Lucio Mayoor Tosi, 6 pezzi – Segni, orme, tracce, indizi. La poiesis dell’«io penso dunque sono» della tradizione poetica del novecento, la poiesis da risultato sicuro, cioè del significante e del significato, è affondata insieme alla tradizione. Dire: «io dunque significo e posso significare ciò che voglio» è dire un falso assioma. La poesia da risultato è una poesia che deriva da un concetto di logos tutto sommato rassicurante, perché l’io ha a che fare soltanto con se medesimo: quello che l’io dice e quello che non dice si trova nel campo della verità, non si discute. Da questa impostazione ne deriva che il non-io non esiste, e quindi è fuori della verità, fuori del campo della verità. Una posizione indubbiamente comoda, rassicurante, che non si può discutere. Un concetto, si direbbe oggi, da «dittatura sanitaria». Ipse dixit. Si potrebbe dire, parafrasando un virologo che va di moda oggi, che «l’io è clinicamente morto». L’io, il locutore, ha cessato di essere il fondatore e il fonatore.
Nella poiesis della poetry kitchen non siamo più entro il recinto o campo della verità. Ci muoviamo in un campo che non conosciamo, e che per di più ci è estraneo, in cui le strade e la mappa del territorio non possono più orientarci. È questa la ragione, ad esempio, dei «segni» che Lucio Mayoor Tosi dissemina sul suo cammino perché essi sono gli unici «segnavia» che ci consentono di riconoscere i luoghi e gli oggetti e, di conseguenza, il soggetto che noi siamo e che ci è sconosciuto.
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Giorgio Linguaglossa
La questità di cose nella poesia kitchen
C’è, in ogni poesia kitchen, una determinata questità di cose, le quali cose avvengono in quanto sono in presenza, cioè costituiscono una attualità esperienziale. Nelle tre poesie dei tre autori qui pubblicati emerge che non v’è più una arché dal cui cominciamento la poesia prende luogo, si sviluppa e termina nel medesimo luogo, ma ci sono più luoghi disparati dove delle cose disparatissime prendono il luogo della presenza, cioè vengono in presenza e se ne vanno con la stessa facilità con cui sono venute in presenza. Qui sono le «cose» ad essere protagoniste, non Sua Maestà l’io. E questo è un fatto problematico, perché le «cose» non rispondono più all’io plenipotenziario che le ha nominate (come vuole una certa tradizione ermeneutica) ma soltanto a chi le ha chiamate in presenza, le «cose» galleggiano nella presenza, appaiono irresponsabili in quanto si danno in formazioni gratuite e onnilaterali.
La questità delle cose presenti in una poesia kitchen è totalmente diversa dalla questità di cose presenti in una poesia normo direzionata dall’io esperienziale. Questo fatto è del tutto evidente, incontrovertibile. Di conseguenza, la ricchezza, la contraddittorietà e la problematicità delle «cose» presenti in una poesia kitchen dipendono dal fatto che esse sembrano essersi liberate, sciolte dai rapporti di produzione e dalle forze produttive che le hanno prodotte. Così, anche le parole sembrano essersi liberate dalla soggezione alla sintassi delle lingue storiche e si danno senza alcun ordine apparente. E questo è un prodotto storico del capitalismo finanziario del nostro mondo globale, che fa apparire le «cose» e le parole come per magia, di qua e di là, nel mondo virtualreale. Le «cose», liberate dai loro contesti di cosità, appaiono leggere e friabili, insignificanti e aleatorie. Così poi tutto va a finire in una gran confusione:
Questa fine di cucchiaini nel reparto più piccolo.
Sebbene poi per disordine anche qualche cucchiaio nello scomparto delle forchette.
(Mauro Pierno)
Oppure, nella fantasmagoria della gallina Nanin che si è ribellata al suo papà, tale Lucio Mayoor Tosi, e se ne va in giro a far guai. È che gli oggetti sembrano essersi liberati della loro forma di merce e si mostrano come feticci dotati di mana, di forze allucinatorie…
Lucio Mayoor Tosi, gallina Nanin
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Carlo Livia
The Plateaux of Mirror
se non parla convoca gli aghi
le stanzette bipolari, la polvere delle casematte
altri io strisciano sui contorni
ma il gorgo è sempre lì, che urla nell’amianto
oppure trasloca nel terzo raggio
nei dialoghi fra le sepolture
c’è un dolore al centro della luce
di notte è un’acqua muta
l’amore è un nulla che ferisce la sintassi
una spina nel fianco dell’ora di punta
la bestia si lecca gli angoli di lutto
che dal cielo sembrano peccati
ha un sonno obeso di lunghe mitosi
misteri umidi nel vento psichico
l’uragano ha dimenticato la cristalliera
dove lei arrossisce sottovoce
e ripone i suoi celibi
la clessidra, contagiata dal silenzio delle madonne
segna avvoltoi, verande infelici, parole di neve sull’acqua
l’attimo terminale indossa il sogno del violoncello
davanti al precipizio soffice
il Demiurgo ha un pallore malsano
getta il follicolo in perifrasi infinite
il congegno profetico è stato seppellito vivo
con le sue protesi appena nate
ma il messaggio vaga ancora nel frutteto
con i neutrini a vista
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Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010. Con Progetto Cultura, nel 2020 è uscita la raccolta, La prigione celeste.
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Foto professionale, kitchen, in posa il Presidente della Lombardia con un suo assessore
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Mauro Pierno
«Tutto finisce» disse uno all’altro. Perché erano sempre due.
E non c’è verso, o verbo, che possa cambiare.
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Vogliamo parlare del merito? Delle cassapanche fine settecento
infilate sotto il mento, dello street food?
Della cultura forse, del puntaspilli perso a Porta Portese
Dell’almanacco del giorno? Del capezzolo spuntato su Marte?
Edmond le indico le esatte coordinate WGS84
il piano di fuga, la donna di picche e tutto il kit per la salvaguardia,
il bisbiglio continuo, le luci accese e senza incomodare ne generali
ne colpi di scatole le lascio tutto sul comodino.
Cosi nel flusso continuo di una news permanente, nel pugno,
la posizione non cambia. Bau! Bau! (detto in cinese)
§
se non parla convoca gli aghi
le stanzette bipolari, la polvere delle casematte
altri io strisciano sui contorni
ma il gorgo è sempre lì, che urla nell’amianto
oppure trasloca nel terzo raggio
nei dialoghi fra le sepolture
c’è un dolore al centro della luce
di notte è un’acqua muta
l’amore è un nulla che ferisce la sintassi
una spina nel fianco dell’ora di punta
la bestia si lecca gli angoli di lutto
che dal cielo sembrano peccati
ha un sonno obeso di lunghe mitosi
misteri umidi nel vento psichico
l’uragano ha dimenticato la cristalliera
dove lei arrossisce sottovoce
e ripone i suoi celibi
la clessidra, contagiata dal silenzio delle madonne
segna avvoltoi, verande infelici, parole di neve sull’acqua
l’attimo terminale indossa il sogno del violoncello
davanti al precipizio soffice
il Demiurgo ha un pallore malsano
getta il follicolo in perifrasi infinite
il congegno profetico è stato seppellito vivo
con le sue protesi appena nate
ma il messaggio vaga ancora nel frutteto
con i neutrini a vista Continua a leggere