Beloslava Dimitrova POESIE SCELTE da La natura selvaggia Arcipelagoitaca, 2016 – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Il quotidiano c’è ma come messo in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato – La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio 

Grafiche di Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Helle Busacca

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Beloslava Dimitrova nasce il 2 aprile 1986 a Sofia, Bulgaria. Per alcuni anni ha lavorato alla radio nazionale bulgara come conduttrice di un programma pomeridiano orientato ai giovani ascoltatori; dal dicembre 2016 lavora come giornalista per il sito “Sofia Live”. Alcune sue poesia sono state pubblicate su varie testate telematiche. Nel 2012 pubblica il suo primo libro di poesie, Inizio e fine edito dalla Casa editrice dell’Università di Sofia. Nell’aprile 2014 esce la raccolta di versi La natura selvaggia (ed. Deja Book).

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il quotidiano c’è ma come messo in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato – La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio

Non la poesia è in crisi ma la crisi è in poesia. Il mondo è andato in frantumi. È andato in frantumi il principio di identità, quella identità  si è poi scoperto che era una contraddizione e una contraffazione e il soggetto non può che percepire i frantumi di quella presunta identità come altamente contraddittori e conflittuali. Lo stesso Severino, il filosofo per eccellenza della identità, ha rilevato che porre A=A è ammettere che A sia diverso da A. che cioè l’identità implica in sé la diversità e la non-identità. Anche Derrida invocava a pensare l’orizzonte della rimozione come dell’accadere di un evento, secondo «una nuova logica del rimosso». L’epoca in cui la crisi è in crisi, richiede alla poesia risposte nuove, che si affranchino dalle risposte che sono già state date; pensare l’orizzonte della parola come un orizzonte del rimosso, una parola che anche quando la riusciamo a profferire, risulta in sé divisa in schisi, solcata dalla scissione, dalla confusione tra il nome e la cosa…

Gli oggetti esterni sono percepiti frantumati, al pari degli oggetti interni. Anche il metro della poesia ne è uscito frantumato, il metro della Beloslava, per eccellenza. Per il fatto di avere questa relazione doppia con se stesso, il soggetto ha finito per girare sempre intorno all’ombra errante del proprio «io», ci gira intorno dall’esterno, lo circumnaviga, sospettoso e distratto. Quello che qui si presenta è l’allestimento di varie scene nelle quali il soggetto e l’oggetto sono irrimediabilmente separati da se stessi come in preda a una diplopia, figura essi stessi della loro schisi, della loro deiscenza all’interno del mondo – quell’oggetto che per essenza distrugge l’«io» del soggetto, che lo angoscia, che non può raggiungere, in cui non può trovare alcuna riconciliazione, alcuna aderenza al mondo, alcuna complementarità. Tra «oggetto» ed «io», tra «soggetto» ed «io» si è instaurata una scissione, una Spaltung, è cresciuto un muro divisorio che diventa sempre più alto e spesso.

La poesia di Beloslava Dimitrova eredita tutta questa frantumazione del frammento, questa polverizzazione dell’«oggetto» e del «soggetto». E questa è la sua forza, la forza percussiva delle sue icone ridotte ai minimi termini dell’azione semantica.

Ho avuto paura di morire
ho avuto paura di impazzire
ho avuto paura di uccidere qualcuno

La dialettica dell’infelicità ha inizio con l’auto alienazione originaria, quella che abita il linguaggio dall’origine. Da qui, dice Lacan, dallo stadio dello specchio deriva l’auto alienazione dell’uomo. È da qui che si struttura ogni futuro rapporto dell’homo sapiens con il proprio simile e con se stesso. L’io alienato allo specchio, l’io «ortopedico», come lo chiama Lacan è questo tutto immaginario speculare al non-tutto del corpo in frammenti e del mondo in frammenti, espressione del qui e ora del soggetto infans, quel medesimo soggetto che diventerà il soggetto locutorio, il soggetto falsificatorio della poesia moderna da Baudelaire in poi che la poesia di Beloslava Dimitrova eredita con il beneplacito dei poeti eufonici ed eugenici. Così, ogni parola pronunciata dall’«io» non può che sortire inferma, falsificata; anche la parola più amorevole, più inerme.

Nello stadio dello specchio si situa la forma inaugurale del soggetto in quanto «io». L’«io», dirà Lacan, «si precipita in una forma primordiale». Prima del linguaggio, del linguaggio parlato dal soggetto, si dà già questa struttura cerimoniale dell’io del soggetto che svela quanto la costituzione del soggetto sia avvinta all’Altro, alla sua cattura divaricante, quella forma speculare che introduce la rappresentazione come «linea di finzione» in cui trova posto l’«identità». La funzione dell’Altro così come si svolge nello stadio dello specchio illustra nient’altro che l’«io» come finzione, allestimento scenico, palcoscenico vuoto. E questa dialettica, infinitamente debitrice della dialettica servo-padrone hegeliana, ci porta a scoprire, nello sguardo rivolto all’altro, la dimensione che soggiace alla funzione dell’io, alla sua strutturazione immaginaria, quella del desiderio come desiderio di riconoscimento, prima formulazione del desiderio in Lacan.

La linea di demarcazione della autoalienazione taglia in diagonale la poesia di Beloslava Dimitrova conferendole quel suo tipico «taglio» chirurgico, quei polinomi frastici tagliati ossessivamente, netti e precisi e altalenanti, come decapitati di tutto il sovrappiù, di tutti gli esotismi eufonici ed episodici. La «natura selvaggia» viene ad essere attraversata da una infermità, dalla auto alienazione diventata nuova natura, seconda natura. Paradossale perversione che la Dimitrova rileva con la precisione di una risonanza magnetica.

Sono stata disperata per anni
sono stata creata per conforto alla fine degli anni 80
sono stata una tortura per me stessa

Mihail Ajvaz e Kjell Espmark

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La nuova poesia europea non può non occuparsi di questa questione, che diventa ogni giorno più ingombrante e dispotica: l’impossibilità di abitare un luogo, uno spazio, un tempo, qualsiasi luogo, qualsiasi spazio, qualsiasi tempo senza toccare con mano ed avvertire questa revulsione che principia dalla materia e dalla stessa materia del nostro corpo per infine dilagare in ogni zona delle nostre dimensioni. Questo è un problema filosofico ed una condizione esistenziale che la poesia di Beloslava Dimitrova affronta con coraggio. La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio dove si celebra il rito tautologico della ripetizione ossessiva dei medesimi gesti maniacali quando, improvvisamente, ci si accorge che siamo in una automobile che corre su una strada in compagnia di nostro padre, in un non luogo di sottile lamiera, impegnati in un non-dialogo, in un non-luogo per eccellenza direbbe Lyotard. Ed è lì che accadono delle cose bizzarre, ultronee:

un’auto lungo la strada
l’autista è mio padre
incontriamo un disastro
un vero fallimento
dell’umano
abbiamo molta fretta
procediamo velocissimi
per evitarlo
entra comunque in auto
si siede sul sedile posteriore
ci trasporta su di un fiume
con mio padre siamo in una barca
il nostro compito è contare
i coccodrilli sulla costa
uno due tre quattro
cinque sette
c’è pericolo reale
che ci mangino mentre contiamo
lui dice

La poesia della Dimitrova pesca nelle profondità dell’inconscio, ma l’Inconscio non è un abisso. L’inconscio non è un flusso di energia cieco, esso è piuttosto il luogo in cui qualcosa accade e in cui cadono, sotto la spinta della rimozione, le rappresentazioni di cose, rappresentanze pulsionali, rappresentazioni cieche perché non munite di parola, che consistono «nell’investimento, se non nelle dirette immagini mnestiche della cosa, almeno nelle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini», scrive Freud ne La metapsicologia (1915).

L’inconscio, ci suggerisce Freud, è un sistema di tracce (tracce mnestiche), e non impronte, si noti, da cui si originano rappresentazioni di cose. La differenza, adesso, tra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia consiste, ribadisce Freud, in due distinte trascrizioni di uno stesso contenuto.

Ci troviamo di fronte a un punto nodale: la distinzione tra Sachevorstellung e Wortvorstellung serve per comprendere come sia possibile la comunicazione tra i vari apparati psichici. Seguiamo ancora Freud, per il quale la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inconscio contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con rappresentazioni verbali.

In altre parole, ciò che consente al sistema inconscio di spingersi nella coscienza, di «farsi sentire» nelle sue varie forme sintomatiche è un progresso nella rappresentazione, una concatenazione di rappresentazioni che tende ad associare alla Sachevorstellung una Wortvorstellung.

«I processi ideativi, cioè quegli atti di investimento che sono i più lontani dalle percezioni, sono in se stessi privi di qualità e inconsci e acquistano la capacità di diventare coscienti solo connettendosi ai residui delle percezioni verbali» 1

L’inconscio non è l’inconoscibile. L’inconscio si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, sogni; il suo manifestarsi consente quanto meno di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi in carne ed ossa; eppure è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficiale ma lo concerne nel suo stesso, nel suo più radicale essere.
L’inconscio è un inter-detto, esso non ha nulla dell’oscurità, dell’abissale o di una qualsiasi sorta di magma pulsionale feroce e muto. L’inconscio è sì muto, ma solo perché in esso sono presenti unicamente Sachevorstellung. L’inconscio pensa, ma pensa-cose. l’«io», pensa, ma pensa parole. E qui l’inconscio incontra il quotidiano. Il quotidiano c’è ma come in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato in porzioni farmaceutiche («la voce di tua madre dal corridoio / il rumore delle ciabatte trascinate»). Ecco, tutti i luoghi della Dimitrova sono in realtà dei non-luoghi, dei luoghi onirici, o meglio, dei luoghi ricostruiti oniricamente e poi decostruiti razionalmente. Direi che qui siamo davanti ad una poesia in vitro, priva di temporalità: i personaggi e i luoghi sembrano essere stati abbandonati dalla temporalizzazione, che vivano privi di temporalità; certi titoli e certi incipit sono emblematici di questa condizione esistenziale di assenza di parole temporalizzate: «Per gradi affoghiamo nel vuoto», «Fetus», «In due», «avvelenamento», «Due», «Orca», «Malata», «Silenzio».

1 Freud Sigmund Metapsicologia trad. it. Boringhieri,

Beloslava-Dimitrova-9-photo-by-Antonia-Antonova

Beloslava Dimitrova

 

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Sciocchi

Il mondo era pieno di padri – dunque pieno di miserie; era pieno di madri – dunque anche pieno di perversioni di ogni tipo – dal sadismo alla pudicizia; era pieno di fratelli, sorelle, zii e zie – dunque pieno  anche di follia e di suicidi.

Aldous Huxley, Il mondo nuovo (Brave New World)

un’auto lungo la strada
l’autista è mio padre
incontriamo un disastro
un vero fallimento
dell’umano
abbiamo molta fretta
procediamo velocissimi
per evitarlo
entra comunque in auto
si siede sul sedile posteriore
ci trasporta su di un fiume
con mio padre siamo in una barca
il nostro compito è contare
i coccodrilli sulla costa
uno due tre quattro
cinque sette
c’è il pericolo reale
che ci mangino mentre contiamo
lui dice
fosse stato un rito antico
mi avrebbe insegnato qualcosa
mi dico va be’
non avere paura
l’hanno fatto
generazioni prima di noi
io faccio la mia parte
io sono solo una persona
questi sono i miei avi
non mi accorgo
che ci hanno circondati
che ormai spingono la barca
il quarto rosicchia il remo
il primo mi guarda sa
proprio dove e come
trovare il sangue
e non ci siamo aggrappati
l’uno all’altra e contiamo

alcuni minuti dopo
mi volto guardo
il sedile a sinistra
quando tutto è finito
quello seduto lì
non è più nemmeno
mio padre

Natura

realmente nessuno è stato ucciso
ognuno salta volontariamente
alcuni figli molto bravi
sono divenuti tossicodipendenti
i pazzi si arrampicano sulle pareti
avanzano con movimenti rotatori
questo non ha alcun senso
non ho svegliato nessuno
prendi questo veleno
avvicinalo alla tua bocca
mentre sei incinta
ti supplico

Natura #2

la rete era
aggrovigliata sapevo
che qualcosa mi sarebbe potuto capitare
d’improvviso appare un essere a sangue caldo
gli sono dentro
posso morire
Beloslava Dimitrova CoverIn due

la nostra unione
ora non è più
fratellanza
ordine cavalleresco
cavalchiamo, io e il mio compagno
due cavalli bianchi
mentre attraversiamo
boschi mari montagne
con uno sbadiglio dico
odio tutti
siamo felici
avanziamo pensiamo alla terra
alle generazioni siamo insieme
è così confortevole
così tanti spazi
abbiamo popolato
così tanta aria
abbiamo respirato
che ormai non ricordiamo più
ci abituiamo e mentiamo perciò
viviamo insieme
lui mi accarezza la schiena
spera che mai ci lasceremo
perché allora dovrebbe farlo
lui
i nostri averi non saranno più di entrambi
dovremmo dividere
tutto in parti uguali
non è così difficile
rimangono solo rovine
mentre cavalco il mio cavallo bianco
mi accorgo
di avere stretto
troppo con gli speroni
e durante tutto il tempo lui
non ha smesso di sanguinare

Gatto

[…]
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;

l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.

Dante Alighieri,
La Divina Commedia, Inferno, Canto XXV, vv. 146-151

ho sonno o sogno
lo racconto così
dormo profondamente
poi qualcuno o qualcosa mi sveglia
vedo un gatto nero
vecchio ma vivo
accanto a me è distesa un’altra persona
dorme
il gatto mi guarda
si gira io sono prona
comincia a correre furioso in diagonale
rispetto al letto si ferma
prima avrei detto
che tutto questo è divertente gaio giocoso
d’un tratto il gatto decide di fermarsi
sulla mia faccia con le zampe anteriori e posteriori
forma un semicerchio
veloce gratta con gli artigli
proprio adesso mi rendo conto
che questa è la mia punizione
poi ritorna nell’angolo opposto
l’uomo accanto a me non si sveglia
so che accadrà ancora
arriva di nuovo
tutto graffia con le sue zampe
fa 200 giri al minuto
poi si ritira
mi guarda di nuovo
capisco che non ho più faccia
che uno dei miei occhi si è come sciolto
che ormai non si parla di sangue
ma di muco
l’uomo accanto a me ne è completamente imbrattato
si continua
strillo imploro tento la fuga
diventa sempre più forte
si fonde con me entra
con tutte le sue parti in me
cerco di calmarmi
salta gira si getta ancora
ormai non esisto più né esiste l’uomo accanto a me
anche visti da un’altra prospettiva
saremmo irriconoscibili
è chiaro che non si tratta comunque di un uomo
ora siamo due
ci alziamo dal letto
andiamo
e cerchiamo te

Essere umano

a A.

mi trovo a 2130 metri di altezza sul livello del mare
in altre parole sono seduto sull’abisso del mondo
tutto è ricoperto di vulcani e gеysers
che vomitano vapore acqueo e acqua infuocata dallo zolfo
e di nuovo mi ricordo e ti chiedo come siamo arrivati a questo
punto
rigiro la roccia ti indico
ti mostro il letto pieno di batteri
caldo e poco profondo l’ambiente è lo stesso
spero che questa volta che non sopraggiungano improvvisi
cambiamenti
che non ci siano complicazioni e mutazioni
che alla fine si chiuda
che le pinne dei pesci
non mutino
in arti
che non escano dall’acqua serpenti e rettili
che ad alcuni di loro non crescano le piume
che non diventino volatili
che il miracolo dell’evoluzione non accada
che non appaia l’uomo
che non appaia di nuovo
che sia soltanto io che apparire

Osip Mandel’stam e Steven Grieco Rathgeb

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———– p. 59-60

Mi sono ricordata di nuovo la fine
ogni scena a seguire, una dopo l’altra
eravamo in una Roma
piovosa
Mi hai abbracciata di fronte alle rovine
e la storia di queste non sapevo
Mi hai baciata di fronte alla Fontana
mentre gettavo la moneta
ho aperto gli occhi
Hai pianto senza di me alla tomba di Keats
mentre io ero da Shelley
poi sola ho pianto
di fronte all’Angelo della tristezza
mi hai fatto una foto senza che io volessi
di fronte alle chiese gemelle di Santa Maria
poi con te sono entrata
mentre c’era una veglia
hai detto «Tranquilla si può entrare»
e sapevi che ho sempre avuto paura dei morti
poi soli in quel ristorantino biancorosso
con le foto delle gambe della Loren
ti ho detto che
a volte era come non ti conoscessi
e all’improvviso sei divenuto triste
ognuno soffriva solo,
per se stesso
е tu hai chiuso a chiave l’amore dicendo
«a Roma ognuno dovrebbe essere solo»
Mi sono ricordata i lucchetti
uniti arrugginiti insieme
fioriti sull’isola dell’Angelo

Mi addentro

Ho scritto della mia paura
ho scritto di quello che è
capitato alla mia famiglia
mio fratello malato la dipendenza
il mio squilibrio pericoloso
il dissolvimento del più grande e del più piccolo

Sono stata disperata per anni
sono stata creata per conforto alla fine degli anni 80
sono stata una tortura per me stessa

Ho avuto paura di morire
ho avuto paura di impazzire
ho avuto paura di uccidere qualcuno

A volte, ma sempre con forza, mi sono ricordata di mia nonna
per il suo armadio con saponi zucchero e farina
hanno bombardato la sua anima
e il primogenito della famiglia è nato morto in prigione

E collera e paura sono germogliate
non sapevo cosa ne avrei fatto
per questo le ho raccolte dentro
non potevo buttarle via
non mi hanno aiutata né le medicine
né la terapia più economica a Sofia
né la società pseudo democratica in cui sono cresciuta

Infatti una volta una volta sola
ho avuto sollievo dalla sofferenza ereditata dalla mia famiglia
quando per la prima volta ho visto gente che scappava in un
                                                                                                 [campo
ero di fronte al televisore con la mano e la mente paralizzate

Allora li ho visti come correvano, come si salvavano
come gli istinti si sono svegliati
ho guardato nel profondo con insistenza
ho dimostrato coraggio mi sono presa per il collo
qualcosa ho cominciato a comprendere

Ho visto una barca in cui hanno messo un bambino
e la madre ha spinto la barca
Ero io quel bambino?
Eri tu quel bambino?

Francesca Dono Cover alta definizione

26 commenti

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26 risposte a “ Beloslava Dimitrova POESIE SCELTE da La natura selvaggia Arcipelagoitaca, 2016 – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Il quotidiano c’è ma come messo in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato – La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio 

  1. Francesca Dono

    amo molto questa poesia.

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  2. Beloslava Dimitrova POESIE SCELTE da La natura selvaggia Arcipelagoitaca, 2016 – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Il quotidiano c’è ma come messo in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato – La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio 


    Beloslava Dimitrova è una poetessa giovane,le cui qualità avranno tempo e occasione per proporsi al meglio, quando il suo modello espressivo si sarà attestato su posizioni più quiete:tali da consentirle di non assecondare tanto la piena dell’ispirazione momentanea,quanto aspettare che il tempo faccia il suo “labor limae”,lasciando tracce forse meno evidenti, ma più durevoli e sottili.

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  3. gino rago

    Beloslava Dimitrova POESIE SCELTE da La natura selvaggia Arcipelagoitaca, 2016 – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Il quotidiano c’è ma come messo in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato – La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio 


    Leggo i versi di Beloslava Dimitrova e ripiombo, anche con piacere, nelle
    atmosfere della Beat Generation e in quelle di Lawrence Ferlinghetti delle
    Poesie Politiche, in particolare, o di Jack Kerouac (“Potrei diventare un
    grande anfitrione ghignante/ come uno scheletro/ Impiccato al cielo”).
    Mi sembrano versi – Giorgio Linguaglossa coglie quest’aspetto nella ricca e ghiotta nota di presentazione – questi della Dimitrova che non vogliono
    rimanere ancorati al silenzio della pagina stampata, vogliono invece aria
    e strada. Vogliono farsi messaggi orali.
    Gino Rago

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  4. Beloslava Dimitrova POESIE SCELTE da La natura selvaggia Arcipelagoitaca, 2016 – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Il quotidiano c’è ma come messo in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato – La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio 


    Per essere dell’inconscio, sorprende per come il linguaggio scorre fluente, senza sbandamenti e senza il crack di una parola. L’evento è precedente alla scrittura ma è ben ricostruito. Molto coinvolgente. Complimenti.

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  5. Beloslava Dimitrova POESIE SCELTE da La natura selvaggia Arcipelagoitaca, 2016 – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Il quotidiano c’è ma come messo in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato – La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio 


    Il linguagggio dell’inconscio ha un suo modo diretto di scorrere che non coincide affatto con il linguaggio del conscio, tra l’uno e l’altro si insinua, anzi, si apre una divaricazione… Direi che il linguaggio poetico della Dimitrova preferisce il linguaggio dell’inconscio che è fatto in prevalenza di un certo tipo di discorso: il discorso indiretto e metonimico…

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  6. Beloslava Dimitrova POESIE SCELTE da La natura selvaggia Arcipelagoitaca, 2016 – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Il quotidiano c’è ma come messo in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato – La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio 


    Per quanto ancora poco si sappia della poesia di Francesca Dono, anche lei sembra andare nella direzione della Dimitrova; solo che Francesca non sembra interessata alla rappresentazione verbale delle “cose” dell’inconscio quanto, se mai, al loro puro accadimento. D’istinto mi vien da dire che è poesia pericolosissima, quella di Francesca, sconsigliabile almeno a chi guarda ancora all’inconscio con timore di follia. L’accostamento – sia chiaro, non è critico né letterario – tra Dimitrova e Dono, può essere utile per comprendere aspetti relativi all’abbandono dell’Io e alle conseguenze sul piano della psiche e del linguaggio. Sia la Dimitrova che la Dono operano la scissione tra pensare e rappresentare, ma nella prima la resa verbale dell’accadimento è ancora in relazione all’Io, nell’altra l’accadimento si fa parola, con quel che ne consegue dal punto di vista dell’oscurità. Per questa ragione ho scritto che nelle poesia della Dimitrova manca il “crack” della parola. Non a caso Francesca ha subito scritto ( sì, però, Francesca sforzati, altrimenti ha ragione Gino Rago quando t’invita a pronunciarti) “amo molto questa poesia. E Giorgio ha inserito, in chiusura dell’articolo, l’immagine del suo libro in prossima uscita.

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    • Francesca Dono

      hai ragione Lucio, ma spesso perdo i pezzi dei commenti. Non avevo neanche visto che Giorgio aveva chiuso l’articolo con l’anteprima del mio libro. Lo ringrazio molto per la sua pazienza e attenzione. Appena possibile leggerò tutto. A dire il vero non amo molto esprimermi in modo così diretto. Spero sia solo una questione di maturità nonchè di evoluzione mentale.Un abbraccio a tutti.

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      • vincenzo petronelli

        Cara Francesca,
        mi interesserebbe molto approfondire la tua poetica. Il tuo volume è già disponibile?
        Buona giornata.

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        • Francesca Dono

          Carissimo Vincenzo, credo sia a breve l’uscita del libro. Forse è già in stampa. Ti ringrazio per l’interesse. Buona giornata.

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        • Francesca Dono

          ti copio uno scritto mai pubblicato per darti un’idea.

          _semaforo di calce.
          Tre meccanici al rabbocco dell’olio.
          Io spingevo solo un po’ di anticristo verso la dogana di fine estate.
          Formiche senza zampe e con la pletora
          del supplizio nel dessert.
          Un trampolino. Il lancio degli avanzi al vento Sion.
          Lei mi dice: for how long?-
          Multistrati di aceri. Il bestiame sulla strada.
          Frequenzapuntododici con i fiori ultra-cangianti. Guardo
          il dipinto provenzale.
          Di nuovo la lampada smagliata. Madre Discendenza sulla lingua.
          Il suono nell’erba fa acqua.
          Dovresti piantare gli specchi dentro lo stomaco del serpente
          o passare le tamulghe*mutate attraverso la cabina solare.
          In nome delle cose.
          Sigari-pioggia.
          Uomini-zuava.
          Porcellane-frontiera.
          Chiudi la porta.
          Tra le piume e l’ombretto iposodico.
          Ci passiamo l’asciugamano bagnato da una chioma-carioca all’altra.
          Atena al tatto del mio collo.
          Inspira dalla serratura.
          Ugualmente l’altra parte di te non somigliante.
          Il blazer in lavanderia.

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          • vincenzo petronelli

            Cara Francesca, mi hai fatto un dono stupendo e ti ringrazio vivamente. Lo trovo un dono stupendo, non solo per il fatto che in generale trovo che donare poesia abbia di per sé un valore demiurgico, ma anche perché al di là di questa premessa, trovo i tuoi versi molto interessanti e stimolanti.Continuano a scorrermi ininterrotte davanti agli occhi le immagini della tua poesia e sono estasiato dalla tua capacità di dipingere immagini intense, di grande valore espressionistico e pregne di universi di significato, in cui l’apparente frammentazione del linguaggio trova in realtà un suo ordine cosmico. Per quello che leggo da questo brano si tratta davvero di poesia di grande valore e che per quanto mi riguarda mi spalanca un intero mondo di possibilità espressive, come del resto prerogativa della concezione poetica degli autori dell’Ombra. Complimenti vivissimi cara Francesca.Fammi sapere quando sarà pronto il libro.

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            • Francesca Dono

              va bene. Ti ringrazio. Scusami Vincenzo le poche parole, ma i complimenti mi imbarazzano . Questione caratteriale. Grazie ancora. Certo ti farò sapere.

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  7. USO E ABUSO DELLO ZAPPING NEL LINGUAGGIO POETICO DELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/24/beloslava-dimitrova-poesie-scelte-da-la-natura-selvaggia-arcipelagoitaca-2016-con-un-commento-impolitico-di-giorgio-linguaglossa-il-quotidiano-ce-ma-come-messo-in-vitro-in-un-alambicco-vivi/comment-page-1/#comment-19636
    Scrive Alessandro Alfieri in un saggio contenuto nel n. 28 di Aperture, 2012, la tesi del saggio indica una metodologia che ben si può applicare alla poesia di Francesca Dono come a quella, in senso più esteso, della Nuova Ontologia Estetica. In particolare, non si può afferrare la poesia di Francesca Dono se non si fa riferimento alla procedura dello zapping azionata mediante il telecomando. Tutti facciamo uso quotidianamente del telecomando, e tutti facciamo uso e abuso dello zapping, quindi tutti facciamo esperienza dell’uso di questo strumento apparentemente innocuo quale è il telecomando. Inutilmente, ho tentato per mesi di far capire a Claudio Borghi e al filosofo Inchierchia questo fatto: che la nuova poesia della nuova ontologia estetica non si può afferrare se non tentiamo di connettere esperienze diversissime e apparentemente lontanissime come l’uso dello zapping e l’impiego delle immagini nelle poesie ad es. mie, di Mario Gabriele, di Letizia Leone, di Mariella Colonna, di Francesca Dono, ma anche, direi, di Anna Ventura, di Giuseppe Talia e di Gino Rago pur se questi ultimi autori ne fanno un uso diverso, meno evidente.
    Torniamo allo scritto di Alessandro Alfieri:

    «L’immagine rinvia continuamente a ciò che è altro da sé, slitta il suo senso ad un’altra immagine che rimanda a sua volta ad altre innumerevoli immagini. In questo terreno multiforme e frammentato, in assenza di un punto centrale e statico, la riflessione è demandata continuamente al suo passo successivo; questo processo consente al pensiero di vivere, di non esaurirsi in una risposta conclcusiva, e di tenersi aperto all’indeterminato.
    Nella sua prima fase della sua ttività, Warburg aveva fiducia nella pratica logico-discorsiva per fare emergere tutto questo. Nei suoi scritti teorici, le sue argomentazioni erano volte a mettere in relazione l’immagine ad altre immagini. Descrivendo una tela del rinascimento, ci veniva narrata la stoaia di quella particolare figura o “formula del pathos” (Pathosformel), dove già fosse emersa, in che contesto e come fosse sopravvissuta fino a noi (Nachleben); così il rapporto tra immagine e immagine veniva spiegato attraverso un lavoro concettuale, storiografico, anche narrativo.

    Nella seconda fase Warburg deve avere provato una forte insoddisfazione nei confronti della capacità del discorso teorico di restituire questo complicato principio relativo alla natura dell’immagine. Deve aver compreso – o forse l’ha sempre saputo – che l’argomentazione logica dei suoi saggi presupponeva sempre una fase precedente di comprensione pre-logica, la fase “patica” della nostra conoscenza, con la quale abitiamo le cose che ci circondano e gli diamo senso… Si può capire facilmente come l’interesse di Warburg non fosse quello di dimostrare qualcosa, di partire da un’immagine A per risalire la sua storia e giungere ad un pnto B attraverso varie tappe. Le immagini sono in ordine “centrifugo”, si rimandano una all’altra secondo diversi vettori, e nessuna di tali immagini ha un valore conclusivo o dimostrativo; nessuna di esse ha un ruolo centrale o prioritario rispetto alle altre. L’importante, in queste tavole, è lo spazio, o “intervallo”, che viene compensato dall’attività di riflessione del fruitore. È dinanzi allo “stridere” di due immagini che il pensiero si mette in moto, rivelandone somiglianze e differenze, influenze e distacchi, ripetizioni e rielaborazioni, all’amersione di senso relativo all’immagine non si arriva per merito di una riflessione logico-deduttiva; non c’è un tragitto prestabilito che bisogna percorrere, di cui già si sa la destinazione e l’approdo finale.

    Tutte le immagini che compongono la singola tavola non hanno un tratto in comune per merito del quale potremmo fondare un concetto di quel determinato “engramma” o immagine. I frammenti si relazionano per somiglianza: c’è un tratto che ne mette in comunicazione due, un altro che mette in contatto la seconda con la terza immagine, senza che condivida questo elemento con la prima ecc. Mnemosyne, in questo senso, non è un lavoro di dimostrazione per tesi, quanto il tentativo di far emergere il senso dell’immagine, per il tramite di un’operazione di “montaggio”. Il senso emerge nel complesso e nello spazio che si apre al pensiero nell’interstizio dei frammenti».

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    • Grazie. In effetti il rapporto tra “frammento” e inconscio, dal punto di vista estetico-ontologico, non riveste particolare importanza. A meno che si voglia discutere di peculiarità soggettive. Si tenta un nuovo rapporto cosciente con il vuoto, che può certo riguardare anche l’inconscio, ma è tutt’altra cosa.

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  8. Francesca Dono

    dimenticavo copio e incollo quanto scritto a Giorgio tempo fa sulla mia poetica.

    Partendo dal presupposto che tutta la poesia è mistero, io scrivo alla ricerca di una probabile verità forse improbabile. Scrivo per guardare oltre l’apparenza e il razionale e il vuoto. Premetto che sono convinta di vivere in un continuum temporale costituito da fluttuazioni . E cosa e’ possibile tra un’onda e l’altra? Nello stesso momento puoi essere a destra e a sinistra e in alto e in basso . Quindi non hai luogo né tempo. Qualcuno potrebbe contraddirmi in questo? Chi potrebbe vietarmi di vedere o essere Argia piuttosto che Polinice? Chi potrebbe tagliarmi le ali per alzare altri mondi e altri paralleli con mille personaggi in altrettanti effetti prismatici? Io, l’alter ego. Tu, noi. Io che diventa lui o lei ossia un altro di tutti . Sempre in direzione della domanda fondamentale dell’uomo. Sempre per ogni contraddizione ad esso connessa. La frammentazione? Soltanto questo posso recuperare nel tutto . Ecco perché la lettera minuscola. Non c’è un inizio se quello che in me appare è senza tempo e in frammenti senza luogo. La creazione, in un certo senso, ci avvicina al divino o no? Forse la creazione stessa è un modo per incamminarsi lungo la via della conoscenza. La poesia come rappresentazione del mondo. I miei collegamenti ? Intuizioni che nascono dall’immagine e da ciò che affiora dal mio inconscio. Scrivo per immagini e per inquadrature fatte di metafore e strati che vagano asimmetrici e secondo lo spazio e la posizione dell’occhio . Questo è il mio linguaggio. Un linguaggio di continuo rimando. Poi, mio? Veramente non saprei fino a che punto. Non ho nessuna sicurezza a riguardo. In compenso ho molti dubbi. Nel dubbio e per la morte si può esistere?Forse . Così guardo il mondo greco con la nostalgia e il dolore di chi ha perduto la propria origine. Credo dovrebbero farlo in molti almeno per cercare di rendere migliore questa civiltà incivile. Infine la mia poesia non è sperimentazione.

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  9. gino rago

    Friederich Nietzsche (1844 – 1900) con “la morte di Dio” de La Gaia
    Scienza, ponendo l’accento sul nichilismo, stabilisce la fine della
    Metafisica, la caduta degli ideali, la perdita del “centro”, la
    frantumazione di antiche identità, l’esperienza del negativo e la
    impraticabilità di ogni sintesi dialettica e scientifica.

    Ciò stabilisce l’infondatezza della pretesa di guardare alla storia
    come a una serie di fatti. E così cade la pretesa scientista di leggere
    la storia.

    Nel postmoderno quindi il principio di fabulazione prende
    il posto del principio di realtà poiché non ci sono più fatti ma soltanto
    interpretazioni.

    Ma quando si verifica il passaggio dalla “modernità”
    alla “postmodernità”?

    Per Nietzsche tale passaggio si registra nello
    stesso momento in cui si prende atto del fatto che «non esiste la Storia,
    ma esistono solo storie».
    Quindi il postmoderno non vive nella storia ma vive in un presente
    astorico in cui il senso del tempo sta nella fruizione istantanea e ludica
    della società presente.

    Potremmo dunque inglobare i versi di Beloslava Dimitrova e di
    Francesca Dono in questa fase transitoria fra moderno e postmoderno…
    Nomino soltanto queste due voci di poesia (Dono-Dimitrova) perché con Lucio Mayoor Tosi e con Giorgio Linguaglossa di loro si sta qui parlando..
    Sono idee a più riprese e con chiarezza esemplare il fondatore de L’Ombra
    delle Parole ha proposto alla lettura e alle riflessioni dei frequentatori
    de L’Ombra.. Ma ripeterle forse giova.

    Gino Rago

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  10. Caro Gino,

    è molto semplice, per scrivere in frammenti bisogna pensare in frammenti, e non puoi pensare in frammenti se non hai incontrato miliardi di frammenti nella tua vita quotidiana e nella tua storia personale. Quindi capisco bene chi scrive alla vecchia maniera pensando (anzi non pensando) ad un metro che è sempre quello, alla parola che è sempre quella etc. non pensando che tutto quello che adottiamo in modo inconsapevole è morto già da tempo immemorabile. Oggi scrivere un romanzo o scrivere una poesia o dipingere una tela etc. sono attività da ripensare di sana pianta, occorre ribaltare di 180° il nostro punto di vista.
    Leggo tante opere, tutte bene educate ma morte, ingiallite, fiacche, tutte simili.
    Cosa dire?, ha ragione Francesca Dono a dire che lei non fa sperimentazione, lo sperimentalismo era già morto nel 1968… quello che è venuto dopo era un epigonismo di massa. Gli artisti veramente significativi lo avevano capito subito.
    Oggi noi viviamo una crisi strisciante delle società occidentali e una crisi mondiale con venti di guerre nucleari, spifferi di armi atomiche e chimiche, stragi e ci sono ancora persone alla Vivian Lamarque e Filippo Strumia che scrivono filastrocche. Incredibile, no? Quel linguaggio è fetido,, stupido, insignificante… non c’è bisogno di scomodare un critico per capire e dire certe cose, basta una persona normale, di normale intelligenza e fargli leggere quelle insignificanze…

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  11. gino rago

    Carissimo Giorgio,

    Lamarque-Strumia, e tutto il minimalismo milanese-romano, cui accosto
    tante altre esperienze di poesia di fine Novecento e di inizi del XXI
    Secolo della nostra poesia, ho il timore che nel fare poetico siano rimasti
    alla Pre-modernità, almeno sui concetti di spazio e di tempo poetici.
    Del resto, non si contano le volte in cui hai martellato su un punto cruciale
    del fare poesia che in sintesi può essere così espresso: “dimmi che uso
    fai del tempo e dello spazio e ti dirò che poesia puoi fare…”
    Per quegli autori, per quelle autrici di poesia ho solide ragioni per credere
    che spazio e tempo siano ancora quelli della Premodernità:
    – uno spazio come luogo antropologico di identità e di comunità;
    – un tempo scandito dai cicli della vita e dai ritmi delle stagioni
    (“moltissimo tempo per per percorrere grande spazio).
    Quindi, non solo non sfiorano la post-modernità, ma queste esperienze di
    poesia del tardo Novecento e dei primi anni del XXI Secolo non sono neanche entrate nella Modernità, almeno sul piano delle concezioni
    dello spazio e del tempo.. Come vorrei sbagliarmi.
    Gino Rago

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  12. gino rago

    Il potere del centro (Rodolph Arnheim): prossimo tema del Laboratorio Poesia
    Gratuito L’Altracittà, in Roma

    Premessa

    1 -“Questo lavoro nasce da un’unica idea, ossia che la nostra visione del mondo si fonda sull’interazione fra due sistemi spaziali, che possiamo definire cosmico e periferico. Sappiamo che la materia si organizza cosmicamente attorno a centri il più delle volte caratterizzati da una massa dominante. Entro l’immensità dello spazio astronomico le galassie ruotanti e i sistemi solari o planetari creano tali schemi centralizzati, e nell’ambito microscopico lo stesso accade per gli atomi, con gli elettroni che orbitano attorno al nucleo. Persino nel mondo della nostra esperienza diretta la materia organica e inorganica possiede una libertà sufficiente ad assecondare una tale inclinazione, configurandosi in strutture simmetriche attorno a un punto, a un asse, a un piano centrale. Anche la mente umana concepisce forme centriche, e i nostri corpi compiono danze intorno a un centro.”

    2 – ll passaggio dal paradigma dell’unità al paradigma della molteplicità con consapevolezza della pluralità e della polimorfia. Da qui le pratiche culturali della rottura, frammentazione, regionalizzazione, dissociazione, ibridazione. Nella postmodernità, tutto ciò non viene praticato con un senso di nostalgia o rimpianto per il passato ma viene valutato come un fatto positivo, segno della avvenuta maturazione dell’uomo. Qui sta una delle maggiori novità del postmoderno rispetto alle epoche precedenti.
    Frammentazione. Il postmoderno sconnette, scollega, valorizzando il frammento, la citazione, il rimando. Rifugge da qualsiasi forma di sintesi di tipo sociale, epistemica o culturale, da qualsiasi pensiero totalizzante e inglobante. Di qui la propensione per il bricolage, il collage, l’ibridazione, il paradosso, la paralogia.

    3 – Carissimo Giorgio,
    Lamarque-Strumia, e tutto il minimalismo milanese-romano, cui accosto
    tante altre esperienze di poesia di fine Novecento e di inizi del XXI
    Secolo della nostra poesia, ho il timore che nel fare poetico siano rimasti
    alla Pre-modernità, almeno sui concetti di spazio e di tempo poetici.
    Del resto, non si contano le volte in cui hai martellato su un punto cruciale
    del fare poesia che in sintesi può essere così espresso: “dimmi che uso
    fai del tempo e dello spazio e ti dirò che poesia puoi fare…”
    Per quegli autori, per quelle autrici di poesia ho solide ragioni per credere
    che spazio e tempo siano ancora quelli della Premodernità:
    – uno spazio come luogo antropologico di identità e di comunità;
    – un tempo scandito dai cicli della vita e dai ritmi delle stagioni
    (“moltissimo tempo per per percorrere grande spazio).
    Quindi, non solo non sfiorano la post-modernità, ma queste esperienze di
    poesia del tardo Novecento e dei primi anni del XXI Secolo non sono neanche entrate nella Modernità, almeno sul piano delle concezioni
    dello spazio e del tempo.. Come vorrei sbagliarmi.

    4 – Friederich Nietzsche (1844 – 1900) con “la morte di Dio” de La Gaia
    Scienza, ponendo l’accento sul nichilismo, stabilisce la fine della
    Metafisica, la caduta degli ideali, la perdita del “centro”, la
    frantumazione di antiche identità, l’esperienza del negativo e la
    impraticabilità di ogni sintesi dialettica e scientifica.
    Ciò stabilisce l’infondatezza della pretesa di guardare alla storia
    come a una serie di fatti. E così cade la pretesa scientista di leggere
    la storia.
    Nel postmoderno quindi il principio di fabulazione prende
    il posto del principio di realtà poiché non ci sono più fatti ma soltanto
    interpretazioni.
    Ma quando si verifica il passaggio dalla “modernità”
    alla “postmodernità”?
    Per Nietzsche tale passaggio si registra nello
    stesso momento in cui si prende atto del fatto che «non esiste la Storia,
    ma esistono solo storie».
    Quindi il postmoderno non vive nella storia ma vive in un presente
    astorico in cui il senso del tempo sta nella fruizione istantanea e ludica
    della società presente.
    Potremmo dunque inglobare i versi di Beloslava Dimitrova e di
    Francesca Dono in questa fase transitoria fra moderno e postmoderno…

    Nomino soltanto queste due voci di poesia (Dono-Dimitrova) perché con Lucio Mayoor Tosi e con Giorgio Linguaglossa di loro si sta qui parlando..
    Sono idee che, a più riprese, e con chiarezza esemplare, il fondatore de L’Ombra delle Parole ha proposto alla lettura e alle riflessioni dei frequentatori de L’Ombra.. Ma ripeterle forse giova.
    Gino Rago

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  13. Pingback: La natura selvaggia | ARCIPELAGO ITACA

  14. vincenzo petronelli

    Non riesco ad arrestarmi nella lettura dei brani selezionati di questa poetessa che sinceramente non conoscevo e sulla quale mi soffermo oltremodo volentieri anche per una mia particolare propensione verso la produzione poetica di quella parte d’Europa.Mi colpisce in particolare (come in qualche modo hanno già evidenziato Anna Ventura, Gino Rago e Lucio Tosi) il fluire scorrevole del linguaggio a fronte dell’estremo tormento interiore, che si solito conduce implicitamente ad un lavoro di “bulinìo” che talora rischia di diventare eccessivo, sfigurando la rappresentazione estatica della scrittura. Concordo pienamente con l’impressione riportata da Gino Rago sul richiamo (quanto meno evocativo) alle atmosfere più genuine di alcune voci della Beat Generation, mentre a differenza di quanto afferma Anna Ventura non ritengo (se ho ben interpretato il suo pensiero) questa mancanza di “filtro” come un limite, poiché credo al contrario che proprio in ciò risieda la sua freschezza.Grazie ancora una volta a Giorgio per averci fatto scoprire quest’ennesima perla.

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  15. Pingback: Poesie da La natura selvaggia, di Beloslava Dimitrova – DI SESTA E DI SETTIMA GRANDEZZA – Avvistamenti di poesia

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