sempre avviene con i regimi illiberali) è di arruolare uno stuolo di volontari carnefici pronti ad immolarsi per qualunque causa venga loro affidata dai leaders, non più agghindati in uniforme e stivali militari, ma in giacca, cravatta e valigetta ventiquattr’ore, avendo nel frattempo provveduto a cambiarsi d’abito.
E la poesia cosa fa in questo contesto? Nella maggior parte dei casi si è ritagliata il suo spazio, la sua fetta di torta nella grande partizione e chi naviga nell’aura mediocritas di questi ultimi decenni, evidentemente non si scompone più di tanto di fronte alla situazione in atto, perché l’importante, dal loro angolo visuale è continuare a crogiolarsi ed a raccogliere consensi (mediatici o attraverso il ridicolo mercimonio dei premi) e mentre questi ambiscono ai “ricchi premi e cotillons”, fuori l’umanità compressa nelle terre dove si concentrano gli appetiti dei nuovi imperatori del mondo, combatte solitaria la sua battaglia per l’affrancamento dalla nuove tirannie.
Trovo che questa situazione venga straordinariamente riflessa questa condizione in anticipo sul in questa poesia di Miroslav Krleža, poeta tra i più straordinari nel ritrarre la società europea del ‘900 (in particolare dal suo laboratorio, per molti versi privilegiato, del mondo balcanico) lontano da qualsiasi tentazione di poesia dell’egolalia e che meriterebbe senza dubbio una maggior fama.
Miroslav Krleža
NOTTURNO DI SAN SILVESTROMILLENOVECENTODICIASSETTE
(Silvestarski nokturno godine hiljadu devet stotina sedamnaeste)
Promemoria a coloro che osserveranno tutto ciò da un’altra prospettiva
La luna è un tondo sanguigno,
e gli alberi soffrono eroici nel morto silenzio,
e la notte del santissimo vescovo Silvestro placida, placida, respira.
L’astrale semi riflesso verde della nera notte nebbiosa,
quando nel cosmico gioco il globo gira per una logora cifra,
e quando sul calendario
l’Anno Vecchio dal Nuovo è scannato.
Oh, a Nuova York, a Genova o a Hong Kong
ora le sirene di tutte le navi ancorate
ululano,
e tutte le antenne ora, in questo momento, spargono manciate di scintille blu
sulle strisce di tutti i meridiani.
Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong,
e non ascolto le sirene delle navi ancorate.
Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,
e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione:
martiri in fila, sciagurati, crocifissi.
E pantere ululano accompagnate dal piffero dell’ebbro Bacco,
scorpione e serpente e granchi neri,
sono loro quest’anno sovrani del pianeta.
Malate e gialle sono forme sanguigne di questa notte di San Silvestro,
e tutti i colori squallidi e smunti.
Su, ch’io canti sul cadavere della Vecchia stagione, donna morta:
«Che cosa ci hai dato, decrepita meretrice?
Manicomio, caserma, cannoni e imperatore,
musiche e incendio, funerali e terrore.
L’Europa si ubriaca sulla mina di questa lugubre notte,
e Scheletro Grande versa lo spumante nel calice.»
La luna è sanguigna,
e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte con coltello piombo e gas,
e unghie, e calcio del fucile, e pugno,
la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smrok,
pure questa è notte di San Silvestro.
Oltre all’ambientazione che per la situazione di guerra e la collocazione di calendario, potrebbe sembrare una poesia composta oggi (e fa pensare che siano trascorsi più di cento anni dai fatti descritti), trovo che alcuni passaggi, come: «Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong/e non ascolto le sirene delle navi ancorate./Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,/ e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione»;
o come:
«Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong/e non ascolto le sirene delle navi ancorate./Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,/e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione», evidenzino mirabilmente lo straniamento che si impossessa dell’intellettuale realmente calato nell’osservazione e nel tentativo di decifrare la realtà di un tempo così desolante come quello dell’epoca cui si riferisce il brano e che richiama in modo impressionante la nostra.
Il compito della poesia e dell’arte in genere in tale contesto, dovrebbe essere da un lato appunto, lo scrutamento e la denuncia e dall’altro l’approfondimento e la ricerca dei “moti profondi”, delle connessioni sotterranee che sottendono la crosta di superficie, per comprendere a fondo le logiche ontologiche, destrutturandole e proponendo un nuovo possibile paradigma.
È precisamente questo lo spazio in cui si situa l’opera della Noe, che nella sua formulazione attuale della Poetry kitchen, ha probabilmente trovato la sua cifra espressiva – per quanto in un percorso ovviamente in continuo divenire, come qualsiasi operazione vera di ricerca intellettuale – come appare evidente dall’evoluzione degli scritti del nostro collettivo, un esempio dei quali, in quest’articolo, mi sembrano questi versi di
Giorgio Linguaglossa
Il cuoco di Agamennone ha preso il posto del Re
Briseide tiene al laccio Achille
Prigozhin inaugura la nuova Area fitness
Ci sono Briseide che amoreggia con Rocco Siffredi, le Signore Elena, Aspasia, Neera, Frine, Taide, Pitionice e il Sig. Piantedosi
Tutti litigano con Diomede.
Colgo l’occasione per ringraziare tutti voi, cari amici, per il percorso di questo 2022 insieme – anno che tra l’altro è stato per noi particolarmente fruttuoso – e per augurare a tutti ed augurarci come Noe, uno splendido 2023.
giorgio linguaglossa
31 dicembre 2015 alle 9:04
caro Pasquale Balestriere,
io do per scontato che davanti ad un testo di poesia, le valutazioni siano le più disparate, quindi capisco il tuo punto di vista, comprendo le eccezioni che sollevi.
Tu parli degli «scacchi come metafora della Vita». Esatto. Ma nella «Vita» c’è il problema del «Potere» e il problema dell’esistenza degli uomini (le «pedine» della poesia). Ora, in tutta la grande poesia occidentale il problema vero, quello al centro della poesia è il problema del potere e della Morte che proviene dal Potere. Anche in questa poesia di Dunya Mikhail non si parla certo dei problemi piccolo borghesi tra un «io» e un «tu», degli innamorati che cincischiano come si fa nella pseudo poesia dei nostri giorni climatizzati dal riscaldamento globale. Oggi c’è in Occidente una sorta di cecità globale forse dovuta al riscaldamento globale delle menti per cui viene apprezzato un altro tipo di poesia psicologica, ironica, giocosa, ilare, auto ironica etc. Io personalmente ritengo che la vera poesia non si debba occupare di queste briciole esistenziali ma debba andare direttamente al centro dei problemi della nostra epoca, ormai non c’è più tempo per gli indugi e per le strategie difensivo elusive.
La poesia di Dunya Mihhail parlando del gioco degli scacchi in realtà ci parla della CRISI DELLA RAGIONE, la ragione assertoria e della omogeneità assertoria che fonda giuridicamente il Logos occidentale e, quindi, alche il logos della poesia.
Quello che mi affascina in questa poesia è che tutto ciò che vi accade, tutti gli eventi descritti indica che c’è all’interno della Ragione Occidentale un momento indicibile, ed è l’indicibile dell’ordine assertorio. Ecco perché la poesia fa appello, come tu giustamente e acutamente scrivi, alla «mente» piuttosto che al «cuore», fa riferimento alla Crisi di quella Ragione che ha fondato la razionalità occidentale perché ha creato, insieme alla penicillina e agli antibiotici, insieme alle astronavi e all’arte anche le stragi degli innocenti e gli eccidi di massa. Qui c’è un problema, sembra dirci Dunya Mikhail, che Dio è morto e che QUELLA Ragione che era il punto di partenza della razionalità, è scomparsa, che non si sa più di che cosa render ragione nella catena proposizionale se non della catena stessa, che sopravvive, come mostro proposizionale. E tutto l’edificio della Ragione Occidentale ne risulta minato. La ragione intesa come concatenarsi proposizionale giustificatorio, che è priva di fondamento. E questo spiega la CRISI perché non c’è più un Originario, non c’è più un Fondamento. Il punto debole della razionalità occidentale è il suo punto di partenza. Quello che la poesia di Dunya Mikhail ci vuole far capire è che il punto debole è innervato in quella «pedina» con cui ha inizio la poesia. È essa che è minata dal Discorso assertorio che dissimula nella propria assertoricità il suo ordine interno malato, la propria infermità. È lo stesso Ordine assertorio con il quale è fatta la poesia. Paradossalmente, l’aspetto geniale di questa poesia, io la rinvengo proprio in questo atto: quello di parlare della Crisi della Ragione proposizionale con la stessa stoffa con la quale essa ci parla, con un ordine assertorio che parla alla «mente» (come tu acutamente scrivi) senza nulla concedere al «cuore». Per la poesia del cuore ci sono gli sterminati eserciti dei piccoli poetini abatini…
buon anno!
Presto finirà la sbandata per quell’incosciente di Duchamp, e torneremo a Matisse, che aveva previsto i colori luce dell’RGB, semplificato forme e dato rilievo a significati insignificanti (passato alla storia per aver dipinto dei pesci rossi!).
Sono cresciuto a pane e critica marxista. Non facevo un passo senza che lo inquadrassi in ottica di sistema. Così anche l’analisi dell’amico Vincenzo Petronelli: se parliamo di poesia, l’occidente è messo male, i poeti kitchen sono dei naufraghi costretti a fare i netturbini del mare. Ma è colpa di Putin.
Buongiorno a tutti e buon anno amici, sperando che sia un anno più sereno e pacifico di quello appena trascorso. Nell’ambito del nostro piccolo di poeti kitchen (credo che ormai possiamo essere identificati come una categoria d’azione e di pensiero intellettuale a sé rispetto al resto di questo panorama a volte sgangherato che contraddistingue buona parte della poesia italiana), speriamo più modestamente che possa essere un anno foriero di soddisfazioni come lo scorso e mi sento di poter vaticinare un responso positivo, poiché ormai la strada pare tracciata nella giusta direzione.
È sempre un piacere leggerti caro Lucio, sia nei tuoi componimenti che nei tuoi commenti, arricchiti dalla tua straordinaria ironia pungente, che immagino pronunciata dalla tua voce “mastroiannesca”.
Magari, caro Lucio, tutto dipendesse da Putin: avremmo già risolto i problemi del mondo, intanto perché avremmo individuato il responsabile unico di tutti le malefatte che ci affliggono e poi perché vorrebbe dire che la “malapianta” non sia così radicata.
Purtroppo viviamo in un mondo affollato da figure di satrapi sempre più ingombranti, le ricadute delle cui azioni, in un mondo globalizzato, sono sempre più destabilizzanti per l’intero pianeta; schegge impazzite di un ordine politico ormai alla deriva.
Certamente Putin, come tutti i leaders delle realtà geopolitiche dominanti, è tra tessitori delle fila degli “elementi del disastro” (parafrasando la celebre locuzione di un grande poeta come il colombiano Alvaro Mutis) della degenerazione originata dalla frantumazione del vecchio disegno bipolaristico, ma purtroppo, non è l’unico despota che affligge il panorama di questo nostro mondo sbandato.
In questo quadro oggettivamente sconfortante (per quanto possa sembrare una frase fatta e di facile effetto, certe volte non riesco proprio ad immaginare quale mondo si troverà ad affrontare mia figlia) credo che la poesia e l’arte in genere siano chiamate ad attendere ad un ruolo soteriologico di allerta critica e di innalzamento del livello estetico, com’è del resto storicamente nella natura della vera arte; penso di poter affermare senza timore di smentita, che la poetry kitchen si situi nel solco di questa tradizione, assumendo un ruolo di baluardo contro la contaminazione e l’asservimento ai poteri della cultura, trasfigurazione nel campo culturale di questa parabola sciagurata .
Un caro saluto a tutti.
bisogna voltare pagina e non parlare più di Putin, ma di punti chirurgichi
La Crisi della Ragione implica la Crisi dell’Io, e questa porta con sé la Crisi del Logos e dei suoi enunciati, della parola, e questo ricade sulla Crisi del senso, la quale a sua volta ricade sulla Crisi della Rarione. Tutto è concatenato con il tutto, non c’è bisogno di avere una mentalità marxista per capirlo, ci troviamo all’interno di uno tsunami del senso e della Ragione, ma c’è chi non se ne accorge e scambia lo tsunami per una bonaccia, come i poeti normologati (Chandra Livia Candiani, Valerio Magrelli e altri asini d’oro etc.), ma c’è anche chi se ne è accorto e ne prende semplicemente atto, come i poeti kitchen e la poesia kitchen.
Sulla ontologia positiva e la poetry kitchen
https://www.academia.edu/s/a11c5f5b2e
“Intervista di Marie Laure Colasson a Giorgio Linguaglossa sul libro Critica della ragione sufficiente”
https://www.academia.edu/s/28fa6fba92
GIRA UN ENDECASILLABO IN BOBINA
Ora che l’universo srotola il papiro
un teorema ci cade addosso
senza che lo Spazio provi a ribellarsi
come un mollusco morso in testa
a cui s’afflosciano i cateti
Il linguaggio sopravvive ai disastri elementari
e il pronto soccorso accatasta Litio
pila dopo pila con una flebo a mormorare
tutto il bene del carbonato
C’è un verso di T-Rex che gira le bobine
diventa Presidente, rumoreggia in un bicchiere di Plutonio
senza misericordia per i lapsus pelle e ossa
piccoli indios nascosti tra le ombre.
Avvolto di rame un nocciolo di seppia
e Faraday che gli accarezza il collo:
-Saremo amici io e te
tu sgusci
io ti lancio un haiku.
Molliche sopravvivono a questa ondata di mal di denti
aggrappate al grill nel tostapane
solo perché di scemenze non si sa che fare
e da Kabul l’ultimo aereo partì l’altr’anno.
………….BUON 2023……….
Framcesco Paolo Intini
Chiediamoci per quale ragione Social, Wkp e tanto altro, non siano stati creati da gente della nostra generazione, di noi settantenni. E come mai si è preferita una informazione diffusa, a portata di mano per chiunque (FaceBook raggiunge la quasi totalità degli abitanti del pianeta). Certo, è conoscenza oggettivizzata, ma è disponibile a tutti.
Consiglio di leggere “Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere”, di Michel Serres, filosofo fin troppo entusiasta ma tant’è.
Michel Serres (1930-2019) è stato filosofo e scrittore francese. Membro dell’Académie Francaise, ha insegnato Storia della scienza presso l’Università di Paris 1 e la Stanford University. Premi e riconoscimenti.
Grazie!
Prospettive apocalittiche. Chissà se la vita comune, la gente comune mai si accorgerà. La gente comune vive e muore come capita. Agli intellettuali non piace il pensiero della morte. Lo cantano, lo analizzano, lo parcellizzano, lo schematizzano, lo sintetizzano ma ne hanno terribilmente paura. Buon 2023 con tutto il mio affetto e stima m pia latorre
Il giorno sab 31 dic 2022 alle ore 08:13 L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internaziona
Tanti carissimi auguri di buon anno anche a te cara Maria Pia: mi fa sempre un enorme piacere ritrovarti fra queste pagine.
Hai assolutamente ragione: la morte è ormai un pensiero esorcizzato anche dagli intellettuali, anche dai poeti, per i quali pure dovrebbe essere materia di riflessione immanente. Purtroppo è indiscutibile che viviamo immersi in un quadro culturale dominato da una visione “produttivistica” della vita, in cui i margini dell’esistenza materiale, cioè le dimensioni poeticamente ed antropologicamente più interessanti (l’infanzia, la vecchiaia e la morte, la cultura e l’intellettuale veri, chi per vari motivi coscienti o di forza maggiore si pone al di fuori della sfera produttiva, le culture che ancora in vari angoli del pianeta cercano di opporsi allo stritolamento del meccanismo dominante) sono delegittimati in quanto decadenti, rispetto a tale visione prevalente. E’ logico che in un tale quadro, la morte, momento di annichilimento e svuotamento per eccellenza delle logiche materiali, venga esorcizzato come pura vacuità, frontiera ultima ed ineludibile di irriducibilità a tale sistema.
Nei miei studi antropologici e di storia delle religioni, ho sempre amato, nel percorso fra le culture contadine o popolari che dir si voglia ed antiche, il rapporto consapevole e sereno, quasi come di fronte ad un fenomeno di rigenerazione, che queste culture hanno sempre saputo intrattenere con l’orizzonte delle morte (basti pensare alla pratica consueta ancora nell’immediato secondo dopoguerra di battezzare immediatamente i neonati nel timore di una morte imminente) pur con le incognite ed il travaglio che da sempre accompagnano questo pensiero e che del resto si è spesso tramutato artisticamente in opere di straordinario spessore.
Scavare tra onde sotterranee o tra i residui rispetto alla superficie apparente, come fa la Poetry kitchen, è senz’altro un modo di ricercare l’essenza vera della vita, esattamente come accade proprio nel procedimento antropologico, in cui il ricercatore si colloca ai margini della società, per poterla comprendere più efficacemente.
Evidentemente, essendo un’operazione – quella della Poetry kitchen – non solo poetica, ma antropologica, non può che restituire la giusta dimensione della vita e della storia.
Un caro saluto.
Vincenzo
Nel ventre caldo di Putin
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INPUT
anagramma di PUTIN…
segue significato per esteso
nel linguaggio comune:
qualsiasi elemento necessario
a provocare l’inizio di un dato procedimento….
figurati: spinta, molla, motivazione!
MA NEL LINGUAGGIO PUTINIANO :
INVASIONE DELLA UCRAINA
“La poesia ed i linguaggi della cultura in generale piegatisi in questo caso all’uso della concezione quotidiana della lingua”….
e quando mai! – e allora:
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Potessi i mitrati inverni salmodiare
e dal calice insidiare metafore e patiboli.
Il trono sarà una sospetta distrofia regale,
una rossa gorgiera di sentenze senza requie.
Torvo il sentiero nero come una cornacchia
becca i campi la mia parola cordigliera.
Non so se festini e maschere creano convegni:
la segnaletica degli occhi è un dono irriverente.
Dalle soglie ai portali l’anima eretica ci spia
col suo sguardo di corsaro… guercia sarà la preda!
Questo secolo non sarà migliore del trascorso:
i massacri saranno il nostro pane quotidiano.
Le Madri senza fede né speranza spolperanno
i figli prima d’una condanna o una guerra.
Il boia cercherà invano gli occhi di un poeta disossato
o lo sguardo impietoso d’una carcassa che t’accusa.
Non esiste un Nulla che mi conforti, il resto è Delirio!
Vermicino, 17 ottobre 2003
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Nel mese delle streghe e dei roghi INPUT cesserà la sua attività
terrestre e la sua destinazione sarà un cantuccio oscuro sotto la scala di un edificio leningradese. o siberiano.
Qui avverrà l’incontro fra il poeta Osip Mandel’štam e la cinerea ombra del carnefice.
Mi dicono che Osip sarà silenzioso tutta la notte mentre il Input ha parlato a vanvera tutto il giorno di una fantomatica favoletta: la “terza Roma”, senza sapere che era stata messa da parte già all’indomani dello scisma e dalla costruzione di Pietroburgo, che spodestando Mosca desiderava diventare la “quarta Roma”.
Al posto di INPUT sul tavolato del capestro sarà un lupo ben più terribile perché travestito da agnello. E da agnello si convertirà in leone o in lonza.
Resterà comunque una parvenza di orso che dovrà guardarsi alle spalle dal drago giallo perché è da questi che deve difendersi non dall’Occidente.
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In risposta ad Antonio Sagredo, una mia kitsch poetry
INPUT* ha dichiarato forfait
Ha cessato la sua attività al gabinetto
Ha prodotto un elemento di dimensioni 30×90 cm
Con il che Hotwitzer, cacca, pipì, fosferatasi e morbo di Stil sono stati diffusi ad arte
Il water closet ha preso il posto della poiesis kitchen
Che infatti si è spostata nel water closet
Il collasso della prostata ha prodotto una abreazione climaterica con esalazione di acufeni, corticoidi e steroidi
Il manigoldo ha così assunto Ibuprofene da 800 mg per via orale
E Viagra da 100 mg sempre per via orale
* anagramma di Putin
L’idea della lettura anagrammatica del cognome del “grande dittatore” è molto pertinente, oltre che risultarne un ritratto efficace. E’ seducente l’idea di un confronto fra INPUT e Mandel’stam e non credo che il primo ne uscirebbe illeso nelle sue farneticanti convinzioni.
La spietata, dissacrante versificazione di Giorgio, pagina esemplare di Poetry kitchen, è emblematica, paradigmatica della capacità salvifica della poesia e dell’arte in generale, quando sono poesia ed arte vera, di ricondurre la vita alla sua dimensione antropologica vera, con la sua caducità, che si va beffe e sbrindella gli insensati e distruttivi appetiti umani.
La Poetry kitchen è sicuramente un ottimo antidoto contro la stupidità umana.
Caro Vincenzo,
ho letto il tuo discorso e mi è piaciuto molto, in particolare alcuni passaggi mi hanno colpito perché fanno parte del mio pensiero su alcune questioni legate alle regia delle governance.
Si sente la fragilità della Democrazia che può collassare “dietro il disegno destabilizzante per la vera democrazia.”
Buon Anno
Giuseppe
Grazie infinite caro Giuseppe: mi fa estremamente piacere leggerti e condividere pensieri ed analisi poetiche e filosofiche.
La Poetry kitchen è senz’altro un laboratorio fecondo e vivido di sperimentazione poetica che permette ad ognuno di noi di elaborare il meglio delle proprie riflessioni sottoponendo stimoli interessanti e formulazioni in grado di arricchire il nostro armamentario di scrivani della poesia.
Un caro saluto.
Vincenzo
“alle regia delle governance”. (Talia)
… non capisco che cosa vuol dire?
Per me è un linguaggio extra-quotidiano, enigmatico, quasi da elite: è come leggere uno delle migliaia di passi danteschi che ancora oggi sono incomprensibili.
Bisogna a questo punto ingaggiare delle grandi menti…
…oppure far finta di capire e andare avanti: questo si che è troppo!
Il quotidiano è della poesia KITCHEN, e ciò che è axtra cosa è ?