Giorgio Linguaglossa
16 aprile 2017 alle 8:25
LA PRECARIETA DEL MODERNO L’OBLIO DELLA MEMORIA E IL GRANDE PROGETTO PER LA POESIA ITALIANA
Cara Mariella Colonna,
quello che tu hai scritto è importantissimo, perché mostra con chiarezza auto evidente la nostra piattaforma concettuale del Grande Progetto. In proposito, informo che ho sulla mia scrivania un mio lavoro psico-filosofico dal titolo eloquente: La precarietà del Moderno, nel quale inizio la mia investigazione filosofica dal 1972, dalla data di pubblicazione della poesia di Iosif Brodskij, Lettera a Telemaco, il primo documento poetico su quel fenomeno abissale che va sotto il nome di “Perdita della memoria”. Concetto che considero importantissimo per la Nuova Ontologia Estetica, perno centrale della nuova piattaforma. Voglio anticiparvi quanto ho scritto su questa poesia, perché la considero non soltanto una delle più belle del 900 ma anche un documento della crisi spirituale che ha inizio nel secondo Novecento. Buona lettura.

Alcuni poeti della NOE, grafiche di Lucio Mayoor Tosi
L’oblio della memoria
Nella poesia Odisseo a Telemaco del 1972 di Iosif Brodskij abbiamo il primo esempio di una poesia che abita la distanza inabitabile e inarrivabile. Una poesia sulla distanza. Non più una poesia su un luogo, un personaggio, un oggetto, vari oggetti; direi non più una poesia linguistica fatta di polinomi frastici che si organizzano attorno ad un nucleo tematico o intorno ad un «io» ingenuamente supposto effettivo ed effettuale come ci ha insegnato un certo novecento, qui siamo davanti ad una poesia argomentante che medita da una distanza fitta di temporalità e di spazi temporalizzati. Ormai nel nostro mondo gli spazi sono diventati troppo grandi, le temporalità si sono moltiplicate in modo vertiginoso e l’uomo si accorge che tutto ciò ha nuociuto alla sua memoria, e la memoria si è indebolita e poi dissolta. Il poeta russo si accorge che l’uomo della fine del novecento non può più abitare la distanza, alcun luogo della distanza, perché questa distanza è diventata abissale, vertiginosa e l’uomo non può che perdersi in essa e perdere la memoria, e con essa perdere la propria identità; la sua stessa ragione di vita non è più nel viaggio o nella ricerca dell’ignoto, come ancora era possibile da Odisseo fino a Brodskij, adesso tutto ciò non è più possibile. Anche il turista più irresponsabile può ingenuamente credere di abitare i luoghi che ha visto e conosciuto; alla fine del viaggio egli si scopre un estraneo a se stesso e a tutti i luoghi che ha frequentato, il viaggio è stato un allontanamento da se stesso e il protagonista di esso si scopre un estraneo, uno straniero. L’uomo del nostro mondo non può che prenderne atto, la sua condotta lo ha portato in prossimità di un pensiero nichilistico, in prossimità di un abisso, in prossimità di un orizzonte degli eventi. Forse mai nessun pensiero è stato così totalmente nichilistico come questo che Brodskij ci ha lasciato in eredità: l’uomo contemporaneo non può più abitare alcuna distanza, anzi, la distanza ha annientato la sua volontà di potenza, gli mostra il nulla di cui è fatta la sua esistenza. È questa la straordinaria scoperta di Brodskij. D’ora in avanti l’uomo dovrà fare i conti con se stesso, abituarsi all’idea di non poter più abitare alcuna distanza, il mondo è diventato troppo vasto e incomprensibile e inabitabile e la memoria, quel fragile vascello con i suoi marinai sperduti nel gurgite vasto, si è inabissata nel fondo del mare.
La guerra di Troia è finita ormai da tanto tempo che il protagonista, Odisseo,
non ricorda più chi l’abbia vinta. Il mondo è diventato ampio, talmente ampio che l’uomo ha perduto la concreta esperienza dello spazio («Dilatava lo spazio Poseidone») e del tempo («mentre laggiù noi perdevamo il tempo»), il ritorno è diventato problematico («la strada / di casa è risultata troppo lunga»). Non c’è più un «ritorno» poiché esso è possibile soltanto in un orizzonte dove il tempo e lo spazio possono essere conteggiati e vissuti, ma in un mondo debordante e ampio non è più possibile alcuna esperienza del tempo e dello spazio, e quindi della storia. La storia si è allontanata così tanto che la memoria vaga alla rinfusa alla vana ricerca di un appiglio, di un ricordo. Nel mondo di Brodskij la memoria ha perduto il contatto con la storia, e anche con la propria storia personale. Nel mondo vasto e globale tutti abbiamo perduto la memoria, è un accadimento che ci riguarda tutti, e il periscopio della poesia di Brodskij lo ha avvistato per tempo.
L’oblio della memoria
è una dimenticanza intesa non come fenomeno temporaneo ma duraturo, non dovuto a distrazione o perdita temporanea di memoria ma come stato stabile e duraturo, come scomparsa o sospensione irreversibile del ricordo e dei ricordi, da non confondersi con il concetto di amnesia in quanto non condivide con questo la durata del fenomeno tipicamente temporanea nell’amnesia. L’oblio è dunque un nuovo modo di essere dell’esserci non più modificabile o revocabile.
La poesia di Brodskij è scritta in forma di epistola, una lettera che il padre Odisseo scrive al figlio Telemaco. Una semplice missiva, che Odisseo scrive al figlio Telemaco. La convenzione poetica, la validità letteraria del genere missiva, permettono di accettare la retorizzazione di una lettera che probabilmente non raggiungerà mai il suo destinatario. Chi scrive è Odisseo, il primo verso è formato dal normale inizio di una lettera, con quell’aggettivo possessivo che da subito introduce alla affabilità di un affetto chiuso nel pudore di un padre sconsiderato: «Mio Telemaco»; il secondo verso rispetta la composizione di una lettera sul foglio bianco, inizia alla riga successiva dopo uno spazio lasciato bianco, esattamente dopo la virgola: «la guerra di Troia è finita. Chi ha vinto non ricordo». Odisseo, l’astuto, colui che ha escogitato lo stratagemma che ha posto fine alla guerra di Troia, è diventato talmente debole di mente che non ricorda chi sia stato il vinto e chi il vincitore. Questi versi, apparentemente assurdi, sottolineano il lunghissimo lasso di tempo già intercorso dalla fine della guerra, da quando la nave di Odisseo ha lasciato le coste di quella Tracia dove la tradizione colloca l’antica città di Troia. Il viaggio durerà dieci lunghissimi anni, una lunghezza davvero inverosimile se consideriamo la distanza relativamente breve che separava la città di Troia dall’isola di Itaca.
In questa lettera il padre dice al figlio delle cose importanti,
a propria giustificazione lo dichiara libero da Edipo; è un’autodifesa e una autocritica della propria posizione nel mondo. Odisseo tenta di scagionare se stesso dall’accusa di aver trascurato i doveri di un padre di famiglia, tenta di giustificare la propria «assenza». Avrebbe potuto dire qualcosa a propria discolpa circa la guerra giusta e doverosa per il tradimento e l’oltraggio subito per il rapimento di Elena, ma non lo fa; è palese che ai suoi occhi non sarebbe quella una buona ragione che lo possa scagionare dalle sue responsabilità, e comunque non ritiene di dover far ricorso a quella giustificazione. La poesia va esaminata in questo quadro giuridico psicologico e filosofico, e solo entro questo contesto. È una poesia ragionamento, una poesia di riflessione nell’orbita della più grande poesia europea da Leopardi in poi. Una poesia che ci riguarda tutti, o almeno chi è stato padre e chi ha intrapreso un viaggio di allontanamento. Il perché della lunga assenza del padre dal tetto familiare, il perché il padre sia stato costretto (magari contro la propria volontà) a vagare per il mondo, andare in guerra (quale guerra? Tutte le guerre?). E qui il senso della poesia si dilata fino a diventare cosmico, universale. La poesia si rivolge a tutti i padri che hanno abbandonato il figlio in tenera età per andare in guerra, parla di loro, parla di noi. Di qui il tono lievemente nostalgico dell’ «epistola», un messaggio in bottiglia che il padre invia al figlio. E poi quell’incipit dichiarativo (il tono di una persona che vuole nominare le cose), quell’andante largo che introduce il tema universale dei tanti morti che è costata la guerra.
Edith Dzieduszycka e Mariella Colonna
C’è anche un’altra poesia sulla guerra, di Bertolt Brecht,
anche lì si dice che nell’ultima guerra ci sono stati dei vincitori e dei vinti che il tempo della Storia li confonde; anche lì il poeta non ricorda bene chi siano stati i vincitori e i vinti, ma nella poesia di Brecht siamo ancora all’interno di una visione del mondo duale e dualistica, oppositiva, nel mondo della guerra fredda… nella poesia brodskijana invece siamo dentro una visione monistica, il mondo è diventato uno, interamente freddo, ogni angolo della terra è simile all’altro e tutte le guerre sono il duplicato di quella antica guerra, e tutti gli uomini sono condannati a navigare su un mare periglioso senza poter illudersi che vi possa essere un «ritorno» all’isola beata di Itaca. È il grande tema della riflessione sul proprio auto esilio, sulla propria auto alienazione, sulla storia degli uomini condannati all’auto esilio, sul significato profondo della guerra, di tutte le guerre e su quell’intimo collegamento tra le stragi e l’oblio della memoria. È una poesia che ha del sacro, che tocca profondamente il «sacro», qui si trovano i centri nevralgici e problematici della nostra civiltà, della civiltà occidentale.
L’evento che ha sconvolto le vite dei greci e dei troiani, che ha distrutto una civiltà e una città florida, l’evento da cui inizia la civiltà occidentale, è stato dimenticato, forse rimosso dalla coscienza dell’eroe; inutilmente la memoria fluttua alla ricerca di quell’evento: in essa non c’è nulla, il ricordo di quella guerra si è affievolito e spento.
Iosif Brodskij e Gino Rago
Iosif Brodskij
Lettera a Telemaco
Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.
Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.
Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.
Che cos’è la memoria? Forse è un luogo? Un punto infinitesimale? Una zona del nostro cervello? Forse è un evento immaginario che noi rimodelliamo di continuo? O è una forma del tempo interno? Chissà. La memoria è l’essenza del nostro tempo interno. Questo fenomeno lo si potrebbe definire anche all’incontrario: il tempo interno è l’essenza della memoria. Non c’è l’uno senza l’altro, sono due lati della stessa medaglia. Se perdiamo la memoria perdiamo con essa anche il tempo interno, vivremmo interamente in un tempo esterno, cosa orribile a dirsi e anche a pensarsi, come sarebbe impossibile vivere interamente in un tempo esterno, sarebbe come una parete che al di qua non contiene nulla: impossibile a dirsi e a pensarsi. Un incubo. La memoria è il nostro vero luogo perché è un senza-luogo, è il luogo dell’Altrove realizzato, che un tempo è accaduto. Con il pensiero dell’«Io» possiamo soltanto circumnavigare quel luogo senza-luogo ma non potremo mai entrare in esso perché lì dentro non c’è nulla, null’altro che fantasmi e traveggole, pulsioni cieche, rappresentazioni mute. Così, la memoria ha bisogno del pensiero dell’«Io» per potersi muovere, vivere, respirare.
Enrico Castelli Gattinara scrive: «Già Bergson aveva parlato della memoria come di un vero e proprio non-luogo, un altrove che avvolge costantemente il presente ma che appartiene come a un’altra dimensione. Perché, diceva, non sono le cellule nervose ad essere la sede dei ricordi, ma solo ciò che permette di attivarli o meno. Così, allo stesso modo, un neurone o una delle sue numerose terminazioni non vengono “riempiti” o “svuotati” quando c’è o scompare un ricordo: di cosa sarebbero riempiti o svuotati nel processo di memorizzazione e di oblio? Di cosa è fatto un ricordo?».1
1 http://www.aperture-rivista.it/public/upload/Castelli10-2.pdf

Kjell Espmark, grafica di Lucio Mayoor Tosi
Di Kjell Espmark a proposito del tema dell’Oblio della memoria, trascrivo questa composizione da Quando la strada gira (Ed. Bi.Bo, 1993) nella traduzione di Enrico Tiozzo:
Kjell Espmark
Quando la strada gira
Inaspettatamente siamo di nuovo nel villaggio
fra case accennate e oche senza tempo
sotto rade lastre di cielo:
la tela è nuda fra le pennellate.
Che è successo?
Siamo stati per un attimo fuori della vita?
Come se un subito coltello da macellaio
con quattro esperti tagli
avesse diviso occhio, gola, cuore e sesso
da tutto ciò che è diretto a capofitto
giorno dopo giorno da nessuna parte
e li avesse riuniti ad un capitolo
per il quale siamo già passati.
Tutto come prima, Tranne la luce scatenata.
Come se la strada fosse strada per la prima volta:
ogni odore è più forte, ogni colore più pieno –
il senza significato ci ha toccato.
Madame ci guarda indulgente
e mette in tavola dei pezzi di Chevre,
un sapore che fiorisce ampio
intinto nella cenere.
Cerco di ricordare. Presumo che il previo
capitolo ancora sia valido.
Ricordo in un brivido una carreggiata zuppa,
una voce e un profumo di caprifoglio.
Senza veramente ricordarli:
come se ci si fosse corsi incontro
a braccia aperte
e ci si trova ad abbracciare un estraneo.
Ciò che cerco nella memoria si tiene nascosto
come un mostro che viene dallo spazio.
Solo qualche schizzo di sangue fa la spia.
Ma certo siamo vissuti prima?
Dipende da ciò che si intende per vita.
Sparsi bagliori di ricordi narrano
di un grandioso paesaggio
con un gusto retroattivo di cenere.
Le lenzuola della camera d’albergo sembrano usate:
riconosciamo quella macchia
anche se non siamo stati mai qui prima.
Un posto logoro per l’inizio.
I polpastrelli cercano la tua bocca.
e sentono crearsi le labbra.
La lingua crea una fossa sulla spalla.
Come quando un intaccato rituale
riceve in visita un dio sconosciuto.
Così diventa il nostro amore
amore per la prima volta.
Mario Gabriele, Antonio Sagredo
Mariella Colonna
16 aprile 2017 alle 1:38
L’ONTOLOGIA ESTETICA OLTRE A ESSERE UN PROGETTO BEN PRECISO È ANCHE UN CAMPO APERTO DI GRANDI POSSIBILITà
Caro Borghi, sono d’accordo con te quando sostieni le opere di autori del ‘900 del livello di Rebora Palazzeschi e Pasolini,che non sono “unidirezionali”, anzi, anticipano l’esplosione di novità che caratterizza “La nuova ontologia estetica”; però, diversamente da come credo di aver compreso dalle tue parole, l’Ontologia estetica, oltre ad essere un progetto ben preciso (vedi ripetute affermazioni di Giorgio Linguaglossa,) esprime anche la sintesi poderosa tra il pensiero poetico tridimensionale e la dimensione del tempo da intendersi come “memoria”. Memoria che conferisce profondità interiore all’”evento” collocandolo in un momento qualsiasi delle storia del soggetto o dell’oggetto poetico: e qui vale la libertà del poeta che, rompendo la continuità temporale e passando (o volando) da un tempo all’altro, crea un tessuto quadrimensionale e, in tal modo, dilata anche lo “spazio interno” in cui si pone la ricerca poetica: non ho mai sentito Linguaglossa parlare di “Relatività di Einstein” alludendo alla quadrimensionalità della NOE! Io comunque credo che, da tutelare e proteggere, nel nostro gruppo o in altri, sia soprattutto LA LIBERTA’ del poeta. Non mi sono mai sentita una traditrice dei sacri principi enunciati da Giorgio L. quando ho creato un verso di sospetta “unidirezionalità” e nessuno me lo ha contestato: magari, nel verso successivo, mi è servito per innescare un rapido salto nel tempo o inserire un imprevedibile rivoluzionario frammento. Perciò io non riesco proprio a capire tutta questo timore di accettare una sigla, peraltro significativa e aperta a novità ulteriori, che oltretutto introduce il tema dell’ “essere” nella poesia accostandolo all’estetica (è un grosso passo avanti!).
Penso però che “LA CRISI NELLA POESIA” NON DEBBA SOFFOCARE LA POESIA, imprigionarla negli schemi di un mondo in disfacimento! Oltretutto il fatto che “il nulla è” , clamorosa contraddizione, non deve allontanarci dal “tutto” che è altrettanto compreso nell’essere e in cui la ricerca dell’ Essere misterioso o Deus Absconditus non può non essere compresa (mi si perdoni la ripetizione, anche se con significati diversi!). Perciò mi sembra la polemica, utile perché accende gli interessi e appassiona, non debba fermarci sulla via della ricerca.
VI FACCIO UNA DOMANDA: QUALCUNO HA MAI PENSATO CHE IL NOME DI CUBISMO POTESSE FRENARE I TRE GRANDI ARTISTI CHE LO HANNO RAPPRESENTATO?
Io non credo proprio, tanto è vero che il suo esponente più illustre, Picasso, ha abbandonato la sintassi cubista per il suo personalissimo nuovo linguaggio della disintegrazione della forma. Perciò, andiamo avanti, io per lo meno lo desidero perché mi è congeniale, con la Nuova ontologia estetica che non ci impedirà di trovare, col tempo e l’esperienza, nuovissime forme di linguaggio.
Giorgio Linguaglossa, Stefanie Golisch
Giorgio Linguaglossa
14 aprile 2017 alle 12:57
il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia
(Vincenzo Vitiello)
caro Claudio Borghi,
tu sai bene che intorno a questioni filosofiche non c’è una disciplina, come tu ti esprimi,, “scientifica” che possa dirimere le anitinomie e le contraddizioni. Quanto alla ontologia estetica, tu ti ostini a negare in toto che vi possa essere una nuova ontologia (estetica), scusami ma ritengo questa tua posizione apofantica e irragionevole, tu neghi la stessa possibilità di pensare una diversa e altra ontologia (estetica), semplicemente, tu in questo modo ti tagli fuori dal dibattito e dalla ricerca teorica e pratica (praxis poetica).
Non c’è nessun «schieramento contrapposto» tra di noi, perché la tua posizione è una non-posizione, una posizione apofantica, è di negazione radicale che vi possa essere un pensiero diverso e altro intorno alla ontologia (estetica), e questo è un aut aut che rivela la tua opposizione (politica) al progetto che si può esprimere, con una parola: oscurantismo, tu vuoi calare un velo di oscurità sulla NOE, senza peraltro riuscirci perché i risultati estetici della NOE sono sotto gli occhi di chi vuol vedere.
Quanto alle indicazioni di Inchierchia, le ritengo intrise di genericismo e di errori concettuali che non è il caso di trattare qui perché non ho interesse a correggere gli errori concettuali e filosofici altrui (ognuno si tiene i propri).
E poi credo che la contro prova di quello che andiamo dicendo e facendo te l’abbia fornita Donatella Costantina Giancaspero pubblicando due poesie di Tranströmer di alcuni decenni fa che sembrerebbero scritte dalla NOE.
Leggi qui questi versi della NOE scritti 40 anni fa:
Ho sognato che avevo disegnato tasti di pianoforte
sul tavolo da cucina. Io ci suonavo sopra, erano muti.
I vicini venivano ad ascoltare.
*
Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.
*
[…]
La gondola è vestita a lutto. Carica di morti. Affonda.
Nella picea onda del Canal Grande.
Ponte degli Scalzi.
L’appartamento di Anonymous sul Canal Regio.
Uno spartito aperto sul leggio: “La lontananza nostalgica”.
Il vento sfoglia le pagine dello spartito.
[…]
Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio.
Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.
[Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare
il filo dell’acqua verdastra]
Madame Hanska si spoglia lentamente nel boudoir.
Ufficiali austriaci giocano a whist.
[…]
Sulla parete a sinistra del soggiorno e in alto sul soffitto
è ritratta la Peste.
La Signora Morte impugna una pertica
che termina con una falce.
Ammassa i morti e taglia loro la testa.
E ride.
Ritto sulla prua il gondoliere afferra il remo.
E canta.
Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle.
[…]
Wagner e List giocano a dadi
in un bar nel sotoportego del Canal Grande.
Tiziano beve un’ombra con la modella
dell’«Amor sacro e l’amor profano».
[…]
Madame Hanska al Torcello riceve gli ospiti
nel salotto color fucsia.
I clienti della locanda del buio.
Siberia.
Evgenia Arbugaeva osserva la distesa di neve.
La Torre del faro in mezzo alla neve.
«Il bacio è la tomba di Dio», c’erano scritte queste parole
sopra l’ingresso della torre.
[…]
Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano.
Non c’è anima più viva.
Una sirena canta dalla spiaggia dei morti:
«Non c’è più lutto tra i morti».
«Non c’è più lutto tra i morti».
[…]
Due città
Ciascuna sul suo lato di uno stretto, due città
l’una oscurata, occupata dal nemico.
Nell’altra brillano le luci.
La spiaggia luminosa ipnotizza quella scura.
Io nuoto verso il largo in trance
sulle acque scure luccicanti.
Un sordo suono di tromba irrompe.
È la voce di un amico, prendi la tua tomba e vai.
Donatella Costantina Giancaspero, Alfredo de Palchi
Donatella Costantina Giancaspero
IL NULLA NON ESISTE COME NULLA (il suono del silenzio) La NOE (Nuova Ontologia Estetica)
Ho piacere di unirmi al dibattito e introdurre una mia riflessione sul Nulla, con queste parole di Gillo Dorfles, al quale ieri abbiamo augurato buon compleanno per i suoi formidabili 107 anni!
“Malauguratamente solo pochissimi intendono questa fisiologica necessità del vuoto e della pausa. La maggior parte degli uomini è ancora profondamente ancorata all’errore del pieno e non all’orrore dello stesso. Carichi di troppi elementi che s’accavallano nella nostra mente – spesso subliminarmente – finiamo per confonderli e annegarli in un lattiginoso e amorfo amalgama”
Credo che finché continueremo a dare una connotazione negativa al Nulla, pensandolo come Nulla, non potremo mai coglierne la vera essenza: non potremo sentirlo necessario, riconoscendolo nella realtà che ci circonda; non potremo percepirlo “aleggiare nelle «cose» e intorno alle «cose»”, come scrive Giorgio Linguaglossa. Perché il Nulla, ciò che diciamo “Non Essere”, esiste al pari dell’”Essere”. Non è difficile intendere questo. Occorre soltanto guardare alle cose semplici con la stessa semplicità di “uno scricciolo che trilla”…
Il Nulla, lungi dall’essere “vuoto”, è, al contrario, “pieno” di cose, di sottilissimi, sofisticati elementi. Il Nulla è il Silenzio di tanta musica contemporanea, che poi, in realtà, tanto contemporanea non è più… Il pensiero va a John Cage, a quel suo “vuoto apparente”, ovvero un silenzio nel quale si riverbera il suono: ossimoricamente parlando, lo diremmo un “silenzio sonoro”, carico di linguaggio.
Ne sia di esempio la sua celebre composizione “4’3” (“Quattro minuti, trentatré secondi”), in tre movimenti, composta ed eseguita nel 1952: questa, insieme ai White Paintings del suo amico Robert Rauschenberg, rappresenta una delle opere più importanti del Novecento. L’incontro fra Cage e Rauschenberg, infatti, avvenuto negli anni Cinquanta, darà luogo un nuovo concetto positivo di vuoto tra musica e pittura.
Il pianista David Tudor si sedette al pianoforte e per poco più di quattro minuti e mezzo suonò tre lunghe pause, senza produrre alcun suono, limitandosi ad aprire e chiudere la tastiera per segnare i tre movimenti della composizione. Lo spartito infatti riportava un tacet per qualsiasi strumento o ensamble.
In seguito, ripensando alla prima esecuzione (nella Maverick Concert Hall, una sala da concerto a tre chilometri da Woodstock), John Cage disse così:
“Il silenzio non esiste. (…) Durante il primo movimento si sentì il vento che soffiava fuori dalla sala. Durante il secondo, qualche goccia di pioggia cominciò a picchiettare sul tetto, e durante il terzo la gente stessa produsse i più vari rumori mentre parlava o usciva.”
Sabino Caronia, Italo Calvino
Gino Rago
Antefatti estetici a Laboratorio Poesia Gratuito Roma, 30 marzo 2017.
Il poeta della NOE medita da anni sulla “Teoria estetica” di T. W. Adorno. Fa suo l’assioma adorniano secondo cui: “I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna”. Per tale via maestra egli adotta la poetica del “frammento” come elemento costitutivo d’una sua personale ontologia estetica. La quale, partendo dalla “morte di Dio”, assume in sé la constatazione della fine della visione platonico-cristiana del mondo e della conseguente scomparsa del “centro dell’uomo nel mondo”. La sua ricerca d’arte ne prende atto e si muove nella persuasione della decadenza della “verità assoluta”, della impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad una unità di senso. Entrando nella filosofia del frammentismo, il poeta della NOE assume il “frammento” come la cifra caratteristica della modernità poiché alla sua personalissima lettura il mondo moderno si pone sotto il segno della deflagrazione del “senso”, della dispersione, dell’astigmatismo scenografico, della moltiplicazione delle prospettive, della crisi e della inadeguatezza espressiva di un “unico”linguaggio. Nella teoria estetica dell’opera moderna il poeta della NOE interpreta il prospettivismo di Nietzsche come una promozione della “frammentarietà” contro le tesi di quell’ordine metafisico incentrato sulla verità dogmatica, sulla verità indiscutibile.
La poetica del frammentismo tende a esiti estetici del tutto nuovi poiché la “filosofia del frammento” è in grado di restituire “dignità estetica” a quelle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno perché il frammento è l’”intervento della morte nell’opera d’arte”. Rifondando l’opera, o distruggendola, la morte da essa elimina la macchia dell’apparenza. Ma ciò che conta è che per il poeta della Nuova Ontologia Estetica e dello Spazio Espressivo Integrale***, il “frammentismo” va oltre il significato di “poetica”, va oltre le intenzioni d’arte. Il frammentismo in lui è una Weltanshauung. E’ uno stato d’animo. E’ il suo modo di sentire il mondo, di sentirsi egli stesso “frammento” di questo mondo poiché risiede in lui stesso l’unico punto di convergenza e di fusione di quella che Harold Bloom ha definito “la cartografia psichica” dell’artista: l’agonismo perenne tra l’ “Io me stesso – l’anima – l’Io reale”.
Il poeta della NOE, nel suo fare poetico all’ interno dello Spazio Espressivo Integrale, sa che:
– il vuoto non è assenza di materia;
– l’assenza di musica non è l’affermarsi del silenzio;
– il ” Campo Espressivo Integrale ” è l’unica regione in cui la poesia può inglobare spazio e tempo, filosofia e mito, musica e silenzio, metafisica e scienza, memoria e armonia delle sfere, meraviglia e sapienza, in una unità di linguaggio di numerosi linguaggi differenti…
– ciò che è perduto può essere ritrovato soltanto in forma di “frammento”, che non indica il Tutto, nella dialettica fra le parole e le cose di Michel Foucault, ma un tutto frantumato e disperso da cui deriva il “dolore” della poesia;
– esiste un “tempo assolutamente creativo”. Un tempo che crea la vita poiché (secondo Prigogine) è il tempo delle infinite metamorfosi della vita nella biologia ed è il tempo delle infinite creazioni delle opere d’arte. Un tempo despazializzato, un tempo ” qualitativo ” e non ” quantitativo ” e che come tale non sa che farsene degli orologi;
– l’ Estetica non può ignorare questi nuovi orizzonti delle scienze ed è
chiamata anzi ad orientarsi essa stessa verso una “forma” scientifica per essere in grado di tener conto delle strutture dissipative nelle quali trionfa
l’infinita possibilità delle equazioni non lineari ( Prigogine ), equazioni con
all’interno il “tempo creativo” e, dunque, la cosiddetta possibilità progettuale
della esperienza artistica;
– il mondo non è più “ciò che è” ma è “ciò che diviene” ed è “il possibile”
il nuovo strato della cultura contemporanea;
– la nuova Estetica non può che appropriarsi di tali indicazioni.
Roma, 7/13 aprile 2017