Sul nichilismo, Giorgio Linguaglossa, Poesia di Mauro Pierno, Carlo Livia, The Plateaux of Mirror, Lucio Mayoor Tosi, 6 pezzi,

Lucio Mayoor Tosi Sei Pezzi

Lucio Mayoor Tosi, 6 pezzi – Segni, orme, tracce, indizi. La poiesis dell’«io penso dunque sono» della tradizione poetica del novecento, la poiesis da risultato sicuro, cioè del significante e del significato, è affondata insieme alla tradizione. Dire: «io dunque significo e posso significare ciò che voglio» è dire un falso assioma. La poesia da risultato è una poesia che deriva da un concetto di logos tutto sommato rassicurante, perché l’io ha a che fare soltanto con se medesimo: quello che l’io dice e quello che non dice si trova nel campo della verità, non si discute. Da questa impostazione ne deriva che il non-io non esiste, e quindi è fuori della verità, fuori del campo della verità. Una posizione indubbiamente comoda, rassicurante, che non si può discutere. Un concetto, si direbbe oggi, da «dittatura sanitaria». Ipse dixit. Si potrebbe dire, parafrasando un virologo che va di moda oggi, che «l’io è clinicamente morto». L’io, il locutore, ha cessato di essere il fondatore e il fonatore.
Nella poiesis della poetry kitchen non siamo più entro il recinto o campo della verità. Ci muoviamo in un campo che non conosciamo, e che per di più ci è estraneo, in cui le strade e la mappa del territorio non possono più orientarci. È questa la ragione, ad esempio, dei «segni» che Lucio Mayoor Tosi dissemina sul suo cammino perché essi sono gli unici «segnavia» che ci consentono di riconoscere i luoghi e gli oggetti e, di conseguenza, il soggetto che noi siamo e che ci è sconosciuto.

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Giorgio Linguaglossa

La questità di cose nella poesia kitchen

C’è, in ogni poesia kitchen, una determinata questità di cose, le quali cose avvengono in quanto sono in presenza, cioè costituiscono una attualità esperienziale. Nelle tre poesie dei tre autori qui pubblicati emerge che non v’è più una arché dal cui cominciamento la poesia prende luogo, si sviluppa e termina nel medesimo luogo, ma ci sono più luoghi disparati dove delle cose disparatissime prendono il luogo della presenza, cioè vengono in presenza e se ne vanno con la stessa facilità con cui sono venute in presenza. Qui sono le «cose» ad essere protagoniste, non Sua Maestà l’io. E questo è un fatto problematico, perché le «cose» non rispondono più all’io plenipotenziario che le ha nominate (come vuole una certa tradizione ermeneutica) ma soltanto a chi le ha chiamate in presenza, le «cose» galleggiano nella presenza, appaiono irresponsabili in quanto si danno in formazioni gratuite e onnilaterali.

La questità delle cose presenti in una poesia kitchen è totalmente diversa dalla questità di cose presenti in una poesia normo direzionata dall’io esperienziale. Questo fatto è del tutto evidente, incontrovertibile. Di conseguenza, la ricchezza, la contraddittorietà e la problematicità delle «cose» presenti in una poesia kitchen dipendono dal fatto che esse sembrano essersi liberate, sciolte dai rapporti di produzione e dalle forze produttive che le hanno prodotte. Così, anche le parole sembrano essersi liberate dalla soggezione alla sintassi delle lingue storiche e si danno senza alcun ordine apparente. E questo è un prodotto storico del capitalismo finanziario del nostro mondo globale, che fa apparire le «cose» e le parole come per magia, di qua e di là, nel mondo virtualreale. Le «cose», liberate dai loro contesti di cosità, appaiono leggere e friabili, insignificanti e aleatorie. Così poi tutto va a finire in una gran confusione:

Questa fine di cucchiaini nel reparto più piccolo.
Sebbene poi per disordine anche qualche cucchiaio nello scomparto delle forchette.

(Mauro Pierno)

Oppure, nella fantasmagoria della gallina Nanin che si è ribellata al suo papà, tale Lucio Mayoor Tosi, e se ne va in giro a far guai. È che gli oggetti sembrano essersi liberati della loro forma di merce e si mostrano come feticci dotati di mana, di forze allucinatorie…

Lucio Mayoor Tosi gallina 2020

Lucio Mayoor Tosi, gallina Nanin

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Carlo Livia

The Plateaux of Mirror

se non parla convoca gli aghi
le stanzette bipolari, la polvere delle casematte

altri io strisciano sui contorni
ma il gorgo è sempre lì, che urla nell’amianto

oppure trasloca nel terzo raggio
nei dialoghi fra le sepolture

c’è un dolore al centro della luce
di notte è un’acqua muta

l’amore è un nulla che ferisce la sintassi
una spina nel fianco dell’ora di punta

la bestia si lecca gli angoli di lutto
che dal cielo sembrano peccati

ha un sonno obeso di lunghe mitosi
misteri umidi nel vento psichico

l’uragano ha dimenticato la cristalliera
dove lei arrossisce sottovoce
e ripone i suoi celibi

la clessidra, contagiata dal silenzio delle madonne
segna avvoltoi, verande infelici, parole di neve sull’acqua

l’attimo terminale indossa il sogno del violoncello
davanti al precipizio soffice

il Demiurgo ha un pallore malsano
getta il follicolo in perifrasi infinite

il congegno profetico è stato seppellito vivo
con le sue protesi appena nate

ma il messaggio vaga ancora nel frutteto
con i neutrini a vista

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Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia  Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010. Con Progetto Cultura, nel 2020 è uscita la raccolta, La prigione celeste.

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sALVINI BANDA BASSOTTI

Foto professionale, kitchen, in posa il Presidente della Lombardia con un suo assessore

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Mauro Pierno

«Tutto finisce» disse uno all’altro. Perché erano sempre due.
E non c’è verso, o verbo, che possa cambiare.
§
Vogliamo parlare del merito? Delle cassapanche fine settecento
infilate sotto il mento, dello street food?

Della cultura forse, del puntaspilli perso a Porta Portese
Dell’almanacco del giorno? Del capezzolo spuntato su Marte?

Edmond le indico le esatte coordinate WGS84
il piano di fuga, la donna di picche e tutto il kit per la salvaguardia,

il bisbiglio continuo, le luci accese e senza incomodare ne generali
ne colpi di scatole le lascio tutto sul comodino.

Cosi nel flusso continuo di una news permanente, nel pugno,
la posizione non cambia. Bau! Bau! (detto in cinese)
§
se non parla convoca gli aghi
le stanzette bipolari, la polvere delle casematte

altri io strisciano sui contorni
ma il gorgo è sempre lì, che urla nell’amianto

oppure trasloca nel terzo raggio
nei dialoghi fra le sepolture

c’è un dolore al centro della luce
di notte è un’acqua muta

l’amore è un nulla che ferisce la sintassi
una spina nel fianco dell’ora di punta

la bestia si lecca gli angoli di lutto
che dal cielo sembrano peccati

ha un sonno obeso di lunghe mitosi
misteri umidi nel vento psichico

l’uragano ha dimenticato la cristalliera
dove lei arrossisce sottovoce
e ripone i suoi celibi

la clessidra, contagiata dal silenzio delle madonne
segna avvoltoi, verande infelici, parole di neve sull’acqua

l’attimo terminale indossa il sogno del violoncello
davanti al precipizio soffice

il Demiurgo ha un pallore malsano
getta il follicolo in perifrasi infinite

il congegno profetico è stato seppellito vivo
con le sue protesi appena nate

ma il messaggio vaga ancora nel frutteto
con i neutrini a vista

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Sul nichilismo

Facciamo qualche passo in avanti, diciamo, arriviamo al 1960 ed esaminiamo la questione del nichilismo vista da due pensatori: Ernst Jünger e Heidegger. Proverò con degli appunti sul nichilismo:

Ernst Jünger in Oltre la linea (1955) sviluppa una comprensione del nichilismo come espressione di una «svalutazione dei valori» che è diventata una «condizione normale», ubiqua e onnipresente. Per Jünger ogni contatto con l’assoluto è diventato impossibile o problematico. Lo scrittore tedesco distingue un nichilismo attivo e uno passivo, forte e debole, ma resta fedele ad una concezione del nichilismo che consente un «contromovimento» salvifico; Jünger pensa che sia possibile, in qualche modo, uscire fuori del nichilismo, andare «oltre» la «linea». Insomma Junger ha una visione ancora ottimistica del nichilismo, pensa ancora in termini di «superamento» e di «contromovimento» a partire dalla diagnosi di Nietzsche e di Dostoevskij. Jünger pensa sì in conformità con Nietzsche che ciò che sta per cadere dere essere lasciato cadere, anzi, aiutato a cadere, ma vede al termine di questa caduta l’orizzonte di un «cominciamento», di un «contro movimento», vede possibile l’attraversamento del nichilismo, che, insomma, la meta ultima si avvicina. Attraversare la linea significa giungere in una dimensione dove il nichilismo diventa una condizione normale e il niente diventa un aspetto normale della realtà.

Dove tutto è in gioco, scrive, non si tratta di gettare ponticelli sopra l’abisso, non sono sufficienti le strategie di contenimento… Jünger raccomanda una sorta di «resistenza» che consenta, nel mezzo del nichilismo dispiegato, di trovare delle «osasi» di sopravvivenza, di libertà (la morte, l’amicizia, l’arte, l’eros) nelle quali coltivare territori di verginità della interiorità nelle quali l’individuo riesca a contenere l’avanzare del «deserto» del nichilismo.

Ecco come Franco Volpi sintetizza la posizione di Jünger:

“Come in quest’epoca la poesia autentica si muove nelle prossimità del niente, parimenti nel campo dello spirito ogni sicurezza si fa problematica, si sgretolano le costruzioni sistematiche delle filosofie barocche e il pensiero va in cerca di nuovi appigli: la gnosi, i presocratici, gli eremiti della Tebaide. Il comune carattere sperimentale di pensiero e poesia corrisponde in modo essenziale alla situazione epocale del nostro tempo. In questo senso Jünger è solidale con la tesi heideggeriana della «viaticità» dle pensiero, del suo essere continuamente «in cammino» per sentieri «interrotti», del suo orientarsi su semplici «segnavia»”.

Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente
e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca.
Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?
La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.
Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte.1]

(Ernst Jünger)

A Jünger risponde Heidegger correggendo il tiro e la gittata della sua riflessione sul nichilismo. Ma Heidegger pensa invece in modo più radicale il fenomeno del nichilismo che non può essere confinato in una sorta di «malattia» da cui se ne può uscire, in qualche modo, guariti dopo aver apprestato delle cure. Il filosofo tedesco pensa semplicemente che dal nichilismo non se ne esca affatto e che tutto sta nel prenderne atto, Sostare e camminare nel nichilismo, soltanto questo possiamo fare, e «soltanto un dio ci può salvare.

M. Heidegger (1960):

«Il tentativo di attraversare la linea resta in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere. Ed è per questo che esso si esprime ancora con i concetti fondamentali della metafisica (forma, valore, trascendenza).
In che linguaggio parla lo schema fondamentale del pensiero che prefigura un attraversamento della linea? Il linguaggio della metafisica della volontà di potenza, della forma e del valore deve essere salvato al di là della linea critica? E in che modo, se proprio il linguaggio della metafisica e la metafisica stessa, sia essa del Dio vivente o del Dio morto, hanno costituito in quanto metafisica il limite che impedisce il passaggio oltre la linea, cioè l’oltrepassamento del nichilismo? Se le cose stessero così, l’attraversamento della linea non dovrebbe necessariamente implicare una trasformazione del dire, e richiedere un mutato rapporto con l’essenza del linguaggio? E ancora, il suo riferimento al linguaggio non è tale da richiedere anche da parte sua un’altra caratterizzazione del linguaggio concettuale delle scienze? Se spesso ci si rappresenta questo linguaggio come nominalismo, è perché ancora si rimane irretiti nella concezione logico-grammaticale dell’essenza del linguaggio.

Scrivo tutto questo in forma di domande, perché non vedo che cosa oggi un pensiero potrebbe fare di più se non pensare incessantemente su ciò che provoca queste domande. Forse arriverà il momento in cui, per altre vie, l’essenza del nichilismo si mostrerà più chiaramente e in una luce più viva. Per ora mi accontento di presumere che il solo modo in cui potremmo meditare sull’essenza del nichilismo sia quello di imboccare innanzitutto la via che conduce a una localizzazione dell’essenza dell’essere. Solo per questa via è possibile localizzare la questione del niente. Senonché, la questione dell’essenza dell’essere si estingue se essa non abbandona il linguaggio della metafisica, perché il rappresentare metafisico impedisce di pensare la questione dell’essenza dell’essere.
Dovrebbe risultare evidente che la trasformazione del dire che pensa all’essenza dell’essere è sottoposta ad altre esigenze che non al cambio di una vecchia terminologia con una nuova.

(Giorgio Linguaglossa)

16 commenti

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16 risposte a “Sul nichilismo, Giorgio Linguaglossa, Poesia di Mauro Pierno, Carlo Livia, The Plateaux of Mirror, Lucio Mayoor Tosi, 6 pezzi,

  1. Dialogo tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa

    Domanda: La «nuova poesia» pone sicuramente la necessità di una «nuova lettura». Lasciamo stare per il momento se questa«nuova lettura» sia proprio quella della «nuova ontologia estetica» o sia qualcosa d’altro. Resta il fatto che la «nuova lettura» implica munirsi di una dotazione intellettuale nuova e diversa, il critico che deve fare una «nuova lettura», deve abbandonare i linguaggi ermeneutici pregressi, deve inventarne di nuovi, di desueti, non riconoscibili. Certo è che una «nuova lettura» della poesia kitchen si deve munire di strumenti «diversi», deve saper pescare nel linguaggio filosofico recente quegli spunti che ti offrano una «nuova visione» della poesia moderna. Quello che è indubbio è che gli strumenti ermeneutici tradizionali non possono aiutarci. Rinnovare il linguaggio ermeneutico (per carità, lasciamo il termine “critico”) è oggi una necessità della «nuova ontologia estetica».

    Risposta: Mi dispiace, molti non capiscono il nuovo linguaggio critico, ma è perché i miei commentatori sono rimasti fedeli ad un vocabolario critico un po’ attempato, i più aggiornati, mi riferisco agli addetti ai Cultural studies, non hanno strumenti categoriali idonei a comprendere la nuova poesia, il loro è un vocabolario accademico!
    Alcune persone mi hanno chiesto lumi su ciò che intendo per «linguaggio dell’esplicito e dell’implicito». Non credo di essere stato particolarmente astruso. Possiamo considerare implicito un discorso che va per linee esterne ad un oggetto, che dà per scontata la presupposizione cui una risposta sempre reca in sé, anche in modo inconscio.

    Domanda: Tu hai scritto:

    «Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio».

    E fai un distinguo, affermi che il linguaggio poetico del minimalismo romano-lombardo si esprime mediante il linguaggio dell’esplicito, un linguaggio esplicitato (hai fatto i nomi di Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, etc.) tramite la forma-commento, la poesia intrattenimento, la chatpoetry, la forma che vuole comunicare delle «cose»: tipo fatti di cronaca, di politica, dell’attualità, insomma, fatti che hanno avuto una eco e una risonanza mediatica. Questo tipo di scrittura che oggi va di moda è la poesia maggioritaria?

    Risposta: Interrogare il logos significa che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi «impliciti», il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o non posta. Nella risposta esplicativa l’interlocutore introduce sempre uno smarcamento, una deviazione che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.

    La traduzione problematologica diventa nella poesia kitchen una traslazione stilistica. I vecchi concetti di «simmetria» e di «armonia», legati ad un concetto lineare del tempo, vengono sostituiti con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella kitchen invece assistiamo ad un universo sintattico «goniometrico», plurispaziale, pluritemporale, distopico.

    Noi abitiamo la domanda, ma essa non sempre si dà come frase interrogativa, questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica (come nei dialoghi platonici), ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Errato. In poesia le cose non sono mai così diritte e dirette. In poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in forma dialettica.

    Domanda: Puoi fare un esempio?

    Risposta: Nella poesia kitchen è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica; in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzweg), un significato barrato, e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica, una topografia dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito.

    La poesia kitchen risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare» dell’io. In questa ricerca eccentrica, spiraliforme, indiretta la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un pluri-spazio che si apre al tempo, anzi, un pluri-spazio fitto di temporalità, un tempo fatto di pluri-spazio, che apre lo spazio, lo svincola dalla sua clausura temporale. È la marca della pluri spazialità quella che appare alla lettura, un pluri-spazio inscindibilmente legato ad una molteplicità di accadimenti.

    Per la poesia kitchen il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta che rimanda ad altro, che rinvia ad un altro segno, ad un significato deviato perché non vuole statuire attraverso il discorso assertorio dell’io e della comunicazione. Il discorso poetico kitchen invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare», ciò che Maurizio Ferraris definisce nel suo recente libro, Emergenza (Einaudi, 2017) la «quadridimensionalità». La poesia della poetry kitchen abita un pluri-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi appaiono e basta:

    la clessidra, contagiata dal silenzio delle madonne
    segna avvoltoi, verande infelici, parole di neve sull’acqua
    (Mauro Pierno)

    Domanda: Allora, secondo il tuo giudizio, il discorso poetico si darebbe in forma di domanda-risposta e secondo il modo dialettico esplicito-implicito? Possono esservi anche domande tacite in quello che tu chiami discorso poetico?

    Risposta: Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora, della metonimia, dell’immagine. La metafora e, soprattutto, la metonimia indicano così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metonimia smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia kitchen, non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, ad un qualche significato o senso, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o commento, non è una glossa, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo, pur se superdissimile e superdistopico.

    • La metafisica occidentale conosce da sempre una ontologia per la quale «l’essere è ciò che è presupposto al linguaggio (al nome che lo manifesta), ciò sulla cui presupposizione si dice ciò che si dice» (Agamben, Il linguaggio e la morte, p. 17).

      Occorre a questo punto di rovesciare il problema: si dà un’onto-logia, «il fatto che l’essere si dica e che il dire si riferisca all’essere» (ibid.), che «l’ente in quanto ente e l’ente in quanto è detto ente sono inseparabili» (ivi, p. 18).
      La questione del linguaggio è che l’essere non parla mai, l’essere è muto. È sempre il linguaggio che parla, e parla secondo la legge del linguaggio differenziale. Il linguaggio non conosce l’io, conosce soltanto il parlante, il che è molto diverso dall’«io parlo», il parlante è colui che parla. Colui che (quindi un altro) che parla in mia vece, al posto di… È il linguaggio dell’Altro che parla.
      La poiesis ha sempre a che fare con il linguaggio di quel «colui» che sta parlando nell’atto in cui parla.

    • Caro Giorgio Linguaglossa,
      vorrei integrare la nostra conversazione con queste riflessioni.

      Considero Genova di Dino Campana, L’anguilla di Montale, tutta l’esperienza poetica di Ennio Flaiano, di Mario Lunetta e di Anonimo Romano, per restare nel campo della poesia italiana, l’origine del suono che si è propagato fino alla Nuova Ontologia Estetica e alla nostra poetry kitchen per due motivi fondamentali che riguardano la categoria estetica e non la categoria storica:
      1- Rottura del patto comunicativo tra poeta e lettore;
      2- Uscita di scena dell’Autore dal testo (morte dell’autore) , spostamento del baricentro poetico verso il lettore e conseguente passaggio dalla «poesia leggibile» alla «poesia scrivibile».

      Per le tante affinità formali e di stile con la poetry kitchen, soprattutto con la poesia di Marie Laure Colasson, in particolare per il sapiente uso dei sintagmi appositivi,leggiamo insieme

      Eugenio Montale
      L’anguilla
      da La Bufera e altro, 1956
      *

      L’anguilla, la sirena
      dei mari freddi che lascia il Baltico
      per giungere ai nostri mari,
      ai nostri estuari, ai fiumi
      che risale in profondo, sotto la piena avversa,
      di ramo in ramo e poi

      di capello in capello, assottigliati,
      sempre più addentro, sempre più nel cuore
      del macigno, filtrando

      tra gorielli di melma finché un giorno
      una luce scoccata dai castagni
      ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,

      nei fossi che declinano
      dai balzi d’Appennino alla Romagna;
      l’anguilla, torcia, frusta,

      freccia d’Amore in terra
      che solo i nostri botri o i disseccati
      ruscelli pirenaici riconducono

      a paradisi di fecondazione;
      l’anima verde che cerca
      vita là dove solo

      morde l’arsura e la desolazione,
      la scintilla che dice
      tutto comincia quando tutto pare

      incarbonirsi, bronco seppellito;
      l’iride breve, gemella
      di quella che incastonano i tuoi cigli

      e fai brillare intatta in mezzo ai figli
      dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
      non crederla sorella?
      *

      Breve nota di lettura del testo montaliano

      La metrica montaliana in questo testo (una interrogazione retorica che in sé ha già la risposta di ben trenta versi senza un punto fermo e che per giunta non si chiude con un punto fermo ma con un un punto interrogativo e in cui L’anguilla del primo verso è complemento oggetto della domanda retorica all’ultimo verso (cosa linguistica mai vista né prima né dopo Montale) si basa su versi liberi con prevalenza di endecasillabi e settenari con rime interne, assonanze e consonanze.

      Nello stile di Montale de L’anguilla prevalgono successioni di metafore «appositive» nella alternanza tra piano denotativo-documentaristico e piano connotativo della seconda parte della poesia con i sintagmi appositivi «torcia», «frusta», «freccia d’Amore», «anima verde», «scintilla»,«iride breve», fino all’ultima definizione, «sorella», e con la consonanza «anguilla-sorella» fra primo verso e ultimo, del lungo periodo sintattico di ben 30 versi, con l’uso di continui enjambements per un ritmo sinuoso, tortuoso, ora dilatato, ora compresso in pause brevi, quasi a simulare lo stesso cammino dell’anguilla e il suo viaggio.

      L’anguilla montaliana si rivela anche come ben riuscito «correlativo oggettivo» della donna, (Clizia), per il suo miracoloso potere rigenerativo, per il suo istinto biologico-sessuale, per la sua capacità di pro-creare.
      L’anguilla-donna-Clizia nella visione montaliana del testo è in grado di modellare la vita anche nel «fango» («figli dell’uomo, immersi nel tuo fango»), nel fango di un mondo contaminato dalla violenza e dalle miserie umane d’ogni tipo.

      (Gino Rago)

  2. Jacopo Ricciardi

    La poesia di Mario Pierno contiene una poesia di Carlo Livia: la poesia di Carlo Livia non è più di Carlo Livia ed è di Mario Pierno? Se si togliessero i riferimenti autoriali la poesia fatta da due autori si mostrerebbe bicefala. Poi queste due teste in effetti potrebbero apparire da uno stesso corpo che è quello di una comune oscurità della mente che viene a galla, con fisica concretezza. Però resta che il funzionamento della prima parte (Mauro Pierno) utilizza un processo di inabissamenti dell’apparato retorico testuale: ‘finisce’ si frammenta a distanza con ‘sempre’, e si frammentano ravvicinati i territori testuali di ‘verso’ e ‘verbo’, e si frammentano per nessi ‘non’ con ‘possa cambiare’ (il singolare si frammenta con il plurale assente, e presente altrove, fuori). ‘Ne’ si frammenta con un ‘né’ che non è nel testo. E ‘così’ (assente dal testo) diventa ‘cosi’ frammentando un mutare semantico escludendo ciò che non c’è mai stato (e che pure origlia da dietro un’impossibilità testuale fisicamente mentale). Il ‘Bau! Bau!’ detto in cinese frammenta un’impossibilità che mentalmente si verifica (si trova nella mente senza essere mai stata da nessun altra parte, neanche nelle lettere stampate o create dal computer dove vengono lette; stanno in un vuoto testuale, percepibile perché frammentato). La fine del testo non sembra casuale, tocca un acme espressivo di questa qualità (questità) di frammento.
    La seconda parte della poesia è architettata (cucinata) in modo diverso (Carlo Livia): qui il testo della poesia si nega per dislocazioni di brani di testo già frammentati da un distanziamento siderale di sensi ‘se non parla convoca gli aghi’ tre frammenti compongono un verso, e il salto al verso dopo è una dislocazione; c’è un salto tra una linea e l’altra, che qui è fisico e associato a ‘le stanze bipolari’ che ha due frammenti che sono insieme (o non insieme) un altro frammento con il verso precedente. Questa doppia frammentazione crea un dislocamento della frammentazione che contiene altre frammentazioni dando un movimento fisico di spostamento di una massa (presenza) aprendo (momentaneamente) un vuoto, un abisso, un improvviso quanto netto e fisico apparire dell’assenza di una presenza.
    Quindi i due modi di scrittura si arricchiscono l’un l’altro offrendo un multiforme accesso a un’essenza mentale, ai vuoti mentali che riempiono la mente, concretamente e fisicamente, sperimentandoli con palpabile verità. Mario Pierno e Carlo Livia sono, come devono essere, ombre disperse in ombre; tra autori e lettori, più lettori che autori.

    • Leggo le riflessioni di Jacopo Ricciardi e di Giorgio Linguaglossa, le apprezzo molto, le condivido e torno a pronunciarmi per estrema sintesi sulla concezione barthesiana di écriture su cui tra l’altro Roland Barthes scrive:
      «[…]nella scrittura si perde ogni identità e una volta allontanato l’Autore, la pretesa di ‘decifrare’ un testo diventa del tutto inutile[…].
      Per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può essere che la morte dell’Autore…».

      R.Barthes, Il brusio della lingua. Saggi critici IV , Einaudi, Torino, 1988

  3. L’Antologia Il pubblico della poesia del 1975

    Nel 1975 Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli danno alle stampe la Antologia Il pubblico della poesia che fotografava una situazione di entropia della poesia. Ci si avviava ad una pratica di massa della poesia. Ci si accorse all’improvviso che il numero dei poeti era cresciuto in maniera esponenziale, arrivava a numeri ipertrofici. Si era in presenza di un nuovo costume letterario: la teatralizzazione della poesia, la visibilità e l’auto promozione pubblicitaria.

    Tra i poeti di allora, riconosciamo: Dario Bellezza, Dacia Maraini, Patrizia Cavalli, Elio Pecora, Eros Alesi, Adriano Spatola, Sebastiano Vassalli, Cesare Viviani, Giuseppe Conte, Renzo Paris, Valentino Zeichen, Nico Orengo, Vivian Lamarque, Giorgio Manacorda, Milo De Angelis, Paolo Prestigiacomo, Maurizio Cucchi, Attilio Lolini, Franco Montesanti, Gregorio Scalise.

    Un questionario di dieci domande era rivolto ai poeti. Le risposte non brillavano se non per noia perché gli intervistati cercavano la battuta intelligente, dare risposte originali alle domande più semplici. L’Antologia era divisa nelle seguenti sezioni “Lo scrivere non fa sangue fa acqua”; “La gente guarda e tace, entra al supermercato”; “Si racconta nelle mille e una notte, nel capitolo della leggerezza”; “Come credersi autori?”

    Così Berardinelli in una intervista del 1979 pubblicata su “Il Messaggero” stigmatizzava questo nuovo costume letterario:

    «Molte delle cose scritte allora sono diventate oggi luoghi comuni, però le intuizioni fondamentali si sono dimostrate giuste. La deriva, lo smembramento hanno finito per occupare l’intero decennio ’70. Compivamo l’esplorazione di un continente sommerso e non era facile formulare ipotesi chiare e univoche per il futuro. Tuttora se si dovesse fare un consuntivo della letteratura italiana del decennio ci si troverebbe di fronte una materia molto fluida, caotica, spesso inafferrabile. Insomma niente in comune con i due o tre decenni immediatamente precedenti. La perdita d’identità dei giovani scrittori e la labilità dei confini del cosiddetto spazio letterario mi sembrano perduranti».

    Ad una domanda di Sandra Petrignani ad Alfonso Berardinelli intorno alla «diffusa tendenza a teatralizzare la poesia» iniziata negli anni Settanta, così rispondeva il critico romano: «Sì, ma non la condivido, perché non serve che alla moltiplicazione giornalistico-mitologica di quello che è avvenuto, rito di puro cannibalismo. Né la poesia si è venduta di più perché le platee erano affollate: i piccoli editori lo sanno bene. Tra bassa mitologia e distruttività molte delle manifestazioni poetiche di impianto grosso modo teatrale si fondano sul presupposto che la presenza e il gesto sono tutto, la lettura e il testo nulla. Ma il testo poetico, lo si voglia o no, è costruito in modo da richiedere per sé una focalizzazione, un supplemento speciale di attenzione. Certo questa può essere considerata, rispetto a altri tipi di discorso, una bella pretesa anti democratica…».

    E sul problema della «riconoscibilità di un poeta», così si esprimeva il critico:

    «Assolutamente no. L’autore continua a non essere riconosciuto dal nuovo pubblico: incontra aggressività, sordità, diffidenza. Ma forse proprio per questo i giovani autori relativamente affermati hanno cominciato a darsi un gran da fare, temono di perdere la loro buona occasione, hanno paura che passino troppi anni senza che intorno a loro si sia stabilito il loro ruolo, la loro immagine sociale. Il fatto è che non può obiettivamente stabilirsi. Perché un autore, una generazione di autori, indipendentemente dalla qualità di quello che scrive, abbia un’identità storica, uno spazio, un riconoscimento, è necessario che la società stabilizzi la propria figura complessiva, organizzi con un minimo di stabilità i propri ambiti e settori di attività e di vita, proietti di fronte a sé una qualche prospettiva. Tutto questo in Italia non avviene».

    http://www.castelvecchieditore.com/spirale/scritture/estratti/pubblico_poesia.html

  4. Mariella Bettarini

    Grazie sempre, carissimi, carissime, e i miei più vivi complimenti e AUGURI.

    Un saluto di cuore da

    Mariella (Bettarini)

  5. Mauro Pierno da sempre si muove seguendo una idea della contaminazione tra linguaggi poetici affini o contigui, in questo caso ha contaminato il linguaggio poetico di Carlo Livia ed ha proseguito per variazioni e mutazioni genetiche, proprio come un virus, incorporando nel proprio testo sintagmi del linguaggio poetico di Livia, adulterandolo e trasformandolo per via di affiliazione, di cooptazione e di variazione. A questa procedura possiamo dare il nome di tecnopoiesi.

    A ben vedere la tecnopoiesi accresce l’ibridazione dell’essere umano, anche attraverso l’introiezione di dimensioni esistenziali altre raggiunte attraverso la tecnomediazione. La tecnopoiesi agisce sull’ontogenesi. Ogni tecnologia aumenta la nostra contaminazione con il mondo, allontanandoci dalla gravitazione antropocentrica. A questo proposito è necessario prendere in considerazione un altro aspetto della tradizione umanistica: il principio esonerativo. La techne non dispensa dalla performance, ma semplicemente introduce nuove performatività basate sulla capacità di adattamento allo strumento, ovvero di realizzare la funzione ibrida. La techne non crea un distanziamento dagli stimoli anzi, introduce nuove interfacce, nuovi stimoli, nuove complessità, nuove contaminazioni.

    Mauro Pierno attraverso la tecnopoiesi converte la esternalizzazione in internalizzazione, ciò non significa che la techne sia un mero atto imitativo, trattasi di un processo reinterpretativo o rappresentazionale: come un attore interpreta in modo personale un copione che gli viene presentato, la tecnopoiesi emerge allorché nella relazione ciò che è esterno passa a ciò che è interno mediante un atto di incorporazione e di contaminazione.
    La tecnopoiesi è una pratica infiltrativa e transizionale: anche quando in apparenza sembra esterna, una volta adottata ne riorganizza le coordinate testuali, esattamente come un virus che, una volta introiettato, contamina e modifica la struttura testuale dell’organismo ricettivo. La pratica di contaminazione e di appropriazione di testualità propria della poetry kitchen indica che siamo in presenza di un concetto e di una pratica di transitività dei testi che vanno per omeomerie e transizionalità, per contiguità e affinità in vista di una nuova e inusitata complessificazione testuale.

  6. antonio sagredo

    Riguardo la foto dei due leghisti, devo riferire l’orribilità delle loro sembianze.
    Non sono umani, disumai, inumani: sono l’essenza dell’avidità incontrollata.
    ———————————————————————————————-
    Comprendo benissimo quanto afferma Linguaglossa circa i dettami della
    “sua” poetry kitchen, che per me si traveste di oscura fascinazione, senza dubbio attrattiva, con cui posso dividere un gemellaggio a volte lontanissimo, a volte così vicino che mi meraviglia…
    Per questo posso affermare che questa poetry kitchen presenta un non tanto velato, nascosto e misterico barocchismo, un po’ fuori dagli schemi usuali che ancora usano l’ “IO”, mentre gli adepti possono farne a meno volentieri e per questo svincolati da ogni dettame precedente. Ma rivendico un risultato similare: lo svuotamento dell’ “Io” per averlo troppo usato, e il disuso è raggiunto e concluso per questo, da altra via maestra!

  7. antonio sagredo

    qualche verso sul NIHIL…. e le Cose e l “Io”…
    ————————————————————-
    Glorificatemi!
    Non sono pari ai grandi.
    Sopra tutto ciò che fu fatto,
    pongo il mio nihil.

    Non voglio mai leggere nulla.
    Libri?
    Che sono i libri?

    Io un tempo pensavo
    i libri si fanno così:
    arriva il poeta,
    lievemente disserra le labbra
    e d’improvviso si mette a cantare il sempliciotto ispirato.

    Prego!

    Ma risulta che prima
    che cominci a cantarsi,
    camminano i poeti a lungo incalliti dal vagabondare,
    e dolcemente sguazza nella melma del cuore
    la stupida tinca dell’immaginazione.

    Mentre sbolliscono, strimpellando rime,
    una brodaglia di amori e di usignoli,
    la via si contorce priva di lingua:
    non ha con che discorrere e gridare.

    —————————————————————-
    ….si è sempre posto il Nihil al Tutto, o viceversa, senza pensare o non credere affatto che si completano reciprocamente.
    Il punto è che non ci si allontana mai abbastanza – e questo in tutte le epoche umane-terrestri – dalla Terra per poter avere un altro punto di vista, in definitiva abitare (in) una altra dimensione che non sia terrestre e meglio ancora non umana.
    Anche qui ” La questità delle cose presenti in una poesia kitchen è totalmente diversa dalla questità di cose presenti in una poesia normo direzionata dall’io esperienziale.”
    In questi versi del 1915 di un ipotetico poeta cozzano già fra di loro: le cose e l’IO, e specie in questo poeta è presente “la rivolta delle cose” contro l’Io dominante, o al contrario.
    Forse questa “poetry kitchen” pare mettere la definitiva fine al contrasto, forse non troppo in armonia i due mondi, ma è che la direzione che indica è l’unica da percorrere. Vedremo, e la posta è altissima!
    a. s.

  8. dietro indicazione di Carlo Livia, pubblico.
    Premetto però a Livia che la questione religione è fuori tema, la rivista si interessa dell’arte, della poiesis. Cosa del tutto diversa dalla religione.

    Nella Prefazione al Tractatus, Wittgenstein scriveva:

    «Ciò che si può dire può dirsi con chiarezza»; e nella Conclusione afferma che: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere».

    Dobbiamo tacere di tutto ciò su cui la scienza resta silenziosa; ma ciò di cui la scienza non parla è quanto più conta per noi. E i neopositivisti, mentre accettarono la prima metà di questa proposizione, non seppero vedere che essa, per Wittgenstein, ha senso solo se non viene separata dalla seconda metà. Commenta Paul Engelmann, l’architetto e amico che di Wittgenstein ben conosceva i pensieri:

    «Tutta una generazione di allievi poté considerare Wittgenstein un positivista, poiché egli aveva qualcosa di enorme importanza in comune con i positivisti: aveva tracciato la linea di separazione tra ciò di cui si può parlare e ciò di cui si deve tacere, cosa che anch’essi avevano fatto. La differenza è soltanto che essi non avevano niente di cui tacere. Il positivismo sostiene e questa è la sua essenza che ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Invece Wittgenstein crede appassionatamente che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui, secondo il suo modo di vedere, dobbiamo tacere. Quando ciononostante egli si prende immensa cura di delimitare ciò che non è importante, non è la costa di quell’isola che egli vuole esaminare con tanta meticolosa accuratezza, bensì i limiti dell’Oceano».

    Engelmann insiste:

    «Che il tentativo fatto da Wittgenstein nel Tractatus corrisponda a un successo o un fallimento, il significato fondamentale del libro, credo, resta comunque inalterato. Esso consiste nell’aver stabilito la separazione irrefutabile tra la sfera più alta, che esiste, e la sua espressione, che è problematica, e nell’aver mostrato il fondamentale carattere dubbio di tale espressione. E una comprensione di questo filosofo incoraggerà il vero credente a non intimorirsi di fronte all’avanzare della scienza, per quanti successi possono essere stati ottenuti in quel campo: infatti il suo dominio si arresta là dove inizia ciò che solo conta per lui. E come si potrebbe credere che un lavoro come il Tractatus abbia potuto essere scritto da un uomo con un talento limitato alla logica? In effetti, il suo autore era un uomo dalle notevoli capacità in quasi tutti i campi dell’attività intellettuale, tanto irrazionali quanto razionali. Le sue intuizioni estetiche ed etico-religiose si sarebbero probabilmente dimostrate di gran lunga superiori alla contemporanea letteratura accademica irrazionale, e avrebbero esercitato un’influenza non minore, se esposte in un lavoro filosofico, di quella che il Tractatus ha effettivamente esercitato nella sua rottura logico-filosofica. Ma egli riteneva e giustamente che i punti essenziali su tali questioni fossero già stati esposti, anche se implicitamente, nel Tractatus».

    Ecco poi una preziosa chiarificazione di Wittgenstein sulla nondicibilità dell’etico:
    «La mia tendenza e, io ritengo, la tendenza di tutti coloro che hanno mai cercato di scrivere o di parlare di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio. Quest’avventurarsi contro le pareti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente disperato. L’etica, in quanto sgorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l’assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice, non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza. Ma è un documento di una tendenza nell’animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei mai, a costo della vita, porre in ridicolo».

    da https://www.ilgiornale.it/news/religiosit-taciuta-wittgenstein-1930912.html

  9. Claudio Borghi

    È vero anche che Marco Vannini considera Wittgenstein, insieme a Simone Weil, uno dei grandi mistici del Novecento (M. Vannini, Storia della mistica occidentale, Mondadori). Che senso hanno questi sterili dualismi, Linguaglossa? Che senso ha contrapporre religione e poesia, scienza e metafisica, laddove tutta la scienza, la fisica come la matematica, è per necessità fondata metafisicamente?

  10. Claudio Borghi mi accredita di «contrapporre religione e poesia», quando invece io ho scritto:

    «la poiesis. Cosa del tutto diversa dalla religione».

  11. Claudio Borghi

    Va bene, anche se hai considerato fuori tema la religione. È lo sforzo di sintesi di Carlo Livia che non valorizzi, questo è il punto. È una questione di sostanza, non di sterile dialettica.

  12. copio e incollo di Marco Scabia:

    Facebook è una macchina semi-automatica… è regolato da centinaia di migliaia di algoritmi…

    Quasi sempre la decisione di sospendere l’account pubblicitario di un inserzionista non viene presa da un umano… viene presa da un computer!

    E purtroppo capita spesso che Facebook prenda una CANTONATA… e che decida di chiudere l’account a un malcapitato inserzionista che non ha commesso nulla di “sbagliato”.

    Per questo motivo, quando usi i Facebook Ads, è importante SAPERE come “ragiona” Facebook dietro le quinte e quali sono le attività da evitare, così da non insospettire gli algoritmi che lo regolano.

    Come ti avevo scritto ieri, il mio collega Giulio Fabbri (esperto di Facebook Ads) in questi giorni sta pubblicando un interessantissimo resoconto nel quale illustra tutto ciò che ha scoperto (in anni di esperienza professionale) su questo spinoso argomento.

    È gratis:

    ​Clicca qui: come evitare di venire bannato dai Facebook Ads

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