Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a distanza Derrida-Heidegger-Linguaglossa (pp. 65/72) con le risposte a Pasquale Balestriere e a Lucio Mayoor Tosi – Uno stralcio sulla Cosa (Das Ding) da uno scritto di Roberto Terzi, Poesie di Fritz Hertz (Francesca Dono) e Carlo Livia 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Gino Rago: La poesia è un Enigma?

Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

Chiosa Linguaglossa:

In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.

Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».1

Gino Rago: Da queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?

 Risposta: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».2

Foto Man Ray 1922

L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio

Gino Rago: Cosa intendi per «vuoto di significante e di significato»?

Risposta: E ciò che sta sotto codesto «istante» si rivela essere un vuoto di significante e di significato che non può essere nominato se non entro una catena infinita di significanti e di significati. La metafora è questa rottura degli anelli della catena, rottura che dura appena un istante, l’istante privilegiato, dopo il quale essa riannoda i fili che la legano al sistema infinito della catena significante, al differimento dei significanti e dei significati.
Pretendere di dire che cos’è la «metafora silenziosa» è qualcosa cui non può arrivare una modesta intelligenza. Per afferrare questo concetto dobbiamo fare riferimento a ciò che c’era «prima» del Linguaggio, a quel muro di silenzio linguistico che il linguaggio ha squarciato con un atto indicibile. L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio, lo ha reso, in un certo qual modo, dicibile, udibile, sensibile. Il linguaggio come sistema di segni, proviene da qualche cosa d’altro. Questo penso sia chiaro. Quel qualcosa d’altro che è il «prima» del linguaggio e che è destinato a rimanere «silenzioso». È quindi il «silenzio» che fonda il «linguaggio». Questo è un pensiero che penso possa essere afferrabile, un po’ come nella fisica odierna è il «vuoto» che fonda gli universi di materia e di anti materia. Dobbiamo quindi postulare il «silenzio» di «prima» del linguaggio per poter afferrare il silenzio «dentro» il linguaggio.

Il compito più alto della poesia è appunto questo: indicare, alludere, richiamare il silenzio di prima del linguaggio, quel silenzio che è l’essere stesso, che è il linguaggio dell’essere. Comprendo adesso la difficoltà di Heidegger di scrivere l’opera che avrebbe dovuto seguire Essere e tempo (1935), bisognava inoltrarsi in una indagine perigliosa sul «prima del linguaggio» con gli strumenti del linguaggio e sarebbe occorso un «altro» linguaggio che lui non aveva.
L’evento ontico fondamentale è il «silenzio dell’essere», quel silenzio che è il suo linguaggio proprio. E questo è l’obiettivo della grande poesia europea, dei più grandi poeti europei dell’Ottocento e del Novecento. In questo progredire della loro ricerca si avverte l’eco del tinnire di quel silenzio, come scriveva Leopardi «sovrumani silenzi»,, «interminati spazi» e «profondissima quiete» (da notare le puntigliose e precise espressioni di Leopardi il quale è un poeta che non getta certo le parole a caso).

Ma quella frase che abbiamo usato: «prima del linguaggio», ci introduce in un altro problema filosofico di non poco conto che Heidegger aveva ben presente: quel «prima» ci introduce alla categoria del «tempo». Ma Heidegger si è ben guardato dall’inoltrarsi in quel ginepraio di oscurità. E così, siamo ancora all’inizio del problema, dobbiamo noi (dico noi per dire la «poesia»), inoltrarci in quel ginepraio fatto di «silenzio interno ed esterno» al linguaggio. Siamo dentro la problematica della metafora silenziosa. Quella cosa misteriosa che traduce il silenzio in linguaggio, l’assenza in parole. È questo che fa de «L’infinito» di Leopardi una poesia quasi sovrumana.

Gino Rago: Vuoi dire che noi stiamo dentro il linguaggio e che il linguaggio è dentro di noi? Come in un gioco di scatole cinesi?

Risposta: Provo qui a chiarire quello che voglio dire con la dizione «metafora silenziosa». Noi tutti stiamo dentro un orizzonte degli enti e un orizzonte degli eventi. Anche il Linguaggio ci sta dentro. Anzi, il linguaggio è quell’evento che si presenta come ente, ed è per mezzo di questo ente che noi possiamo cogliere tutti gli altri enti. Infatti diciamo che il linguaggio fonda gli enti, appunto, in questo senso.
Ma io dicevo qualcosa di diverso: che c’è un «prima» del Linguaggio (questo è un pensiero incontrovertibile), ed è a questo «prima» che noi dobbiamo fare riferimento quando parliamo del «Linguaggio». Ebbene, di questo «prima» nulla sappiamo e nulla potremo mai sapere, ma che ci sia, è un fatto incontrovertibile. Il linguaggio è già una «istanza di mediazione», noi esperiamo il «mondo» attraverso questa mediazione, possiamo dire che siamo prigionieri di questo recinto che è la nostra mediazione linguistica di cui i nostri organi percettivi ne sono una emanazione biologica e storico-sociale.

Per dirla con Lacan e Heidegger, il Linguaggio è il vino che sta dentro la «brocca» di Heidegger, e, come ha bene spiegato il filosofo tedesco: «Il vuoto, questo nulla nella brocca, è ciò che la brocca è come recipiente che contiene. […] Il vuoto della brocca determina ogni movimento della produzione. La cosalità del recipiente non risiede affatto nel materiale di cui essa consiste, ma nel vuoto che contiene».
È dunque il «vuoto» della brocca che dà forma al vino. È il «vuoto» che dà forma al «Linguaggio».

Ora io dico un pensiero forse ardito ma al quale tengo molto: È la grande poesia che consente l’attraversamento, per lampi, del Linguaggio e fa intravedere quel «vuoto» che sta al di là del Linguaggio. È quello che accade in alcune pochissime poesie quasi sovrumane di pochissimi poeti (Hölderlin, Leopardi, Eliot, Mandel’štam …), che s-fondano il Linguaggio e ci fanno intravedere quel qualcosa di cui noi non potremmo mai fare esperienza… Questa cosa misteriosa io ho denominata «metafora silenziosa», ma non perché sia una semplice metafora fatta di verba, ma perché attraverso i verba ci fa intravvedere quel qualcosa che sta «prima» del Linguaggio(…).

1] J. Derrida La scrittura e la differenza trad. it. Einaudi, 2002 p. 177
2] P. Bigongiari La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli,
Milano, 1972, p.165

Foto volto multiplied

È dunque il «vuoto» della brocca che dà forma al vino. È il «vuoto» che dà forma al «Linguaggio»

Domanda di Pasquale Balestriere:

Caro Giorgio,

trovo molto più condivisibile quest’ultimo tuo intervento. Nulla ho da eccepire sul contenuto dei primi tre paragrafi. Tuttavia qualcosa non funziona in questa conclusione: “È dunque il «vuoto» della brocca che dà forma al vino. È il «vuoto» che dà forma al «Linguaggio»”. Credo che qui occorra distinguere tra un vuoto assoluto e un vuoto relativo. E qui dico che Il vuoto relativo della brocca che dà forma al vino è determinato dall’artifex dal vasaio il quale in tal modo stabilisce la “forma” del vino; proprio come, per analogia, è un artifex (poeta o artista in genere), e non il vuoto che dà forma al linguaggio (e conta poco che il vuoto lo preceda, se non per provocarlo). Sono abbastanza d’accordo anche sui contenuti dell’ultimo paragrafo. Solo che quello che tu chiami «vuoto» io chiamo «essenza delle cose» e all’espressione «metafora silenziosa» io toglierei l’aggettivo. Il nome è più che sufficiente.

 Risposta di Giorgio Linguaglossa

caro Pasquale Balestriere,

non è tanto nel numero di metafore che tu acutamente hai individuato ne «L’infinito» (solo due), né nelle metafore tradizionali quello che io tento di esprimere, vorrei dire un’altra cosa, una cosa che non può essere detta con nessun’altra metafora tradizionale, una metafora non fatta di «verba» o, almeno, non solo di «verba» ma che comprende tutte le parole di una poesia facendone una «metafora complessa», una sorta di «prisma», di «Aleph» dal quale si riverbera una luce intensissima. Quella luce è appunto la luce che promana da alcune poesie come «L’infinito» di Leopardi. È la metafora che ci conduce molto vicino al «vuoto» dell’universo e che sta appena «dietro» e «sotto» l’universo e dal quale esso universo un giorno di circa 14 miliardi di anni fa sortì da un punto infinitesimalmente piccolo.

Risposta di Giorgio Linguaglossa

caro Lucio Mayoor Tosi,

la poesia è una astronave con un motore fatto di anti materia che ci può portare a distanze di miliardi di anni luce in un battibaleno. Ma per percepire la presenza di questa astronave di parole occorre una sensibilità e una intelligenza che la signora Valduga non possiede.

Nella grande poesia, la cosalità della «Cosa», delle cose, viene liberata dalle cose stesse… le «cose» si liberano del loro vestito fenomenico di «oggetti» e ci indicano quella «Cosa» misteriosa che sta «dietro» e «prima» di tutte le «cose» che è il «vuoto». Dunque, è la cosalità delle cose che ci indica il Vuoto.

Come scrive Fabio Milazzo: «il gesto che istituisce l’orizzonte non fa parte dell’orizzonte stesso, così come l’occhio non può essere visto ma resta sempre inconscio, sottratto alla presa conoscitiva del soggetto conoscente [10]: è “condizione prima” che ritraendosi permette l’emergere di ciò che esiste nello spazio creato. La condizione risulta indescrivibile dal condizionato, questa la regola logica fondamentale che rende il vuoto della Cosa “impossibile”, cioè irrappresentabile. Il vaso è al contempo una cosa (Sache) e la Cosa (das Ding), oggetto tra gli altri e “significante primo” che permette di pensare la possibilità stessa del vuoto.»2

Analogamente, la Forma della poesia è la condizione prima affinché possa emergere quella «Cosa» che è inconoscibile, perché non appena emerge alla rappresentazione linguistica, subito scompare ritraendosi…

1 Piero Bigongiari La poesia come funzione simbolica del linguaggio Rizzoli, 1972 p. 165
2 Fabio Milazzo cit. in https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/10/22/

Foto autoportrait

Lei s’incamminò tutta sola in quella domanda oscura

Una poesia di Carlo Livia

Il terrore negli specchi

per Antonio Sagredo

Nel teatro dei risorti s’incontrano la morte e il suo assassino
e un Dio si ammala
A vedere quel silenzio d’uragano il cielo esce dalla prigione
Gli incesti sottili dilagano e l’inferno scende a patti con l’addio
Non resta niente in quella gabbia
dove sognano un ragno che divora la notte dei peccati
I desidèri delle fanciulle azzurre uccisero il confine
ma non poterono ridarmi la vita
Lei s’incamminò tutta sola in quella domanda oscura
in cui ero già scomparso

*

Fritz Hertz -Francesca Dono

caro tesoro – una poesia di Fritz Hertz

Caro tesoro, sono uscito presto. A voce bassa. Velocemente come un ladro.
In cucina lascio due mele . Sulla sedia inclinata il tailleur di lana verde . La sveglia ha suonato mezzo secolo. Nel frattempo mi sono rasato e spogliato sotto il neon per ben tre volte. Avevo la saponetta di sempre.
Il solito rumore della scala.
Caro tesoro , c’è modo di svegliare questo sonno?
Le foche battono la fiacca. Tutti chiedono il tuo mondo. Non avrai (per caso) scordato il nostro amore? Agamennone è qui. Sul selciato del vicino di casa. Dal rovescio della notte in pieno giorno. Tu lo capisci _ vero?

*

Evtusenko Foto di Vladimir Mishukov

È attorno al Ding come Fremde, estraneo, e talvolta anche ostile, ma in ogni caso come il primo esterno, che si orienta tutto il percorso del soggetto

da Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan – Nóema, 4-1 (2013) http://riviste.unimi.it/index.php/noema 167

…nel Seminario VII L’etica della psicoanalisi (1959-60). La problematica che abbiamo richiamato emerge chiaramente con quello che è il concetto centrale di questo seminario, ovvero das Ding, la Cosa. Lacan ricava questo termine da Freud, che con esso indicava l’oggetto di un primo mitico godimento, di un soddisfacimento pieno e impossibile; oggetto quindi che è essenzialmente perduto, ma la cui perdita lascia una traccia nell’apparato psichico del soggetto.

Lacan valorizza il termine caricandolo di una serie di connotazioni e gli conferisce così un ruolo strategico. Lo si può osservare già richiamando alcune delle numerose espressioni utilizzate da Lacan per caratterizzare la Cosa e che permettono di cominciare a delinearne la funzione e lo statuto: «È attorno al Ding come Fremde, estraneo, e talvolta anche ostile, ma in ogni caso come il primo esterno, che si orienta tutto il percorso del soggetto» [40]; «Altro assoluto del soggetto» [41]; «Das Ding è originariamente ciò che chiameremo il fuori significato» [42]; «il termine estraneo attorno a cui ruota tutto il movimento della Vorstellung» [43]; «Das Ding, infatti, è proprio al centro nel senso che è escluso. […] Questo Altro preistorico impossibile da dimenticare […] che mi è estraneo pur essendo al centro di me» [44]; «interno escluso che […] si trova così escluso all’interno» [45]; «fondamentalmente velata» [46]; «quel luogo centrale, quell’esteriorità intima, quell’estimità che è la Cosa» [47].

Das Ding sta dunque a indicare qualcosa di essenzialmente estraneo (in quanto straniero e straniante, non in quanto indifferente) per l’esperienza dell’io: è il primo esterno, l’altro assoluto del soggetto, che rimanda a un tempo letteralmente «preistorico», anteriore a tutta la storia del soggetto, in quanto passato primordiale che non è mai stato presente. Questo «altro» è quindi irriducibile anche alla dinamica del principio di piacere, alle leggi dell’inconscio strutturato come linguaggio, così come all’ambito del significato, all’esperienza come totalità di significati per un soggetto: la Cosa è «fuori significato». Che la [40] J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 61.

foto-gunnar-smoliansky-1976

gunnar-smoliansky-1976 – «che cos’è una cosa?», «in che cosa consiste la cosalità delle cose?»

Cosa sia un’estraneità radicale non significa tuttavia che essa non riguardi il soggetto o meglio che il soggetto non sia riguardato da essa: proprio nella sua estraneità la Cosa condiziona in modo decisivo il soggetto, diventando il centro di gravità attorno a cui ruota tutta la sua attività inconscia, rappresentativa e linguistica; un centro che tuttavia non è esso stesso rappresentabile, non si dà come tale, rimane velato. Da qui le espressioni ossimoriche e paradossali che Lacan è condotto a utilizzare, come «interno escluso che […] si trova così escluso all’interno» ed «estimità»: la Cosa è simultaneamente esteriorità e intimità, è un’esteriorità e un’alterità intima al soggetto, e questo significa che quel che è più intimo al soggetto si rivela essere un’estraneità radicale ad esso. La Cosa non è «centro» in quanto fondamento, perché questo centro è essenzialmente un vuoto: l’esperienza del soggetto si struttura e si muove attorno a un vuoto, che, alle spalle di esso, ne calamita e mette in movimento l’attività rappresentativa e quindi il desiderio.

Questo rimando al vuoto ci conduce al secondo riferimento essenziale che Lacan richiama nella sua analisi della Cosa, vale a dire la famosa conferenza di Heidegger intitolata precisamente Das Ding, La cosa, tenuta nel 1950 [48].

Heidegger pone qui la questione semplice e insieme decisiva «che cos’è una cosa?», «in che cosa consiste la cosalità delle cose?», cercando di pensare il darsi della cosa al di qua delle categorie scientifiche, ontologiche e metafisiche tradizionali: la cosa come oggetto rappresentato per un soggetto, come sostanza, come risultato di una produzione, come materia fisica quantificabile. Heidegger sviluppa la sua analisi con l’esempio della brocca e si chiede che cosa faccia della brocca una brocca, cioè innanzitutto un recipiente che contiene e in cui possiamo versare qualcosa. La parete e il fondo della brocca sono ciò che impediscono al liquido di uscire, ma non sono ciò che propriamente realizza l’atto del contenere:
Quando noi riempiamo la brocca, nel riempimento il liquido fluisce nella brocca vuota. È il vuoto ciò che, nel recipiente, contiene. Il vuoto, questo nulla nella brocca, è ciò che la brocca è come recipiente che contiene [49].

È il vuoto che propriamente riceve il liquido e che fa della brocca un recipiente. Il vuoto, «questo nulla nella brocca», struttura la brocca come tale: la brocca, in un certo senso, è il proprio vuoto. Il vasaio che crea la brocca, allora, propriamente non fabbrica la brocca, né si limita a dare forma all’argilla: egli dà forma al vuoto. Per esso, in esso e da esso egli foggia l’argilla in una forma. Il vasaio coglie [fasst] anzitutto e costantemente l’inafferrabile [das Unfassliche] del vuoto e lo produce come il contenente [das Fassende] nella forma del recipiente [Gefäss]. Il vuoto della brocca determina ogni movimento della produzione. La cosalità del recipiente non risiede affatto nel materiale di cui esso consiste, ma nel vuoto, che contiene [50].

Indicando il vuoto come ciò che rende la brocca quel che è, Heidegger non si limita a operare uno scarto rispetto a una comprensione scientifica o comune della cosa. Il vuoto è un «nulla nella brocca» e questo significa che quel che fa essere una cosa non è a sua volta una cosa, non è dell’ordine dell’ente, ma è l’altro dall’ente e da ogni determinazione oggettiva: il nulla, di cui il vuoto è qui una figura.

41 Ivi, p. 62.
42 Ivi, p. 64, corsivo nostro.
43 Ivi, p. 67.
44 Ivi, p. 84.
45 Ivi, p. 119.
46 Ivi, p. 141.
47 Ivi, p. 165.
48 M. Heidegger, Das Ding, in Id., Vorträge und Aufsätze, HGA 7, 2000; tr. it. di G. Vattimo, La cosa, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 109-124. Sul rapporto Lacan-Heidegger a proposito di questa tematica cfr. M. Recalcati, La Cosa e la verità. Attraversare Heidegger, cit.
49 Ivi, p. 112.
50 Ivi, p. 113

16 commenti

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16 risposte a “Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a distanza Derrida-Heidegger-Linguaglossa (pp. 65/72) con le risposte a Pasquale Balestriere e a Lucio Mayoor Tosi – Uno stralcio sulla Cosa (Das Ding) da uno scritto di Roberto Terzi, Poesie di Fritz Hertz (Francesca Dono) e Carlo Livia 

  1. Rossana Levati

    Mentre leggo la pagina odierna così ricca di stimoli, che ci offre riflessioni particolarmente dense sul compito della poesia che “ è appunto questo: indicare, alludere, richiamare il silenzio di prima del linguaggio, quel silenzio che è l’essere stesso, che è il linguaggio dell’essere” , penso alla specificità della percezione artistica del Vuoto e dell’Essere, al linguaggio che ci fa esperire il mondo, che fonda gli enti, che è al tempo stesso la nostra “trappola” in quanto ci vincola al presente ma ci può rimandare ad un “prima” del Linguaggio stesso, e ravviso questi stessi aspetti anche al di fuori del linguaggio “poetico” in senso stretto , per esempio in questa prosa di Manganelli.
    Non solo “la stanza, l’abisso e l’inferno”, come si dice nel finale del racconto, ma lo stesso Linguaggio, a mio avviso, è una mirabile invenzione atta a difenderci dall’orrore di “essere sospesi nel vuoto”, orrore dal quale in altri modi non sapremmo difenderci.

    GIORGIO MANGANELLI , “CENTURIA” N. 21 (Adelphi)

    “Ad ogni risveglio, il mattino – un risveglio riluttante e che si potrebbe definire pigro – il signore inizia con un rapido inventario del mondo. Da tempo si è accorto che ogni volta si sveglia in un punto diverso del cosmo, anche se la terra che è suo abitacolo non appare estrinsecamente mutata. Da bambino, egli si era persuaso che, nei moti attraverso la spazio, la terra passa talora nei pressi o addirittura all’interno dell’inferno, mentre non le è mai concesso di passare all’interno del paradiso, perchè tale esperienza renderebbe impossibile, superflua, irrisoria, ogni ulteriore prosecuzione del mondo. Quindi il paradiso deve evitare la terra ad ogni costo, per non ferire i piani accurati e incomprensibili della creazione. Anche ora – uomo adulto, che guida un’automobile di sua proprietà – qualcosa di quella ipotesi infantile non l’ha lasciato. Ora egli la ha lievemente laicizzata, e la domanda che si pone è più metaforica e apparentemente distaccata: egli sa che, durante il sonno, tutto il mondo si è spostato – come dimostrano i sogni – e che ogni mattino i pezzi del mondo, siano o meno impegnati in una partita, sono diversamente collocati. Egli non pretende di sapere quel che significa questo spostamento, ma sa che talora avverte la presenza di abissi, tentazioni di strapiombi, o rare, lunghe pianure per le quali vorrebbe rotolare – gli accade di pensare a se stesso come a un tondo corpo celeste – a lungo; talora ha una confusa impressione di erbe, altre volte una sensazione eccitante ma non di rado sgradevole, di essere illuminato da più soli, non sempre reciprocamente amici. Altre volte ascolta nitido un fragore di onde, che possono essere tempesta o accalmìa; altre volte ancora è la sua propria posizione nel mondo che gli si svela brutalmente: ad esempio, quando mascelle crudeli ed attente lo stringono alla nuca, come deve essere accaduto innumere volte ai suoi antenati sfiniti tra i denti di belve di cui non hanno mai visto il volto. Da tempo ha imparato che non ci si sveglia mai nella propria stanza: ha, anzi, concluso che non esiste stanza, che pareti e lenzuola sono una illusione, una finta; sa di essere sospeso nel vuoto, di essere, lui come ogni altro, il centro del mondo, dal quale si dipartono infiniti infiniti. Sa che non potrebbe reggere a tanto orrore, e che la stanza, e perfino l’abisso e l’inferno, sono invenzioni intese a difenderlo.”

  2. Copio e incollo da facebook questa poesia di Fritz Hertz -Francesca Dono

    caro tesoro – una poesia di Fritz Hertz

    Caro tesoro, sono uscito presto. A voce bassa. Velocemente come un ladro.
    In cucina lascio due mele . Sulla sedia inclinata il tailleur di lana verde . La sveglia ha suonato mezzo secolo. Nel frattempo mi sono rasato e spogliato sotto il neon per ben tre volte. Avevo la saponetta di sempre.
    Il solito rumore della scala.
    Caro tesoro , c’è modo di svegliare questo sonno?
    Le foche battono la fiacca. Tutti chiedono il tuo mondo. Non avrai (per caso) scordato il nostro amore? Agamennone è qui. Sul selciato del vicino di casa. Dal rovescio della notte in pieno giorno. Tu lo capisci _ vero?

  3. gino rago

    Talmente vasta è l’opera “Critica della Ragione Sufficiente” di Giorgio Linguaglossa che per poterne parlare con credibile attendibilità interpretativa non resta che adottare l’accostamento al libro per frammenti, per glosse, per stralci, anche in forma di intervista, su pochi, fra i tantissimi presenti nel libro,
    e precisi temi da isolare, come nella intervista di oggi. Una parte di Critica della Ragione Sufficiente s’incardina sulla questione dell’assenza di grandi domande nella nostra poesia degli ultimi anni (su cui sto ancora lavorando),
    grandi domande come:

    “dove passerai l’eternità?” (Z. Herbert)
    “chi erediterà questo mondo? (Ewa Lipska)
    “come si fa a entrare nella storia?” (EL)

    O questa che si pone, e ai lettori pone, C. Milosz ( “Della civiltà terrestre che diremo?”) nella poesia ‘Notizia’ (segnalata dall’acuta Rossana Levati) che propongo ai frequentatori de L’Ombra…”

    Notizia (C. Milosz)

    Della civiltà terrestre che diremo?

    Che era un sistema di sfere colorate, di vetro affumicato,
    Dove si avvolgeva e svolgeva il filo di liquidi luminescenti.

    O un agglomerato di palazzi raggiformi
    Svettanti da una cupola coi portali inchiavardati
    Dietro cui camminava un orrore senza volto.

    E che ogni giorno si gettavano i dadi, e a chi capitava un numero basso
    Veniva condotto al sacrificio: vecchi, bambini, ragazzi e ragazze.

    O forse diremo così: che abitavamo in un vello d’oro,
    In una rete iridescente, nel bozzolo di una nuvoletta
    Appeso al ramo di un albero galattico.
    E questa nostra rete era intessuta di segni:
    Geroglifici per l’occhio e l’orecchio, anelli d’amore.
    E risuonava al suo interno un suono, che ci scolpiva il tempo,
    Il tremolio, il garrito, il cinguettìo della nostra favella.

    E con che cosa potevamo tessere il confine
    Fra il dentro e il fuori, la luce e l’abisso,
    Se non con noi stessi, il nostro caldo respiro,
    Il rossetto, lo chiffon e la mussola,
    Col battito, che quando tace muore il mondo?

    O forse della civiltà terrestre non diremo nulla.
    Perché cosa fosse non lo sa realmente nessuno.

    C. Milosz

    GR

  4. Rossana Levati

    Alle grandi domande proposte o disattese dalla poesia contemporanea evidenziate da Gino Rago ne vorrei aggiungere almeno una: “Come l’arte rappresenta la vita?” connessa a un’altra più grande: “Qual è il senso dell’arte?”, e vorrei proporre questo testo di G. Ritsos:

    Esortazione

    Battaglie e battaglie; – sei stanco ormai. Resta qui,
    dunque,
    un poco prima della fine. Dimentica. Chiudi gli occhi, per
    incontrare in fondo a te stesso
    l’altro buio conciliatore. Poi alzati di nuovo a scolpire nella pietra
    belle scene, per l’ultima volta, come quelle sullo scudo
    d’Achille.
    Intanto, vedi di scegliere le più insignificanti, -per
    esempio gli araldi
    sotto le querce, stanchi; i soldati che preparano la cena;
    il re piegato in silenzio sul suo scettro; un giovane
    che scende dalla collina gridando – la bocca aperta
    senza il grido. Le donne siedono sulle soglie guardando
    laggiù, lontano, o dentro se stesse, con un sorriso dolce di perdono
    per la fine di un altro giorno, della seccatura di far da
    mangiare e di pulire –
    i vestiti sono lavati e stirati nel cassetto; la scopa
    pulita anch’essa, dietro la porta; le brocche piene;
    la lucerna appesa al chiodo del muro; sotto il tavolo
    l’ombra del tavolo come un gran cane nero – non
    scodinzola;
    la stella della sera nell’angolo destro del cielo; – adesso
    possono guardare
    senza biasimo o rimorso i fiori del giardino; i vetri che
    s’accendono
    o le belle ragazze e i ragazzi che ballano nella piazza
    quando in file contrapposte, quando in rapide giravolte,
    come
    il vasaio gira il suo tornio per provarlo.
    Questa scena lasciala per ultima – è giusto così
    tu lo sai – il ballo dei giovani; – perché domani al levar
    del sole
    inizia la grande festa dei morti- nemici e amici. E di
    nuovo il viaggio
    con Elena tutta ricoperta dei suoi pepli d’argento.

    24 giugno 1969
    (da “Pietre, ripetizioni, sbarre”)

    A chi sia rivolta questa “esortazione” non è dato saperlo: sembrerebbe rivolta a un imprecisato artista-scultore, ma anche si potrebbe dire che lo scultore è il sostituto del poeta/artefice, colui che “fissa” nella sua arte i dettagli del mondo: i dettagli più insignificanti, come la voce narrante del suo doppio (il poeta) lo esorta a scegliere, con l’invito a sprofondare nel “buio” conciliatore di se stesso, che è un “altro” buio rispetto al normale buio del sonno/riposo. Tra la stanchezza di una fine prossima (la fine dell’artista, ma forse anche la fine del mondo, adombrata nella morte dell’arte), tra battaglie e battaglie, tutto ciò che è fissato dall’arte appare stanco: stanco il re, piegato in silenzio, emblema di un potere inutile, che forse non entrerà nella storia ma ne uscirà; stanchi gli araldi/aedi, che non hanno più nulla da dire o celebrare; stanco il giovane che scende dalla collina e che apre la bocca in un grido che l’arte non può riprodurre; il mondo sembra pronto per una nuova giornata (le brocche piene, la scopa pulita dietro la porta), ma non si può sapere se quella giornata ricomincerà domani; l’ombra del tavolo infatti si allunga sotto il tavolo: più vero il tavolo o più vera la sua ombra? (la domanda è inespressa…).
    L’ultima cosa da esprimere nell’arte-scultura, l’ultimo compito riservato all’artista è la danza dei giovani: un movimento circolare, quello dell’eterno ritorno, come circolare è il movimento del tornio, altro emblema dell’artista creatore raffigurato nel vasaio: il tornio, come il movimento della spola dell’arazzo, che va su e giù, è in Ritsos sempre immagine della creazione artistica, del poeta che intesse il movimento dei suoi versi, su e giù nel foglio.
    Ma tutto il lavoro si realizzerà solo perché domani ricominci “la grande festa dei morti – amici e nemici”, come ci viene svelato nel finale. Solo perché domani tutto ricominci, o tutto muoia: “è giusto così”, tutto può ricominciare, nell’arte come nella vita, e tutto – in bilico nel mondo – può finire.

  5. gino rago

    I poeti, lo specchio, l’occhio incrinato del tempo

    Giorgio Linguaglossa

    “Dimmi qualcosa sullo specchio.
    Cosa c’è dietro?

    Non lo so.
    Forse dovresti guardare cosa c’è davanti… allo specchio.”

    Ewa Lipska

    Lo specchio

    “Cara signora Schubert, mi capita di vedere
    nello specchio Greta Garbo. E’ sempre più simile
    a Socrate. Forse la causa è una cicatrice sul vetro.
    L’occhio incrinato del tempo. O forse è solo una stella
    che sbraita nel vaudeville locale.”

    GR

  6. Adeodato Piazza Nicolai
    BULLDOG CON UOMO
    ,

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/02/06/gino-rago-stralci-del-libro-glossa-a-critica-della-ragione-sufficiente-verso-una-nuova-ontologia-estetica-intervista-a-giorgio-linguaglossa-progetto-cultura-2018-pp-512-e-2100-dalla/comment-page-1/#comment-30756
    sembra un dipinto minimalista.
    Ogni giorno attraverso la Via Franzela,
    vado a prendere il solito giornale.

    Un vecchio bulldog mi vede, si ferma,
    mi segue ed incomincia a sacramentare.

    Anche l’uomo sa ululare contro l’Altro,
    contro se stesso, la vaga luna e madre natura.
    Sa lamentarsi contro la iella e la fortuna.

    La gazza ladra gorgheggia in cima al pioppo,
    picchia la pioggia anche se manca il picchio
    in questo prato primaverile infangato …

    Mi manca il fiato. Ritorno a casa senza pensieri
    anche se un certo dovere m’attende, irrequieto.
    Cervello vuoto, cuore stanco. penso ai figli
    lontani… Pesante il pantano sull’erba.

    La nebbia infittisce/zittisce il sogno, non lascia
    un segno del mio passaggio nell’arida landa.
    Il bulldog abbaia al mio ritorno…

    © Adeodato Piazza Nicolai

  7. Guglielmo Peralta

    Se è il vuoto che fa della brocca un recipiente, allora, allo stesso modo è il vuoto che riceve i mobili, l’arredamento, che fa della stanza una stanza, un “recipiente”. E ancora, in poesia, soprattutto, è il vuoto, che riempiamo di significati, che fa della parola un “recipiente”. La parola è, dunque, la “brocca” che contiene ciò che fa di essa un “recipiente”: il vuoto che la colma di significati.

  8. donatellacostantina

    Che cos’è una cosa? Che cos’è che fonda la cosalità della cosa?, si chiedeva Heidegger. Ed io rispondo, ma è chiaro, è il vuoto…

  9. Ogni linguaggio poetico ha una propria Grundstimmung (tonalità emotiva dominante). Ogni poesia ha una propria tonalità e ogni abitante nel nostro mondo ha un proprio modo di sperimentare la propria estraneità a noi stessi e ogni poeta espropria questa estraneità per trasferirla nel linguaggio poetico. Si tratta di un esproprio dunque, e non di una riappropriazione di alcunché. Il linguaggio poetico è lo specchio che ci mostra il vero volto della nostra estraneità a noi stessi, lì non è più possibile mentire e non è più possibile dire la «verità». Forse, in questa antinomia viene ad evidenza la scaturigine profonda della metafora silente: l’impossibilità di dire la «verità». Nella metafora silente si ha l’ammutinamento di tutte le metafore e la silenzializzazione di esse, viene ad esistenza linguistica il silenziatore della verità e della menzogna, l’essere la metafora silente e le metafore tutte, fumo linguistico, un segnale di fumo e nient’altro. Il nostro «abitare spaesante» il linguaggio è la precondizione affinché vi sia linguaggio poetico, giacché non v’è possibilità di adire al linguaggio poetico senza questa pre-condizione soggettiva. C’è un esercizio dell’«abitare poeticamente il mondo» che è la precondizione affinché vi sia un linguaggio poetico, ma noi non sappiamo in cosa consista questo «abitare poeticamente il mondo» e non potremo mai scoprirlo. In questo «abitare spaesante» il linguaggio si ha un abbandono e un ritrovarsi, un trovarsi che è un abbandonarsi in ciò che non potrà mai essere né abbandonato né ritrovato, perché se lo trovassimo cesserebbe l’abbandono e se lo abbandonassimo lo potremmo sempre ritrovare per davvero e non c’è maieutica che lo possa ricondurre dalle profondità in cui questa condizione è sepolta. Non c’è maieutica che ci possa garantire l’ingresso nel portale del poetico, giacché esso non è un dato, né un darsi, ma semmai è un ritrarsi, un oscurarsi. L’entrata in questa radura di oscurità apre all’Ego la dimensione illusoria del linguaggio poetico, essendo l’illusorietà il parente più prossimo in quella linea genealogica che collega il linguaggio poetico al «dire originario» del quale abbiamo smarrito per sempre il filo. Allora, non resta che accettare tutto il peso del gravame di cui ci diceva Nietzsche per gettarlo a mare come inutile zavorra e alleggerirci alla massima potenza, accettare di impiegare i resti e gli scampoli, gli stracci e i frantumi quali elementi consentanei alla nostra condizione esperienziale.
    Allora forse occorre abolire e abitare in un medesimo tempo la distanza che ci separa da noi stessi per adire ad un linguaggio più interno a noi stessi. Abitare una condizione esperienziale e abolirla subito dopo averla esperita è la risultanza paradossale del nostro essere nel mondo.

    Lettura di una poesia di Donatella Costantina Giancaspero

    Intorno ad una diversa ontologia delle parole.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/02/06/gino-rago-stralci-del-libro-glossa-a-critica-della-ragione-sufficiente-verso-una-nuova-ontologia-estetica-intervista-a-giorgio-linguaglossa-progetto-cultura-2018-pp-512-e-2100-dalla/comment-page-1/#comment-30787

    Un giorno una poetessa mi disse che cercava di non leggere la poesia di alcuni autori contemporanei perché si sentiva minacciata da «quelle parole» che piombavano sulla pagina con la forza posticcia del magnete dell’io che, nella sua strategia difensiva ed auto organizzatoria, si pone sempre in ascolto di ciò che più gli garba e che non collide con le esigenze di auto organizzazione dell’io, perché non v’è mai stato un canto sepolto e originario di cui sarebbe da trovare il bandolo di una matassa sfuggita di mano… occorreva invece, mi disse, una diversa pratica della poesia, una pratica che fosse una distanziazione, un prendere le distanze e un allontanamento da quelle pratiche totalizzanti e totalitarie che vogliono assoggettare la parola al governo autoritario di una linearità sintattica oggi insindacabile e oggi invece ingovernabile in quanto presuppone una concezione totalitaria dell’io, e che al contrario occorreva sindacare, interrompere, ripudiare, porre tra parentesi quel tipo di costruzione attanziale in quanto posticcia, prodotto del lavoro dell’io, superfetazione dell’io, epifenomeno dell’io posticciamente posto… occorrerebbe, al contrario, lavorare sull’io per interromperne il collegamento al segno linguistico referenziale e referenziato che una certa tradizione ci ha consegnato in eredità. Ma, come fare? Come fare per uscire da questo circolo vizioso che ci riporta inevitabilmente al «canto sepolto e originario»?, seduttivo sì, ma fittizio in quanto facente parte della strategia difensiva e auto organizzatoria dell’io?

    Occorre allora introdurre nella costruzione una de-costruzione, nella letteralizzazione una trans-letteralizzazione, nella contestualizzazione una trans-contestualità che interrompa lo scorrere frastico del tempo sintattico unilineare, che lo ostacoli e ne mini l’ordine prestabilito dal logos autoritario ma con il quale la «nuova poesia» non ha nulla da spartire né condividere. In questa diversa pratica delle parole è indispensabile introdurre una distanziazione da esse e tra di esse allo scopo di giungere ad una «altra» fisicità delle parole, a una più vera fisicità delle parole. In fin dei conti la letteralità è una convinzione e una convenzione che può essere accerchiata, destituita e rimossa.

    Improvvisamente, ciò che ci appariva nella sua enorme pesantezza, si rivela invece come liberatoria, le parole possono venire alla luce libere, senza dover attraversare quelle paratie difensive, quei muraglioni intimidatori che le vorrebbero respinte e respingenti. E allora scopriamo che quella «pesantezza», come diceva Nietzsche, si è convertita in «alleggerimento», il peso più grande è diventato il peso più piccolo, l’arroganza di certe parole è diventata mitezza, abitabilità. È il peso del linguaggio che qui è in questione, quel peso che è diventato insopportabile e produce afasia… Ed è inevitabile che quando un universo di parole collassa, sorgano anche le nuove parole di un altro universo… Così, non resta altro da fare che operare un ripiegamento, una ritirata ad un’altra posizione posta più indietro, ad una distanza di sicurezza, dietro l’io che ci sorveglia e incute pesantezza; indietro, molto più indietro, prossimi alle parole più fragili; rinunciare a tutte le posizioni acquisite, alle posizioni di comodo, rinunciare alle rendite parassitarie… E allora, «ripieghiamo in direzione del bar»…

    Donatella Costantina Giancaspero

    Ripieghiamo in direzione del bar

    Ripieghiamo in direzione del bar, sul margine di un autunno.
    Le suole obbediscono al selciato, che marcisce tra piovaschi
    e smottamenti di luce tra le crepe.

    Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
    verso l’inverno.
    Camminano con noi fino alla meta. Poi,
    li lasciamo andare.
    Lasciamo anche il rifugio delle tasche,
    in quell’istante che apre la porta agli occhi rievocativi
    e agli specchi.

    Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
    senza risposta alla domanda «quanto zucchero?».

    Sai, delle piccole cose non sono più tanto sicura, ormai:
    vado un po’ per tentativi…

    Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone.
    E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.
    Nel fondo, resta il dubbio.

    *

    Nous replions vers le bar, en marge de l’automne.
    Nos semelles obéissent au terrain, qui pourrit entre averses
    et éboulements lumineux au fond des crevasses.

    D’un bloc à l’autre, les passants acheminent le crépuscule
    vers l’hiver.
    Ils marchent avec nous vers le but. Et puis,
    nous les laissons aller.
    Nous laissons aussi le refuge des poches,
    en cet instant qui ouvre la porte aux miroirs
    et aux yeux qui se souviennent.

    Les voilà appuyés au zinc, en silence, -devant, le café que tu m’as offert-
    sans répondre à la demande “combien de sucre?”.

    Des petites choses, tu sais, je ne suis plus tellement sûre, désormais,
    je procède un peu à tâtons

    Un sourire opaque, en réponse, de la glace derrière le banc.
    Et la gorgée pleine, avec un arrière-goût d’inaptitude. (ou impuissance)
    Tout au fond, reste le doute.

    (traduzione di Edith Dzieduszycka)

    Abitare la lontananza

    L’ordine del senso è straniero all’ordine dell’essere. Poiché il fine del significante è anticipare il senso, la poesia di Donatella Costantina Giancaspero evita accuratamente di indicare il significante o un significante purchessia, perché esso sarebbe la dimostrazione di un senso, anche se improbabile e purchessico; e lo evita abolendo sia l’«io» che il «tu», istituendo soltanto la terza persona singolare e il riflessivo. Abolendo le figure pronominali l’«io» e il «tu» che non designano null’altro che un circuito tautologico interno alla proposizione; la poesia ci induce a ritenere che dobbiamo accettare il vivere nella contraddittorietà quale enigma profondo del reale; dunque la sua assoluta incoglibilità. Non è possibile cogliere il reale. L’illusione è il reale che si guarda allo specchio. Ciò che è vicino è lontano, e viceversa. La contraddittorietà dell’esistenza è la negazione del relativo, ogni momento del nostro esserci è abitato dalla contraddittorietà, ma ogni momento si rivela essere incontraddittorio. Come può accadere tutto ciò? Com’è possibile che non ci sia nulla di relativo quando noi siamo?. È perché noi siamo l’Assoluto, come una piramide, dove la punta di essa è unita in un sol blocco alla base orizzontale: l’orizzontale è unito in ogni momento della nostra esistenza al verticale come la punta alla base, come la stella all’orizzonte. L’Assoluto che è un Nulla. L’assoluto che è in noi è l’incontraddittorio che si scopre essere un crogiolo di contraddittorietà. La lontananza è inospitale al pari della vicinanza, anch’essa inospitale, entrambi luoghi abitati dalla contraddittorietà, e quindi incontraddittori. Nella sfera dell’esserci il principio di non contraddizione non vale neanche un centesimo: il «tutto» è contraddittorio in quanto incontraddittorio, al pari della carlinga dell’io, questo bozzolo di incoglibile auto contraddittorietà. Per questa ragione, non c’è luogo più contraddittorio dell’esistenza dell’esserci, non c’è luogo più contraddittorio del «frammento», che è il postino della contraddittorietà universale. Ecco spiegata la ragione della inospitalità dell’ospitale: perché non c’è luogo più inospitale di quello che noi indichiamo come il più ospitale ed accogliente. Il frammento è la nostra Itaca. È nostro destino farvi ritorno da vecchi e scoprire un’isola di sterpi, di cespugli secchi e di cicoria. Forse, un giorno quando soggiorneremo su Marte potremo avere nostalgia della Terra. Ma non adesso. L’io è nascosto nella propria negazione. Anche l’illusione dell’io è schermata da un’ombra, l’ombra della incoglibilità.

    • donatellacostantina

      https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/02/06/gino-rago-stralci-del-libro-glossa-a-critica-della-ragione-sufficiente-verso-una-nuova-ontologia-estetica-intervista-a-giorgio-linguaglossa-progetto-cultura-2018-pp-512-e-2100-dalla/comment-page-1/#comment-30815
      Mi rispecchio senz’altro in questa analisi di Giorgio Linguaglossa, soprattutto quando parla di “decostruzione”, una parola difficile, indefinibile secondo lo stesso Derrida, poiché essa non sottostà ad un ordine categoriale, a una legge ordinatrice che possa qualificarla concettualmente. Vorrei soffermarmi su questo argomento. Derrida dice che “decostruzione” non è una «buona parola» ed è «insoddisfacente», perciò evita di definirla; «la decostruzione non è neanche un atto né un’operazione. Non solo perché ha in sé un che di ‘passivo’ o di ‘paziente’(…).Non solo perché non dipende da un soggetto (individuale o collettivo) che se ne assuma l’iniziativa e la applichi a un oggetto, a un testo, a un tema, ecc. La decostruzione ha luogo, è un evento che non aspetta le deliberazione, la coscienza o l’organizzazione del soggetto, né della modernità». Pertanto, con la decostruzione, ogni parola detta, scritta, esposta, è immediatamente e insieme anche sempre “dis-detta”. Dunque, a mio parere, la decostruzione, applicata alla scrittura, restituisce alla parola la sua massima libertà. La parola della decostruzione intacca tutto ciò che chiama in causa e nomina: in tal modo assistiamo a un decentramento semantico di tutto ciò che è “detto”. Questo processo conduce, a mio parere, a quell’«alleggerimento» della parola di cui parla Giorgio Linguaglossa, e determina un universo semantico «altro», un universo che gravita dietro l’«io», in un luogo «non-luogo», dove tutto è possibile, perché non esiste più alcun tipo di opposizione.
      È in questo non-luogo che io desidero collocare la mia poetica, in un universo che sia in continua de-costruzione, dove sia vanificata ogni opposizione e, in primo luogo, l’opposizione dei pronomi «io» e «tu». In questa mia poesia l’opposizione è superata da un generico «noi», un «noi» che può essere, al tempo stesso, tutti e nessuno. Questo perché ciò che è molteplice è unico e viceversa. Giorgio dice che «dobbiamo accettare il vivere nella contraddittorietà quale enigma profondo del reale; dunque la sua assoluta incoglibilità. Non è possibile cogliere il reale». Io andrei oltre: se reale e illusione non sono più opposti, è possibile cogliere il reale nell’illusione e viceversa. L’illusione non è meno vera della realtà. Perciò “Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone” può essere realmente quel sorriso opaco. Così il dubbio è certezza e la certezza è dubbio.

  10. Posto tre poesie di un poeta, Francesco Gallieri, “La trascendenza del π”

    I – Geometria

    Punto,
    che contiene tutte le forme,
    primigenio,
    ma che non puoi conoscere,
    non puoi misurare.
    Per la misura occorre un movimento,
    un atto che proceda alla manifestazione.
    Il risultato è la linea,
    proiezione del punto all’esterno di sè,
    da potenzialità ad atto compiuto.
    Il moto arriva – con infinite possibilità – a un nuovo punto.
    Il movimento del nuovo punto,
    indissolubilmente legato al primo,
    non può che generare un cerchio.
    Il cerchio è unità conclusa in sè,
    racchiude l’unità perfetta del punto di origine,
    non ha inizio nè fine, semplicemente è,
    ed è misura di tutte le cose.

    II – Campo di punto zero

    Nella misteriosa fisica dei quanti
    quattro salti all’indietro e uno avanti
    se credi che il vuoto
    indeterminato
    sia privo del vigore ed energia
    di strane coppie che incessantemente
    si distruggono l’un l’altra
    nel balletto
    virtuale ma reale,
    vibrando alla frequenza
    che più gli fa piacere,
    non sei aggiornato,
    informato,
    up-to-date.
    Non capisci
    che l’energia di punto zero
    è la più bassa possibile in natura
    ma integrata
    è la più grande enorme e spaventosa
    che un volume possa contenere.
    Se sei confuso
    puoi sempre rivolgerti alla rete,
    che ti chiarirà,
    al passo coi tempi,
    quanto fuorvianti
    fossero Newton Einstein Darwin e Descartes,
    ti farà capire il mistero del residuo,
    delle tue memorie, credenze,
    insegnamenti animici,
    la falsità dei dogmatici sostenitori
    del principio di conservazione
    e di tutta la termodinamica.
    O no?
    Abbi fede.

    III – La morte e il cavaliere

    Ma quanto è giusto e vantaggioso
    cercare un cavallo
    per fuggire a Luz, Samarra, Isfahan o Samarcanda
    “se i piedi di un uomo sono responsabili per lui,
    e lo portano nel luogo
    dove egli è atteso?”
    ( Salomone, Talmud babilonese )
    Non è forse più sensato
    pensare con Pascal
    che sia più nobile
    accettare di dover morire,
    e scoprire, amico mio,
    che in ciò consiste
    la vera dignità?

  11. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/01/05/la-nuova-ontologia-estetica-la-nuova-poesia-dialogo-tra-giorgio-linguaglossa-e-mario-m-gabriele-una-poesia-inedita-di-giorgio-linguaglossa-il-quadridimensionalismo-il-senso-maurizio-ferrar/comment-page-1/#comment-17069
    FORSE VIVIAMO TUTTI ALL’INTERNO DI UN OLOGRAMMA GIGANTE

    Fisici di tutto il mondo stanno iniziando a pensare: che quello che noi vediamo come un universo tridimensionale potrebbe essere l’immagine di un universo a due dimensioni proiettato lungo un enorme orizzonte cosmico. Sì, è roba da pazzi. La natura tridimensionale del nostro mondo è il fondamento del nostro senso della realtà tanto quanto l’idea dello scorrere del tempo. E ora, alcuni ricercatori tendono a credere che le contraddizioni tra la teoria della relatività einsteiniana e la meccanica quantistica potrebbero essere conciliate se considerassimo ogni oggetto tridimensionale del nostro mondo come la proiezione di minuscoli byte subatomici contenuti in un mondo piatto.

    Il principio olografico è stato postulato per la prima volta più di 20 anni fa come una possibile soluzione al famoso paradosso dell’informazione del buco nero di Stephen Hawking.” (Il quale sostiene, essenzialmente, che i buchi neri sembrano inghiottire informazioni, cosa impossibile secondo la teoria dei quanti.)

    Ma se il principio non è mai stato formalizzato matematicamente per i buchi neri, il fisico teorico Juan Maldacena ha dimostrato diversi anni fa che l’ipotesi olografica reggeva per un tipo di spazio teoretico chiamato spazio anti de Sitter. A differenza dello spazio del nostro universo, che su scala cosmica è relativamente piatto, lo spazio anti de Sitter ha una curvatura interna che ricorda una sella.

    Il Direttore del Fermilab Center for Particle Astrophysics Craig Hogan ha recentemente ipotizzato che il nostro mondo macroscopico sia come uno “schermo video a quattro dimensioni” creato da pezzetti simili a pixel di informazioni subatomiche trillioni e trillioni di volte più piccoli degli atomi. Ai nostri macroscopici occhi, qualsiasi cosa sembra a tre dimensioni. Ma esattamente come avvicinare la faccia allo schermo fa sì che i pixel diventino visibili, se scrutiamo abbastanza a fondo nella materia a livello subatomico, la bitmap del nostro universo olografico potrebbe rivelarsi.

    A questo punto. Se questa definizione di spazio è corretta, allora, come per qualsiasi computer, la capacità di contenere e processare dati dell’universo è limitata. Inoltre, questo limite si porterebbe dietro segnali rivelatori—il cosiddetto “rumore olografico”—che possiamo misurare.

    Come ha spiegato Hogan a Jason Koebler di Motherboard, se davvero viviamo in un ologramma, “l’effetto primo è che la realtà ha un numero di informazioni limitato, come un film su Netflix quando la Comcast non ti da abbastanza banda. È tutto un po’ sfocato e a scatti. Niente resta fermo, mai, si muove sempre un pochino.”

    Il rumore della banda della realtà, si può dire, è esattamente ciò che sta cercando di misurare il laboratorio di Hogan, usando uno strumento chiamato Holometer, che è fondamentalmente un puntatore laser molto grande e potente.

    È come se il nostro mondo tridimensionale + il tempo fosse all’interno di quattro specchi che riflettono il tutto.

    Ecco, io nelle mie poesie ultime tento di cogliere con sottilissime antenne il «vuoto». Ciò che per gli altri esseri umani è il «pieno», per me altro non è che una variante del «vuoto». Le figure retoriche individuate con acutezza da Giusepe Talia, che qui ringrazio, sono un prodotto della nuova visione del mondo (e della poesia) che sto mettendo in piedi. Francamente, mi ero annoiato della poesia che hanno scritto i poeti del Novecento italiano ed ho cercato in una nuova direzione. Esattamente in una nuova concezione dell’ontologia poetica. In base alla considerazione che non c’è nuova poesia senza una nuova concezione dell’ontologia poetica.

    Faccio una poesia brutta? Anzi, facciamo io Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb e altri della nuova ontologia estetica una poesia brutta? Non ci interessa, a noi interessa fare poesia in base ad un nuovo concetto di «realtà».

  12. LA NUOVA ONTOLOGIA POETICA
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/01/05/la-nuova-ontologia-estetica-la-nuova-poesia-dialogo-tra-giorgio-linguaglossa-e-mario-m-gabriele-una-poesia-inedita-di-giorgio-linguaglossa-il-quadridimensionalismo-il-senso-maurizio-ferrar/comment-page-1/#comment-17085
    premesso che sono un apprendista filosofo, ritengo che non sia immediatamente utile parlare del «frammento» come il risolutore del fare poesia. Il «frammento» è importantissimo, ma bisogna intendersi DI CHE COSA il frammento è lo «specchio». Da questo punto di vista, ci rendiamo conto che il «frammento» non è così semplice da afferrare, altrimenti tutti diventeremmo poeti e pittori e scrittori, ma è un qualcosa che c’è e non c’è, per afferrare il «frammento» io penso che dobbiamo ricorrere al concetto di messinscena. Non c’è «frammento» senza messinscena. Il «frammento» è ragguagliabile ad un attore tra tanti attori che, tutti insieme, rendono possibile una messinscena.

    Noi sappiamo che la realtà non è il reale per Lacan. La realtà è il reale coperto dall’immaginario e dal simbolico. La freccia che va dall’Immaginario al Simbolico è la freccia del senso. La dimensione della verità implica il rapporto tra immaginario e simbolico. La verità si dà come simbolizzazione dell’immaginario. Ogni volta che accade la simbolizzazione dell’Immaginario c’è effetto di verità. Ecco, io direi che il «frammento» è ciò che rende possibile la simbolizzazione, e tramite di essa, il significato, e quindi il senso. È come un treno composto di tanti scompartimenti, di tanti vagoni. Non ci sarebbe il treno se non ci fossero gli scompartimenti.

    Andare alla ricerca del «frammento» è come andare alla cattura di farfalle senza l’acchiappafarfalle. Ad un poeta che per tutta la vita ha pensato e poetato in modo tradizionale non ci sarà «frammento» che tenga, non ci sarà dimostrazione filosofica che sia ritenuta sufficiente. E qui la penso come Mario Gabriele. Credo invece più sensato approcciarsi al problema del «frammento» dal punto di vista di una nuova ontologia estetica, qui sono tutti i valori ad essere cambiati. In questo senso parlare di metro, verso, rime, associazioni di assonanze e di rime e di tanto altro è semplicemente privo di senso; nella nuova ontologia estetica siamo fuori della vecchia ontologia novecentesca. Questo è il punto. È che per un tolemaico non sarà mai possibile pensare in termini di un copernicano. In questo senso credo che il divario tra la poesia classica del Novecento e questa che stiamo scandagliando è massimo, non c’è alcun punto di intesa, o si sta di qua, o di là.

    gino rago

    5 gennaio 2017 alle 19:25

    Lucio,
    se poetica è intenzione d’arte dell’Autore ed estetica è dottrina della percezione del reale, passando dalle due categorie al reale fare poetico
    per frammenti non restano molte vie da percorrere se non quelle di:
    – ri-valutare già il titolo del componimento la cui importanza può essere decisiva per fare coincidere il sole dell’autore con il sole del lettore;
    – ripudiare l’Io poetante se l’io stesso si è disgregato fino a smettere d’essere l’unità di misura degli eventi e della Storia; a meno che l’io
    non si percepisca che vada dall’hic et nunc al periechon, dall’intimo quotidiano all’universale;
    – ri-sentire il fattore tempo;
    – resistere alle lusinghe degli avverbi;
    – usare tappi di cera negli orecchi per non cedere al richiamo delle sirene degli aggettivi;
    – rifondare la pregnanza dei sostantivi;
    – affidare il proprio linguaggio alla forza del punto fermo;
    – dare a ogni verso una propria compiutezza;
    – rivolgersi per come si sa e si può fare al mito per aggirare l’indicibilità della realtà contemporanea, una matrice per acqueforti deturpate;
    – superare il linguaggio come strumento di trasmissione del pensiero e della emozione nell’atto poetico in modo che sia lo stesso linguaggio
    in grado di generare significati nuovi, irripetibili…
    E’, caro Lucio, il viaggio intrapreso senza conoscere la meta; ma già il viaggio e il voler viaggiare contano non meno della meta…
    Gino Rago

    Lucio Mayoor Tosi

    5 gennaio 2017 alle 19:59 Modifica

    Sono d’accordo. Così, su due piedi, mi viene da aggiungere solo la rivalutazione del punto e virgola; che poi significa, ma senza ammetterlo, che si sta adottando la prosa… come una serva, perché così fanno i poeti. Al che Sagredo avrebbe da obiettare, lui che il frammento lo fa con le metafore – in parallelo con Bertoldo, anche se Roberto va per altre strade.
    Ma che avete detto al convegno di Roma?

  13. antonio sagredo

    conoscete Gesualdo da Venosa?

    metafore? frammenti?
    fatevi trasportare e basta

    ——————————————————————————————-
    a Gesualdo da Venosa

    madrigale ve (le) noso

    Il capezzale di una donna non amai fittizia alcova o reale
    solo l’insana malattia di una melancholia carnale mi sedusse.
    Liberai commosso i carnefici esiliati dai rastrelli della mente.
    Il castello dei merli fu più di una malattia ascetica: una quinta!

    La fuga generò una kermesse di cinque voci e semitoni,
    una carezza della nemesi celebra ossessa atti indicibili,
    il procardio vomitò esausto il cromo di straziate note:
    vola -su –seno-doge … vola-su-seno-doge… vola-su…

    Con gli occhi dei liuti ho cantato i carmi di un Orazio esterrefatto,
    le mie labbra normanne gonfie come nere vele dal favonio,
    pentagrammi di artigli e ombre assolate sul leggio infame.
    La mia vita fu santa, sublimata dall’inchiostro, e dai delitti!

    antonio sagredo

    Vermicino, 3 ottobre 2008

  14. Pingback: Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a d

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