Da Sanguineti e Zanzotto alla Poetry kitchen l’imprimatur metalinguistico ha preso il sopravvento, si avverte il trapasso da un’istanza iniziale di espressività a un’istanza metalinguistica, Testi di Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, Gino Rago, Francesco Paolo Intini, Commenti di Vincenzo Petronelli, Giorgio Linguaglossa

Francesco Paolo Intini

Nello studio di un tizio che conosco
apparve improvvisa una scritta:

“il dottore dalla mano tremante scrisse una ricetta che nessuno
sa decifrare ma la calligrafia si riconosce…”

Un verso di Tranströmer
incise la Tavola periodica

-Ogni chimico ne ha una appesa alle spalle
Il suo crocifisso-

Irruzione credo o entanglement nella sua vita
che si svolgeva altrove.

Era l’agave che cresceva sulla Murgia
o quella sincrona sul lungomare di Bari?

Il mio amico si chiedeva cosa c’entrasse
Mendeleev con Hegel.

Né l’uno né l’altro avevano mai sentito parlare di protoni
In quanto a proprietà invece

La pistola della legge dice il primo
Ma si potrebbe giurare sul secondo.

da Faust chiama Mefistofele per una metastasi. 2020, Progetto Cultura, Roma, Pag. 109

Mauro Pierno

La principessa Boncompagni-Ludovisì
Suona danze russe con l’arpa di Paris.

Vuotano gli intestini scuotono le orecchie
Accumulano le lenzuola trascinano per le braccia

L’inverno è insopportabile
senza adeguare il cielo alle fabbriche.

Sui binari divaricati la Storia suda
il sermone dell’ancella scommettitrice.

Scopo della vita è la vita stessa, e l’Universo è costante inizio di sé medesimo.

Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

Come lui danzava nei suoi calzoni
un uovo usci dalla cucina

Mi scuso per refusi e disattenzione, è quel che sentivo di voler dire

E al contrario un’energia meno compressa ma altrettanto efficace è possibile?

(Compostaggio da versi e commenti)

***

In equilibrio sulla piccola formica in ordine di apparizione un gorilla, una giraffa, un piccione.

Sovraesposto con carico da briscola un piccolo ippopotamo. Credimi tutto tiene la polverina.

Diminutivo di polvere da sparo, da mobilio, da abbandono. Le fiancate tutte rifatte però.

Le piste ciclabili sublimi con quegli aggetti a ridurre le povere carreggiate. Le due ruote tengono.

.

Le immagini in modalità kitchen che Mauro Pierno ha sapientemente assemblate possono apparire arbitrarie e irrazionali (come qualcuno senza fare nomi asserisce), ma in realtà c’è in Pierno anche un rigido controllo sulla proliferazione di campi semantici che si alternano in modo contiguo legati da rapporti di inferenza e di inerenza (se non altro una inerenza c’è: ed è il fatto mentale soggettivo). In questo gioco di avvicinamento e allontanamento delle parole, in questo gioco di dentrificazione, di sovrapposizione e di esterificazione delle parole, in questa costruzione di figure foniche ed iconiche come esiliate dalla significazione capaci di generare immagini di non-senso, si instaura una dialettica tra la regressione linguistica e l’aspetto puramente ludico dell’articolazione fonematica. A questo processo compositivo è associata la nascita non solo di molti neologismi ma anche una dichiarazione poetica ben precisa: alla regressione dell’esperienza esistenziale e storica corrisponde una progressione linguistica che vuole condurre il linguaggio. Non si tratta soltanto di un mero gioco etimologico ma di una funzione, di una modalità culinaria, il voler cucinare il linguaggio con le padelle e le pentole che si trovano in cucina… E poi c’è anche un’altra funzione, ovvero, esorcizzare e liberare la versificazione dall’esperienza della storia attraverso il linguaggio, attraversando in diagonale i linguaggi del linguaggio stando dentro il linguaggio, senza volerne uscire in un metalinguaggio. (g.l.)

Mauro Pierno

Vuotano gli intestini scuotono le orecchie
Accumulano le lenzuola trascinano per le braccia

L’inverno è insopportabile
senza adeguare il cielo alle fabbriche.

Sui binari divaricati la Storia suda
il sermone dell’ancella scommettitrice.

Scopo della vita è la vita stessa, e l’Universo è costante inizio di sé medesimo.

Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

Come lui danzava nei suoi calzoni
un uovo usci dalla cucina

*

La principessa Boncompagni-Ludovisì
Suona danze russe con l’arpa di Paris.

Vuotano gli intestini scuotono le orecchie
Accumulano le lenzuola trascinano per le braccia

L’inverno è insopportabile
senza adeguare il cielo alle fabbriche.

Sui binari divaricati la Storia suda
il sermone dell’ancella scommettitrice.

Scopo della vita è la vita stessa, e l’Universo è costante inizio di sé medesimo.

Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

Come lui danzava nei suoi calzoni
un uovo usci dalla cucina

Marie Laure Colasson

Ecco la mia poesia n. 49 dal libro in corso di stampa Les choses de la vie.

49.

Eredia rencontre Dieu tous le vendredis
au bistrot du coin de la rue de la Gaité

Les cosplayers se déguisent en transgenders
la cristographie joue aux échecs

Les supernovae messagères du cosmos
plongent dans les vagues du port de Saint Tropez

La croix d’honneur de Georges Bataille
se ballade dans le “Bleu du ciel”

La censure enfile sa robe de velours couleur framboise
la blanche geisha avale un cachet d’alprazolam de 15 kg

Les temps astronomiques goulûment
mangent un soufflet au fromage

Le tout le rien le dessus le dessous
se confondent et se suicident

*

Eredia incontra Dio tutti i venerdì
al bistrot all’angolo della strada de la Gaité

I cosplayers si travestono in transgender
la cristografia gioca agli scacchi

Le supernove messaggere del cosmo
si tuffano nelle onde del porto di Sant Tropez

La croce d’onore di Georges Bataille
passeggia nel “Bleu du ciel”

La censura s’infila il vestito di velluto color lampone
la bianca geisha inghiotte una compressa d’alprazolam di 15 kg

I tempi astronomici golosamente
mangiano un soufflet al formaggio

Il tutto il niente il sopra il sotto
si confondono e si suicidano

Gino Rago

da Storie di una pallottola e della gallina Nanin in corso di stampa.

«I poeti elegiaci sono tutti delle carogne!»
gridano gli elettori delle sardine riuniti a piazza San Silvestro a Roma.

Ilia Prigogine risponde:
«Non esiste un sistema che non sia instabile
e che non possa prendere svariate direzioni».
E infatti il macinacaffè della poesia elegiaca ha preso
la direzione sbagliata
ed è finita fuori campo.

La sedia di Van Gogh ha traslocato,
adesso è finita in un quadro di De Chirico.
La «sartoria teatrale» di Montale ha lasciato il campo alla poetry kitchen.

La notizia venne udita da uno scrittore di Urbino
mentre litigava con la vecchia moglie.
Il fatto viene incriminato dal commissario don Ciccio Ingravallo.

I primi sospetti cadono
su un’amica di famiglia dell’agente di pubblica sicurezza
che addestrava il cane poliziotto
esperto in droghe di ogni tipo
e amico del commissario.
Il veterinario che ha fatto l’autopsia ne parla con i giornalisti
con voce stentorea
nel corso della conferenza stampa
davanti all’obitorio del Policlinico.

Al Commissariato di P.S. della Garbatella
e all’Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani
regna il trambusto,
sospettano dei servizi deviati dei poeti di Mediolanum
per tenere in vita il «mini canone»,
una costola del «canone occidentale» di Harold Bloom.

Misteriose indagini portano ad una scatoletta di carne Simmenthal,
unica responsabile del sequestro dell’Onorevole Moro nel 1978.
Il dottor Linguaglossa dice che la gelatina è fatta con il brodo di carne
al quale si aggiungono delle tracce di Marsala
e un gelificante
per la consistenza del tutto…

Da Sanguineti e Zanzotto alla Poetry kitchen l’imprimatur metalinguistico ha preso il sopravvento, si avverte il trapasso da un’istanza iniziale di espressività a un’istanza metalinguistica

Leggendo le instant poetry di Lucio Mayoor Tosi mi è venuto in mente il duetto tra Zanzotto e Sanguineti dove il primo parla di «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso» a proposito del Laborintus del Sanguineti.
Anche a me le instant poetry di Lucio mi sembrano fedeli trascrizioni di un confuso esaurimento nervoso, ma ci aggiungerei: con distinguo e messe a punto intenzionali del tutto fuorvianti o capziose che mirano a fuorviare e a delegittimare i testi, a togliere loro ogni credibilità e presentabilità letteraria…. pratica nella quale Lucio Tosi eccelle.

Cfr. il gossip contenuto nel numero 11 di «Officina», novembre 1957, pp.458-62 (a p. 458 e a p. 462)

Nella Nota anonima, ma da attribuire a Leonetti (così in ogni caso farà lo stesso Zanzotto nel celebre e polemico saggio su I «Novissimi», uscito su «Comunità», 99, maggio 1962 e ora in Id., Scritti sulla letteratura, vol. II cit., pp.24-9: 26), a commento della famigerata Polemica in prosa di Sanguineti (a sua volta scritta rispondendo al Pasolini della Libertà stilistica, sul precedente numero 9-10), è scritto:

«In una cena romana “da Cencio”, in attesa dei poeti sovietici in ritardo, ai 6 di ottobre, lo Zanzotto (presenti Fortini, Pasolini, Leonetti) si lagnava di aver perso il sonno per colpa di Sanguineti, affermando diabolico il suo Laborintus è degno di punizione se non era “sincera trascrizione di un esaurimento nervoso”: ecco dunque uno, Zanzotto, di cui la buona coscienza, il sonno nelle convenzioni petrarchesche, è rotto da quella illeggibile e furiosa ironizzazione delle forme, e niente, niente affatto, dalle nostre costruzioni ideologiche e critiche; quella può essere, dunque, in un certo ambito, mordente. […] Per Sanguineti continuerà a valere in poesia la situazione immobile, che da alcuni, astrattamente, si è voluta identificare con quella di Leopardi (mentre è angoscia del secolo, che si riduce poi alla sensazione del paesaggio – ora con la modulazione poetizzante, mettiamo, di Zanzotto: “perch’io dispero della primavera”»(nella cit. antologia della rivista, cfr. pp. 334-9: 335 e 338). Alla battuta di Zanzotto replicherà com’è noto Sanguineti (nel brano Poesia informale? accluso nell’antologia I novissimi. Poesie per gli anni ’60 [1961], a cura di A. Giuliani, Torino, Einaudi, 2003, pp. 201-4: 202) accettando la definizione «ma con una non piccola correzione: e cioè che il cosiddetto “esaurimento nervoso” che io tentavo di trascrivere sinceramente era poi un oggettivo “esaurimento” storico».

Sull’episodio – assai noto, per non dire famigerato – si veda l’esauriente messa a punto di L. Weber, Usando gli utensili di utopia. Traduzione, parodia e riscrittura in Edoardo Sanguineti, Bologna, Gedit, 2004,pp. 19-31

Nella poetry kitchen si rinvengono da un lato le linee di forza dell’irrazionalismo di cui il mercato delle economie neoliberali è un potente amplificatore; di ciò si trovano tracce evidentissime disseminate nell’habitat testuale; dall’altro si rinvengono anche le linee di forza della ratio che presiede ad ogni impegno tecnico di costruzione formale, laddove l’elemento formale non è il punto di arrivo posto fuori dal testo, ma meta processo di un processo di demistificazione in atto. Il modo in cui si struttura il significato (o il non-significato) viene ad essere demistificato nel processo stesso della testualità. Viene così a cadere il concetto di esperienza poetica auratica e individuale tipico della poesia lirica e elegiaca del novecento. La prassi del trobar clus viene esautorata e sostituita con un trobar poroso e aperto agli esiti psico linguistici che si costituisce nell’intreccio, nel compostaggio di ready language, nell’intreccio di precarie fibrillazioni tematiche e linguistiche, che si stratificano per poi subito tornare a dissolversi nella testualità; fra di essi uno dei più significativi momenti di demistificazione si fabbrica proprio nei momenti di passaggio dalla poesia lirico elegiaca a quella kitchen o con modalità kitchen. Quello che appare è un nuovo concetto del fare poesia.

Nei  testi kitchen di Lucio Tosi, di Marie Laure Colasson e di Mauro Pierno l’imprimatur metalinguistico ha preso il sopravvento, si avverte il trapasso da un’istanza iniziale di espressività a un’istanza metalinguistica.
Nella straordinaria escursione linguistica che tale trapasso comporta, il linguaggi tecnici, privatistici, di settore, gli idioletti, il linguaggio dell’inconscio e quello della tradizione lirica si ritrovano parificati in una commistione linguistica conversativa e avversativa che comprende però anche il lessico massmediatico e triviale della comunicazione quotidiana, accanto a spiazzanti inserti metalinguistici. L’effetto è quello di un territorio terremotato e peristaltico della materia verbale, un susseguirsi di shock percettivi e uditivi per l’ignaro lettore che, abituato alla bella, ordinata, regolata compartimentazione del mondo dell’io della poesia ordinaria, è costretto invece a partecipare, obtorto collo, al precipitare di conglomerati verbali disintegrati sulla superficie del foglio e a prendere in qualche modo parte attiva.

(g.l.)

Marie Laure Colasson

Il “Non è” di Galdini è una formula magica, un abacadraba, una formula di autonientificazione di ciò che è e anche dell’io che lo pronuncia. Originalissima posizione di poetica che nega tutto ciò che è negabile, e anche la poesia che secondo le poetiche della tradizione si poneva come un ente. Galdini, non so quanto inconsciamente, intende negare in toto il modo tradizionale di fare poesia, e quindi nega sia l’avanguardia che la retroguardia con i relativi concetti correlati. In questo modo Galdini salta oltre la propria ombra, getta via con un calcio la scala sulla quale è salito e giunge ad un territorio di autonientificazione che non ha eguali (per quanto io conosca) nella poesia che si è fatta finora (e non solo di quella italiana). Questo atto di negazione radicale sposta i piatti della bilancia decisamente, quello destro, verso la nientificazione, quello sinistro anche… Siamo così arrivati sulla spiaggia del nichilismo? Galdini è un nichilista? E’ un comunista?, Un rottamatore? Non so, non saprei, so solo che la sua via verso la poetry kitchen è stata ed è originalissima. Ecco spiegato il dubbio cartesiano dell’autore verso il proprio manufatto.
Galdini scopre che il banale è significativo.

Scrive Andrea Cortellessa in un saggio dedicato ai rapporto antagonista che ha legato Fortini e Zanzotto:

“Che l’ironia, la gestione ironica del patrimonio letterario tradizionale, sia unica possibile via d’accesso al sublime lo dice proprio la dittologia «sublime» e ridicolo destino attribuita al Barone di Münchhausen e, lui tramite, all’universale condizione. Si tratta di quella che in retorica si dice preterizione e, in psicoanalisi, formazione di compromesso (anche se Zanzotto, come s’è visto, preferisce parlare di sublimazione), ma che Giorgio Agamben ha recentemente ricondotto alla sua valenza religiosa – la più adatta, tutto sommato, a definire l’atteggiamento di Zanzotto.
Se la poesia moderna, secondo il filosofo, è caratterizzata da una dimensione complessivamente parodica è perché essa ha perso il suo legame originario, naturale, con il canto : cioè appunto col carmen, la celebrazione del nume. In un tempo secolarizzato, o come egli preferisce dire profanato – con gli dèi estinti o fuggiti, cioè –, all’artista non resta chela «parodia» come «forma stessa del mistero»: in quanto «essenziale alla parodia è la presupposizione dell’inattingibilità del suo oggetto». In questo senso la «parodia» è «paraontologia»: perché «esprime l’impossibilità della parola di raggiungere la cosa e quella della cosa di trovare il suo nome»1

Io penso che la poesia «odierna», la poesia con modalità kitchen, reduce della guerra che la poesia moderna ha fatto al «mondo», abbia del tutto abbandonato l’idea della dimensione parodica e/o ironica, che in qualche modo – lo dice anche Agamben – dipendeva dal legame ombelicale che la legava al canto, al carmen. Nell’orientamento della NOe non c’è, se mai c’è stato, più alcun collegamento con il carmen, c’è stato il passaggio del Rubicone, il carmen è alle spalle, come è alle spalle tutto intero lo Zanzotto da Dietro il paesaggio (1951), a Ecloghe (1962) a La Beltà (1968) in quanto erede del «canto» e quindi ancora in qualche misura la poesia zanzottiana dipende da ciò verso cui pende prendendone la misura: dalla impostazione neoermetica.

Nella poesia kitchen siamo fuori del «canto», siamo fuori dal Petrarca e da Zanzotto, e siamo fuori anche dagli anti petrarchisti come Mario Lunetta. Ormai il «canto» è dato per sepolto e morto. Negli autori della poetry kitchen non si dà più alcuna dimensione parodica, questo è un fatto storico. Il derisorio, se c’è, è in re, non sopra la res. Al posto del significante si dà il fuori-significante, al posto del significato si cerca il fuori-significato. Elementi essenziali della NOe kitchen sono il «montaggio» e i salti spaziali e temporali, in mancanza di questi Fattori la poesia rischia di tornare (inconsapevolmente) verso il significato ironico o parodico che dir si voglia. E Amen, si torna indietro. Qui e là io lo vedo questo pericolo. (g.l.)

AA.VV. Andrea Cortellessa in Andrea Zanzotto un poeta nel tempo, p. 118

Vincenzo Petronelli

Ho sempre considerato la costruzione poietica come un’operazione fabrile e da figlio del mondo contadino, cresciuto tra contadini ed artigiani, da persona che ha sempre saputo coniugare il suo amore per il sapere umanistico con il “fare”, mi affascina l’idea dell’artigianalità che sottende la creazione artistica. Non è un caso se, pur avendo avuto sempre interessi variegati, le prime forme d’arte per la quale ho nutrito un amore “maniacale” siano state il cinema e la musica – pur essendo abituato a “girare sempre con un libro in tasca” come soleva dire un mio cugino più grande di me ed avendo sempre amato infinitamente la poesia – proprio per la capacità di queste arti di ritrarre matericamente il cosmo; per questa stessa ragione, il mio primo grande amore scientifico è stata la geografia, trait d’union filofogica tra scrittura e geo, teoria e prassi e per la medesima ragione, pur non avendo una grande cultura personale specifica, ho sempre amato la scultura come metafora stessa di quella che è la mia concezione del lavoro artistico come “sottrazione di materia”, attività di suggimento della materia tellurica.
Ho sempre concepito il lavoro di produzione culturale come un lavoro da artigiano di laboratorio e per questa ragione, nonostante la passione sempre provata per la poesia, me ne ero allontanato, in quanto mi sembrava ormai un’espressione artistica legata a puro autocompiacumento intellettualistico e probabilmente non mi ci sarei riavvicinato, quanto meno a livello di esercizio di scrittura, se non fosse intervenuto l’incontro prima con l’opera di critico del nostro instancabile Giorgio Linguaglossa e poi con questa sua straordinaria creatura che è l’”Ombra”. Il concetto di frammento e poi della sua filiazione e completamento che è la Poetry kitchen, restituiscono alla poesia la propria componente artigianale che sola, le può consentire di riappropriarsi della sua capacità di ricostruire, ridefinire il mondo, individuandone le sue dinamiche profonde. E’ davvero l’unico modo di sovvertire la poesia della linearità, dell’intimismo melenso, del salotto come meta d’arrivo o anche dell’intellettualismo fine a sé stesso, del gingillamento onanistico: la poesia dello scialbore della traduzione sterile del quotidiano da un lato e del tecnicismo dall’altro.
Ne approfitto per complimentarmi con voi amici, per le splendide poesie che ho letto in quest’articolo, che vede tutti i poeti della Noe presenti in forze: una felicitazione particolare vorrei indirizzarla a Raffaele Ciccarone, del quale non avevo ancora letto nulla e che mi sembra perfettamente immerso nell’alveo della Poetry Kitchen.

Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.
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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È in corso di stampa la sua prima raccolta di poesia, Les choses de la vie.
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Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore delle Riviste on line “L’Ombra delle Parole”.
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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  Natomaledue è in preparazione.

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  1. Nell’ottobre 1958, per una relazione interna alla rivista «Officina», Franco Fortini scrive:

    “Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura evasivo-ermetizzante e alle nuove estreme-destre letterarie ma sono anche, di fatto, assolutamente prive di forza e di prospettiva di fronte alla letteratura e alla critica nuove.1

    Gli appunti di Fortini illustrano come fosse ben chiara, in lui più che nei redattori della rivista «Officina», l’idea che la vera questione sulla quale ruotavano le scelte strategiche del gruppo era la cosiddetta «ontologia letteraria del Novecento»; un «piccolo mito» creato «a favore d’una definita cerchia di autori e critici degli Anni Trenta». «Alcuni di noi – continua Fortini – ed io fra questi, ebbero in sorte di far coincidere l’inizio della propria attività letteraria con la critica a quel mito e al gusto di quel decennio».2

    L’idea poi che la letteratura e soprattutto la poesia del nostro Novecento si sia sviluppata secondo criteri e caratteristiche speciali e assolutamente innovatrici rispetto all’epoca precedente, tanto da rendere possibile la redazione di un “canone”, è stata lungamente vulgata da critici come Bo, Ferrata, Anceschi e da molti altri. Ma chi più la prende sul serio? Attaccata da tutti i lati, nell’ultimo quindicennio i suoi stessi settatori l’hanno ampiamente corretta. L’inizio del gusto novecentesco silenziosamente si è venuto spostando dai fiorentini a Gozzano, Campana prendeva il posto (modesto) che era il suo, accanto a Jahier si poteva ormai leggere anche Michelstaedter, Rebora diventava una figura centrale, un Tessa o un Clemente non erano più soltanto scialbe figure di periferia e di provincia. Si veniva a sapere, seppure di malavoglia, che negli Anni Trenta aveva operato un poeta della statura di Noventa e che Pavese aveva pur scritto Lavorare stanca. Lo schema “novecentesco” è andato anche troppo in pezzi… Oggi, comunque, la categoria del Novecento letterario, il suo “ontologismo”, il suo “assolutismo” mi paiono formule polemiche inutilizzabili, fantocci di comodo.3

    Franco Fortini da un lato addita gli errori della rivista «Officina»:

    non vedere quanto il nostro “Novecento letterario” fosse appena un episodio della cultura letteraria europea tardo-simbolista e avanguardistica (…) La sua polemica contro la destra novecentesca era in ritardo di dieci anni; quello che la faceva parer nuova era la simultanea polemica contro l’impegno e il social realismo. Non a caso teneva a suggerire una poetica “civica” bensì ma di “disimpegno” dalle parti politiche»;4 dall’altro, invita a riflettere sul fatto che «L’idea che la letteratura del ventennio, o meglio la letteratura della prosa d’arte e della lirica, novecentesca prima ermetizzante poi, sia stata la “via italiana” dell’antifascismo culturale non nasce con la restaurazione successiva al 1948. È invece l’idea centrale, il mito scrupolosamente predisposto prima ancora che il fascismo cadesse, fondato sull’equivoco stesso dell’antifascismo cioè sul suo frontismo, che vedeva schierati da una medesima parte un A. Gide e un B. Brecht. In forma non scritta quell’idea circolava durante la guerra nella fascia di autori e scrittori che erano contigui all’antifascismo liberale o liberalsocialista. La formulazione più autorevole e più abile, anche per la sede ed il momento, è in uno scritto di G. Contini che nel 1944, sulla rivista svizzera “Lettres” introdusse una antologia letteraria italiana da Campana a Vittorini. Vi si sosteneva esplicitamente che la “resistenza” culturale italiana andava identificata col rifiuto dei nostri scrittori migliori ad imboccare la tromba sociale e tirteica. Nell’Italia del dopoguerra quella tesi divenne poi pressoché ufficiale. Nessuna forza o gruppo organizzato sorse a confutarla: nessuno rovesciò apertamente la tesi per affermare che al di là del fascismo di Mussolini c’era una classe ed una ideologia generalizzata e che proprio la letteratura della astensione e dell’ascesi, del “reame interiore” o das Innere Reich era la fedele voce, lo specchio devoto della classe che i fascismi creava e disfaceva.5

    In un articolo del 1960 Fortini individua con lucidità le modificazioni che l’industria culturale ha introdotto nelle istituzioni della letteratura in Italia. È una analisi oggettiva, che coglie la crisi di legittimità e di rappresentatività dell’intellettuale, i legami di dipendenza tra l’attività del critico e del poeta e l’apparato dell’industria culturale: da una parte, la nascita di un nuovo tipo di critico «contemporaneista», un «misto di cinismo, moralismo e intuizionismo», dall’altra, l’industria culturale, afferma Fortini, «ha bisogno di questo tipo di eclettismo, almeno quanto ha bisogno di fabbricare le nuove avanguardie». Rispetto alla generazione precedente, i contemporaneisti di nuovo conio «sono più informati, hanno forse più studi e letture. Ma la loro posizione all’interno della società italiana è proporzionalmente la medesima… dei Serra, dei Cecchi, dei Pancrazi, e dei De Robertis: l’umanesimo zoppo».6 E concludeva:

    Oggi una parte essenziale dell’attività critica è invisibile. Le scelte fondamentali si compiono nelle direzioni editoriali, dove confluiscono quei giudizi dal cui equilibrio o squilibrio scaturisce l’atto di politica culturale e commerciale (e insieme di indicazione critica) che è la pubblicazione d’una o di più opere letterarie. Non voglio dire, con questo, che la vera critica sia quella esercitata dai lettori delle case editrici o dai critici e letterati che esse impiegano; e che la verità critica sia quella depositata negli archivi degli editori. Non voglio dirlo, perché il carattere cerimoniale e convenzionale dell’articolo e del saggio ha pur una sua ragione critica, proprio per l’ossequio formale preteso dalla sua pubblicità, quale non può esistere nella schiettezza del giudizio privato. Ma non c’è dubbio che oggi il critico svolga, se non sempre almeno spesso, una indispensabile funzione tecnica nei confronti di un apparato industriale e commerciale e che, per di più, nell’atto di esercitarla, si faccia latore di tendenze ideologiche e politiche in misura infinitamente più responsabile di quanto non facciano il narratore o il poeta.”6

    ***
    Replica di Marie Laure Colasson:

    Nell’Italia di oggi una critica di poesia, semplicemente non esiste, si fa critica di compagnia, di accompagnamento, di corteggiamento o di cortesia, cerimoniale e di adescamento, cioè di scambio di favori, ovvero, critica strumentale a posizioni di poteri, e di influenze, critica di chierici e di aspiranti chierici che scrivono per altri chierici e aspiranti chierici.
    Il discorso sarebbe più di antropologia della nazione piuttosto che di sociologia del fatto letterario.
    Questa situazione il nostro amico Massimiliano la sa, la conosce bene, è una situazione correlativa alla stazionarietà della poesia italiana diciamo ufficiale, quella degli uffici stampa che genera schedine editoriali da uffici stampa.
    A questo punto, l’unico genere di critica che si può fare oggi in Italia è appunto una critica di nicchia, militanza di nicchia, ovvero, di parte e soltanto di parte.
    A questo punto di arrivo parlare di tradizione è come parlare dell’involucro del pacco, ciascuno la nomina per quello che più gli conviene. Non c’è nessuna questione della tradizione, c’è solo una questione di involucro e di marchio di fabbrica, questo il Signor Massimiliano lo sa bene, e se non lo sa, buon per lui che ancora si illude.
    Linguaglossa pronuncia una frase che suona blasfema, dice che c’è «UN NUOVO PARADIGMA», dicendo questo sa bene che il suo lavoro non solo dà fastidio, perché va in contro tendenza, sa bene che questo significa andare in salita, contro corrente, contro i narcisismi in lista di attesa e contro le società per azioni letterarie, ma fa una mossa da scacco matto, come quella che ha fatto Guido Oldani nel 2010 quando ha sfoderato il Manifesto del «Realismo terminale», come quella tirata fuori da Mario Lunetta con la sua «Scrittura materialistica» negli anni novanta. Ma Noi sappiamo che non c’è altra soluzione : tracciata una via, ciascuno di noi deve scegliere in quale direzione camminare e proseguire per quella.

    1 Franco Fortini Verifica dei poteri Milano, Il Saggiatore, 1965 p. 64
    2 Ibidem, p. 58
    3 Ibidem, p. 59
    4 Ibidem, p. 59
    5 Ibidem, p. 46
    6 Ibidem, p.44

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  2. Massimiliano

    Bella. La squadra al completo. L’adunata!

    Mi fa piacere che esistano gruppi così coesi che si danno ragione l’un l’altro e si restituiscono doverosamente i complimenti sui propri lavori poetici tutti uguali e perfettamente sovrapponibili ( a parte devo dire quel testo di Galdini se non erro, “ti svegli, e quasi è maggio” che però in parte rinnega, anche se non del tutto…contiene delle idee e anche molto serie) : ma che importa! Qui si sopravvive al cataclisma no? E allora assecondiamolo in puro stile dadaista anche se già bell’e che superato…in fondo se facciamo tutto questo, Caro Massimiliano, è per assicurarci ognuno il nostro piccolo spettacolo privato, nella certezza che il mio simile, legato a doppio nodo a noi da un istinto di razza molto forte e ben testato, non mi sbrani davanti a tutti e io venga cacciato fuori dalla caverna… dove fa buio per davvero, dove il senso del mio esserci chiede una parola chiara anche se oscura, un impegno drammatico nonostante la morte, un significato nonostante la sua inattuabilità. E questo indipendentemente dall’arte o meno.

    Avrei voluto rispondere su Fortini, ma forse verrà fuori da sé.

    Intanto vorrei far notare che nessuno si è assunto il gravoso quanto divertente compito di confrontarsi con me sul testo e basta. Ma non in maniera cervellotica, ma pratica, con le parole, i versi, le figure. Ho costruito diversi testi dadaisti come i vostri: il sig. Linguaglossa, molto gentilmente e simpaticamente mi ha fatto i complimenti, invece la signora Colasson, che qui saluto, mi dice che potrei migliorare. Bene! Allora: sono o non sono un poeta NOE?

    No? : che qualcuno mi mostri perché, dove posso migliorare? Dove starebbero le debolezze di quei testi approntati in pochi minuti rispetto ai vostri?

    Sì? : Ma se è così allora perché “tanto fastidio”? Perché ve la prendete se dico che siete dadaisti, se dico che è facile scrivere in questo modo? Ma se anche fosse perché non gioirne? O volete difendere una qualche complessità che però, sappiatelo, io non vedo. Ci tenete dunque alla retorica dell’autore si o no? Pensate si o no che esista un’individualità capace di dire cose che altri non sanno dire?

    Mostratemi, chiaritemi, aiutatemi.

    Intanto altro esperimento:

    La principessa Boncompagni-Ludovisì
    suona danze russe con l’arpa di Paris.

    Nello studio di un tizio che conosco
    apparve improvvisa questa scritta:

    “L’inverno è insopportabile
    senza adeguare il cielo alle fabbriche.”

    Un verso di Tranströmer
    incise la Tavola periodica

    Sui binari divaricati la Storia suda
    o è l’irruzione, o l’entanglement nella sua vita?

    Il mio amico si chiedeva cosa c’entrasse
    Mendeleev con Hegel.

    Mi scuso per refusi e disattenzione è quel che sentivo di voler dire.
    Poi vi spiego meglio.

    Magari un’energia meno compressa
    ma altrettanto efficace è possibile?


    Ora se qualcuno mi dice perché mai questa “poesia” non vada bene gli dico che può essere, ha senz’altro ragione, io stesso la rileggo e rido. Ma che mi indichi perché non va bene, confrontandola con le altre due che ho qui preso mescolato più o meno fedelmente senza ravvederne una sostanziale differenza. E se l’autore difende la sua parte che ho utilizzato ( non me ne voglia) mi spieghi che differenza c’è tra la sua poesia e quella dell’altro autore. Sono entrambe qui, nel post sopra, usate quelle due non altre; e fatelo senza teorie, ma sulla carta, con la materia prima. Non so, il ritmo? Il senso? Vedete voi, purché si riferiscano ai testi e non alle intenzioni nascoste.

    Non ne uscireste bene. Ma se volete provare.

    Ora veniamo al nocciolo:

    Premessa: se portate sul banco degli imputati gli scritti di Fortini per giustificare il campo d’azione nel quale pensate di operare, allora io posso portare sullo stesso banco una sua poesia per mostrarvi che gli artisti, come Fortini, in genere, lavorano nonostante sappiamo sia inutile farlo.
    Allora, poesia del ’62, di Fortini, datato quindi a metà strada tra l’articolo e il saggio nel post precedente ( per altro interessante, come tanti del resto)…Pensate alla lucidità della fine che ci viene trasmessa da Leopardi, e che il sig. Fortini assume su di sé, reagendo con la sua poesia, senza sfuggire al senso, al significato, alla bellezza; senza sfuggire dunque al mondo che, da Leopardi in poi, è sempre, e dico sempre, sul punto di morire ( noi oggi più di ieri con la pandemia etc )

    scrive:

    Al vecchio che gira la macina
    una vena si spezza nella pupilla
    e il serpe è vicino alla culla.
    Confuso nella paglia e nella polvere
    è il sandalo di un profeta ridicolo.

    Non è vero che siamo in esilio.
    Non è vero che torneremo in patria,
    non è vero che piangeremo di gioia
    dopo l’ultima svolta del cammino.
    Non è vero che saremo perdonati.

    Siedo a sera sul margine della foresta.
    Le bestie selvagge e timide cercano acqua.
    Guardo la grande diga che abbiamo costruita,
    i lumi della centrale, l’aereo che scende,
    la gente come me che ritorna alle case.

    Ecco, ora provate a cambiare una parola qui, se vi riesce.

    Ciò che a voi sembra un punto di forza, di questa NOE, cioè la sua risposta pratico-poetica alla “fine del mondo”, si manifesta come un’ingenuità. Voi la crisi la perpetuate, non la state attraversando come fece Fortini, ma soprattutto come facciamo noi ogni volta che leggiamo la sua poesia, oggi.

    Voi usate Fortini ( ma anche altri, come Cacciari per esempio) solo per poter dire a un certo punto, “visto che l’arte è morta: allora è inutile, non c’è critica quindi viva il mio piccolo gruppo di scrittura! ”

    Voi vi approcciate alla poesia, mi sembra, come quei registi di area coreana fanno col cinema. Partono da un presupposto simile: il cinema è spettacolo puro e lo spettacolo puro per eccellenza è la violenza, ogni altro approccio è superato, è letteratura, senso di colpa.

    ( Ineccepibile, Un altro contemporaneo che stacca un pezzo del cadavere e lo eleva a segno a nome di tutti gli altri segni che finge di non vedere.)

    E cosa fanno questi registi? fanno opere che formalmente è molto difficile distinguere dagli snuff-movie. Mi spiego: sappiamo che è un film per tanti motivi, ma la sensazione che ci viene data – ed è il fine del regista – è quella di trovarci davanti a delle sevizie reali. Nessuna trama, nessun nome famoso, nessuna scenografia. Uomini rapiscono una donna e la torturano fino ad ammazzarla riprendendo il tutto con telecamera fissa o quasi. Ora, il regista diciamo che è in buona fede – tanto quanto sono certo lo è il sig. Linguaglossa nelle sue vesti di Demiurgo e voi in quelle di bravi e diligenti e ossequiosi discepoli – quando dice che la sua opera si innerva ai tempi ( cfr il post precedente, La commedia etc): chi può contestare in effetti che la VIOLENZA non sia il segno dei nostri tempi e che proviamo un morboso attaccamento ad essa, soprattutto se va a toccare la sfera sessuale? Ok. Bene. Ma cosa fa quel tipo di regista?

    Usa la violenza senza distanza critica. E cosa fate voi? Create questi testi assolutamente intercambiabili ( simpatici, ironici, insignificanti, gratuiti, scehrzosi, labirintici, rizomatici…) perché paralizzati a monte da un’idea così castrante che se da una parte vi rende impossibilitati nel provare a spingere l’umano più avanti nel deserto, dall’altra trovate più conforto nel sentirvi parte di qualcosa, di un luogo nel quale si parla la stessa lingua, o meglio si usa il linguaggio allo stesso modo. La stessa gratuità della violenza nel film – che ci vuole mostrare la violenza quale soggetto della commedia attuale – la trovo nei vostri testi che fanno dell’accumulo dei significanti il soggetto principale dell’unica, secondo voi, poesia possibile.

    Tra qualche anno, quando si farà un ipotetico grande documentario su cosa fossero gli anni duemila, le immagini di quel film coreano verranno prese molto probabilmente quale testimonianza non tanto di opera d’arte ma come contenitore di immagini violente, adatte a raccontare la violenza in sé; immagini con le quali invece il regista intendeva rappresentare artisticamente un’epoca. Quelle immagini saranno invece “la violenza stessa”. C’è chi direbbe che è riuscito nell’intento, attenzione. Ma c’è chi direbbe invece è che riuscito solo a fare di sé e della sua opera e della sua arte una tautologia.

    Ecco perché la poesia di Fortini rimane, nonostante la crisi, il degrado, la mancanza di critica, il terrorismo, l’ecologia, la pandemia, Barbara d’Urso, rimane poesia; e le immagini di quel film, invece, decadranno in una sorta di cronaca.

    Non basta trafugare le teorie nichiliste per uscirne. Dal nichilismo non si esce. Si deve letteralmente attraversare. Non c’è un “fuori-significato”, come non è dato un fuori dal linguaggio. I vostri testi partirebbero da presupposti mi sembra corretti ma approdano a una forma poetica più vicina al gioco di parole, quindi parte integrante del degrado linguistico che intendevate smascherare, affatto uno stile, affatto una corrente.

    Come per il post su Magritte a cui ho risposto ( onnipresente in questo sito come i collage dadaisti ho notato) non siete voi che usate la deflagrazione dei segni, ma è questa deflagrazione ( mediatica, politica, social ) che vi usa, e nella quale voi siete semplicemente compiaciuti e dunque ne siete risucchiati. Pensate di tirare voi le fila ma invece siete giocati.

    Tornate per favore a rileggere la poesia di Fortini.
    Fate attenzione al ​silenzio che irradia, inesauribile.
    Senza età.

    La poesia.

    Grazie per lo spazio.

    Un cordiale saluti a tutti.
    M

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    • gentile Massimiliano (alias Claudio Borghi),

      noto che la nostra piattaforma poetica e critica le dà letteralmente allo stomaco.
      Questo è un buon segno.
      A giudicare dalla sua poesia kitchen sopra postata, sì, l’ammetto nel novero della poesia kitchen, è bravo, ha delle qualità. Se l’ha scritta in 7 minuti, provi a farne una in 6 minuti, e poi può provare a farne una in 5, sicuramente le riuscirà egualmente eccellente.
      Il suo stile censorio mi ricorda quei professorini che ruotano intorno al sito Le Parole e le cose, sbaglio?, Lei? su, mostri un po’ di coraggio e ci dica il suo cognome. La lezioncina su Fortini la impartisca ai suoi compagni di viaggio, la sua lezioncina è saccente e indecorosa, tira per la giacca Fortini per propinarci la lezioncina da manualetto Bignami; se ha la competenza e ha qualcosa da dire, resti al tema della critica che Fortini rivolge alla rivista “Officina”, qui si parla di cose serie non di idiosincrasie.
      Lei usa parole come «bellezza», «ispirazione», «nichilismo» come proiettili contundenti, ma spara contro se stesso, quei concettini da strapaese si rivelano un boomerang.
      Mi creda, quando si parla tra letterati, la prima cosa è sapere con chi si parla, chi è l’interlocutore. Se ha coraggio, si presenti, declini le sue generalità, questo è un luogo pubblico e chi si presenta deve dichiarare la propria identità.

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      • Massimiliano

        Gentile sig. Linguaglossa,

        da lei mi aspettavo di più.

        Ho risposto su Fortini. Non tiro la giacca a nessuno. Ho scritto profusamente e seriamente, com’è seria la poesia che ho postato che da sola mi pare spazzi via tutto gli altri testi attorno, riducendoli in briciole. E pensi, che a me Fortini, dopo un po’, fa dormire. Lei non ha letto. Ma nessuno qui legge nulla che contraddica le linee guida interne. Volete solo sopravvivere, questa è la mia impressione in una sorta di bolla. Raccontarvi una favola. Volete rimanere al caldo. Ma lo capisco sa! Sul serio. Anzi, la mia è invidia, sì lo ammetto. Vorrei avercelo un luogo come questo in cui andare. E’ così difficile scrivere, quasi impossibile. Vorrei saperlo fare… qui lei mi dice che potrei anche riuscirci. Che ho dei numeri. La tentazione è forte! Lei mi lusinga! Pensi, trovare conforto in un luogo dove possa essere considerato un poeta! Un sogno.

        Parole e le cose? Il sito intende? Ogni tanto ci sono capitato. Non ci ho mai scritto una riga sopra. Né mai scritto loro. Forse ci sono capitato, l’ultima volta, quando in redazione c’era Mazzoni, se non sbaglio, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, quindi si parla di tre? quattro anni fa? Ecco.

        Riguardo alla lezioncina no, proprio no.
        Non sono un letterato, assolutamente. Quel che so e che non so l’ho scritto qui. Limiti e pregi.

        Comunque, per chi avesse voglia di rispondere alle mie semplici domande, senza trincerarsi dietro i “lei è un maleducato” o il ” se ha coraggio declini le sue generalità “, a rischio e pericolo di fare una pessima figura, io sono qui; ma il confronto va fatto sul testo; una visione esterna, impietosa, un crash test, secondo me, a rischio di uscirne distrutti, non farebbe che bene a chi ne accettasse l’urto, la prova. Oppure niente, ve bene così, continuate a sentirvi poeti: è pur sempre un buon modo per arrivare a sera.

        Sempre grazie sig. Linguaglossa
        per lo spazio che offre e per la libertà che lascia di esprimersi.
        Non è affatto comune.
        Almeno qui c’è un po’ di fermento.
        Mi è piaciuto 🙂

        Saluti a tutti e buone feste
        Massimiliano.

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        • Gentile Sig. Massimiliano (alias Claudio Borghi),

          ha ragione, il confronto va fatto sui testi. La critica letteraria non è un gioco come al “Lego” (sposti una parola qui, poi la sposti là, etc.), inoltre i testi da noi proposti sono quasi tutti non definitivi e li postiamo proprio per avere dei riscontri, la nostra è un’officina di falegnami, sa, noi non abbiamo l’ardire e l’ardore di dichiararci “poeti”, questa libertà la lascio a Lei; infine, non ho dubbi che la poesia di Fortini spazzi via tutte le nostre poesie (ma, devo dire, in verità, che spazza via anche le sue poesie estemporanee).
          Posso infine chiederLe che ne dice di questi testi kitchen che ho postato qui sotto?

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          • Massimiliano

            Buonasera sig. Linguaglossa.

            Allora, su un aspetto siamo d’accordo, temevo di non avere nemmeno questa chiamiamola piccola soddisfazione: i testi prima di tutto.

            Poi: non sapevo che i testi che vengono postati qui non fossero definitivi. In ogni caso deduco che chiunque posti un suo testo, salvo altre indicazioni, in un qualche modo, si senta abbastanza sicuro del suo lavoro e comunque esponendolo, gioco forza, ne accetta delle inevitabili conseguenze, belle e brutte. Da una parte magari il complimento dall’altra una critica feroce che si spera costruttiva. Ma questa è, come si dice nei fumetti, pura accademia.

            No, non ho mai detto di essere un poeta! Ho detto semmai che mi piacerebbe essere definito tale, qui dentro, qualora mi cimentassi con questa tecnica, non so, visto il suo incoraggiamento. Ma che io sia un poeta proprio no. E che il testo di Fortini spazzi via le mie poesie estemporanee, ma nemmeno da dire, ho pure scritto: ” Ora se qualcuno mi dice perché mai questa “poesia” non vada bene gli dico che può essere, ha senz’altro ragione, io stesso la rileggo e rido.” Tutto quello che ho scritto in poetichese, qui dentro, è per me pura spazzatura.

            I suoi testi li leggerò appena mi è possibile, certo.

            Su un punto mi vorrei soffermare, dove dice: “non ho dubbi che la poesia di Fortini spazzi via tutte le nostre poesie”. Perché lo dice? Cosa rende secondo lei questa poesia così capace di annichilire tutte le altre qui presenti? Ma ancora: per quale motivo non le sarebbe possibile proseguire in quella direzione ( per altro vasta) visto che lo stesso Fortini quando ha scritto la sua era conscio dei limiti nei quali lavorava, dei limiti della critica, della tradizione stessa, del mercato, della cultura di massa. Anche lui lottava contro la mediocrità, la stessa che denuncia anche lei in un qualche modo, eppure fu capace di scrivere un testo simile che affrontava con un linguaggio assertivo e concreto anche la stesso slancio mistico contenuto nella prima parte del testo. Non è forse questo che un artista contemporaneo fa: sa che l’arte è morta, tutto glielo dice, ma lui continua.
            Questa sorta di ottimismo della volontà.

            Perché dunque sviare così e rifiutare la lotta contro il Senso, che questa poesia – o altre come questa e di altri poeti – ci costringe a dover guardare? Perché allora puntare tutto su questo sterile gioco di parole? Che gira a vuoto, si avvolge su stesso senza una visione, un suono, nulla che lei stesso definisce inferiore a un testo lirico? Questo non capisco.

            Perché dunque trattarla così, la poesia?

            Grazie.

            Saluti.

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  3. Signor Massimiliano, forse non le è chiaro. ma qui siamo tutti con nome , cognome e faccia, per educazione, rispetto reciproco e per poterci dire quello che vogliamo. La mia domanda è semplice: lei chi è?
    Si mostri per quello che è altrimenti se ne vada al diavolo e per quanto mi riguarda finisce qui.
    Saluti

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    • Massimiliano

      Sig. Intini,

      mi spiace se l’ho turbata, davvero.
      La possibilità che viene concessa da questo sito di poter intervenire senza dover compilare form, mostrare carta identità, o inviare fotografie, senza iscrizione alcuna, la trovo una rara forma molto evoluta di invito a partecipare. L’amministratore del sito si rende implicitamente garante dell’anonimato di chi partecipa e dei suoi dati e dell’identità dell’ospite. Se questa regola la trova “maleducata” scriva all’amministratore, il quale, se d’accordo, a sua volta, dovrà avvertire preventivamente che per poter partecipare l’ospite dovrà fornire i dati della sua identità per essere verificata e poter essere messa a conoscenza dei partecipanti. Al momento non sento questa necessità di dire nome o cognome o mostrare la mia faccia per altro brutta. Sappia che non sono nessuno; francamente a me, per esempio, sapere se il suo è un nome vero o no, se il suo volto è diverso da quello che posso constatare qualora lo cercassi, non cambierebbe, per me, il contenuto dei suoi interventi che in questo contesto sarebbero l’unico oggetto del mio interesse. Non mi sento su X-factor.

      Ancora desolato se le ho creato fastidio.
      Le auguro una buona giornata.
      Saluti a lei.

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  4. Mimmo Pugliese

    GERMOGLI DI SABBIA

    Restano germogli di sabbia
    quando tutto è vetro lesionato
    pesca opaca
    e le tue partenze poggiano
    sulle spalle dello specchio
    che incide risposte
    se hai urlato
    se hai cercato
    nei lucchetti dei fornai
    che curvano sui gladìoli
    poi è buio
    poi è pioggia
    poi è cedro
    poi è scirocco
    sulla sommità delle penne
    dove si è fermato il lato muto
    delle squame di coccodrillo
    nel secondo tempo
    dell’incontro di bridge
    nuvole corsare-pellerossa scalzi

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  5. da https://www.lintellettualedissidente.it/pangea/piero-dorfles-intervista/?fbclid=IwAR2sBqSBetj1UFh0cAuAsZx0SmesuXROlMONoHeCHN4Nfnh4lNQtHL3cXrY

    Estratto di Piero Dorfles

    Il giornalismo culturale è andato corrompendosi, negli ultimi decenni, fino a diventare irrilevante. Ma non è mai stato esente da difetti più o meno gravi. I grandi stroncatori, i critici severi e giusti erano rari anche cinquant’anni fa. Ma il comportamento opportunistico, fatto di scambi di favori e di ricattucci reciproci, sempre esistito, oggi è diventato pervasivo. I premi di cui si parla li vincono gli amici degli amici e, entrati in giuria, restituiscono il favore. Si fa scrivere sul proprio giornale chi recensisce il proprio libro o quello dei clientes; se ne allontana chi ha osato esprimere opinioni critiche. Si recensiscono libri che non si sono letti, alle volte nemmeno sfogliati, raramente capiti. Più che svolgere un ruolo di servizio, il giornalismo culturale persegue l’interesse personale, occasionalmente tenta lo scoop e, se può, alimenta polemiche pretestuose. A complicare le cose è arrivato il predominio del marketing. Chi vende bene è praticamente costretto a pubblicare un libro l’anno, ed è tormentato dall’editore se tarda a mantener vivo il rapporto con i lettori. Chi vince un premio guadagna anche lo spazio di commentatore sui grandi giornali, indipendentemente dalla sua capacità di scrittura pubblicistica. Chi è amico dei dirigenti e dei conduttori di programmi radiofonici e televisivi avrà ampio spazio di promozione su tutti i canali, mentre chi non coltiva amicizie e terrazze non avrà nessun sostegno dalla comunicazione di massa. In definitiva: si recensisce solo chi già vende bene, si tengono d’occhio gli editori che domani potrebbero tornare utili, e si parla con entusiasmo di libri insignificanti, scritti da giornalisti e politici il cui potere, altrimenti, potrebbe danneggiare chi scrive. Ma perché stupirci? C’è forse un comparto della vita pubblica, nel nostro paese, che sfugga a questo paradigma? Non mi pare proprio. Né mi pare che ci sia più chi, con autorevolezza, possa stigmatizzare il sistema di piccola e mediocre mafia intellettuale che domina il panorama culturale. Non mi limito a rimpiangere i Vittorini, i Fortini, i Milano. Guardo e vedo una società nella quale, nel suo complesso, i valori della conoscenza e l’onestà intellettuale sono non solo poco vitali ma, ove carsicamente compaiano, derisi. Se nelle vene della società non scorre il valore della cultura, perché dovremmo trovarne traccia nel suo specchio fedele, e cioè il sistema dell’informazione?

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  6. Al bar di via Chiabrera il caffè costa otto corone e quaranta,
    sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
    Prendono comunque buona cura del divertimento:
    al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
    sul seggiolino siede un nano
    e suona una melodia sentimentale.
    I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
    i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
    che i nani abbiano varie malattie.
    In sostanza i clienti e i nani si odiano,
    di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
    Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
    passa per il locale una mandria di renne.
    Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
    Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
    sono spesso posticce. Una ha un guasto,
    è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
    Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
    che si arrampicano senza sosta sui clienti,
    anche se ufficialmente si continua a sostenere
    che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
    (Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
    strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
    le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
    come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
    ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
    come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
    di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
    Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
    attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
    Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
    che continuano a minacciare la città?
    Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
    sentono in lontananza il loro canto strascicato.
    Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
    Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
    che da lontano si mescola alle conversazioni,
    e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
    si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
    Di cosa stiamo conversando, in effetti?
    È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
    interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
    Le norme della buona educazione però non lo permettono.

    *
    La foca

    D’accordo, ho passato una mano di marmellata su una vecchia foca nella metro, ma non dimenticate anche che fui l’unico
    ad indovinare il nome della medusa viola fosforescente
    sotto l’oscura superficie d’acqua nella Piazza della Città vecchia,
    lungo la quale abbiamo veleggiato in barchetta,
    sotto facciate silenziose, ubriachi di birra.
    Successe l’ultima notte dell’Età dell’oro.
    Fate assegnamento su un argomento sofistico con un Cartesio
    di peluche, ma avete dimenticato la malerba della scrittura indecifrabile, grazie alla quale inarrestabilmente, con silenzioso fruscio, crescono le nostre poesie più aggraziate,
    e come è evidente, anche lo scalfito manichino automatico,
    che di notte siede nello scompartimento buio del treno sganciato
    su un binario morto della stazione di Smíchov
    e parla con disprezzo delle vostre sterili estasi
    nelle cupe piazzette dei villaggi. Penso sia già ora di rassegnarsi
    al fatto che la sciovia abbia trascinato via il nostro direttore
    all’interno di un tempio barbaro, verso un altare con una spina di metallo,
    di iniziare ad abituarsi al fatto che i corpi di alcuni corpi siano coperti da un guscio bianco d’uovo,
    lo battiamo leggermente assorti con un cucchiaino
    e lo sbucciamo, un po’ alla volta appaiono sulla pelle rosata i versi tatuati dell’epos dei lupi, che corrono lungo i corridoi lucenti della facoltà di filosofia,
    del grasso pesce voltante, che vola dentro la birreria Carlo IV
    e come impazzito sbocconcella le teste dei clienti –
    e tutto si ripete nuovamente, anche con conchiglie cacciatrici di cuccioli,
    come un gruppo di statue d’oro al centro di una piazza spopolata in una città straniera,
    rilucente nell’inesorabile meridiano del sole.

    *

    Turisti

    Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
    che quando la mattina mi svegliavo
    c’era nella stanza un gruppo di turisti.
    Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
    statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
    presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
    prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
    Spiegava tutto con professionalità.
    I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
    e fotografavano e toccavano tutto.
    I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
    “È possibile comprare delle cartoline qui?”
    “Devo fare pipì.”
    “Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
    Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
    soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
    sul bordo del letto dove giacevo
    e tirava un sospiro profondo.
    Queste cose mi succedevano continuamente.
    In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
    e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
    Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
    il terrore della prima notte, quando fui svegliato
    da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
    Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
    È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
    e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
    tra gli sciami apocalittici delle scintille.
    Ora che vivo nei boschi e la città
    è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
    interrotta da tronchi neri
    che guardo prima di addormentarmi
    su un mucchio di foglie bagnate, so già
    come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
    imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
    agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
    alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
    A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
    dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
    Nessuno spazio è chiuso.
    Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
    Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
    La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
    adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
    e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
    Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
    I tronchi tribali selvatici
    di quest’autunno passano per gli ingressi.

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  7. antonio sagredo

    Sia Sanguineti che Zanzotto vennero a visitarmi in date diverse nella mia casa romana; come poeta zanzotto valeva di più di Sanguineti perchè non affetto da nevrosi galoppante, ma trottante; c’è differenza nel passo e nell’andatutra. Mi riitrovai con Andrea più a mio agio perchè il suo verso mi dava la possibilità di spaziare oltre il metalinguismo che già praticavo da solo, e forse come un aristocratico accattone. meno invece che con Eduardo più attento alle istanze strutturalista che già conoscevo bene e perché avevano base nel formalismo e linguistica russi ;avevo fatto pratica all’Uniuversità di Carlo di Praga.
    Dunque massimiliano ha in parte ragione, ma ha troppa fretta se misura le sue composizioni in minuti secondi .quando io le misure in epoche stratificandole più o meno come Mandel’stam.
    Massimilianoi non è un nome molto fortunato se ricordiamo la fine dei due Massimilano: uno in Francia e l’altro in Messico; ma questo ultimo che qui scrive avrà fortuna critica perché è talentuoso, ma per ora non troppo.
    —————————————————-
    Ofrii a Sanguineti vino primitivo di Manduria che bevve d’un fiato; mentre lo stesso vino venne rifiutato da Zanzotto, prnsano lui che i vini delle sue parti fossero migliori: non sapeva che il vino meridionale veniva tagliatio da quest’ultimo.
    ———————————————
    grazie per la squisita attenzione
    as

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    • Massimiliano

      Sig. Sagredo buonasera.

      premesso che trovo Sanguineti insopportabile e Zanzotto capace di commuovermi con quella sua lampada maledetta e tutto quel sole che splende nel niente, i minuti che ho contato per comporre testi a casaccio e successivamente dichiarati, erano volutamente una provocazione. Non credo a una sola parola di quello che ho scritto in poetichese: è stata la sbruffonata necessaria per rendere chiara l’idea che ho di gran parte di molta poesia che leggo su questo sito, per altro, ripeto, vivo a differenza di altri contenitori più simili a bare. Ma l’ho già scritto. Si vede che andava ripetuto. Grazie per avermi assegnato del talento che sicuramente non merito.

      Saluti
      M.

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  8. Mariella Bettarini

    Grazie di cuore per questo prezioso invio! Mille auguri e complimenti sempre.

    Un saluto affettuoso da

    Mariella (Bettarini)

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  9. antonio sagredo

    VORREI CHE LA POESIA KITCHEN DIVENISSE “EPICA”, ME VEDREMO TUTTO DALL’EPILOGO, GIA’ CONOSCENDO IL PROLOGO LE SPERANZE SONO BUONE E PIù CHE PROBABILI

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  10. Backstage Zanzotto – Sanguineti, come riportato in una glossa da Andrea Cortellessa in:

    https://www.academia.edu/14109587/ANDREA_ZANZOTTO_UN_POETA_NEL_TEMPO?email_work_card=reading-history

    Zanzotto Allude al gossip contenuto nel numero 11 di «Officina», novembre 1957, pp.458-62 (a p. 458 e a p. 462), nella Nota anonima, ma da attribuire a Leonetti (così inogni caso farà lo stesso Zanzotto nel celebre e polemico saggio su I «Novissimi», uscito su «Comunità», 99, maggio 1962 e ora in Id.,
    Scritti sulla letteratura, vol. II cit., pp.24-9: 26), a commento della famigerata
    Polemica in prosa di Sanguineti (a sua volta scritta rispondendo al Pasolini della Libertà stilistica, sul precedente numero 9-10): «In una cena romana “da Cencio”, in attesa dei poeti sovietici in ritardo, ai 6 di ottobre, lo Zanzotto (presenti Fortini, Pasolini, Leonetti) si lagnava di aver perso il sonno per colpa di Sanguineti, affermando diabolico il suo Laborintus e degno di punizione se non era “sincera trascrizione di un esaurimento nervoso”: ecco dunque uno, Zanzotto,di cui la buona coscienza, il sonno nelle convenzioni petrarchesche, è rotto da quella illeggibile e furiosa ironizzazione delle forme, e niente, niente affatto, dalle nostre costruzioni ideologiche e critiche; quella può essere, dunque, in un certo ambito,mordente. […] Per Sanguineti continuerà a valere in poesia la situazione immobile,che da alcuni, astrattamente, si è voluta identificare con quella di Leopardi (mentre è angoscia del secolo, che si riduce poi alla sensazione del paesaggio – ora con la modulazione poetizzante, mettiamo, di Zanzotto: “perch’io dispero della primavera”»(nella cit. antologia della rivista, cfr. pp. 334-9: 335 e 338). Alla battuta di Zanzotto replicherà com’è noto Sanguineti (nel brano Poesia informale? accluso nell’antologia I novissimi. Poesie per gli anni ’60 [1961], a cura di A. Giuliani, Torino, Einaudi, 2003,pp. 201-4: 202) accettando la definizione «ma con una non piccola correzione: e cioè che il cosiddetto “esaurimento nervoso” che io tentavo di trascrivere sinceramenteera poi un oggettivo “esaurimento” storico».

    Sull’episodio – assai noto, per non dire famigerato – si veda l’esauriente messa a punto di L. Weber, Usando gli utensili di utopia. Traduzione, parodia e riscrittura in Edoardo Sanguineti, Bologna, Gedit, 2004,pp. 19-31

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  11. Insopportabile Sanguineti!
    L’ho sentito 30 anni fa !!! –
    Idem per Zanzotto!!! –
    Ma bisogna averli letti tutti e due, davvero, e completamente e non per sentito dire come succede spesso – e quindi farne allora un saggio serio e spiegare e spiegarvisi, ma si deve essere armati di stiletti linguistici molto appuntiti!
    Altrimenti sono rimasticature di vecchie cotolette e nulla è nuovo anche affermando: questo è insopportable e quell’altro no!
    Non significa nulla. anzi denuncia la vuotezza cerebralmente critica di chi lo dice.
    Migliaia di volte ho ascoltato questo genere di critica spicciola, che tra l’altro è mancante di filologia ecc., ma anche nelle aule di molte università europee che credete, come in qualsiasi piazza di un mercato qualsiasi, come una qualsiasi donnicciuola che grida isterica o un qualsiasi ciarlatono ambrosiano. che si trovi in un trivio umidiccio. a sproloquare !
    Poi c’è l’impotenza di colui per cui tutto è insopprtabile;
    necessario guardarsi in uno specchio oggettivo… e guarda, guarda e non vede nemmeno il vuoto e pure ha una vista lungimirante!!!
    .. non si sa chi sia, forse un poeta che un tempo scriveva:

    Io un tempo pensavo
    i libri si fanno così:
    arriva il poeta,
    lievemente disserra le labbra
    e d’improvviso si mette (a cantare il sempliciotto ispirato.

    Prego!

    Ma risulta che prima
    che cominci a cantarsi,
    cammina a lungo incallito dal vagabondare
    e dolcemnete sguazza nella melma del cuore
    la stupida tinca dell’immaginazione .

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    • Massimiliano

      Ha ragione, ma in parte.

      Le spiego la sua parte di ragione – cosa che lei non ha fatto con me, dando per implicite cose che forse avrebbe dovuto spiegare, invece che deviare sulla sciocchezza dei tempi di realizzazione, ma lasciamo stare.

      La ragione sta nel fatto che dire: mi piace / non mi piace è un atteggiamento stupido, superficiale anche, concordo. ​Sono stato superficiale? Ma certo.

      Qui finisce la parte di ragione perché subito dopo, sig. Antonio, inizia il contesto. Ho risposto di pancia, visceralmente, in risposta a un commento su di un blog a un suo intervento altrettanto rapido. Non c’era da parte mia nessuna intenzione critica, nessuna ambizione nello scrivere un saggio ( che non sarei comunque in grado di scrivere ammesso che mi interessasse poi farlo), semmai un rispondere, diciamo, come potrebbe rispondere lei, per pura ipotesi, se si trovasse nella seguente situazione:

      Uno chef viene al suo tavolo e le dà la scelta: pesce o carne? E lei dice: “Carne! il pesce non lo posso soffrire, mi fa schifo!”

      E lui: “ Le fa schifo il pesce? Non faccia il bambino, così lo dicono i bambini lo sa?!”

      Lei non è un bambino eppure chissà quante volte ha scartato secoli di cultura stratificati dentro un piatto di cucina
      ( o un luogo, o un pittore, una tipologia di vestito, un’architettura, una musica, uno sport, un’idea filosofica, una branca della fisica etc )

      E lo chef, infatti, ancora basito, come reagisce alla sua affermazione?
      Beh, diciamo che sgrana gli occhi ed esclama risentito: “Lei di cucina non capisce proprio nulla! Lei mio caro è un bambino superficiale! Esca dal mio ristorante!”

      Avrebbe ragione di dirlo? sì, ma in parte.

      Lei invece di mandarlo al diavolo e uscire, mettiamo che tenta di spiegare, con dovizia e calma, facendolo sedere al tavolo, dicendogli che il pesce proprio non le piace, il motivo è perché veniva picchiato da bambino con un pesce diverso, ancora vivo, ogni domenica mattina, da un parroco un poco sadico. La cosa ha avuto ripercussioni anche gravi in altri ambiti e non solo in quelli culinari…etc

      Oppure è lo chef il quale, invece di adirarsi, potrebbe sedersi lui con calma, e cercare con lei un modo di cucinarle il pesce affinché non si perda questa gioia.

      Ci vuole un rapporto, un tempo, uno spazio. Un dialogo. Che può avvenire, ma anche no.

      Lei si sente lo chef di grande esperienza che caccia via dal suo ristornate lo lo scostumato e barbaro ospite che osa dire che il pesce non gli piace. Ma io glielo lascio fare lo chef perché anche lei, vede, è un uomo parziale, è relativo, è di parte, non sa tutto, non ha letto tutto perché è impossibile, eppure lancia giudizi dalla mattina alla sera come tutti e come tutti sa soltanto quello che sa, inoltre subodoro in lei una certa partigianeria in questo contesto specifico, un surplus di aggressività che francamente trovo così patetico.

      Quindi, sig. Antonio, Sanguineti, a me non piace. Posso dirlo senza ferire nessuno. E’ un’opinione personale, senza ambizioni di universalità, vale per me come per chi 30 anni fa, per ragioni che non posso conoscere, disse la stessa cosa: e allora? Detto ciò è probabile che un giorno trovi la chiave di lettura per apprezzarlo. Questo non posso escluderlo. In fondo me lo auguro.

      Bella la poesia che ha postato, anche se per i miei gusti troppo pedagogica. Ma efficace. Senza dubbio.

      Alla poesia preferisco dove scrive: “Poi c’è l’impotenza di colui per cui tutto è insopportabile”. Mi ricorda Nietzsche.

      Buona giornata

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  12. caro Massimiliano (vero nome: Claudio Borghi),

    sono (siamo) contenti di aver incontrato un compagno di viaggio severo e autentico… pubblico qui la prima parte della Introduzione al libro di Gino Rago che sarà la seconda opera di poesia kitchen, dopo quella di Francesco Paolo Intini: Faust chiama Mefistofele per una metastasi (2020) la pubblico perché rendo conto, spero in modo comprensibile, delle principali qualità di questa nuova forma-poesia, che non è affatto facile come potrebbe sembrare a prima vista.

    Introduzione a Storie di una pallottola e della gallina Nanin (in corso di stampa)

    In Storie di una pallottola e della gallina Nanin Gino Rago ha fatto una operazione semplicissima ma geniale: ha ribaltato il piano della narrazione: dall’io alle «cose», dall’io ai personaggi ed ha lasciato parlare direttamente le «cose», anzi, la «Cosa» per eccellenza: la «pallottola». È la «pallottola», infatti, la protagonista assoluta della sua poesia, è lei che guida la regia, è lei la prima attrice, è lei l’Ennio Morricone della colonna sonora. Il mondo viene visto e raccontato dal punto di vista di una pallottola: «La caffettiera di van Gogh litiga con il manichino di De Chirico», scrive Rago, ma è il punto di vista della «pallottola» che così vede le cose e ce le racconta. Sono le «cose» rappresentate nei dipinti della tradizione pittorica a litigare per interposta persona, per rappresentanza degli uomini. È che le «cose» non sono più al loro posto e passano all’azione, reagiscono e retroagiscono su altre «cose». E così il mondo viene capovolto. Si tratta di un capovolgimento ribaltamento totale della narrazione, un vero e proprio cambio di paradigma. Alfredo de Palchi se fosse vivo e potesse leggere questa poesia, ne rimarrebbe ammirato, ne sono certo. L’homo sapiens nulla teme di più che essere considerato una semplice «cosa». Perché la «cosa» è soltanto una «cosa», la «cosa» non teme né desidera nulla, la «cosa» è senza trascendenza, priva di metafisica. Ma la «cosa», qualsiasi «cosa», è impensabile senza il soggetto che la pensa; di più, il soggetto è impensabile senza lo specchio opaco della «cosa» che gli rimanda la sua immagine rovesciata: la «cosa» è l’anti-uomo, quindi, uomo significa il contrario della «cosa». Siamo arrivati a questo punto nelle società del capitalismo cognitivo. Anche l’inconscio è diventato cognitivo. L’inconscio pensa, agisce, fa il proprio tornaconto, si fa i fatti suoi. Ma perché oggi è il tempo delle «cose»? Perché la prima cosa con cui ogni essere umano è chiamato a confrontarsi è il proprio corpo, e il corpo-cosa ora vuole esserci, reclama una ribalta.

    L’homo sapiens è l’animale che per natura è separato dalla propria dimensione corporea, è naturalmente dualista. Se c’è qualcosa che proprio non accettiamo, è essere trattati come delle «cose». Già essere trattati come animali è considerato inumano e offensivo, ma l’essere paragonati alle normali e consuete «cose», per esempio una «caffettiera» o a un «cavaturaccioli», come fa Gino Rago, appare del tutto inaccettabile, obbrobrioso. Nella poesia di Gino Rago, invece, le «cose» diventano protagoniste assolute, escono dall’ombra e dal silenzio nei quali sono state relegate dagli umani e assurgono ai pieni poteri del Logos.

    Marie Laure Colasson ha scritto: «Nel dispositivo poetico di Gino Rago si ha composizione di unità frastiche frastagliate e diversificate, la struttura fondante non è data né dalla parola, né dal registro fonologico, né dalla prossemica tra le parole; la proposizione è una incognita, almeno finché non si ritrova incardinata in mezzo ad altre unità frastiche. La proposizione è la creatrice del pensiero, ma le proposizioni nella poesia di Rago vanno alla deriva, non rispondono ad alcun comandamento logico sintattico, si situano fuori dalle norme del suasorio. Il rischio in cui si può cadere è ovviamente l’arbitrario, direbbe un critico intonso, che noi però preferiamo chiamare l’ultroneo, l’uscita dal senso, l’uscita dal significato; il che avviene veramente in questo nuovissimo ciclo poetico che ha una denominazione alquanto bizzarra: Storie di una pallottola e della gallina Nanin».

    Dove siamo?, dove sono le «cose»?, dove sono gli umani? Non so se lo sapremo mai e forse non lo sa nemmeno Gino Rago: i tempi si confondono e ci confondono, i luoghi ci abitano e poi ci lasciano, ci abbandonano, così i ricordi, così le passioni che ci hanno abitato. E la poesia che fa?, la poesia si dà alla prosa dei giorni, accoglie l’ultroneo e l’estraneo e l’erraneo come inquilini normali del condominio che abitiamo. Non c’è nulla di bizzarro in ciò, nulla di erroneo, nulla di erraneo. Quello che è avvenuto abita lo stesso condominio di quello che non è avvenuto, quello che non è stato scritto abita lo stesso condominio di ciò che è stato scritto, la scrittura da diario è una scrittura da obitorio; l’unica scrittura ammissibile per Rago è la scrittura di cui non sappiamo dove ci condurrà, di cui non abbiamo la minima idea.
    Il linguaggio del realismo che va di moda oggi è un referto da obitorio, lo stato vegetativo permanente e progressivo di una rappresentazione afasica e asmatica.

    Gino Rago adotta una procedura di «irrealismo onirico» che consiste in quattro piani:
    1) narratore presente come personaggio nella storia (omodiegetico) che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico);
    2) narratore presente come personaggio nella storia (omodiegetico) che però analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico);
    3) narratore assente come personaggio dalla storia (eterodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico);
    4) narratore assente come personaggio dalla storia (eterodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico).
    Rago utilizza di tutti questi dispositivi operazionali secondo una procedura multicentrica e pluri prospettica.

    «Sull’esempio di René Magritte / questa non è una poesia».

    Questo assioma vergato da Guido Galdini segna il punto di non ritorno tra la poetry kitchen e la forma-poesia di accademia. La spinta verso il nuovo deriva dalla stagnazione nella quale si è liquefatta la poesia italiana degli ultimi decenni, la propulsione verso il nuovo ha la sua scaturigine nella stagnazione forzata che ha soffocato la poesia italiana delle ultime decadi. La propulsione verso il nuovo ha prodotto la «forma polittico» e la «instant poetry», entrambe formazioni stilistiche contraddittorie e conflittuali. La forma-poesia assume le sembianze di una «composizione» di linguaggi diversi e disparati che trovano un luogo in cui coesistere e coabitare. La forma-poesia della nuova poesia in modalità kitchen è un sistema infiammabile e instabile, anzi, metastabile, in quanto la sua ontologia è metastabile, una struttura precaria e dis/funzionale, infungibile alla amministrazione delle comunità, cioè alle esigenze del Politico.

    La poesia di Rago è poli prospettica, eccentrica, pluriversale, per queste sue caratteristiche è spinta ad adottare il pluristile e il plurilinguaggio. Il linguaggio municipale trova il modo di coabitare (e collidere) con i linguaggi extra municipali, sovra nazionali e con i linguaggi di nicchia (filosofici, giuridici, giornalistici etc.), con i linguaggi mediatici. Rago va necessariamente verso il «compostaggio» di diversi idiomi, procede in direzione di un polistile da polistirolo, impiega i linguaggi plastificati, quelli della pubblicità, i linguaggi da bugiardino, i linguaggi desueti e quelli corrivi del parlato, i linguaggi informazionali: in una parola, i linguaggi dell’impero mediatico.
    La «forma-poesia» per Rago ha il compito storico di costruire una «commedia» dove tutte le voci, tutti gli stili e tutti i linguaggi possano convivere e collidere.

    La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire (colui che viene altro non è che un evento linguistico), «colui che viene» altro non è che ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per av-venire, può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità.
    La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coinplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio kitchen, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che confondeva l’essere con il linguaggio, la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. «Colui che viene» è il linguaggio. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii, per residui e per scarti.

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  13. Il pensiero non è un’entità fissa (un’entità?), capace di adattarsi a qualsiasi circostanza sociale e storica. È piuttosto un darsi aleatorio, tale per cui dove è rivolto il pensiero lì va ad abitare l’essere. Pensare è compiere salti dimensionali (attenzionali) ; stai pensando a una persona cara ma ecco si presenta una questione politica, ecco l’auto da riparare, ecco Platone, Cacciari, ecco un bonsai, la pubblicità, dire al vicino di casa che il cane dà fastidio…

    Questa procedura è stata intercettata dalla poesia noe, e senza alcuno scopo se non quello di inseguire l’essere autentico nel contemporaneo, per come si manifesta; non come lo si vorrebbe, al seguito di ideali, psicologismi, o all’interno di paradigmi culturali, individuali o ritenuti dell’umanità intera. Perché così è stato da noi, ultimo il Fortini carico di dubbi e ragionamenti. Così era la poesia interrogante.

    Tutto questo nella noe è lasciato andare. È poesia fenomenica, quindi è poesia in costante aggiornamento. Le ricadute Dada, o in qualche modo surrealiste, dal mio punto di vista sono tentativi di approdo; forse pensando che altrimenti non ce la si fa, perché mancano riferimenti, e perché l’accadere stesso della scrittura mette in evidenza il vuoto (non uno oggi che si astenga dal nominarlo, non uno disposto ad ammettere che si tratta del proprio vuoto divenire). Almeno i poeti noe se la giocano.

    Facciamo un passo indietro. La storia noe è ormai decennale. All’inizio, ricordo, fu Steven Grieco Rathgeb a dare valido esempio di poesia impostata ontologicamente – movimento dentro e fuori dell’essere e del pensare – anche se ancora in forma libera, non strutturata, ancor prima che si parlasse di distici e polittici. La poesia noe strutturata, con chiara identità stilistica, è portata a maturazione da Mario M. Gabriele. Fondamentale il supporto critico e la volontà di sperimentazione in primis di Giorgio Linguaglossa.

    Sono anch’io dell’idea che il non senso, o fuori senso, abbia favorito l’occultamento delle premesse, e nascosto limiti individuali (certo anche miei) rintracciabili nella prosa sottostante i versi, che a fatica rincorre il linguaggio odierno (quasi nemmeno il proprio) ammesso che lo si possa individuare in un solo meta-componente. Va detto però che il non senso agisce come fattore de-condizionante, utile a non ricadere in vecchi paradigmi. Quali ad esempio, doversi confrontare e dare spazio a voci ormai scomparse.

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    • Massimiliano

      Buongiorno.

      Scrive: “Sono anch’io dell’idea che il non senso, o fuori senso, abbia favorito l’occultamento delle premesse” io avrei tentato di mostrare, per come ho potuto, che è proprio questo non-senso, questa tecnica di accumulo dei significanti, che non occulta né tradisce le premesse ( secondo me nell’insieme corrette) ma le incarna; quella confusione , quello smarrimento linguistico, quella proliferazione assurda a cui si intende fare da specchio non vi si riesce perché vi aderisce, ne fa parte: non ne è specchio ma è parte di chi sta al di qua dello specchio. Aspetto peggiore, che dovrebbe far sorgere il dubbio che si è all’interno di un modello, è che gran parte degli scritti per me risultano sovrapponibili. Questo mi sembra oggettivo. Solo a me? Se lei riconosce, come pare riconosca, che ci sono ricadute dadaiste e surrealiste evidenti, questo dovrebbe essere sufficiente quanto meno per verificare cosa effettivamente è ancora dadaista e surrealista e poi toglierlo, e vedere cosa resta.

      P.S.
      non credo affatto che il non-senso sia un fattore de-condizionante. il non senso, ovvero la scrittura automatica, il frammento casuale, ha leggi che semplicemente ci sono occulte. Crediamo di dire le cose casualmente poi qualcuno ci ha detto che non è così. Ma ammettiamo che vogliamo creare davvero qualcosa di casuale. Usiamo un software allora. Ma se usiamo un software sia io sia lei, e proponiamo gli scritti, non risulterebbero secondo lei, per quanto diversi nella scelta delle parole, del tutto simili, interscambiabili?
      Non si arriverebbe allora alla conclusione che bisogna eliminare la volontà dell’autore, all’annullamento dell’autore per ottenere un testo davvero de condizionato anche dal narcisismo etc ? e se si concordasse su questo non si arriverebbe a sparire nel magma? e se si sparisse nel magma non si farebbe alla fine parte di quel collasso linguistico che questa NOE si propone di rappresentare dimostrando dunque che invece ne è parte integrante, come ho detto all’inizio?
      Va a mio avviso riconosciuto il paradosso attraverso cui il nichilismo opera in queste strutture, generando esperimenti per altro, mi pare, già attraversati.

      La libertà totale, il de-condizionamento reale, il fuori senso, non sono dati. Dovremmo espellerci dal linguaggio, ma a qual punto non sapremmo niente, ovvero saremmo morti e non credo che i morti sappiano di esserlo.

      Saluti
      M.

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  14. «out pussy cat out»

    Chi, in quella grigia mattina del 16 dicembre 1908,
    si fosse introdotto furtivamente, e a proprio rischio e pericolo,
    nella camera d’albergo in cui si svolge la scena che dà principio alla nostra storia,
    sarebbe rimasto oltremodo sorpreso…
    Ecco
    alla scena era presente il Signor K. con la mantellina catarifrangente
    che sventolava qua e là
    e poi c’era la tgirl Molly Blum
    che era appena uscita dal supermercato “Emmepiù”
    di via Raffaello Chiabrera
    nuda come mamma l’ha fatta
    tranne un tanga
    sprovvedutissimo e tacchi vertiginosamente alti
    la Signora prese a inveire contro il commissario Ingravallo
    così:
    «I had to shuffle through a whole case of green beans.
    The quality is really subpar»
    (traduzione: Ho dovuto mischiare un’intera cassa di fagiolini.
    La qualità è davvero scadente)

    Si è poi introdotto nella stanza del delitto presunto il poeta Mauro Pierno
    di ritorno anche lui dal supermercato “Emmepiù” con una sporta
    di prodotti caseari e formaggini
    e iniziò a prendere a brutte parole il poeta Gino Rago
    accusandolo di avergli rubato l’idea dei compostaggi di diversi linguaggi
    e di aver composto un patchwork poetico di dubbia qualità
    nonché di avergli sottratto dei versi,
    tra cui questi che seguono:

    «Sono roberto, sono cristiano, sono in manette, sto alle Vallette
    I pm toccarono il pc, rovesciarono il cestino e chiusero la finestra
    Ma del resto anche nella Parigi di Zola, piena di pezzenti, non si andava dalle Halles a Palazzo Reale in dieci minuti?
    Forse ho perso una valigia in un vagone della Metro Verde, con trolley grigio, esattamente questo, in foto

    In men che non si dica ci fu un parapiglia
    il poeta Gino Rago inveì contro il poeta Mauro Pierno
    con parole irriferibili
    affermando, tra l’altro, che si trattava di cripto citazioni del tutto legittime
    chiamando in causa anche il critico Andrea Cortellessa
    in difesa del suo diritto letterario di appropriarsi
    delle diciture di cui ritenevasi unico proprietario e delegatario
    in quanto facente funzioni di parole usufritte
    e al capolinea

    In quel mentre una scolaresca guidata dalla loro maestrina
    fece irruzione nella stanza del delitto
    i bambini presero a sfasciare tutto il fracassabile, la lavastoviglie,
    le lampadine, il frigorifero
    (dal quale trafugarono delle bottiglie di pepsi cola e alcune aranciate),
    i comò sopra i quali c’erano delle fotografie in cornice
    andarono a pezzi,
    trassero dai cassetti una quantità di calzini e di mutande sporcificancole,
    le lampade da scrittoio anche andarono in mille pezzi…
    In breve, fu una Armageddon

    Intervenne così una autoambulanza dalla quale scesero degli energumeni
    con il camice bianco
    che misero dei camicioni a tutti i presenti
    (tranne i bambini)
    E la maestrina disse le famose parole:
    «out pussy cat out»

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  15. Quando la prosa passa dal discorsivo tecnico alla poesia senza scomporsi, penso si possa parlare di proprio linguaggio. E sarebbe un traguardo. Confini non ve ne sarebbero, fatta eccezione per la scelta tra testo a sinistra o di seguito. Anche qui si gioca il poetichese.
    Io sono per l’andar di seguito in caso l’a-capo non servisse da spinta ma solo per distinguere l’intenzione dello scritto. Certi formalismi sono da inventare, perché non è già scritto come indossare un cappello sulla testa che ciascuno ha. Ho anche coniato il termine Short stories (ma esiterà già) per indicare poesie racconto, le quali partono da l’esigenza o piacere di narrare, pur che non si sappia in partenza cosa. Ma andrebbe stretto (short), a parer mio, altrimenti il linguaggio è dato prima che poesia possa intervenire.
    Cos’è poesia? per me sono versi involontari, scritti dall’autore ignaro, quindi assente, eppure in stato di assoluta presenza. A volte vengono impiegati in forma di sapiente abbellimento, la qual cosa mette tristezza.

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  16. Massimiliano

    “Cos’è poesia? per me sono versi involontari, scritti dall’autore ignaro, quindi assente, eppure in stato di assoluta presenza.” Ecco, appunto, se lei togliesse l’autore di mezzo, e ottenesse al posto suo la generazione di un testo, non otterrebbe quel de-condizionamento auspicato?

    legga questo:

    cercherai collanti in extremis
    solo perché ti ho sognato
    in caute voci esotiche sommesse
    si illuminano fari
    giù per la gola, oltre profondi clivi
    di una stazione o di un cantiere
    piccoli angeli di ottone
    si prolunga eterno uno iato
    simili referenze,
    sedimentano mesi
    nel morbillo.

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    • Massimiliano

      e ora al contrario, pressoché fedelmente…

      nel morbillo
      sedimentano mesi di referenze,
      e si prolunga uno iato
      piccoli angeli di ottone eterno
      su una stazione o in un cantiere
      giù per la gola, oltre profondi clivi
      si illuminano gli occhi
      poi caute voci esotiche sommesse
      solo perché ti ho sognato
      e ti cerco in collant
      in extremis

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      • A me sembrano versi del tempo di Nanni Balestrini, sua tecnica del collage pescando a caso, anche da giornali.
        Nella scrittura noe si dà importanza agli inizi, discorsi puntualmente interrotti o deviati sul nascere. Stop and go. Qui manca del tutto la punteggiatura. Infatti lei parla ancora di significanti.

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        • Massimiliano

          Mi perdoni, ma i discorsi diretti li vedo ma non sempre, parlo di significanti perché è l’unica cosa che qui mi sembra persistano visto che il senso non c’è; vada per la punteggiatura, non è un problema…prendo come ho già fatto il primo testo che mi capita e che francamente a me composto da nessi causali, privi di relazione, ( o c’è e qual è?) ….legga per cortesia e mi dica per favore la sua opinione:

          Vuotano gli intestini scuotono le orecchie
          Accumulano le lenzuola trascinano per le braccia

          L’inverno è insopportabile
          senza adeguare il cielo alle fabbriche.

          Sui binari divaricati la Storia suda
          il sermone dell’ancella scommettitrice.

          Scopo della vita è la vita stessa, e l’Universo è costante inizio di sé medesimo.

          Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

          Come lui danzava nei suoi calzoni
          un uovo usci dalla cucina

          ora legga così per favore e mi dica esattamente in cosa differisce dalla precedente secondo lei:

          Come lui danzava nei suoi calzoni
          un uovo usci dalla cucina

          Scopo della vita è la vita stessa, e l’Universo è costante inizio di sé medesimo

          Sui binari divaricati la Storia suda
          il sermone dell’ancella scommettitrice.

          L’inverno è insopportabile
          senza adeguare il cielo alle fabbriche.

          Vuotano gli intestini scuotono le orecchie
          Accumulano le lenzuola trascinano per le braccia

          e infine questo, abbia ancora un po’ di pazienza:

          Cercherai collanti in extremis solo perché ti ho sognato
          in caute voci esotiche sommesse.

          Si illuminano fari giù per la gola oltre profondi clivi
          sui binari divaricati la Storia suda

          In una stazione o in un cantiere piccoli angeli di ottone
          l’uovo usci dalla cucina e vuotò gli intestini.

          Si prolunga eterno questo iato di simili referenze,
          il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

          Mi dica, dove e in che modo, secondo lei, i tre testi differirebbero tra loro?
          O meglio, più in generale, è disposto ad ammettere che tra questi tre la distanza è davvero minima e mai sostanziale? O meglio ancora: è disposto ad accettare che se questi tre testi o altri tre simili, dieci simili, trovati per terra, saprebbe identificarne diciamo l’originale? Cioè il testo scritto dal poeta e gli altri nove chiamiamoli bluff? O invece andrebbe a colpo sicuro?
          direbbe ” il primo non c’è dubbio!” Mi potrebbe dire, quando può, perchè?
          Vorrei capire.

          Grazie.

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          • Bene, ci siamo. Ha capito che manca il discorso. Che però nella terza versione sembra esserci, ma per via dei significanti. Vede, qui stanno accadendo cose, poeti che vanno per la propria strada (pare impossibile?). Giorgio con Predrag Bjelosevic, versione kitchen. Intini, ah Intini, lui sì manca di discorso, è tutto una negazione, un cozzare di onde (facile, difficile, veda lei). Io per questo adesso scrivo Instant poetry, tutto in un attimo di lettura. Mario M.G. spiace ma penso stia leggendo. Pensi che all’inizio il discorso lo si voleva (solo) rifondare alle radici. Ora manca del tutto, ma si dà in tipica lunghezza l’intenzione di esserci. Cosa che io non sento più necessaria, non fosse che ogni tanto ci si concede un dolcetto.

            Calcolatrice sposata
            con portapenne a inchiostro
            ricaricabili

            Calze rete Moulin Rouge
            Tre-per-tre come eravamo
            Dolores

            Manicotti in pelle cucciolo di leopardo
            Ticket bolli auto

            «Avanti!»

            Orologio svizzero, stampe alle pareti
            Genova per noi

            *
            E un instant:

            Perché scrivere ancora poesie?
            Non si può dire in altro modo?

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          • dai, Massimiliano (alias Claudio Borghi), tu giochi con le tre carte, carta di qua, carta di là e op! … ma l’ermeneutica del discorso poetico è una cosa un po’ più seria… no, caro amico, su questo tavolo non ci posso giocare, non è un tavolo serio… le carte sono truccate… e poi tu parli di «originale» e di copie e di varianti… ma non hai capito che nella poetry kitchen non si dà mai un originale?, che parlare di originale è come parlare di dio, è un dogma che pensavo dopo Derrida fosse stato scoperchiato!, caro Massimiliano, la scatola dell’originale è vuota… prova ad aprire quella scatola e vedrai che è vuota! Non c’è nessun originale nella poesia kitchen (concetto teologico che lo capirei se parlasse un teologo o un cardinale!)

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            • Massimiliano

              Originale, nel contesto, era inteso come un testo originato da un autore. Cioè ” tu” scrivi un testo kitchen e altri furbacchioni come me ne scrivono 19. Prendiamo i 20 testi e li mettiamo uno in fila all’altro. La mia domanda è semplice: si riconoscerebbe “l’originale”? cioè quel testo scritto da un autore ha o porta su di sé una qualità che gli altri testi, che definirei per comodità finti, fasulli, dei bluff per intenderci, non hanno? Tutto qui. Lo si fa coi vini in uno dei tanti test per sommelier. Non ci vedo nulla di male. Guardi mi si può dire che non c’è differenza. Allora a questo punto leggerei i testi kitchen come ne ho voglia, potrei mescolarli, leggerne uno per metà e passare all’altro per l’altra metà etc. come ho composto proprio qui sopra. O invece no. Hanno un loro preciso modo di muoversi, di essere, delle peculiarità. Sto chiedendo da giorni di conoscerle. La mia domanda è semplice ed è fatta da un profano! Insomma stiamo parlando di poesie, cioè di prodotti appartenenti all’arte della poesia, o a qualcos’altro. Magari non è corretto chiamarla poesia come non è corretto definire poesia che so, le poesie performative, quelle che vengono decantate in pubblico, i famosi slam poetry ( che ora pare abbiano trovato la loro giusta collocazione a Zelig)

              Provo così: mi corregga se sbaglio: se prendiamo 19 testi che tentassero di imitare Fortini, sono certo che lei riconoscerebbe il ventesimo testo di , appunto, Fortini. O no?

              La sua affermazione: “nella poetry kitchen non si dà mai un originale” vuol dire che quel leggo lo può scrivere chiunque, che non c’è autore, che anche una macchina può fare lo stesso lavoro? Cosa significa esattamente. Dell’infinito di Leopardi l’originale c’è. E non intendo il documento, intendo l’esatta sequenza di parole scelte dal poeta, ecco.

              A me sembrano tutte domande lecite.

              Grazie.

              Buona serata

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      • gentile Claudio Borghi (alias Massimiliano)

        preciso che Nessuno di noi poeti kitchen ha scritto tali baggianate.
        Quindi, se proprio deve citare dei versi kitchen, faccia delle citazioni precise indicando da dove le ha prese e gli autori.

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  17. antonio sagredo

    Cos’è poesia?
    antichissima domanda.
    che presuppone la conoscenza del “DUENDE”.
    iL POETA HA SEMPRE CERCATO DI DEFINIRE LA POESIA.
    P.E. PASTERNàK ;
    Definizione della poesia

    È – un fischio maturato sodo.
    È – uno schiocco di lastre di ghiaccio premute.
    È – la notte che raggela la foglia.
    È – il duello di due usignoli.

    È – un dolce pisello inselvatichito.
    È – il pianto dell’universo nei baccelli.
    È – un Figaro che dai leggii e dai flauti
    si getta come grandine su un’aiuola.

    È tutto, ciò che alla notte è così importante trovare
    sui profondi fondi delle piscine,
    ed è anche portare una stella fino al vivaio
    su tremanti palmi bagnati.

    Più piatto di tavole sull’acqua è – l’afa.
    Il firmamento è ingombro di ontani,
    poter ridere in volto a queste stelle,
    infatti l’universo è- un luogo remoto.

    1917

    (TRAD. AMR)

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  18. caro Massimiliano,

    io le instant poetry di Lucio Tosi le trovo esilaranti, effervescenti, si leggono come si beve un bicchiere d’acqua, si leggono, e dopo averle lette, si dimenticano!, non c’è nessun originale degno di essere ricordato a memoria!
    ma, caro Massimiliano, non hai mai sentito parlare dell’oblio della memoria? (correlato dell’oblio dell’essere?). Tu parli di una poesia della memoria e di una poesia dell’originale, ma questo va bene per la poesia di Sandro Penna e di Libero De Libero, ma non per la poesia di Predrag Bjelosevic o per la poesia della nuova ontologia del poetico…
    “La nottola di Minerva spicca il volo al tramonto”. (Hegel) Non è un caso che la nuova poesia nasce quando il tramonto si è compiuto. Tu usi ancora le categorie del giorno (bellezza, ispirazione, originale, significanti, non-senso etc.) e non ti accorgi che siamo nel profondo della notte.

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  19. Sì be’, dimenticato ma riconoscibile. Io comunque al buio ci sto perché sono un bodhisattva, uno a cui tocca di sopportare.

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  20. Nelle società post-democratiche del capitalismo cognitivo si assiste alla liberalizzazione del fantasma

    Il Reale nel senso lacaniano-zizekiano ha la consistenza di un foro, di un vuoto, di senso e di significato, questo vuoto assume appunto il carattere di un fantasma, di una fantasy, qualcosa che non è semplicemente illusorio, ingannevole o menzognero ma è invece un pròton pseudos, un qualcosa di fondativo. Occorre dunque distinguere attentamente – cosa su cui Slavoj Žižek torna ripetutamente – tra “realtà” e Reale: la prima è strutturata simbolicamente e costituisce la rete di relazioni in cui viviamo quotidianamente, mentre il secondo, il trauma, interrompe il flusso della realtà percepita.
    La realtà simbolicamente strutturata non è affatto una struttura dominante dispotica, ma, per Žižek, una «fragile ragnatela», lacunosa, inconsistente, ostacolata al suo interno dal blocco del Reale traumatico – e proprio per questo sostenuta dalla fantasia, che quindi svolge anche una funzione di sblocco, di «sostegno ontologico» (Žižek). La fantasy, anche quella di Disneyland, i complottisti, i terrapiattisti, i no-vax, è sì falsa, ma anche si trova dalla parte della realtà, ovvero, sorregge il senso di realtà del soggetto.
    Quando viene meno la cornice fantasmatica, il soggetto subisce una ‘perdita di «realtà», inizia percepire la realtà come un irreale universo da incubo privo di un solido fondamento ontologico; questo universo da incubo non è «mera fantasia» (Žižek), ma al contrario, è ciò che rimane della realtà dopo che la realtà è stata privata del suo sostegno nel fantasma.
    Qui il concetto di fantasma/fantasia viene impiegato da Žižek non più in accezione freudiana; la nozione classica di fantasma viene ribaltata dal filosofo di Lubiana da idiosincrasia soggettiva a vera e propria «struttura ontologica». La realtà, in quanto universo strutturato simbolicamente in opposizione al Reale, impossibile/innominabile, che non è simbolizzabile e sfugge ad ogni simbolizzazione, ha bisogno di un minimo di cornice fantasmatica per funzionare, altrimenti, in mancanza di essa, crollerebbe in toto, rivelando il suo statuto traumatico spettrale, cioè Reale.
    Tra fiction e fantasy, Žižek afferma che ogni fantasy, ogni fantasia, ogni azione fantasizzante (potremmo dire genericamente immaginaria o fantasmatica) è il sostegno di una fiction simbolica. La realtà (simbolicamente strutturata) è sempre una fiction, ha i modi di una finzione ben costruita; affinché sia funzionante però, deve essere pensata all’interno di una cornice fantasmatica.
    La poiesis essendo costituente della realtà è, in se stessa, nel senso antropologico, sempre fiction, funge da «sostegno» del Reale lacunoso. La poiesis è ciò che costituisce il Reale ma ha una consistenza insostanziale, invisibile, come invisibile è il fantasma che la abita.
    La nuova poiesis ha acuta consapevolezza del legame che sussiste tra il fantasma e il Reale, così come nega legittimità al mito di un significante fondamentale, di un dire originario e di una metafora fondamentale; non si dà nulla di fondamentale né di originario, e il fantasma ne è la contro prova. Ciascun essere pensante ha i propri fantasmi, la propria scena fantasmatica, se non ci fossero i fantasmi il soggetto non potrebbe sopportare il trauma dell’irruzione del Reale nell’ordine simbolico, così, la smagliatura nell’ordine simbolico ristabilisce il contatto con la realtà.
    Nelle società post-democratiche del capitalismo cognitivo si assiste alla liberalizzazione del fantasma, la società è diventata fantasizzante, si ha un liberi tutti con i liberi fantasmi. E ciò è in consonanza con le istanze del liberalismo e del capitalismo cognitivo.
    È nella opposizione fra fantasia e realtà che il Reale si gioca la sua «consistenza», il Reale è dal lato della fantasia e della facoltà fantasizzante. In ordine a ciò il Reale e la fantasy sono le due facce della stessa medaglia: il Reale non ha alcuna «consistenza» ontologica, è spettrale e fantasmatico, mentre la fantasy è il fantasma che interviene nella realtà; ed è traumatico l’ingresso del fantasma nella realtà e sempre spostato rispetto a se stesso – può sì fungere da sostegno, da supporto alla realtà, ma solo come cornice, come spazio vuoto ontologico intorno al simbolico, vuoto da riempire.

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    • Intuizione fisica, matematica, ispirazione
      (da Piero Bianucci su La Stampa, 17 dic. 2021, Come pensa il Nobel Giorgio Parisi)

      Il fisico Giorgio Parisi nei suoi studi sul volo degli storni a Roma ha attirato «l’attenzione sul “ruolo preminente del pensiero inconscio” e sul pensiero non verbale, due fattori importanti nel processo di incubazione del problema da risolvere. La nostra impressione è che si possa pensare solo attraverso le parole, ma non è del tutto vero, osserva Parisi, perché quando “cominciamo a pensare o a dire una frase dobbiamo sapere dove andremo a parare (…) Se è così tutta la frase deve essere presente nella nostra mente in forma non verbale prima di essere espressa in parole”. Purtroppo è difficile capire la logica del pensiero non verbale proprio perché è pre-verbale e in gran parte inconscio. “Tuttavia – conclude Parisi – il pensiero inconscio è cruciale per formulare idee nuove: non solo viene utilizzato durante il lungo periodo di incubazione di cui parlavano Poincaré e Hadamard, ma è anche alla base del fenomeno più generale dell’intuizione matematica.” Che è diversa, precisa poi Parisi, dall’intuizione fisica.

      Meccanismi creativi: L’Illuminazione

      Nel capitolo breve ma denso “Come nascono le idee” Parisi approfondisce i meccanismi della creatività scientifica già ben riconoscibili nel lavoro sugli storni. I matematici Poincaré e Hadamard sono stati pionieri in questo genere di analisi. Le fasi fondamentali sono l’incubazione parzialmente inconscia seguita da una illuminazione talvolta non immediatamente correlata al problema e infine l’elaborazione tecnica della soluzione. In una conferenza del 2015 per GiovedìScienza l’estroso matematico francese Cédric Villani (Medaglia Fields) fece una analisi simile. Questi i passaggi che elencò: documentarsi sul problema, essere motivati a risolverlo (l’”ingrediente più misterioso”), ambiente stimolante (“le idee più si condividono, più si moltiplicano”, scambi tra collaboratori (spesso lontani), vincoli severi da rispettare, saper unire lavoro grigio e ispirazione, perseveranza e fortuna, e infine mescolare insieme tutti questi ingredienti, fino all’istante magico e mai garantito dell’illuminazione.

      Un modello di metodo

      Benché non sia certo il lavoro più importante di Giorgio Parisi, quello sugli storni è esemplare perché, applicando all’etologia le rigorose misure quantitative proprie della fisica, mostra quanto sia feconda l’interazione tra discipline e “sguardi” diversi. Ma ancora più importante è la lezione di metodo e di creatività che se ne ricava, nonostante queste due parole, metodo e creatività, sembrino mal conciliabili.

      Nuvole viventi

      Come molti romani, Parisi aveva notato con meraviglia gli stormi formati da migliaia di storni che al tramonto si spostano come nuvole nel cielo di Roma plasmandosi continuamente in forme mutevoli e armoniose. Lo affascinava l’aspetto estetico, pur sospettando che quel comportamento ha una spiegazione darwiniana. Infatti, insegnano gli etologi, volando in quel modo gli storni si difendono dagli attacchi del falco pellegrino: il rapace non si tuffa nel fitto dello stormo, che si muove in modo elusivo come se fosse un solo gigantesco volatile, tutt’al più artiglia ai margini del gruppo uno storno che, darwinianamente, si sacrifica per il bene collettivo. Ma come fanno migliaia di uccelli a muoversi a grande velocità in modo così coordinato? C’è un “segreto” che spieghi in modo semplice quel complesso comportamento di gruppo?»

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      • Guido Galdini

        Avevo notizia che esistono semplici regole che gli uccelli seguono per comporre uno stormo. In questo link c’è una chiara spiegazione.
        https://www.agi.it/blog-italia/salute/stormo_uccelli_storni_come_fanno-4213601/post/2018-07-28/

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      • il celebre fisico Richard Feynman osservò, parlando di nuove scoperte:

        “Il primo principio è che non devi ingannare te stesso, e tu sei la persona più facile da ingannare“.

        Quando fai scienza da solo, impegnandoti nel processo il celebre fisico Richard Feynman osservò, parlando di nuove scoperte: “Il primo principio è che non devi ingannare te stesso, e tu sei la persona più facile da ingannare“. Quando fai scienza da solo, impegnandoti nel processo di ricerca e indagine, ci sono molti modi in cui puoi diventare il tuo peggior nemico. Se sei tu a proporre una nuova idea, devi evitare di cadere nella trappola di innamorartene; se lo fai, corri il rischio di scegliere di enfatizzare solo i risultati che la supportano, scartando le prove che la contraddicono o la confutano”.

        Allo stesso modo, se sei uno sperimentatore o un osservatore che si è innamorato di una particolare spiegazione o interpretazione dei dati, devi combattere contro i tuoi pregiudizi riguardo a ciò che ti aspetti (o, peggio, speri) che il risultato del tuo lavoro indicherà. Come recita il ritornello più familiare, “Se l’unico strumento che hai è un martello, tendi a vedere ogni problema come un chiodo“. Fa parte del motivo per cui richiediamo, come parte del processo scientifico, una conferma indipendente e solida di ogni risultato, nonché l’esame accurato di altri ricercatori per garantire che tutti noi stiamo conducendo correttamente le nostre ricerche e interpretando correttamente i nostri risultati.o di ricerca e indagine, ci sono molti modi in cui puoi diventare il tuo peggior nemico. Se sei tu a proporre una nuova idea, devi evitare di cadere nella trappola di innamorartene; se lo fai, corri il rischio di scegliere di enfatizzare solo i risultati che la supportano, scartando le prove che la contraddicono o la confutano.

        Cosa c’è al di fuori dell’universo osservabile?

        Gli astronomi pensano che lo spazio al di fuori dell’universo osservabile potrebbe essere una distesa infinita di ciò che vediamo nel cosmo che ci circonda, distribuito più o meno come ciò che possiamo osservare.

        Questo sembra logico. Dopotutto, non ha senso che una sezione dell’universo sia diversa da ciò che vediamo intorno a noi. E onestamente, chi può immaginare la fine del cosmo, magari con un enorme muro che ne delimita i margini?

        Quindi, in un certo senso, l’infinito ha un senso. Ma “infinito” significa che, al di là dei confini del cosmo non troverai solo più pianeti e stelle e altre forme di materiale … Alla fine troverai ogni cosa possibile. Ogni. Possibile. Cosa.

        Ciò significa che, se questo è vero e lo seguiamo fino alla sua conclusione logica, da qualche parte là fuori c’è un’altra persona che è identica a te in ogni modo possibile, e c’è anche un te che è solo leggermente diverso da te (uno è più basso; uno è stato investito da un autobus 5 anni fa ed è morto; uno ha un dito mancante, ecc.). In effetti, questo “altro tu” potrebbe leggere questo articolo proprio ora; l’unica differenza è che mentre lo legge si è grattato il naso, cosa che tu non hai fatto (o l’hai fatto?).
        Questa nozione sembra inconcepibile. Ma, in fondo, l’infinito è piuttosto inconcepibile.

        La teoria del“flusso oscuro“.
        (da https://www.reccom.org/ce-qualcosa-al-di-la-delluniverso/)

        Nel 2008, gli astronomi hanno scoperto qualcosa di molto strano e inaspettato: gli ammassi galattici fluiscono tutti nella stessa direzione a velocità immensa, oltre tre milioni e mezzo di chilometri all’ora. Una possibile causa: strutture massicce al di fuori dell’universo osservabile che esercitano un’influenza gravitazionale.

        Per quanto riguarda le strutture stesse, potrebbero essere letteralmente qualsiasi cosa: accumuli incredibilmente enormi di materia ed energia (su scale che difficilmente possiamo immaginare) o anche bizzarre deformazioni nello spazio-tempo che stanno incanalando forze gravitazionali da altri universi.

        Semplicemente non sappiamo quali potrebbero essere questi enormi oggetti. In particolare, recenti analisi sembrano sconfessare il modello del flusso oscuro, ma la questione è ancora oggetto di controversia.

        Un’altra opzione prevede un universo di universi. Alcuni credono che l’intero nostro universo potrebbe esistere in una piccola “bolla” in mezzo a una vasta gamma di altre bolle. I teorici lo chiamano “multiverso“.

        È interessante notare che questa idea afferma che questi universi a bolla possono entrare in contatto l’uno con l’altro: la gravità può fluire tra questi universi paralleli e, quando si connettono, potrebbe verificarsi un nuovo Big Bang.

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  21. Massimiliano

    “La poiesis essendo costituente della realtà è, in se stessa, nel senso antropologico, sempre fiction, funge da “sostegno” del Reale. La poiesis è ciò che costituisce il Reale.”

    Mi permetto: la poiesis, come l’arte tutta, non fa da sostegno al Reale, non lo costituisce affatto, tutt’altro; semmai puntella il Reale, ci protegge da questo, lo sublima. Il Reale, per Lacan, è l’impossibile, è la morte. La poiesis ( come la pittura) è il velo, il sudario, la distanza operata dal linguaggio che l’artista usa per ripararsi gli occhi dalla morte, ovvero da ciò che lo fissa senza vederlo, da quell’intima esteriorità di cui parla non ricordo in quale seminario. O almeno io me lo ricordo così.

    Lei mi sembra voglia togliere quel sudario spinto da qualcosa che fuoriesca dal possibile ( dal linguaggio e dall’immagine ) ma l’unico fuori del linguaggio è il Reale.

    La poesia, come l’arte tutta, è e deve rimanere al di qua del velo. La bellezza è quel velo, quel muro, che ci protegge dal Reale, che ci tiene nel limite, che ci permette una forma.

    Io Lacan me lo ricordo così.

    Buona serata.

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  22. Massimiliano

    Buongiorno sig. Linguaglossa,

    potessi, cancellerei questo ultimo commento su Lacan, non per il suo contenuto, del quale sono abbastanza sicuro, ma perché non porta a molto, perché sembra gratuito, perché sembra un ulteriore voler attaccar briga. Lei è persona seria che da anni porta avanti un suo discorso e questo, sappia, io lo rispetto. Non condivido molto i risultati e ho detto quel che pensavo: di insistere non ha più senso. Lacan, Zanzotto, senso, non senso, dadaismo, mah, sono come tanti cani ciechi che girano in un immenso canile cercando un padrone che è uscito e non tornerà più – e poi a dirla tutta dei nomi fatti non me ne importa di uno solo. La mia fame forse ha altre mire, sapessi quali, gliele direi. Forse sono io a non essere adatto a questo genere di confronti, anzi è così. Non ne sono capace. Il mio desiderio di comprendere è innervato a un desiderio di distruggere. Non sono capace a disgiungerli. Cerco, attraverso l’urto, di conoscere qualcosa di più grande della mia miseria. Ma questo porta via energie, porta al dissidio, e divento, tanto per cambiare, fastidioso a me stesso. Quindi ecco il mio intervento, o incursione come l’ha chiamata giustamente il sig. Tosi, finisce qui. La ringrazio della sua ospitalità, davvero. Della possibilità offerta di aver potuto comunque scambiare qualcosa. Ora c’è anche il fattore tempo che gioca contro: mi costa troppo tempo scrivere qui ( a me più di voi perché sono decisamente meno abituato). Tempo che devo dedicare ad altro. Quindi ancora grazie e un augurio a lei e a tutti i suoi colleghi di un buon e proficuo proseguimento del vostro progetto, che continuerò a seguire, come faccio da anni, ma in silenzio.

    Saluti
    Massimiliano

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    • gentile Massimiliano (ops) Claudio Borghi,

      tu scrivi:

      « Lacan, Zanzotto, senso, non senso, dadaismo, mah, sono come tanti cani ciechi che girano in un immenso canile cercando un padrone che è uscito e non tornerà più – e poi a dirla tutta dei nomi fatti non me ne importa di uno solo.»

      «Il mio desiderio di comprendere è innervato a un desiderio di distruggere. Non sono capace a disgiungerli. Cerco, attraverso l’urto, di conoscere qualcosa di più grande della mia miseria.»

      Definire «cani ciechi» Lacan, Zanzotto etc. mi sembra improprio e alquanto offensivo nei confronti di personalità di spicco della cultura e della poesia italiana ed europea. Vedi, ci sono delle regole di ufficialità, di cerimonia e di bon ton e anche, direi, di buona educazione quando si discute tra letterati che non possono essere ignorate, al di là dei rispettivi, legittimi, punti di vista, che dovrebbero suggerire di mantenere un linguaggio almeno corretto ed educato. Inoltre, sappi che noi qui vogliamo costruire, non «distruggere», vogliamo portare il nostro contributo al rinnovamento della poesia italiana, la distruzione per la distruzione non ci interessa.

      Ti auguro, caro Claudio Borghi, l’approvazione che cerchi da parte della società letteraria.

      Cordiali saluti.
      giorgio

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  23. antonio sagredo

    teatro latino

    L’estrema prigionia che ti dischiuse al canto era il contrario
    di una profezia inascoltata. Dalle quinte si cantava la marcia
    consuetudine delle radici ammutolite e una rovina era la fittizia
    voce che colava sangue di mirtillo su un castagno nero.

    Gli occhi dal palco sono scivolati nella buca delle maldicenze.
    Legnoso era il pianto dell’attore scespiriano per il dilemma
    senza sapere che la sua coscienza era sazia di pietosa eternità.
    I suoi passi conteggiavano la fine delle parti per tutti i personaggi.

    I rintocchi viola e i nastri funebri segnavano le cadenze e i ritmi
    di requiem lacrimosi, di necrologi e di epitaffi … pensavo a Orazio,
    che in via del Foro inseguito da uno scocciatore, pregava Vesta
    e i tribunali d’essere lasciato libero dalla scena e dalla satira.

    I confini hanno negato agli argini il conforto delle palizzate.
    La fattucchiera se ne andata via bestemmiando in un latino
    che nemmeno Fusco lo capiva… voleva tornare indietro Orazio
    alla via Sacra: gli era impedito dalle parole dei suoi versi!

    antonio sagredo

    Roma, 15 ottobre 2020

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  24. “Ma ogni presenza è così sua di sé”
    (Zanzotto)

    Zanzotto, perché lo si nominava poc’anzi. Che io non ho quasi letto perché anche da giovane non mi andava di faticare, anche se certi suoi spifferi dell’inverno e di natura riuscivo sentire fisicamente. Ma per dire che ciascuno è sé, anche in un blog militante come l’Ombra delle parole, dove fa riferimento la figura carismatica, per altro ogni giorno soppesata, tale Giorgio Linguaglossa; che ho avuto modo di conoscere di persona quelle due tre volte, abbastanza da sapere che è un uomo che ride. Cosa rara al giorno d’oggi, ma significa che non prende nulla sul serio tranne le cose che attengono alla sua ricerca personale. Così pare a me. Come anche il fatto che possa sembrare nelle relazioni una “primula rossa” (sentito dire) e come poeta uno scrittore di poesia in cerca di sé Poeta – cosa che, penso, fanno tutti, almeno finché dura l’isteria di voler scrivere –. Infatti è passato, da quando esiste questo blog, dal frammento al distico, dal distico al polittico, dal polittico al verso libero sempreverde, finché penso si arrenderà alle incognite del finericerca, qualsiasi esse siano, anche in chiave di provocazione surrealista… perché tanto in questione è il “discorso” nel suo complesso, per come si presenta zeppo di luoghi comuni e poetichese, che a volerci mettere mano può darsi che si faccia più critica che poesia.
    Massimiliano, chiunque sia, offre l’occasione per dire qualcosa con sincerità e vorrei approfittarne (siamo a Natale); per dire del fuori-senso come viene inteso e praticato (va detto, con agilità) da Intini e altri per quella via. In attesa di conoscerne gli sviluppi, l’impressione è che non porti lontano; comunque non oltre il ribellismo verbale, che è continua cancellazione in primis del proprio operato. E comporta una certa ripetizione, che ravviso nei componimenti troppo lunghi. Ritengo inoltre che l’azzardo verbale (non ne so di linguaggio critico) dominante e vanificante, possa finire dove poggia: fatta eccezione per tono e la intenzione, il Vuoto! che fin qui Noe ha considerato parte essenziale della strumentazione, ma non un fine.
    (scritto liberamente, ma ben disposto ad approfondire).
    LMT

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    • Ma ogni presenza è così sua di sé.
      E ogni presenza è bella a mamma sua. Nevvero Mauro Pierno? E’ così bello saper tornare alla lingua d’origine, creare ponti di comunicazione e contatto. Salvo magari lavorarci su, perché va messo in conto l’universitario, il quale di solito si diverte quando, pur apprezzando, non riesce a capire… È lavoro per poeti. Che mi dici?

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      • Ma si Lucio come si fa a smentire le ricerca che con le stesse sue argomentazioni suppone e fuorvia dalla poesie?
        Nell’Ombra è sempre stato prerogativa un inventiva creativa che a volte a traino, a volte a strascico, a volte per caso, a volte consapevolmente ha fondato la stessa sua esistenza. Ricerca…e stoltezza.
        Certo mai una via di mezzo.

        Dentro o fuori, M.M. Gabriele ne è la riprova.

        Si persegue un barlume di stoltezza.
        Certo con la ” riproducibilità dell’opera d’arte” facciamo sempre i conti qui sull’Ombra. L’esercizio dei “compostaggi” è il tentativo di superare un impasse momentanea, un segnare il passo, attendendo una nuova via percorribile.
        Naturalmente salvaguardando a volo empirico o a volo d’angelo quello che nei post, via via letti, assimilati nella lettura vorticosa, necessitavano a mio sentire di essere rammentati. Salvaguardia in extremis di versi o frasi nella fase acuta della riproducibilità delle opere d’arte.

        Ma tutto questo è retorico. Ad un ascoltatore occasionale tutto questo parrebbe Dada, surrealismo, frammentismo, tardo o post sperimentalismo, financo comico poetico attivistico. Compostaggio…Siamo addomesticati a tutto questo.
        Almeno questa era ed è la mia consapevolezza.

        E poi è vero tanti ci leggono è non hanno la nostra consapevolezza…

        Bisogna rispiegare, riapparecchiare, riformulare… l’azione impagabile di Giorgio.

        Errori e chi non li commette.
        La proposta: è matura l’antologia
        Kitchen. Nessuno escluso. A volte ci facciamo superare da noi stessi.

        Grazie OMBRA. Vi voglio bene.
        Dai cavallina!

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  25. Un mio inedito dall’opera inedita Una giraffa seduta sul sofà chiede un Campari
    (le prime 4 strofe riepilogano notizie vere prese dalla stampa)
    [a questo i dadaisti non c’erano arrivati!]

    receipt 77871

    Notizie

    La narratrice J. K. Rowling ha spiegato l’urgenza di scrivere “Harry Potter”
    al gabinetto
    («una chimica meravigliosa!»)
    L’autrice della saga confessa in un podcast di aver composto
    alcuni paragrafi
    in una toilette pubblica e di averne ricavato una
    «consapevolezza nuova»

    Anche lo scrittore indiano Salman Rushdie ha adottato
    una scrittura narrativa kitchen
    un feuilleton elettronico
    con tantissimi gangster e poliziotti: sguinzagliati tra New York e San Francisco:
    – bang bang bang! –
    Il nuovo romanzo a puntate, in forma di newsletter
    sarà presente solo su internet
    verrà pubblicato da una piattaforma californiana che sta scalando il mercato,
    e via via
    modificato dall’autore in base alle reazioni
    e alle indicazioni dei lettori

    L’Armée Française ha incaricato la bellissima modella e influencer
    Michaela Botox
    di arruolare una task force di scrittori e sceneggiatori
    per prevedere le eventuali minacce del futuro
    Le loro analisi saranno ovviamente segrete,
    i nomi invece no

    il Signor K. ha dichiarato ai servizi segreti statunitensi che
    «Il cavallo di Trojan
    impiega il software Pegasus per insinuarsi
    nei pc di tutto il mondo
    Ergo – ha gridato –
    pc di tutto il mondo unitevi!»

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    • E siamo ormai a giustificare le nostre azioni i nostri fraintendimenti poetici. Il nostro percorso. È critica sia.

      A te ascoltatore occasionale che ti accingi ad una liturgia che non conosci, a tuo uso e consumo.

      Nel testo di Linguaglossa c’è il tentativo di riportare
      l’aspetto logico della prassi narrativa, in questo caso poetica (intesa come frammentazione del subconscio, sentimentale, onirico )- questa l’esigenza poetica- di ricollocarla quindi in una sequenza temporale e spaziale del tutto comprensibile. L’argomentazione è la seguente: nel presente è tutto riproducibile e anche affastellato, accumulato da una sorta di gravitazione linguistica che schiaccia qualsiasi significato -siamo nella sfera anche del Realismo Terminale- ad un comprensibile appiattimento e generalizzazione oggetto,complemento, storia. È questa è la novità:
      ricavare uno straccio di “racconto non racconto” che conservi in minima a parte la storia l’evoluzione semantica del frammento inglobando quanto di più terminale e kitchen esista.

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  26. Ed ecco un’altra mia poesia kitchen scritta proprio adesso in 5 minuti tratta dalla sopra citata raccolta.

    receipt 77839

    «Il numero dei sassolini dei viali e vialetti del giardino,
    è un numero finito.
    Anche il numero dei granelli di sabbia di tutte le spiagge del mondo
    può essere calcolato ed è un numero finito,
    per quanto grande fosse,
    e così, fissando in terra, cominciò a contare».
    È il magistrale incipit del poliziesco di Giorgio Scerbanenco
    “Venere privata” del 1966

    Ed ecco che Clint Eastwood entra di soppiatto nel primo capitolo del giallo
    di Scerbanenco
    si sostituisce al protagonista, il medico Duca Lamberti
    (lo fa fuori con un colpo di revolver)
    e prende ad amoreggiare con la giovane modella
    del romanzo
    la bellissima Ester
    (una mia invenzione romanzesca)
    si insinua nel suo letto
    la bacia
    poi estrae il revolver a tamburo calibro 7,65
    dalla fondina sotto l’ascella
    e le dice:
    «Your email address has been removed from my mailing list»

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  27. antonio sagredo

    La mia Poesia che è stata pubblicata su (“Teatro latino”) è per coloro che ancora si domandano vanamente : “Cos’è la poesia”?
    Ribadisco che è domanda antichissima e ancora molto prima di Omero, e in tempi nostri recentissimidal poeta ceco Jiri Orten , morto giovanissimo a 22 anni a Praga sotto un autoblindo nazista.
    Orten è uno dei tanti poeti che nel secolo trascorsose lo è domandato forse perchè aveva intuito già alla sua età che si stava giungendo a un capolinea.
    Lui in parte era stato influenzato da Pasternàk (che da parte sua invano aveva tentato di “definire” la poesia; e che fu la domanda ossessiva della marina Cvetaeva).
    Ma già alcuni poeti francesi cominciando d BAUDELAIRE PER FINIRE A iSIDORE DUCASSE CONTE DI LAUTRAMONTQUESTA DOMANDA SI ERA POSTA NATURALE QUASI A OSTACOLARE IL LAVORO DEL POETA.
    PORSELA OGGI,IN QUESTI TEMPI. è COSA DA CRETINI.

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    • Prima dai risposte riportate che non significano niente, e lo sai bene. Poi ti soffermi su questa stupidaggine; ma non dici niente su quanto affermavo, circa la presenza soverchiante del discorso, qualunque linguaggio, che giunge in anticipo sulla poesia, di fatto impedendola.

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  28. Ho scritto questo “1/2 Discorso di Natale” rubacchiando dalla tecnica di Alfredo De Palchi, ultimo periodo. Mi sono detto, per quando vien voglia di scrivere lungamente, da modernisti. Con forse occultata frammentazione. Ma quella ormai è nelle vene. E anche il fuori senso, come sbandamento di significati poi da riprendere, vada come vada, precisamente.

    1/2 discorso di Natale.

    Tutti vogliono piacermi. Ci riescono i galoppini che a dicembre
    incassano su qualche giornale a digiuno quintali di retorica da non poterne parlare, settimane mesi meglio dormire / uscire, oh sì, con una frase oggetto
    tra miliardi che ne spuntano a Natale; che tutti sanno essere finte
    ma proprio per questo piacciono e vengono credute / di marziani benevoli
    visibili a chi li vuol vedere, non sottomessi. Ecco.

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  29. milaure colasson

    Il fatto è che ci sono molti modi di fare un discorso kitchen, per esempio, capisco quello che dice Lucio Tosi che ha preso a lontano modello la scrittura proto kitchen di Alfredo de Palchi… in effetti, la struttura nervosa, fibrillante e filamentosa di de Palchi corrisponde, si può dire, in qualche modo alla struttura kitchen di Tosi, in Tosi non c’è affatto struttura, ci sono dei buchi, dei vuoti e dei salti, ed è lì che il significante latita, risulta assente in conformità con la teorizzazione zizeschiana del fantasma che interviene a colmare i buchi del simbolico. Il simbolico delle nostre società post-democratiche è un gorgonzola pieno di buchi, uno scolapasta (come la testa di Gino Rago), e occorre munirsi di una mente da scolapasta per scrivere come scrive Tosi… Jacopo Ricciardi, invece, è tutto occupato a inseguire il filo del suo pensiero che si perde nelle ramificazioni dendritiche… Ed è bene così, che nella poesia kitchen ci siano tante modalità, tanti modi di essere.

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  30. JUKEBOX

    La serranda si alzò senza fatica
    ordinò un martini al 17 e chiese della Luna.

    Il Sole non capiva perché perdesse
    lava dalla sottana.

    Ci voleva un piano prima di affondare i colpi
    ma intanto dal porto di Bari partiva la Vlora.

    Dunque il signor Evento imitava una nuvola
    spostando un fulmine tra i bicchieri.

    Alla comparsa di uno scorpione seguì
    un periodo di lotta tra canini e incisivi.

    Un segno inequivocabile che i tempi erano maturi:
    steccata e via. Putsch o Scotch che differenza fa?

    Il gettone rotolò nel Jukebox
    Si udì il grido d’animale della locomotiva
    E dentro un non so che d’amanti.

    Perché doveva lasciarci indietro?
    Perché solo lei doveva attorcigliarsi al vinile?

    Invidie strane, angosce mai viste
    Con le spolette innescate, pronte a saltare.

    Anche i demoni arrancano al mercato di San Pasquale
    Chi l’ha detto che il peccato è sempre uguale?

    E c’è un tempo che bisogna fidarsi dei cardini
    Altrimenti si rimane nel cassonetto

    Eresie vertiginose si affollano sull’A14
    Tutto perché a Singapore cala il prezzo dei neutroni.

    Decantare è giusto. Tanto si procede a testa in giù.

    Pagò regolarmente il conto. Un cent di mancia
    Alla telecamera di sorveglianza, per come aveva osservato
    Senza turbare la scena.

    Due parole a sproposito sugli spogliarelli.

    S’imbarcò come gli altri. Un grazie senza grazia.
    E scomparve nell’Adriatico col carico di elio nei polmoni.
    (Francesco Paolo Intini)

    p.s.
    Bè, adesso che si gioca a carte scoperte voglio dire che nella poesia del post non c’è niente di misterioso. C’è il racconto e il senso e dunque perchè mixarlo come se si trattasse di parole scritte a caso ? Parlo di me stesso come raramente accade ultimamente (ma come accadeva talvolta in passato) e di questa strana propensione a mescolarmi le ossa come direbbe il bravo Ligabue oltre che la mente tra un me delle ragioni che vo cercando e il suo gemello che versa le ragioni in un bicchiere senza fondo. Indissolubilità piuttosto classica tra entità che vivono nella stessa persona facilitate da contatti inaspettati serviti sul piatto dell’ entanglement. Che ci fa Transtromer sulla tavola Periodica? Che ci fa Hegel a braccetto con Mendeleev tra le righe? Provare a rispondere a queste domande e poi tagliarlo con altri vini in modo intelligente come avrebbe fatto l’amico Pierno, abilissimo maestro di montaggio e non a casaccio come saprebbe fare una mano qualsiasi in un sacchetto della tombola. Saluti.

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  31. raffaele ciccarone

    Set 31

    Zanzotto e Sanguineti
    stravedono per Poetry Kitchen
    nel Laborintus costruiscono
    segnali analogici e virtuali
    verticali e orizzontale
    Re Mida li aspetta
    con i forzieri aperti

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  32. antonio sagredo

    “Che ci fa Transtromer sulla tavola Periodica? Che ci fa Hegel a braccetto con Mendeleev tra le righe?”—-
    (Mendeleev era anche un filosofo).

    Gentile Intini,
    di certo, cioè secondo me, il nome CHLEBNIKOV non le dice molto o non le dice nulla. Allora l’unico poeta del secolo trascorso che ha diritto di dire qualcosa su di una tavola periodica, non degli elementi ( ma essendo fisico e matemnatico, la conosceva e bene anche), ma DELLE PAROLE, è proprio lui, un russo che secondo Roman Jakobson, Ripellino e tanti insigni studiosi e pure umilimente secondo me, è Chlbenikov.
    (ecco andare a vedere in internet è misera cosa).
    Bisogna averlo letto tutto (che è impossibile) ma almeno le opere poetiche e non, principali è doveroso.
    Si dice che sia stato Ezra Pound Il più grande poeta del novecento ma non è così,
    Poeta è colui anche che crea un nuovo linguaggio poetico di sana pianta: noi abbiamo avuto Dante; la Germania Lutero (e non certo Goethe che usò la lingua di Luitero), Puskin di certo e un secolo dopo Chlebnikov rivoluziona il linguaggio poetico russo (tutti i poeti russi e non devono qualcosa a lui).
    Quello che è riuscito a fare sulla lingua russa, nessun poeta al mondo ha fatto nella propria lingua. Il Pound nei suoi “Cantos” immise linguaggi stranieri e l’antico italiano, ma questo non è creatività, è al massimo rendere più ricca una altra lingua, ma così non si agisce nella propria, e non basta filologicamente!.
    E allora Joyce da questo punto di vista è più grande del Pound perché ha creato “filologicamente”.
    Quello che ha fatto Chlebnikov con la TAVOLA PERIODICA DELLE PAROLE, è QUELLO CHE FECE MENDELEIEV (PRONUNCIA FONETICA, con gli elementi chimici e nessun altro poeta al mondo lo fece.
    Grazie
    as

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    • Gentilissimo Antonio Sagredo
      Grazie per queste informazioni su un poeta senza dubbio interessante. Mi rendo conto che le mie conoscenze sulla letteratura russa sono davvero limitate. Vedrò di approfondirne la conoscenza.
      Buona serata
      ciao

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  33. Triplo Instat p. :

    Durante e mangiante. Tutta poesia.
    Rubapensieri per mangiaparole.
    «Giove dio dei pianeti. Ma si può?»

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    • È una instant poetry che terrorizzava il fu… ma io invece l’apprezzo per l’estremismo che la abita, ma, diceva Lenin: «l’estremismo è la malattia infantile del comunismo», e aveva ragione!.
      È una poesia che può scrivere un astronauta che galleggia nel «vuoto» e nella assenza della forza magnetica della Terra. Questo «vuoto» che tanto terrorizza il compianto Massimiliano (ops, Claudio Borghi), io lo capisco ma non lo posso (non lo possiamo) legittimare con una poesia pàtica, patetica e suasoria, quella roba lì che fanno tutti i maggiorenti sì che è da buttare nel cestino!
      Ma è che tutta la poiesis che facciamo è da gettare nel cestino! E tu sei conseguente, fai una poiesis che è, rigorosamente, da gettare nel cestino, direi poesia da cestino kitchen! E questo mi rallegra, mi fa ridere…

      Se leggiamo bene questi racconti di Charles Simic ci accorgiamo che sono piccole prose da cestino, con sortite nell’abnorme e nell’ultroneo, cosa ben diversa dal surreale.

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  34. caro Lucio,

    il problema della (tua) instant poetry è che il presunto lettore di una tua instant poesia dovrebbe essere o diventare un astronauta che, per mezzo di una astronave, atterra sul pianeta della tua mente e penetra nei tuoi circuiti mentali per leggere i sentieri del (tuo) pre-pensiero per mezzo dei quali (il tuo) pensiero giunge alle parole e alle frasi delle (tue) instant poetry.
    Il problema è che questo è impossibile (penso) per un lettore (in proposito sarei curioso di conoscere il parere di Jacopo Ricciardi) il quale non è un astronauta, e del resto non è neanche munito di pensiero telepatico per mezzo del quale può raggiungere i tuoi retro pensieri e giungere al risultato finale delle parole, delle tue instant poetry.
    Secondo me tu dovresti offrire al lettore dei «ponti» mediante i quali il lettore possa transitare con tutta tranquillità per giungere alle tue parole.
    Le tue instant poetry (a mio avviso) riescono bene quando tu (inconsapevolmente o meno) fornisci al lettore questi «ponti», in mancanza dei quali il tentativo di instant-poetry rischia di cadere nel vuoto della incomprensibilità.
    Sarei curioso di conoscere il parere dei lettori.

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    • È un borbottio di pensieri. Alcuni scritti col linguaggio delle titolazioni (cadenzati ad elenco), altri con fuori senso, altri ancora sono brevi illuminazioni. Qui sono pensieri scollegati da intervalli di tempo, quindi nessun pensiero è conseguente all’altro. E si devono bastare. Ma certo, uno sguardo da fuori può mettere luce.

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  35. milaure colasson

    pensavo che lombradelleparole dovrebbe versare un compenso al Nick Massimiliano per aver questionato con la redazione sulla liceità e la validità della poetry kitchen, ha suscitato un bel ping pong, interessante perché così vengono allo scoperto questioni che altrimenti rimarrebbero sotto la cenere.

    Quanto alla richiesta di un parere sulle instant poetry di Lucio Tosi, capisco benissimo la risposta di Lucio a Giorgio, molto spesso sono giochi di palline di vetro divertenti ed effervescenti, però occorre anche lavorarci subito dopo o dopo del tempo, il lavoro di cucitura e di intarsio è inevitabile anche se molto spesso le trovate di Lucio sono geniali, però devono riuscire non teleguidate o telefonate… il Fuori senso a mio avviso non va cercato in via programmatica ma va incontrato, come per caso e anche contro la propria volontà,

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    • Per me il fuori senso è una risorsa, è nella strumentazione. Evoca la scrittura meccanica, forma di automatismo linguistico. Per altri è significante, al limite della boutade.

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      • Seguire l’atto performativo della scrittura non è semplice, presuppone che si abbia confidenza con un dato autore e ci si intenda. Il gradimento universale non esiste.
        Non ho mai scritto una poesia pensandola in un libro da pubblicare. Non ci ho mai creduto. Mi sono solo divertito. Ma ora che sta accadendo ne scopro i vantaggi: aiuta a mantenere il livello qualitativo e, due, non è come pensavo, non si tratta di fare ordinata raccolta di foglie morte: il libro è progetto. Per me, come darsi alla scultura (che non ho mai praticato). Speriamo di vivere a lungo, e a ottant’anni pubblicarne un secondo. Mi piace come ha fatto Maria Rosaria Madonna. Sono un suo fan. Nelle ultime poesie che ho scritto c’è lo zampino del suo fantasma. Ma è tutto nell’immaginazione.

        Come a teatro il posto mentre ti siedi.
        Benedetto dagli operai.

        *

        Turista davanti alla statua di Buddha:
        «Non sono io quello, io non valgo nulla».

        *

        Specchio sono delle tue parole. Quando ridi
        e quando taci.

        (Infatti qui il frammento manca di salti. Gliel’ho anche detto.)

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  36. Non vi è nessuna formula universale che abita l’immaginario, afferma Žižek; ognuno possiede un proprio singolarissimo «Fattore» che regola e gestisce il proprio Fantasma (una donna, vista da dietro, poggiata su mani e ginocchia era il fattore dell’Uomo dei Lupi; una donna statuaria, algida, evanescente, nuda, priva di peli pubici era il fantasma di Ruskin), afferma sempre Žižek, e così via. Per Žižek la mancanza di un universale comune della fantasia costituisce il tratto autenticamente universale di essa – ecco perché possiamo qui trovare un punto di contatto fra fantasy e immaginario. Si ha fantasy in quanto si ha un immaginario. E viceversa.

    Il fattore F (fantasia) è diverso per ciascuno di noi, ma ogni soggetto è caratterizzato dal fatto di possederne almeno uno.
    Nella singolarità della propria fantasia personale ciascuno coltiva una propria peculiarissima fantasia. Il neoliberalismo ha sdoganato la fantasia personale. Si ha diversità in quanto la fantasia abita l’immaginario. L’immaginario è diventato plurale. Al contrario di ciò che sosteneva Jung, non c’è un inconscio collettivo delle fantasie, ciascuno possiede una propria peculiarissima fantasia che non può fare a meno di coltivare nel segreto delle stanze mentali. Questa identità nella diversità è il tratto trascendentale che unisce l’evento traumatico della fantasy (fattore F) entro le dimensioni strutturali dell’immaginario e del simbolico.

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  37. Il senso distrutto della neve metallica ha l’approccio
    fetale di una bobina riavvolta, nel film

    la senti la musica smettere soltanto a proiezione ultimata. Come sorridono ai cordoli, ai flussi,

    le innumerevoli foglie. Piegati dal tempo puri i pedalini invernali. Sulle punte le ballerine sorridono.

    Tutù la formula astratta della comunicazione interrotta.
    (Poesia che nella consapevolezza non vuol essere poesia. “Questa è la proposta…”
    (Un inciso: Eduardo personalmente continua a dirmi delle cose, e puntualmente nelle sue battute ne trovo conferma…Infondo ognuno di noi interagisce con fenomeni anche “metaletterari”. )

    (Ad uso e consumo solo di Antonio Sagredo. Un abbraccione.
    https://poetarumsilva.com/2014/11/05/mauro-pierno-pulcinella-addormentato-eduardiana/amp/

    Grazie OMBRA.

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  38. vincenzo petronelli

    Buonasera e ben ritrovati amici dell'”Ombra”, non prima di aver formulato a tutti voi i miei migliori auguri per un buon 2022. Siamo peraltro all’inizio di un anno che si preannuncia particolarmente fertile per il progetto Noe e che quindi pare partire con i tutti i migliori auspicI, come spero che accadrà anche per le traiettorie personali di tutti noi.
    Mi inserisco con piacere in quest’articolo, che ha suscitato come vedo, una serie di interventi estremamente interessanti.
    Dal punto di vista poetico ed estetico, mi hanno particolarmente colpito i testi qui presentatici dei miei conterranei Franco Intini e Mauro Pierno, perché sono venuti ad intersecarsi con una riflessione condotta proprio in questi giorni relativamente a del nuovo materiale a cui sto mettendo mano, su una delle grandi opportunità che non solo stlisticamente, ma anche ontologicamente il modello del frammento e le sue varie derivazioni “kitchen” ci offrono, che è quella del paralipomeno (nel senso etimologico del termine in greco), della ripresa di cose omesse, tralasciate, dei lacerti, dei brandelli dei nostri percorsi di vita, che risistemati, come le tessere di un mosaico, ci consentono di rischiarare in profondità il senso dell’esistenza e del cosmo, con una chiarezza che solo il distanziamento può rivelare come possono sperimentare gli antropologi, gli uomini di frontiera, i portieri di calcio.
    E’ un patrimonio che spesso ci trasciniamo in maniera inconsapevole e che il modello della Poetry kitchen ci permette di valorizzare.
    Tenevo particolarmente a questa sottolineatura, perché legata ad un vivido scampolo emotivo di questi giorni, ma in realtà sono vari gli aspetti che hanno sollecitato la mia riflessione in quest’articolo; dato che i meandri critico-letterari ed estetici sono stati già esaurientemente sviscerati, vorrei ora soffermarimi su un richiamo contenuto nell’intervento iniziale di Maurie Laure Colasson, quando sostiene che (cito testualmente): “Nell’Italia di oggi una critica di poesia, semplicemente non esiste, si fa critica di compagnia, di accompagnamento, di corteggiamento o di cortesia, cerimoniale e di adescamento, cioè di scambio di favori, ovvero, critica strumentale a posizioni di poteri, e di influenze, critica di chierici e di aspiranti chierici che scrivono per altri chierici e aspiranti chierici.
    Il discorso sarebbe più di antropologia della nazione piuttosto che di sociologia del fatto letterario”.
    Condivido pienamente cara Marie Laure e mi sento anzi di aggiungere, da studioso di antropologia, che la tua sia una definizione perfetta.
    Del resto, uno ed il maggiore a mio avviso dei limiti culturali di questo paese e che spesso lo rendono – secondo una famosa definizione del grande economista Paolo Sylos Labini – un “paese a civiltà limitata”, è proprio da individuare nel perdurare e nel ramificarsi a tutti i livelli, di retaggi, strascichi, di cultura tribale, di clan, in un paese che non è mai riuscito completare la sua trasformazione dalle piccole “Heimat” locali originarie, a comunità nazionale.
    Uno dei nostri maggiori – ancorché ingiustamente sottostimato – antropologi Carlo Tullio-Altan, studioso in particolare delle società complesse e tra i primi ad applicare gli schemi dell’antropologia allo studio della società italiana, riprendendo la celebre e controversa formulazione di “familismo amorale”, coniata dallo studioso americano Edward Banfield nel corso di una campagna di studi condotta in Basilicata alla fine degli anni ’50 – formulazione in verità approssimativa per molti aspetti, ma che ha consentito di avviare un confronto critico su una problematica fondamentale della società italiana – ha mostrato come in realtà la tendenza ad anteporre gli interessi privati del clan (di cui la famiglia è la rappresentazione di base nella nostra struttura sociale) a quelli collettivi, sia una prerogativa dell’intera società italiana, rintracciabile nella sua ricerca, già a partire dai diari dell’umanista toscano Leon Battista Alberti nel XV sec. Per Tullio – Altan «prevalentemente rimase e rimane tuttora in gran parte della società
    italiana, sia al Nord che al Sud, il punto di vista della morale individualistico-familistica albertiana, con le sue disastrose conseguenze sociali: la vera e profonda matrice del qualunquismo nazionale».
    Se è vero che spesso la coesione familiare ha sopperito alle carenze dello stato, divenendo anche motore dello sviluppo economico del paese (basti pensare a tutte le imprese manifatturiere ed agricole nate su base familiare) o che in certi periodi, ad esempio subito dopo il secondo conflitto mondiale, le famiglie si siano rivelate determinanti nell’organizzazione della società civile, in generale si è imposta una tendenza a perseguire strategie legate ad interessi tribali, denotando una scarsa attitudine, non solo verso l’interesse comune, ma anche verso il confronto con gli altri nuclei sociali. Come ha scritto di recente Norberto Bobbio, in Italia «per la famiglia si sprecano impegno, energie e coraggio, ma ne rimane poco per la società e per lo Stato».
    Ora, come detto, mi sono soffermato sulla famiglia come elemento rappresentativo nella nostra società del concetto di clan ed in effetti questa stessa attitudine la si ritrova nel nostro tessuto sociale a tutti i livelli, se pensiamo che le stesse organizzazioni criminali traggono origine da una tale visione o pensando alla diffusione capillare di corporazioni o caste finalizzate alla creazione ed alla perpetuazione di potentati legati agli interessi particolaristici, dinamica cui non è estraneo il mondo della cultura e della letteratura, poesia compresa.
    Naturalmente, l’idea di per sé di creare dei contesti collettivi in cui potersi confrontare onde condividere “produttivamente” degli interessi comuni è una cosa logica ed in qualche modo benefica, dando l’opportunità, nel caso della poesia, alle varie voci poetiche di potersi esprimere: tuttavia, la tendenza a trasformare tutto in un una sorta di loggia in cui sia vietato disturbare il manovratore ed i suoi più stretti collaboratori è spesso uno sbocco immanente, determinando piccole lobbies in cui l’orizzonte poetico si fa autoreferenziale, al solo scopo di promuovere gli scritti degli affiliati, proprio alla stregua di una loggia massonica, come se lo scopo della scrittura fosse semplicemente quello di crearsi dei piccoli scranni di potere e porre il proprio nome su di una copertina, indipendentemente dal livello letterario intrinseco.
    E’ esattamente ciò che avviene in molti contesti poetici, in cui il confronto e la critica letteraria, che dovrebbero essere l’unico reale motore della crescita intellettuale, è totalmente precluso, per cui l’opera di rottura, di rinnovamento che propone un movimento come la Noe, finisce per diventare indesiderata e scomoda, al contrario – evidentemente proprio per questa sua ottica innvovativa – di uno spazio quale l'”Ombra delle parole” che si rivela sempre aperta e democratica, tanto da accogliere chi dissente o chi si affaccia solo sulla falsariga del famoso disturbatore televisivo Paolini, ma a cui mai viene negata la la parola.
    Ambiti come l'”Ombra” però sono merce rara nel nostro panorama letterario, come dice Marie Laure Colasson e come abbiamo visto, per ragioni prettamente antropologiche.
    Un saluto a tutti cari amici ed ancora tanti auguri di buon anno!

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