La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde, Perché ciò che si perde è di Dio, Stralci di Giorgio Agamben, Carlo Salzani, Giorgio Linguaglossa, L’uomo è, come vuole la celebre definizione aristotelica, “l’animale che ha il linguaggio”, Il feticismo della merce, il gioco, il giocattolo, Il tema della frattura metafisica fra significante e significato, Il linguaggio poetico liofilizzato e de-politicizzato di oggi, Poesia kitsch di Pavel Řezníček, Guido Galdini, Francesco Paolo Intini

gerhard-richter-Ulrike Meinhof, 1977 foto

Gerhard Richter, Ulrike Meinhof, foto, 1977
[Una lingua che sembra non avere più nulla da dire e che, tuttavia, ostinatamente resta e resiste e da cui non possiamo separarci? Vorrei rispondere: è la poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative?] (G. Agamben) [l’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto, la lingua è l’indistruttibile che può essere continuamente distrutta] (g.l.)

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Scrive Carlo Salzani:

«La filosofia di Agamben potrebbe essere meglio rubricata (se proprio si ha bisogno di etichette) come una critica integrale dell’ontologia dell’Occidente. Allo stesso modo, la sua proposta politica, la pars construens del suo progetto, risulta incomprensibile (e anche per questo ha ricevuto tanti attacchi) se non la si pensa all’interno di questo ambito: una nuova politica (data l’insormontabile crisi della vecchia) è possibile solo attraverso una nuova ontologia. Nello stesso ambito dobbiamo anche inserire le analisi dell’estetica (o, meglio, dell’arte), della letteratura, dell’etica e del linguaggio: la questione, per Agamben, è sempre una questione di quello che Aristotele chiamava prote philosophia, “filosofia prima”. Un’importanza centrale assume in questo senso l’analisi del linguaggio, giacché l’uomo è, come vuole la celebre definizione aristotelica,“l’animale che ha il linguaggio”, ma questa definizione non può essere presa e accettata acriticamente, dev’essere, anzi, problematizzata, analizzata e indagata al di là dei suoi presupposti metafisici.

Questa è la preoccupazione costante e inaggirabile che Agamben metterà esplicitamente al centro di ogni sua elaborazione, giacché dalla risposta che la civiltà occidentale ogni volta darà alla domanda “Cosa significa avere il linguaggio?”non dipende solo lo status della linguistica e delle scienze ingenerale, o dell’arte e della letteratura, ma quello della definizione stessa di “umano”, e quindi della vita, dell’etica e della politica. Inscindibile da queste questioni è quella del tempo e della storia, ed è anch’essa una questione che, in modo coerente e sostanzialmente invariato, informa ogni singola opera di Agamben. Vivere e agire, e cioè l’etica e la politica, avvengono solo nel tempo e a partire dal tempo, per cui la critica dell’ontologia occidentale significa anche e innanzi tutto una critica dell’idea di tempo e di storia che da questa ontologia deriva e che, allo stesso tempo, a essa dà forma. La proposta di una nuova ontologia significherà allora la proposta di una nuova idea di tempo e di storia, di una nuova esperienza del vivere e dell’agire nel tempo.

Questo modo apre uno spazio all’“epifania dell’inafferrabile” (S 13). L’“appropriazione” che l’intenzione accidiosa/ malinconica concede è “fantasmagorica”, ma proprio in quanto tale essa apre uno spazio all’“esistenza dell’irreale” e delimita una scena in cui “l’io può entrare in rapporto con esso e tentare un’appropriazione che nessun processo potrebbe pareggiare e nessuna perdita insidiare” (S 26). Una “nuova dimensione” è in questo modo aperta, un “intermediario luogo epifanico” (S 32) che mette l’uomo in contatto con un mondo, quello in cui desiderio e oggetto interagiscono, da cui dipende la sua felicità. La stessa struttura è individuata nella seconda “stanza”, la più benjaminiana perché tratta temi e autori classici delle ricerche dell’ultimo Benjamin nei “Passages” di Parigi e nel libro su Baudelaire (il feticismo della merce, Freud, Marx, Baudelaire, il dandy, il giocattolo), anche se il debito rimane implicito e “senza virgolette”.

Qui il rapporto tra conoscenza, desiderio e oggetto è cercato nel modello del “feticcio”, dalla sua analisi freudiana come “presenza di un’assenza”, al “feticismo della merce” individuato da Marx nello sdoppiamento tra valore d’uso e valore di scambio, che rende la merce inafferrabile e fantasmagorica. Il passo al di là di questa frattura è individuato nella rivoluzione poetica di Baudelaire (un Baudelaire molto benjaminiano), che all’invadenza della merce oppose la mercificazione assoluta dell’opera d’arte, nella quale il processo di feticizzazione è “spinto fino al punto da annullare la realtà stessa della merce in quanto tale” (S 51). Facendo dell’opera il veicolo stesso dell’inafferrabile, Baudelaire assegna all’arte il compito di appropriarsi dell’irrealtà e, come il dandy, insegna la possibilità di un nuovo rapporto con le cose che vada oltre il valore d’uso e il valore di scambio. Portando fino alle sue estreme conseguenze il principio della perdita e dello spossessamento di sé, il dandy e la poesia moderna oppongono all’accumulazione capitalistica del valore di scambio e al godimento del valore d’uso del marxismo “la possibilità di un nuovo rapporto con le cose: l’appropriazione dell’irrealtà” (S 59).

La terza “stanza”, che ricostruisce la teoria del fantasma nella lirica tardo-stilnovista, non solo è la più estesa, ma occupa il posto centrale della ricerca in quanto ne costituisce il modello. È anche la “stanza” in cui l’influenza del metodo warburghiano è più evidente ed esplicita (e ad Aby Warburg, tra gli altri, è dedicata). Quella che viene qui ricostruita, mediante una lunga, minuziosa ed estremamente erudita analisi della teoria della sensazione medioevale, è la relazione tra amore e immagine: secondo la psicologia medioevale, gli oggetti sensibili imprimono nei sensi la loro forma e quest’impressione (chiamata “fantasma”) è ricevuta dalla fantasia, che la conserva anche in assenza dell’oggetto. Questo “fantasma” costituisce una sorta di intermediario fra l’anima e la materia e permette così di spiegare tutti gli influssi fra il corporeo e l’incorporeo, compreso l’amore: “L’oggetto dell’amore è infatti un fantasma, ma questo fantasma è uno ‘spirito’, inserito, come tale, in un circolo pneumatico in cui si aboliscono e si confondono i confini fra l’esterno e l’interno, il corporeo e l’incorporeo, il desiderio e il suo oggetto” (S 128).

L’amore è in quanto tale “fantasmatico”, cioè irreale, e, come l’accidia/ malinconia, nel suo fissarsi sull’inaccessibilità del suo oggetto esso è “patologico”, è la “malattia mortale” dell’immaginazione. È con gli stilnovisti che questo processo riceve una“nobilitazione soteriologica”: nel linguaggio poetico (esemplificato soprattutto dalla teorizzazione di Dante) inteso come dettato d’amore, gli stilnovisti cercano di colmare la frattura metafisica fra visibile e invisibile, corporeo e incorporeo, apparire ed essere. Eros e poesia sono qui legati e coinvolti in una comune appartenenza che scuote la distinzione semantica tra significante e significato e che concilia la frattura fra il desiderio e il suo inafferrabile oggetto: “il fantasma genera il desiderio, il desiderio si traduce in parole e la parola delimita uno spazio in cui diventa possibile l’appropriazione di ciò che non potrebbe altrimenti essere né appropriato né goduto” (S 153). Il tema della frattura metafisica fra significante e significato è analizzato a fondo nell’ultima “stanza”, che presenta una critica della semiologia moderna. La dualità del manifestante e della cosa manifestata che costituisce il segno rispecchia la“frattura originale della presenza”: “tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di un’esclusione, nel senso che il suo manifestarsi è, nello stesso tempo, un nascondersi, il suo essere presente un mancare” (S 160-61). La nozione semiotica del segno come unità espressiva di significante (S) e significato (s) rimuove e occulta la frattura originale, e quest’oblio metafisico si manifesta nella barriera (/)del grafo che indica il segno: S/s. Non interrogandosi sul senso di questa barriera, di questa divisione/differenza, la metafisica occidentale (di cui la semiologia moderna rappresenta il momento culminante e l’impasse) copre l’abisso spalancato fra il significante e il significato; essa non è quindi che “l’oblio della differenza originaria tra significante e significato” (S 63).

In questo senso, la strutturazione metafisica del significare nella semiologia rende il fatto linguistico qualcosa di “impossibile”,mostra (nella barriera /) l’impossibilità del segno di prodursi nella pienezza della presenza. Il progetto della decostruzione di Derrida ha messo a nudo, per Agamben, l’eredità metafisica della semiologia moderna, ha posto l’accento su e ha svelato la frattura originaria, ma far venire alla luce il fondamento negativo della metafisica non significa superarla, e la decostruzione qui si è fermata. Una “semiologia liberata” che voglia “far segno” verso un nuovo modello del significare, verso “un dire che non ‘nasconda’ né ‘riveli’, ma ‘significhi’ la stessa giuntura […] insignificabile fra la presenza e l’assenza, il significante e il significato” (S 165), dovrebbe portare lo sguardo proprio su questa barriera, su questa “articolazione invisibile” che indichi la strada per quello che Eraclito chiamava “armonia”, e cioè una stazione “giusta” nella presenza.

[contemporaneo]

La sconnessione e l’inattualità conferiscono alla contemporaneità la struttura dell’“urgenza”: la contemporaneità “è, nel tempo cronologico, qualcosa che urge dentro di esso e lo trasforma” (NU 26), e lo fa mettendo in relazione i tempi, l’arcaico con il moderno, l’origine con il presente. 

“Nietzsche situa […] la sua pretesa di “attualità”, la sua “contemporaneità” rispetto al presente, in una sconnessione e in una sfasatura. Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo”. (NU 20)

“Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente” (NU 23)

per eccellenza” è quindi il tempo messianico, il “tempo di ora”che trasforma e mobilita il tempo come esigenza di compimento. Ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di“citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere. È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra,acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora. (NU 31)
Agamben, nella sua opera, ha diretto uno sguardo impietoso sulle tenebre del nostro presente e ha cercato di “illuminarle”e di rispondere alla loro sfida mettendole in relazione con gli altri tempi. E, se proprio di “attualità” si deve parlare, allora l’attualità del pensiero di Agamben sta proprio in questo: nell’aver fatto del presente il “tempo” della propria opera».

da C. Salzani, Introduzione a Giorgio Agamben, il melangolo, 2013 pp. 178, € 14
SALZANI-Agamben 03-10_opuscula 08/10/13 12:39 Pagina 177

Giorgio Linguaglossa

Che cosa resta?

Il gesto di Pollock di scagliare i colori contro una parete innocentemente bianca vuole distruggere il presente e futuro, ma anche il passato; Burri vuole rendere evidente che «ciò che resta» sono i sacchi di juta, le vernici, le toppe… vuole distruggere il presente e il futuro, ma anche il passato. E fin qui tutto bene. Fare tabula rasa ma in un percorso contrastivo e opposizionale alla propria epoca. Ma oggi?, che cosa resta oggi dell’Oggi? Il gesto vitale di Pollock mi fa sorridere per la sua ingenuità, mi fa addirittura tenerezza. Anche il gesto estetico di Andy Warhol mi fa tenerezza, e mi annoia.

Oggi forse non c’è altra risposta che l’azzeramento di ogni linguaggio, sensato e sensorio, di ogni posizione-opposizione estetica che ponga un senso o che vada alla ricerca di un senso o che vada alla ricerca del non-senso. È che sono gli «oggetti» ad essere destituiti di oggettità, la «merce» è diventata insensata, si è de-fondamentalizzata. Oggi i barattoli di fagioli di Warhol andrebbero a ruba in Africa o nelle bidonville di affamati delle megalopoli di tutto il pianeta, quelle medesime megalopoli che sono diventate spazi de-politicizzati e che magari votano Trump, Bolsonaro, Orban, Putin, Salvini, la Meloni e Berlusconi…

In fin dei conti, la poesia, la pseudo arte del sensorio, del corporeo, del proscenio, con tutti gli addendi di effetti speciali, tatuaggi, arte corporale, effetti fotovoltaici, effetti psichedelici, etc., quel sensorio, quel proscenio che si fabbrica oggi presso le officine degli editori beneducati e delle istituzioni culturali appropriate oltre che farmi tenerezza, mi fa soprattutto disgusto. Quel tipo di poltiglia dell’io liofilizzato ci parla di presunte esperienze denaturate e liofilizzate del corpo, esperienze-chat, ipo-esperienze, ipo-verità del profondo. Si tratta di una auto illusione nel migliore dei casi, e invece è un falso, una fake new. È incredibile come si possa prendere sul serio quella poltiglia liofilizzata, de-politicizzata e zuccherata!

Pavel Řezníček (1942-2018)

Alla portineria dell’Hotel Kempinski
Un uomo in attesa
Inghiotte quelli che escono

Il poeta Byron ingoiava solo i diabetici
Dalla sua ultima vittima si emanò un fumo fosforescente
Byron fu immediatamente arrestato e impagliato sul posto

Questo accade alle persone che si gingilleranno vicino agli alberghi
Barcelò Kempinski Ritz e Alcron
E avranno desiderio di ingoiare i propri concittadini

Saranno impagliati vivi
Anche se cacceranno tutte le urla animalesche
Che vogliono

Solo Deus absconditus può ingoiare le persone
Oppure “La giovane guardia” del romanzo omonimo
di Alexander Fadejev

Non si può caricare la penna stilografica con il latte versato!

Francesco Paolo Intini

L’intuizione di Carlo Rovelli, un vero e proprio cambio di paradigma della relatività generale di Einstein, potrebbe essere applicata alla poesia sostituendo il concetto di forza semantica del linguaggio con quello di «campo sistemico semantico del linguaggio», con il che possiamo pensare al linguaggio poetico alla stregua di un sistema-linguaggio gravitazionale all’interno del quale non c’è il soggetto parlante (la phoné) come soggetto assoluto ma un «campo linguistico» (la phoné) nel cui interno la forza del linguaggio varia a seconda del punto nel quale si abita il linguaggio. Il linguaggio cessa così di essere pensato come un contenitore di forze per essere pensato come un «campo costellato di proprietà, di possibilità». (Giorgio Linguaglossa)

Caro Giorgio questo tuo commento è davvero interessante e denso di conseguenze. Per me che scrivo immaginando il testo come un’ onda, è un’idea magnifica. E dunque non solo interferenze e modulazioni ma un vero e proprio campo di proprietà e possibilità in cui immergerlo. Ciao e grazie

In re minore

Santo subito si disse di Picasso

Che infatti risollevò le ossa dal sudario
E smise di dipingere una Guernica alla volta.

Questi pugni non smettono di sbattere
E nemmeno ci è dato sapere il momento preciso.

Essere fermi, che idiozia!

Le antenne sanno il fatto loro
Sgambettano e rifiutano i corvi di mestiere

Tra fulmini ci si intende e poi una tempesta
Mette tutti d’accordo.

La storia fuma un sigaro per piano Marshall,
uno sbuffo di panzer annuncia un colombo.

Questo è tutto.
Trovate come centri uno sbarco in Sicilia
in orizzontali.

Patton e Montgomery al mercato di San Pasquale.
Dov’è il premio Don Chisciotte?

Tra puzze si capisce subito
qual è il senso delle battute.

E Berlino? In fondo a Wall Street
Dietro quella maglia all’uncinetto.

Il bunker finisce in un teorema di Euclide
ma una bocca di topo resta smisurata.

Una zuppa di fagioli a colazione
Una cena asciutta con versi di Marenco.

Baffo e pipistrelli svolazzano contenti.

Torna il sereno, splende una scimitarra.
Mozart si siede sullo scranno di Re.

30 commenti

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30 risposte a “La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde, Perché ciò che si perde è di Dio, Stralci di Giorgio Agamben, Carlo Salzani, Giorgio Linguaglossa, L’uomo è, come vuole la celebre definizione aristotelica, “l’animale che ha il linguaggio”, Il feticismo della merce, il gioco, il giocattolo, Il tema della frattura metafisica fra significante e significato, Il linguaggio poetico liofilizzato e de-politicizzato di oggi, Poesia kitsch di Pavel Řezníček, Guido Galdini, Francesco Paolo Intini

  1. Ho scritto circa un anno fa a proposito di un quadro di Marie Laure Colasson, [Struttura dissipativa, la macchia, 35×35, acrilico, 2020] :

    «Osserviamo attentamente, ed ecco che emerge una “macchia” (nella parte inferiore, centrale, a sx?). Soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione, ovvero, guardando il quadro obliquamente fino a non poter distinguere la partitura dei colori, l’ osservatore potrà realizzare che quella zona non riconoscibile corrisponde ad un buco nero: il punto/centro geometrale cartesiano è perduto, quello che emerge è la zona di angoscia che non può essere raffigurata se non da una macchia nera. L’indicibile. L’irrappresentabile. La catastrofe.»

    Leggendo i pareri di filosofi e intellettuali (Cacciari, Agamben, Canfora, Roberto Bertoldo etc.) e dei cialtroni della politica (Salvini, Meloni e la destra puzzolente) ho pensato che la «macchia» è qui, accanto a noi, ma non la vediamo neanche col microscopio o un binocolo, quella macchia è in realtà un «posto vacante» il quadrante della scacchiera che permette agli scacchi di muoversi e di dare scacco matto. Quella «macchia», quel «posto vacante» è ciò che consente alla struttura (la storia) di mettersi in moto e di restare in moto. Quella «macchia» la puoi interpretare come vuoi, da destra la vedi in un modo, da sinistra in un altro, dall’alto in un altro ancora, dal basso in un altro ancora.

    Resta il fatto che quella «macchia», quel «luogo vacante» c’è, da qualche parte ma, maledettamente, noi non possiamo vederla, localizzarla, individuarla. Però, possiamo immaginarla. La «macchia» c’è, eccome! Il Covid19 ci ha dato la possibilità di mettere su questo teatrino dove ciascuno recita la sua parte senza accorgersi della «macchia», del «luogo vacante». Quella «macchia» è nascosta in qualche zona del nostro inconscio e noi non la vedremo mai perché è invisibile, ma è Lei che ci guida nella recita, è Lei che governa i nostri passi e i nostri umori e le nostre scelte nella vita quotidiana e nella politica.
    Beh, prendiamo un po’ di coraggio e guardiamo bene in faccia quest’ospite sgradevole che sta dentro di noi, sprofondato in poltrona a bere un Campari sogghignando…

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  2. Scrive Francesco Paolo Intini:

    Non c’è un grande spettacolo
    La pellicola filma il suo pubblico
    .

    Il fatto che Intini abbia scritto questi versi significa una cosa sola, che qui l’obiettivo è rifuggire il più velocemente possibile dall’intento azionatorio-predicatorio e intimidatorio del linguaggio del significato, costi quel che costi. Il mondo si è letteralmente rovesciato, ormai è la pellicola che filma il suo pubblico. Chiediamoci:

    Qual è la Befindlichkeit di questi due versi?
    In quale mondo ci troviamo?
    È ancora corretto parlare di «rappresentazione»?
    È ancora corretto parlare di «soggetto»?
    È ancora corretto parlare di «poesia»?
    Non siamo ormai fuori da quello che la tradizione ci ha consegnato come «poesia»?

    La riflessione di Heidegger intorno alla «poesia in tempo di povertà», la missione del poeta custode di una promessa dai tratti più escatologici che estetici, insiste sull’arte che deve mantenere quel difficile compito, ereditato dalla speculazione kantiana, del soggiorno dell’uomo nella Quadratura (Geviert) del mondo. L’arte per Heidegger non è mai un’arte per l’uomo, ma sempre e solo un’arte per l’essere; essa non si dà per l’uomo se non nella misura in cui il suo scopo è ritornare all’essere. L’essere riveste un ruolo fondante e primario nei confronti dell’ente, del Dasein. In questa accezione dell’arte siamo molto lontani, anzi agli antipodi della concezione dell’umanesimo europeo (Lettera sull’umanismo): l’arte è al servizio dell’essere, non dell’uomo. Il distinguo non potrebbe essere più drastico e netto.
    L’arte è lontana dall’uomo, da quello stesso Dasein di cui Heidegger ha più volte voluto garantirne la specificità sul terreno della propria finitezza. Forse, al pari di quanto è accaduto nella riflessione di Hegel, anche per Heidegger l’arte rimane una rivelazione della verità, la quale però, a differenza del sistema hegeliano, pur essendo destinata all’ascolto dell’esserci è tuttavia quanto di più lontano essa possa essere.
    La riflessione dell’ultimo Heidegger sembra giunta ad un bivio, il filosofo tedesco sceglie la strada che conduce verso l’essere, abbandonando l’ente, il Dasein, alla deriva del mondo storico. È un problema aperto che lasciamo ai lettori. Ed è un problema non solo filosofico.
    L’ontologia dell’arte rivela non solo la messa in opera della verità dell’essere nell’opera d’arte ma anche il suo opposto più inquietante: il silenzio dell’arte per l’uomo, il cui confine è segnato dall’essere di questo stesso esserci, «pastore dell’essere e luogotenente del nulla». Abitante di un regno intermedio, l’uomo non può appartenere interamente né al regno dell’uno – l’essere – né al regno dell’altro – il nulla; per questo egli è destinato a riempire di nomi, sacri, poetici quello stesso silenzio.
    La meditazione di Heidegger appare come un momento di chiusura verso la cosiddetta estetica, uno sbarramento che sbarra la strada ad ogni possibile riflessione meramente «estetica». Heidegger vuole ricondurre questa disciplina alla sua genesi filosofica. Il respingimento heideggeriano dell’estetica, quindi, può essere considerato come respingimento di quella filosofia che considera l’arte dal punto di vista dell’Erleben, come un suo specifico oggetto.*

    * da La Catastrofe, il Kitsch, L’Angoscia, il Covid19 e la Poiesis kitchen – un mio libro di saggi di prossima pubblicazione.

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  3. … penso che il criterio pertinente per interpretare un testo kitchen non possa che essere il tasso di figuralità; niente affatto la destinazione letteraria o di un testo.
    I discorsi referenziali, e tra essi il discorso scientifico, descrivono il mondo in termini tendenzialmente neutri, oggettivi, trasparenti (parola verso significato), ciò che chiamiamo discorso letterario è quel discorso che si caratterizza per caratteristiche figurali, quel discorso che altera la relazione di trasparenza tra significante e significato. Una poesia kitchen, eminentemente poesia figurale, non deve essere letta seguendo il significato letterale, perché il suo significato è traslato, si trova in un altro luogo, in un altro piano, significa sempre qualcosa d’altro e di diverso.
    Occorre ridurre il discorso kitchen al grado zero, portarlo da un piano letterale proposizionale ad uno figurale e denso. Per esempio, la metamorfosi in insetto di Gregor Samsa… e tutto il resto è una macro figurazione che sta per qualcosa d’altro; si tratta di una vicenda che ci tocca a livelli transletterali e suscita in noi reazioni di identificazione e di repulsione…

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  4. milaure colasson

    Questo post è fin troppo fitto, già lo scritto di Salzani che pone delle questioni giganti e poi la poesia di Pavel Řezníček, uno dei maestri in ombra della poesia europea del tardo novecento fa da finale strepitoso. In più, la poesia di Intini chiude un modo di fare poesia del passato (remoto) e ne apre un altro.
    E’ incredibile che la poesia di Pavel Řezníček sia stata scritta trenta anni fa all’incirca (il traduttore Antonio Parente se ci legge lo può confermare) e sembra scritta stamattina in pieno stile kitchen.
    Un grazie a questa rivista che non cessa di stupirci.

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    • Ricevo e pubblico la precisazione del traduttore Antonio Parente.

      «sono riuscito a risalire alla poesia citata nel commento. Se si intende il testo che inizia con “Alla portineria dell’Hotel Kempinski”, la poesia è contenuta in una raccolta del 2011, ma è stata scritta un paio di anni prima, durante un viaggio a Londra.»

      Ergo, Pavel Řezníček ci ha anticipato di ben 13 anni!!!

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  5. antonio sagredo

    Gentile Colasson,

    ho conosciuto e frequentato il poeta Pavel Řezníček (come tanti altri) nei primissimi anni “70 a Praga perché in questa città perfezionavo la mia conoscenza delle filologia slava,
    Noi ci trovammo a parlare spesso del primo surrealismo ceco, ( alcuni poeti erano ancora viventi)… parlavamo sulle differenze tra il primo e secondo surrealismo. E Le dico che non era affatto incredibile la sua poesia per chi conosceva la poesia ceca moderna, anzi era la normalità, addirittura , e di poesia come questa eravamo stufi e per primo lo stesso poeta. Eravamo dello stesso parere quando io e lui affermavamo che la poesia di Halas di Seifert e di Holan (questi ultimi due allora viventi) era ancora la poesia ceca più valida da presentare in Europa.
    “Pavel Řezníček, uno dei maestri in ombra della poesia europea del tardo novecento” …in ombra ancora adesso perchè quei tre su menzionati sono in assoluto i migliori…. Řezníček,odiava essere chiamato “maestro”, ma prima di lui ve ne sono di più importanti.
    grazie a,s,

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  6. Pubblico qui alcune poesie di Pavel Řezníček, tradotte da Antono Parente.
    Oggi, nelle società post-democratiche dell’Occidente parliamo una lingua balneare, l’esistenza dell’esserci è stata ridotta a «nuda vita», a vacuum, a vita vegetativa biologica. Il cosiddetto «privato» riflette questa condizione di animalità diffusa, dove l’esserci è stato ridotto alla condizione animale, non per nulla la politica dei paesi post-democratici fa riferimento alla «pancia» non alla «testa» degli elettori. È la «pancia» quella cosa che rende evidente la degradazione sub-umana a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta. La «nuda vita» corrisponde alla «pancia» e ai suoi appetiti perfettamente comprensibili. Nelle nostre società post-democratiche è la retorica che sa parlare alla «pancia», la retorica ridotta a sofisma e a «chiacchiera». Ciò che si legge nella pittura, nel romanzo e nella poesia di oggi altro non è che «chiacchiera», «borborigmo della pancia», «ciarle» di esistenze ridotte a «nuda vita».

    Parlò la renna

    Siccome scoppiò la pazzia per la paura
    della pazzia delle mucche malate
    /Creutzfeld-Jacobs/
    smisi di mangiare carne bovina
    Partii per la Finlandia con una sostanziosa commessa:
    Portare in Europa alcuni vagoni di carne di renna
    La malattia delle mucche non riguarda le renne.

    Arrivai in Finlandia e ne parlai
    con una renna
    Mi dette del lei si inchinò e asciugò la collottola
    sudata con un fazzoletto a quadretti:
    «Signore, lei pensa che la pazzia sia solo un getto di cenere e sangue,
    o un colibrì imbrattato di bile, che nella tabacchiera
    dell’eternità mette in ginocchio la memoria con un colpo
    di porcellana?
    No, l’anima della mucca, l’anima della renna e l’anima della pazzia è eterna, anche se
    la vostra enfia lingua rossa avesse solo un occhio. La pazzia è
    la pala del motore e il motore della regina Ecuba di compensato.
    Dove non c’è olio di Aztechi e Maya, non c’è neanche la macuba
    di Ecuba. I mammut non puliscono le bucce di uova sode
    lasciate dalle renne, ma le renne sì!

    E adesso vai via, burino!» mi gridò la renna all’orecchio e mi cacciò
    in bocca due bistecche crude di manzo.

    /Ne scrivo dall’altro mondo, oltre il fiume Lete, nelle gole di un cumulo di asfodeli,
    fiori liliacei che crescono soltanto nel regno dei morti, e non son più capace di profferir parola./

    (Scritto la festa di Natale, 25.XII. 2000)

    Mattonificio

    Quanti gabbiani
    Volati via
    Dalle stelle dimenticate nei mattonifici
    In fila per la minestra
    Le ortiche e Bukovjanová la bocciatrice

    D’un tratto un rapido attraversò in volo il mattonificio
    Da dove saltano fuori le stelle e il rapido nel mattonificio?
    Riporre il treno nella naftalina
    E lasciarlo nell’armadio
    Quando verranno tempi duri nelle terre boeme
    Spacchettate il rapido dalla sua carta pregiata
    E lanciatelo a folle velocità
    Contro la folla di cannibali

    No non sono cannibali
    Ma solo una torma di sarti
    Che tornano dalla riunione del Movimento sindacale rivoluzionario 
    Gambero

    Accanto a serpenti e cervelli
    Accanto a cere e forchette
    Che hanno torri
    Un carrettaio cacodemonico
    E il suo gambero con il dorso di cartone

    Non è un cappello è un sottomarino
    Forse è il guardabinari
    Caduto sulle rotaie
    Quello che appare sulle lenzuola

    Una notte con i piedi bagnati
    Una notte che pascola i suoi piedi
    Sulle sue mani
    Cosicché il cervello mangi il serpente
    E quello a sua volta la stella della mucca
    Quando si va facendo buio

    (9.II.2005) 

    Proibite loro di volare

    La clavicola germina
    Il guardiano delle ossa è una vedova
    O Signore sottrai agli uccelli la loro facoltà
    La facoltà di volare
    Volano sopra di me
    Come un riccio in gabbia o un brillante dietro il forno

    Di sicuro eccedono gli uccelli per contenuto del proprio cervello
    Di questo rompighiaccio Krasin
    I cervelli
    vuoti degli uccelli non meritano
    Che i loro corpi futili siano premiati con le ali
    E con il volo planato

    Perché io non volo?
    Perché o Signore hai donato questa facoltà
    A qualcosa di disgustoso con piume e artigli?

    O Signore proibisci loro di volare

    E solleva me fino al cielo
    Avvolto in piume e asfalto


    Regent Street

    No non sono stato io
    A rompere il finestrino
    Della Rolls Royce del principe Carlo e di sua moglie Camilla
    A Regent Street mentre attraversavano il quartiere londinese di West End
    E non ho nemmeno dato alle fiamme
    L’enorme albero di Natale
    A Trafalgar Square

    Come sempre mi si addossa la colpa di tutto
    Ma ho un alibi di ferro

    In quel momento accompagnavo la dodicenne
    Rapita Margherita B.
    Nascosta sotto il piano del pick-up
    A New York
    In modo che poi i suoi organi
    Venissero usati
    Per l’operazione del magnate Bernard Madoff 
    Acrux

    Con arroganza si piantò
    E proclamò
    Di essere un rinoceronte
    Il guardablocco subito tirò i paletti
    Passò il treno della Croce rossa danese
    È vero che tuo zio era un lupo?
    Si chiamava Nabuccodonosor
    Eaveva una Croce rossa tutta sua
    I lupi hanno una Croce rossa tutta loro
    Un mattone

    Quella finestra è come una lacrima
    Una lacrima con la tuta
    E una fionda sparata in un occhio

    La stella più luminosa della Croce del sud
    Si chiama
    Acrux

    E di nuovo un mattone
    Portato al posto della rosetta della Legione d’onore
    Attaccato al risvolto della giacca
    Di Hercule Poirot
    Come se fosse una fica 
    Semiramis

    I cani fanno rotolare per strada davanti a sé
    Il manichino di legno della vetrina
    Dietro al vetro mimava dei movimenti lascivi nei loro confronti
    Suggeriva che la loro esistenza è inutile

    E le stelle? Le stelle?
    Sono anche esse cani?
    E com’è la loro esistenza?


    Tra le scarpe

    Il fantasma è shampoo
    Quel rosso incandescente nel buio probabilmente sarà
    Blastula morula e gastrula

    Dalla scatola sbuca un venerando
    E mangia la schiuma da bagno
    Il carnefice giapponese misura le forze con il carnefice coreano
    Con la valigetta piena di autunno vado al macello
    L’angelo già in attesa del colpo di clava
    Sulla nuca

    Londra dimenticata tra le scarpe
    La fabbrica brucia
    Di meretrici 
    Flaubert è l’inventore dei flobert

    La fellatio di Fellini
    nel tunnel
    che porta tra la mandria di cavalli Przewalsky

    È soltanto un annaffiatoio

    Queste parole categoriche non respingeranno l’entomologo
    La luna di carborundum
    sul tetto che scotta del lunapark
    e il sole pieno di calze spiegazzate

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  7. Pavel Řezníček:
    Animali (Zvířata, 1993)

    (…)
    La strada era innevata e Kadavý improvvisamente si sentì in pace con se stesso: la neve rasserena. Ampie e candide pianure sterminate, deserte a parte un cane eschimese. In piedi, si guarda intorno. Nessuno da nessuna parte. Nemmeno un iglù, nemmeno un eschimese. Il cane è felice, così aveva immaginato la sua vita. Kadavý si sentiva un cane eschimese, abbastanza da far penzolare la sua lingua rossa fino al gilet. Ma poiché vedeva la gente girarsi verso di lui, venne preso da un immediato imbarazzo e smise di giocare al cane eschimese. Si lasciò trasportare dalla folla fino in piazza, dove si svolge il mercato annuale. Altrove la chiamano fiera. Nevica sulle bancarelle in piazza: vi si trovano cervi con occhi vitrei, bambole con occhi di vetro, pon pon, trombette, miele, peli, sale, cenere di legni pregiati e gli stessi legni pregiati. A Kadavý piace tutto questo. Annusa la cenere dei legni pregiati, gli occhi vitrei dei cervi uccisi, le bambole con gli occhi di vetro, lecca il miele, i peli e il sale. Nessuno gli porta fretta, i negozianti dietro le bancarelle sono chiaramente felici del suo interesse. Il signor Kadavý si chiede come farli contenti. Comprerebbe un cervo, ma che farne? Come trasportarlo, dove metterlo? È vero, vive da solo, nella sua stanza da scapolo ci entrerebbe, ma come fare a portarselo via? Be’, ci penserà su, forse poi lo compra. Passando davanti alle bancarelle, espirò sulle sue mani intirizzite, guardandosi intorno con attenzione. Gli piaceva tutto. Il cielo! azzurro come la sciabola dei mauritani, le case basse come le paludi della Masuria, la neve, rossa come lo sguardo spaventato dello stufaio. Ma la neve non era rossa, e in un attimo il sangue irrorò Kadavý, il quale sbiancò notando che dal muso del cervo usciva del vapore. “È ancora vivo” pensò, “visto che gli esce il vapore di bocca, respira.” Si avvicinò per guardarlo meglio. Gli occhi vitrei del cervo suggerivano il contrario. Tuttavia, il muso esalava vapore. Nella bocca semi aperta c’era un uovo, come se Colombo l’avesse appena messo lì dritto. Era davvero dritto su entrambe le estremità quell’uovo orgoglioso, come se non dovesse nulla a nessuno. Kadavý osservava la bocca del cervo e l’uovo con crescente stupore. Come è finito quell’ovoide tra le labbra del re stecchito dei boschi? All’improvviso, il venditore emerse dal fondo con un secchio di acqua calda, e senza dire una parola la gettò sul muso del cervo. Si alzò una nuvola di vapore. Il venditore ripose il secchio, si inginocchiò, avvicinò l’uovo all’orecchio, poi lo picchiettò con un dito dicendo: “Sembra che sia già…”
    “Cosa?”, chiese Kadavý attonito.
    “Come cosa, è già sodo… è pronto!
    “Cosa?” sospirò Kadavý.
    “Perdinci, lei è proprio lento di comprendonio. L’uovo, cos’altro? Preparo le uova sode o a la coque, come voglio io, o come vuole lei. “Cosa… lei le cuoce così le uova?”, replicò incredulo Kadavý.
    “E cosa c’è di strano?”, disse il venditore sbadigliando. “Qui non ho né un fornello né una stufa, quindi le cucino nella bocca del cervo.”
    “Ma guarda,” si stupì Kadavý “in bocca al cervo… e non può mettere le uova in quel secchio di acqua calda, non sarebbe meglio?”
    “Non c’avevo pensato,” il venditore rimase per un po’ di stucco, “ma il problema è che l’acqua la prendo alla birreria “La Girandola”, che è abbastanza lontana. Ho bisogno che l’uovo conservi una certa temperatura, e la migliore garanzia perché ciò accada è senza dubbio il muso del cervo. L’acqua calda irrora di sangue la lingua, le gengive, e così via, fa le funzioni di uno scaldatoio o di una riserva di calore, o di un thermos, se vuole. Quando ho freddo, infilo la mano nelle fauci del cervo per riscaldare per benino le mie dita congelate.”
    “Mica me lo venderebbe quel cervo?” implorò Kadavý.

    Il venditore si pichiettò significativamente la fronte con un dito. “Il cervo non è in vendita. Le ho detto che lo uso per riscaldarmi. A casa invece per coprirmi, come una coperta. Non penserà mica che io sia disposto a venderle la mia coperta?! “Ma deve già emanare un tanfo penetrante” Kadavý tentò di suscitare disgusto per quel cervo. “E forse è anche già putrido, perché è chiaro che, visto che lo usa per coprirsi, lo deve avere da tanto tempo!”
    “Da ottobre, giovanotto,” specificò il venditore con un sorriso soddisfatto. “Da ottobre, dalla stagione di caccia, e ora siamo già a gennaio. Ma a casa mia fa talmente tanto freddo che il povero cervo non ha nemmeno il tempo di decomporsi. Ho le finestre sfondate, ma io mi copro con quel testone e russiamo tutti e due, anche se fuori fischia il vento.”

    “Arrivederla,” si congedò Kadavý un po’ stordito, dirigendosi verso la bancarella successiva. Il venditore lo ignorò. Prese l’uovo dal muso del cervo, lo picchiettò sul bordo del bancone e fischiettò felice. L’uovo era davvero sodo. Dette dei buffetti gentili sul muso dell’animale, salò l’uovo, e lo mordicchiò soddisfatto. Inghiottito l’uovo, rovesciò dell’acqua calda sul cervo a mo’ di ricompensa, e si sistemò dietro il bancone. “Fazzoletti da collo, foulard!”, si alzò il suo richiamo, e le signore si fermarono da lui, palpando la merce e chiedendo il prezzo. Il cervo fumava.

    Mentre Kadavý passeggiava per il mercato guardandosi intorno, fu investito da un’ondata di buon umore al pensiero che presto sarebbe stata ora di pranzo. Il campanile della chiesa batté le undici e trenta. Kadavý tirò fuori l’orologio, lo sincronizzò con i rintocchi e poi lo fece scivolare di nuovo nella tasca. La neve scricchiolava sotto i suoi piedi, l’aria era gelida e brillante, la gente intorno sembrava amichevole – quindi perché avrebbe dovuto essere arrabbiato con il mondo intero? Per un po’ ammirò del marzapane su una bancarella, poi prese a guardare dei giovani nella vicina via Ringhofferova, i quali cercavano di colpire lo stelo sul quale era infilata la rosa del bersaglio – non ci riuscivano, be’, poco male, la prossima volta andrà meglio, pensò Kadavý continuando la sua passeggiata. Lo sguardo gli cadde sul venditore di pentole, ne ammirava le grida appropriate, la conoscenza del mestiere, la facilità con cui vendeva la merce, che gli passava di mano a ritmo vertiginoso. “Quant’è abile il ragazzo,” pensò, estrasse l’orologio dalla tasca è scoprì che erano già le dodici meno un quarto, ormai l’ora di pranzo. “E allora…!”, concluse Kadavý, visto che Blachout pensa che sia stato dalla concorrenza, ora ci vado davvero. Alla Girandola si mangia sicuramente bene. Sono capaci di cucinare, no? Se cucina Blachout, anche loro sapranno farlo. D’accordo.” Ripose in tasca l’orologio, si sistemò il cappello sulla fronte in quanto iniziava a cadere del nevischio, e partì. Fu quasi investito da un carro funebre che girava in piazza. (…)

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    • C’è forse un senso profondo di disgusto. Alquanto stabile. La forma esatta congelata.
      La stessa mano retrattile. Un antico salvadanaio
      sfondato. Un codice che non immagina di essere ripreso. La telecamera come uno scherzo.
      Canale cinque. Divertente, Kafka uscito dalla quarantena. Tutto peste e corna. Un vitellone. “Un soufflé”, l’immagine bellissima è di Brunetta.
      Diverte. Intorno al tavolo i discepoli con Sagredo.
      Tanto lo so come va a a finire, Surrealismo un cazzo!

      Grazie Ombra.
      (Un abbraccione Antonio. Antonio Sagredo)

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  8. antonio sagredo

    Quattro poeti cechi

    ————————————————————————
    Quante volte

    Quante volte, scrutando con gli occhi,
    passeggiavi presso un orologio o sotto una vecchia acacia,
    ma le loro sembianze si deformano facilmente.
    Per la fatalità nei sensi e per l’anima negli echi
    hai conosciuto la paura della morte,
    questa è l’attesa… Soltanto dopo
    gli spettri sono concreti… Ma la gelosia
    nessuno la difenderebbe…

    V. Holan
    trad. di A.S.)
    (sett. 1983)
    ——————————————————————
    Fu un dicembre generoso. Sulla radura innevata
    c’era qualcuno con la tavolozza in mano.
    Nevicava, nevicava nel suo dipingere.
    Era inconsapevole, dipingeva

    questo nudo inverno, le sue compatte ossa,
    la valle della nostra origine, profonda, più che non volesse,
    e l’altezza dei seni nella ripida ebbrezza.
    Sul modello nevicava.

    Dio mio, qui ha svolazzato il corvo, cosa vuole,
    da dove viene?
    Fu un dicembre generoso. Sulla tavolozza nevicava
    e la tavolozza era vuota.

    Questa terribile impotenza a impossessarsi del dipingere,
    che cade sulle tele,
    come neve bianca, che non sa, non sa nemmeno
    perché deve cadere!

    Questa terribile impotenza a trattenere ciò che fugge!
    Si è indebolita la tua mano,
    hai la lingua impedita, e non sa dire
    a quello, cosa si scioglie:

    o eterna metamorfosi, si scioglie tutto ciò che è nascosto,
    o eterna metamorfosi, dove sarà la mia anima,
    finché mi sciolgo in neve, dove sarà, in quale donna
    e in quali nevai?

    Fu un dicembre generoso. Sulla radura innevata
    c’era qualcuno con la tavolozza in mano.
    Nevicava, nevicava nel suo dipingere.
    Lui era inconsapevole, dipingeva.

    J. Orten (morto a 24 anni nel 1941)
    (trad.di K. Zoufalova – A. Sagredo)
    ———————————————
    Mentre si capovolge la clessidra
    il tempo lascia cadere qualcosa.
    Così fuoriesce dal tempo la spiaggia
    con le impronte di donne sdraiate.

    E forse non sono nemmeno consapevoli del senso
    del distendersi, dei ginocchi sollevati,
    quando anche i colori del maschio lavorano
    sui quadri dei loro ventri abbronzati.

    E verso sera si levano dalle impronte, se ne vanno,
    e anche noi andiamo via. E resta il senso straniato
    che occultato per tutta la notte dalle impronte
    sventolerà sulla spiaggia, come un vessillo lacerato.

    Cadrà la pioggia nelle impronte e indifferente
    le riempirà con algidi specchi, vuoti, finché
    lungo i fiumi delle loro membra le donne possano
    dispiegare di nuovo una spiaggia febbrile.

    Zbynĕk Hejda
    (trad. K: Zoufalova- A. Sagredo- 2008)
    ——————————————————-
    Tra l’albero e Pär 26

    Attraversiamo a piedi l’oscurità,
    il corridoio troveremo per il sotterraneo
    dove intuisco la spirale di una scala senza traversine
    e brandelli di pelle. Albeggia, e si lacera l’arco
    di un cielo aperto.

    Tu racconti che da bambini
    con tuo fratello minore di due anni
    entraste segretamente nell’officina di vostro padre ebanista,
    e che il fratello ti tagliò per errore il mignolo con una lama.
    Una volta, mio fratello, mi ha quasi strangolato.

    Questa sera le due storie si mescolano
    e all’improvviso s’incontrano sul prato i nostri fratelli omicidi
    con in mano le lanterne, e col dolce presentimento
    che i suoi fratelli
    passeggiano insieme sulla piccola radura dell’eternità.

    Kateřina Rudčenková

    (trad. K. Zoufalova – A. Sagredo, 2008)

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  9. Nel suo nuovo libro ‘Hegel e il cervello postumano’ (Ponte alle Grazie) propone un’immagine di Friedrich Hegel inconsueta.

    Paradossale, vulcanico, il filosofo sloveno Slavoj Zizek ripete più volte, al suo arrivo al Festivaletteratura di Mantova, di “non essere pessimista”. E’ convinto che la “filosofia non possa parlare al futuro”, sostiene che la pandemia sia “tornata utile al sistema” e che “occorra un coordinamento globale per far fronte alla minacce che ci aspettano” e apre al reinventarsi.

    “Ho voluto descrivere i rischi che intravedo per il futuro se ci sarà questo cambiamento totale della nostra identità, legato al fatto che avremo un collegamento diretto da cervello a cervello perché, come ben sapeva Hegel, la creatività dipende sempre dal dire le cose non come tutti se le aspettano, ma in maniera un po’ diversa. Ci sono due pensatori italiani che hanno descritto al meglio quali siano i pericoli e i rischi che comporta per noi lo scoppio di questa pandemia e le necessarie misure di auto protezione degli altri. Uno è Giorgio Agamben che ha posto l’accento sul bio-potere e l’altro è Fabio Vighi che insegna a Cardiff, in Galles, che ha sostenuto che il capitalismo mondiale era già prossimo a una seconda crisi devastante come quella del 2008, prima della pandemia.

    E questo lo dicono molti esperti. Dal punto di vista di Vighi la pandemia è scoppiata al momento giusto perché il sistema capitalistico è riuscito a evitare di nuovo di andare in una crisi devastante grazie al fatto che ha ricevuto, a causa della pandemia, questo gigantesco flusso di denaro stampato di fresco. Questo ci ha salvato dalle conseguenze più disastrose” spiega Zizek. E precisa: “Sia ben chiaro, io non penso che la pandemia non esista, come dicono tanti che io reputo dei semplici paranoici, dico che la pandemia è tornata utile al sistema. Tuttavia non sono troppo pessimista e credo che noi esseri umani abbiamo bisogno di reinventarci” sottolinea Zizek e invita ad un’azione di coordinamento globale. “Attenzione, non sto parlando del governo globale che sarebbe un’occasione per un fiorire di corruzione. Ma i problemi non si possono risolvere a livello locale. Non voglio dire che tutto è perduto, ma dobbiamo cominciare a pensare globalmente e non possiamo più ricorrere ai vecchi strumenti. Provenendo io dalla sinistra, arrivo ad ammettere che potrebbero essere più bravi a gestire una situazione di questo genere i conservatori moderati, come sono io, che la sinistra tradizionalmente intesa” afferma e poi si definisce, in modo provocatorio, “un conservatore moderato comunista”. E avverte: “Ci attendono grandi prove. Le cose cambieranno ancora in modi che non riusciamo ad immaginare”.

    Zizek nel suo libro cerca di comprendere il mondo nuovo, iperconnesso e tecnologico attraverso gli occhi di Hegel. “La lezione di Hegel non è quella del pensatore della tragedia, del pessimismo, del non fare niente. E’ l’insegnamento del ‘sappi che le cose per quanto le hai pensate bene andranno storte e quindi provaci ancora’. Mi sembra molto attuale. Per Hegel la filosofia può descrivere un mondo che è già in declino, al tramonto, non può parlare del futuro” dice Zizek che ha voluto ricordare l’11 settembre 2021 l’anniversario del crollo delle Torri Gemelle: “Per me il significato spirituale di questa cosa è che tocchiamo con mano il fatto che è finito il sogno della fine della storia”. Convinto che le mascherine “servano a tenere dentro, non fuori il virus” ha poi raccontato che nella pandemia non ha sofferto di solitudine: “A me piace stare solo nella folla di una grande città. In pandemia ero solo, ma tutti volevano comunicare con un bombardamento di messaggi. Per il dopo pandemia spero emerga un nuovo modo di stare solo nella folla” e si è scatenato in una serie di paradossi. “Tutti i migliori libri scritti su Hegel sono quelli di autori che non avevano letto veramente tutto Hegel. Credo nella parzialità creativa”. E ancora: “A Oslo il mio museo preferito è quello di Edward Munch.

    Non ci vado per i quadri ma per lo shop: c’è un originalissimo cuscino che ha un meccanismo che quando ci poggi la testa sopra si mette a urlare e richiama il famoso Urlo di Munch. Mi piace pensare che si possa superare il consumismo eccedendo nel consumismo” spiega lo studioso sloveno, tra gli autori in presenza più seguiti del festival. (ANSA).*

    https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/libri/2021/09/11/zizek-la-pandemia-e-tornata-utile-al-sistema_3998afdb-8e42-457e-a542-70e53ea82352.html

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  10. Scrive paolo Dai Prà:

    «se da un lato l’uomo non può sottrarsi del tutto dall’Errore, dall’altro l’uomo è “già da sempre” fuori dall’Errore. L’Errore è il nichilismo. Il nichilismo è alienante, dunque per salvarsi l’uomo, che sta all’interno del nichilismo, deve rovesciare il tavolo del nichilismo. Severino ci dice che la salvezza è testimoniata da un linguaggio, che è un linguaggio altro rispetto al linguaggio del nichilismo. Per rovesciare il tavolo del nichilismo, e per dare la salvezza mediante il concetto (mediante un altro linguaggio,che testimonia il destino della necessità) bisogna prendere coscienza di stare nell’Errore, ed il
    luogo in cui si sviluppa la propria autocoscienza è la filosofia. Da dentro il nichilismo, se si vuole rovesciare il tavolo del nichilismo, si deve filosoficamente prendere coscienza dell’identità di nichilismo, Follia ed Occidente. Per salvarsi, per rovesciare il tavolo del nichilismo, bisogna guardare in faccia la Follia (il nichilismo), riconoscendola come Follia.

    Il discorso poetico è ciò che permette agli abitatori dell’Occidente di oltrepassare la prassi nichilisticamente intesa dopo che l’Occidente è arrivato al punto massimo di auto-coscienza che può essere raggiunto stando
    all’interno delle categorie ontologiche sulle quali – e nel modo in cui – l’Occidente si è costituito. Cerchiamo di chiarire, in via preliminare, cosa si intende con la nozione di “poesia” così come verrà intesa in queste pagine. La poesia è da intendersi come l’ultima difesa dal contenuto della metafisica occidentale; la metafisica così come è stata sviluppata dall’Occidente (cioè come la condizione di pensabilità del divenire degli enti), andando ad identificare ente e niente, pur ricercando la possibilità del dominio sul mondo (che, in quanto dominabile, è qualcosa) proprio a partire da questa identificazione inconsciamente posta, giunge alla fine del suo percorso auto costitutivo (percorso che deve essere inteso come una presa di coscienza da parte dell’Occidente nichilistico che si realizza sul piano storico-filosofico) a decretare l’impossibilità dell’esistenza di un dominio di tal sorta. Traendo le debite conclusioni a partire dal sottosuolo dal quale inconsciamente prende le mosse, l’Occidente vede implodere la volontà di potenza che lo aveva sorretto per tutta la sua strada, e vede dischiudersi davanti a sé solo l’«abisso orrido, immenso» della noia. Il discorso poetico è ciò mediante il quale l’Occidente si difende dalla noia, ossia dal suo ultimo approdo, proprio nel momento in cui non rimane nulla al di fuori della noia medesima (non rimane nulla al di fuori del nulla con il quale l’Occidente identifica – in prima battuta inconsciamente – l’ente). In questo modo «l’anima [che è poi l’anima dell’Occidente, che trova espressione anzitutto nella speculazione filosofica] riceve vita (se non altro passeggera)dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria»1

    A partire dal retroterra filosofico sul quale si sviluppa, il contenuto del discorso che su quel retroterra si basa non può che essere la negazione del discorso, la mortifera impotenza che si configura anzitutto come negazione dell’azione, della prassi che è liberazione dalla contraddizione laddove la contraddizione, per l’Occidente nichilistico, non si auto-nega originariamente nel momento in cui è posta, e per questo deve essere tolta mediante la prassi(che è liberazione). È in questo contesto che va riconosciuto il ruolo della poesia:
    da dentro questo orizzonte nichilistico la poesia rappresenta la salvezza in quanto rappresenta l’altro dal contenuto del discorso che non va tuttavia a trascendere le categorie ontologiche (nichilistiche)»

    1 Leopardi G., Zibaldone, p. 261

    https://www.academia.edu/40053439/NOTE_SULLA_POESIA_ALCUNE_OSSERVAZIONI_SULLA_POESIA_DELLOCCIDENTE_A_PARTIRE_DA_EMANUELE_SEVERINO

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  11. Mimmo Pugliese

    LA VENTUNESIMA STELLA

    La ventunesima stella ha fianchi di latte
    l’aspettano tutti
    sui ponti sui tetti

    I piedi del letto
    sporgono su trapezi intatti
    tracce di nuvole distrutte

    Baratta libri e ritratti
    con un gilet a quadretti
    la posidonia che insegue la notte

    Per arrivare fino in vetta
    Cappuccetto Rosso stipula un contratto
    con uno sciame di cavallette

    In città bambini moltiplicano per sette
    la lunga fila di linee rette
    che sposano le palafitte

    Il vinaio di Barletta
    ha tulipani sul petto
    e tasche colme di confetti

    Nel cortile piove a dirotto
    danzano scatenati folletti
    gli occhi di un gatto

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  12. All right.

    Il dolce era gentile, la casa friabile. Al gusto acceso di frutta.
    Nel giardino, due o tre vialetti con piacevoli curve che davano
    sia in basso – verso lo scalo – che in alto, alle porte-ascensori
    color rosso corallo.

    Un razzo di sera gialla indicava l’uscita dal quartiere.
    Fuori, divani e tavoli del ‘900; il garden col profumiere,
    una piccola feritoia d’argento, il tavolo per giocare,
    lo spazio avant de dormir, l’orma di un veicolo militare.

    L’architettura, in alto, era a piani perpendicolari,
    tipica degli anni precedenti al secondo millennio.
    Con la scritta più volte ripetuta “Per di qua, o per di là”.
    Le vetture accostate ai balconi.

    LMT

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    • milaure colasson

      caro Lucio,

      mi sorprendi (piacevolmente)… ma hai cambiato stile? La tua poesia mima in un certo senso la poesia della tradizione per tradirla subito dopo, come un amante infedele che non può che continuare a tradire la legittima consorte… Cmq riesci bene anche così.

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      • Cara Milaure,

        scrivo così perché in vacanza da l’instant poetry. Per indulgenza verso la poesia. È ripasso, di quando mi divertivo nel raccontare. Ma osservo cambiamenti. Qui ho dentato di descrivere un ambiente in modo che non si possa immaginare.

        Alle sardine in scatola non interessa.

        Alla finestra.
        Settembre, smetti di guardare
        dove mancano gli indissi.

        Ahimè
        LMT

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  13. Mimmo Pugliese

    Caro Lucio,
    rispondo qui al tuo graditissimo commento che mi onoro aver ricevuto e ti ringrazio..
    L’odierno componimento evidenzia , se ce ne fosse bisogno, come la modalità “kitchen” sia una fervida e avanzante fuga che non volta più indietro lo sguardo..

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  14. Alfonso Cataldi

    Tu non puoi capire il cappottino rosso

    La natura morta dentro il quadro clinico
    si ripara con l’educazione solitaria.

    «Tu non puoi capire il cappottino rosso
    ce ne fossero di Jane Fonda, ce ne fossero state»

    Il carabiniere al centro della scena indica l’eterno apparire del destino

    «qui una volta era tutta campagna
    le prove sono andate a ruba»

    Le donne di Shamsia Hassani hanno atteso le macerie. Mélange
    il tempo schiaccia le richieste del bonus di emergenza.

    In alto mare, su qualche scrivania
    all’INPS festeggiano con fuochi d’artificio e champagne

    l’idoneità dei corpi stesi bene ad asciugare.

    **

    La ricerca non può dirsi chiusa

    L’eventualità del disvelamento occipitale strappa la giacca agli eruditi
    Pascal perde le equazioni strada facendo

    La ricerca non può dirsi chiusa
    la comunità locale è in subbuglio

    «Tu che sembri serio e col green pass
    hai voglia di voltare pagina all’organista?»

    Anche a spingere, il diario di una schiappa non ci sta in un cruciverba.

    Bartezzaghi allarga l’uno orizzontale
    Bastasse far saltare gli schemi per ribaltare il risultato!

    Greg, non quello di Lillo e Greg, proprio Greg la schiappa

    è sempre dentro la performance e rischia una paresi
    già gli antichi Egizi avevano inventato le cerniere.

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    • Ben trovato, ben ascoltato, ben riuscito, ben detto.
      Evvai Alfonso!

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      • Alfonso Cataldi

        Grazie Mauro.

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        • milaure colasson

          Proseguendo il discorso di Paolo Dai Pra sulla poesia come “salvezza” io esprimerei i miei dubbi su questa categoria che risente dell’eredità del pensiero teologico cristiano. Allora, sgombriamo il campo da questa questione: la poesia non deve e non può salvare Nessuno, non è compito della poesia salvarci dal Nulla o dall’Inconscio dell’Occidente. Qui mi pare che la tesi di Severino debba essere corretta.
          E neanche la poesia deve “resistere” a nessuno, tantomeno alla alienazione della Storia. Quello che può fare la poesia è assumersi il carico di alienazione, e basta così.
          Tuttavia, la caratteristica della poetry kitchen è di adottare per intero il NULLA, di farsene carico senza voler salvare alcuno, per la salvezza delle anime belle ci pensano i mediocri poeti e la Chiesa cattolica, ed è sufficiente così.
          Un vivo complimento alle poesie di Alfonso Cataldi e di Mimmo Pugliese e anche ai compostaggi di Mauro Pierno, noto con favore che ciascuno ha una propria voce e un proprio stile.

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  15. Bene arrivato alla Poetry kitchen ad Alfonso Cataldi che ha messo a punto il suo particolarissimo linguaggio koiné

    già gli antichi Egizi avevano inventato le cerniere.

    Questo verso è squisitamente kitchen!

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  16. Poeti che leggono troppo, parafrasi di quel che fa stanca la moda, traggono ispirazione da vissuto letterario, tendono cioè al citazionismo.
    Sospetto che poesia svolga la stessa funzione dei sogni notturni, quella di rigettare a livello conscio le troppe parole lette o ascoltate.
    Un po’ come le onde mandano a riva la sporcizia, così la mente si sbarazza del surplus intellettivo. Te ne accorgi dopo aver scritto intensamente, la leggerezza che ne segue.
    Abbiamo quindi una doppia vita, ma stiamo andando nella direzione indicata nell’articolo da G.L. :
    “la strada per quello che Eraclito chiamava “armonia”, e cioè una stazione “giusta” nella presenza.

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  17. COME ANNODARE I POLI AL NILO

    All’inizio ci furono due bottiglie, ripiegate, sgozzate
    E subito a spazzarle via.

    Ludvig mimava Jimi senza vergogna.
    Dalla schiera sul tavolo una voce di aspirina

    dolce e chiara: -Sta male nell’abito metafisico, signore!
    -E’ per questo ritrovarsi nel reticolo

    i piedi a provare la misura di Maradona

    L’odore di foresta nera in una cella cristallina.
    Ulrike sopra e Lolli nel cortile.

    Prima o poi si accorcerà il giorno di un singhiozzo
    Saliranno un tanto gli scheletri , di spalla i corvi.

    E insiste: -Allo stomaco ciò che è dello stomaco
    E poi non è detto che l’alba sia a regola d’arte.

    Subentrò Marenco:
    – Chi si svoglia di mattina con un inguercibile sgatoscio… *
    Uno dei nodi cambiò metastasi in bitcoin.

    La marea ha il fiato lungo
    Allontana corde e stringe la cravatta ai morti.

    In fondo si trattava di annodare il Nilo ai Poli.

    “Dio è morto” rintocca la campana
    “Dio è vivo” spara corto il Kalashnikov

    Il calcolo?
    Un bel palleggiare tra reni e cervello.

    *incipit di “Lo sgatoscio” (o Sfranta) di Marius Marenco, dalla trasmissione radiofonica” Alto gradimento “ e Lo scarafo nella brodazza-Rizzoli-)

    (Francesco Paolo Intini)

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  18. Ricevo e pubblico da Vincenzo Aveta questa riflessione.

    caro Giorgio,

    Vi sono delle straordinarie assonanze con ciò che vivo.quando tu scrivi :La poesia Kitchen è fondata sullo statuto di verità. mi viene un pò come un fremito ma di serena calma, perché in qualche lettera scritta in passato ho trovato che scrivevo così:…io dico sempre la verità, perché ciò è indipendente dalla mia volontà, è del tutto naturale.Vico in verità per statuto interiore.!
    C’è da emozionarsi insomma e ne penso talmente bene da non pensarci affatto. Mi viene in mente Vattimo quando riflette su poesia e ontologia anche se esse osservazione derivano dallo studio del fenomeno artistico proposto da Heiddeger. Non so se c’è un fenomeno artistico. Dico che l’essere umano è per sua natura un artista anche quando non appare perché è in essenza un creatore ! Ed una nuova ontologia estetica non può prescindere dal dato di eguaglianza fra ontologia e poesia. Sono la medesima cosa in res. Dunque per il poeta che è vero poeta non v’è differenza alcuna tra l’essere umano che fa poesia e poesia e poeta. Quand’ero ragazzo pensavo che se uno è poeta lo è in qualsiasi circostanza non perchè scrive versi ma sempre.E lo penso ancora. Poiché in origine egli è tutt’uno con la poesia stessa , vi è solo un ritorno storico, che poi è tutto, che può condurci alla visione del futuro, nella accezione più ampia possibile, oltre ogni dialettica e di ogni pragmatismo. Ma quale potrebbe essere il senso sia dell’uso come del ri-uso della parola se non quello legato al segreto della nominazione del suono medesimo in forma di parola o di immagine se si vuole. C’è poco da fare o da dire. Per averne fattiva comprensione occorre realizzare che il Senso del tutto è slegato dai sensi che percepiscono ora il suono ora l’immagine o che la annusino o che la tastino con le estremità in assenza di luce. E una dimensione simile a quella ultraista della prima metà del secolo scorso, che è oltre. Ora però abbiamo realizzato pure che è oltre il vuoto. Quel vuoto che abitiamo e noi stessi siamo, ha scritto qualcuno.
    Mi viene in mente Tarkovskij tradotto da Donata De Bartolomeo che dice: Esistono soltanto la realtà e la luce/in questo mondo non ci sono né buio né morte.
    Ma anche i versi che dicono: Ho scelto l’infanzia degli dei/per annunciare i miei prodigi/ho scelto gli uccelli.
    Sono di un certo Linguaglossa. Per caso lo conosci?
    Un abbraccio.

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    • In principio era poesia. In principio. Poi il capitale, lo sfruttamento delle parole, lo strumento parola, si è addomesticato. Lo statuto, la biogenesi, la borghesia del linguaggio…non scherzo, anche gli stessi short message sistem, per esempio, sono stati un sistema accomodante del sistema. Un Sistema Accomodante del Sistema.
      La faccio breve: la nostra supercazzola con scivolamento a sinistra si chiama poetry kitchen.

      Ed è evidentemente un sistema accomodante del sistema. È chiaro…noi abbiamo dalla nostra lo studio sistematico del sistema attraverso la parola.
      La poesia appunto.

      Arrivo al dunque. Per liberarmi delle insistenti pressioni ( generalizzo questo genere di pressioni -ogni giorno un sistema accomodante ne inventa miriadi di sistemi con l’ausilio di algoritmi dedicati -) dicevo, per liberarmi delle insistenze di una proposta commerciale algoritmica e terroristica ho cominciato a farneticare, un eufemismo poetico, un testo kitchen. Un compostaggio in piena regola. Ha funzionato. Ho capito la formula del presente.

      La kitchen poetry è la risposta al presente automatismo dilagante.

      Grazie OMBRA.
      Per storicizzare:

      La lettura del presente, la scappatoia ad un S. A. di S.

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  19. antonio sagredo

    Chi ero quella notte di cui più nulla resta?

    a Lesmian

    Quando tutta la notte si è consumata come una candela
    pensavo chi potevo esser stato io nell’attraversarla indenne.
    Di me restava di un notturno nulla solo un calco… come
    uno specchio tracciava il riflesso suo nudo e una luce insonne.

    E mentre lei si spegneva io m’aggiravo in essa senza capire
    del suo tempo il senso e del suo spazio se avesse un infinito…
    ed io in lei che mi scivolava via mentre del corpo mio non sapevo
    il moto e del mio cerebro imbelle a percepire la mia presenza.

    È quella notte di cui cerco la memoria e la sua assenza quand’io
    in lei ero non mancante e sentivo le mie orme scalfire le sue oscure luci lubrificate dai cristalli dei miei occhi… e lei se ne andava via per terminare sfinita il suo arco in una irreversibile

    parabola… e io ero a lei una ignota maschera che sbirciava col trucco la sua voce illuminata come se a una quinta nerastra una parte avessero assegnata le parole e non a uno sfinito corpo che nella notte affidava la propria identità recidiva al suo – svanire!

    Antonio Sagredo

    Roma, 21 dicembre 2014,
    (tra l’ora quinta e la sesta)
    ———————————————

    prove

    al sacrilego angelo biondo

    Mi sognai la notte e il tempo smarrì il suo disappunto
    per Il suo disamore non mi restava che la cenere della voce.
    Amore egizio dov’è la mia destinazione?
    Se nemmeno la morte mi è di conforto in quali labirinti io devo nascondermi.
    Che mi resta di una notte ignota
    se non le ceneri di suoni ineludibili.

    Non avevi nemmeno una gloriuzza che t’ingannava—-
    soltanto la Vita non ha pietà per l’uomo.

    (4 novembre 2017, ore 17.21)
    ————————————————–
    Ci sarebbe da sparlare finché non si esaurisce il cuore,
    fino a quel che resta dopo il sangue,
    ma i prediletti degli dei amano
    far parte delle schiere delle leggende giovani;
    è senza pietà la Poesia,
    ma i poeti sono ancora più crudeli
    perché ci lasciano troppo presto
    e non si ha il tempo nemmeno delle lacrime!
    Il vuoto è più d’una terra senza oceani
    e il punto è che loro sono orfani – senza di noi!

    antonio sagredo

    Roma, 9 novembre 2012 –
    (all’ora 13:07)

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  20. Pingback: Stefanie Golisch – Alessandria today @ Web Media. Pier Carlo Lava

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