POESIE EDITE E INEDITE di MARINA CVETAEVA (1892-1941) e ARSENIJ TARKOVSKIJ (1907-1989) – Una storia d’amore in versi – A cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

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Arsenij Tarkovskij

Nessuna di queste poesie di Marina Cvetaeva è stata tradotta in italiano ad eccezione di “Elabuga”, pubblicata e tradotta da Gario Zappi nel suo Poesie scelte di Arsenij Tarkovskij, Scheiwiller, Milano, 1988.
Si tratta di un ciclo di poesie palesemente scritte da Arsenij Tarkovskij à la màniere della Cvetaeva (vedi l’uso delle lineette). L’uno risponde all’altra.

“Io ascolto, non dormo, mi chiami, Marina…”
Gli ultimi anni della vita di Marina Cvetaeva sono stati studiati a fondo ma l’esatta data del suo incontro con Arsenij Tarkovskij non si trova da nessuna parte. E’ noto che pretesto della conoscenza fu la traduzione da parte di Tarkovskij dei versi del poeta turkmeno Kemine. Il titolo completo dell’opera è “Raccolta di canti e versi nella traduzione di Arsenji Tarkovskji con l’aggiunta di racconti popolari scelti sulla vita del celebre poeta”. L’accordo per l’edizione fu stipulato il 12 settembre del 1940 ed il libro uscì probabilmente dopo un mese.
La famosa brutta copia della lettera della Cvetaeva a Tarkovskji, appuntata nel quaderno di ottobre del 1940, fu ricopiata per qualcuno da Ariadna Efron. (1)

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Marina Cvetaeva, 1914

“…Caro com.(pagno) T.(arkovskij),
la Vostra traduzione è una meraviglia. Che cosa potete fare – quando siete Voi stesso?
Perché per un altro poeta potete – tutto. Trovate (amate) – e le parole saranno vostre.
Presto Vi inviterò – una di queste sere – ad ascoltare versi (i miei) di un libro futuro. Per questo datemi il vostro indirizzo affinché l’invito non vada vagando – o non resti qui come questa lettera.
Vi pregherei molto di non mostrare a nessuno questa mia letterina, io sono una persona appartata e scrivo a Voi – a che vi servono gli altri? (mani ed occhi) e non dite a nessuno che presto, uno di questi giorni, sentirete le mie poesie, presto ci sarà da me una serata aperta ed allora verranno tutti. Io adesso Vi chiamo da amico.
Ogni manoscritto – è indifeso. Io nella mia interezza – sono un manoscritto
M. C.”

Questa tarda lettera dell’ultima Cvetaeva è totalmente giovanile nello spirito.
La traduzione di Tarkovskij capitò alla Cvetaeva, probabilmente, tramite una sua intima conoscente, la traduttrice Nina Gherasimovna Berner Yakovleva. In gioventù aveva preso parte ad un circolo artistico-letterario alla Bolshaya Dmitrovka, di cui era coordinatore Brjusov. Lì aveva visto per la prima volta Marina ed Asja Cvetaeva, accompagnate da Maximilian Voloscin.
Se giudichiamo dalla lettera, essa è indirizzata ad un uomo già conosciuto, per il quale è nata una simpatia. I due poeti potevano già essersi incontrati a qualche serata letteraria o ad una riunione di traduttori … Ma la Berner asserisce che si conobbero proprio da lei.
E’ sicuramente noto il loro incontro nella casa di Nina Gerasimovna nel vicolo Telegrafnij.

Marja Belkina ricorda quella stanza nella “kommunal’ka” : “…pareti verdi, dove si trovava una mobilia antiquata fatta di un legno rosso e negli scaffali libri francesi con le copertine di pelle.”

Marina Arsen’evna Tarkovskaja, figlia del poeta, nel suo libro Schegge di specchio, uscito di recente, ricorda così: “Sono andata laggiù diverse volte con la mamma – lei era amica di Nina Gherasimovna. La stanza era pitturata di un color verde antico – questo in un’epoca di carta da parati a basso prezzo e decorazioni di argento costoso. Ricordo che c’era lì una mobilia di un legno rosso – uno scrittoio, un divano e una credenza sormontata da un antico specchio. Sia il colore delle pareti che il mobilio si addicevano molto alla padrona di casa , una snella bella donna dai capelli rossi che anche negli anni maturi era assai piacente.”
La stessa Nina Gherasimovna ricordava: “ Si sono conosciuti a casa mia quel giorno. Ricordo molto bene quella giornata. Per qualche motivo uscii dalla stanza. Quando tornai, erano seduti vicini sul divano. Dai loro volti emozionati capii: era successa la stessa cosa alla Duncan e ad Esenin. Si sono incontrati, si sono librati in alto, si slanciati l’uno verso l’altro. Un poeta verso un altro poeta…”.

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Un poeta verso un altro poeta… Questo è molto importante. Quando Tarkovskij giunse nel 1925 a Mosca per studiare, Marina Cvetaeva già da tre anni viveva in Cecoslovacchia. Ma i suoi versi erano molto conosciuti da coloro i quali si interessavano di poesia. I suoi testi si potevano trovare nei negozi di libri usati, potevano essere letti o scambiati tra amici. Il giovane poeta stimava molto la Cvetaeva come un maestro, come un “maitre”, una collega più grande. Marina Arsen’evna scrive che a lei, nata nel 1934, Tarkovskij aveva dato il nome Marina in onore del poeta Cvetaeva.

Quando si incontrarono, Marina era appena tornata dalla Francia. Tarkovskij in quell’estate del 1939 con la sua seconda moglie Antonina al e la loro figlia Elena viveva in Cecenia Inguscezia, dove traduceva i poeti locali.
Aveva alle spalle l’antico, amaro amore per Maria Gustavovna Fal’z, dopo il fortunato matrimonio con Maria Ivanovna Visnjakova, la nascita in famiglia dei due figli Andrej e Marina, poi l’uscita dalla famiglia per Antonina Aleksandrovna Trenina per un amore appassionato… Scrive i suoi splendidi versi ma per l’uscita del suo primo libro ci volevano ancora degli anni, per cui la vita lo costringeva a darsi da fare con le traduzioni.
Tarkovskij non è semplicemente un poeta – è un vero poeta.
Egli non poteva non apprezzare i versi di Marina Cvetaeva, non poteva non passarle accanto anche nella vita senza fermarsi.
Si, sugli anni ’40 della Cvetaeva è stato scritto non poco. Fu un periodo difficile, pesante, insopportabile…tutte queste parole sono appropriate… Tuttavia per un poeta sempre- al di là di tutte le sciagure ed infelicità – più terribile di tutto è il vuoto del cuore.
(2)

Quella non invitata, la settima…
Anno 1940. L’incontro con Tarkovskij. Si telefonavano, si incontravano, passeggiavano lungo i luoghi amati dalla Cvetaeva – Vol’chonca, l’Arbat, Trechprudnj… una volta si incontrarono in fila davanti alla cassa dell’Editoria di Stato.
Quelli che li vedevano insieme, si accorgevano di come la Cvetaeva cambiasse in compagnia di Tarkovskij.
Marina Arsen’evna scrive: “L’atteggiamento di papà nei confronti della Cvetaeva non cambia. Lui, poeta già maturo, si sentiva tuttavia come un deferente scolaro, lei era per lui un vecchio amico ed un Maestro. Alla poesia – Il grillo – (1940) nel quaderno di papà c’è un’aggiunta: ‘Recondito nel secondo verso – termine pensato da M.C. al posto del mio che non le piaceva (ho ritrovato il termine di papà – funebre)’”.
Una volta, in presenza della Cvetaeva, Tarkovskij recitò una sua poesia, dedicata alle persone care che erano morte – il padre, il fratello, la donna amata Maria Gustavovna Fal’z (i versi erano stati scritti alcuni giorni prima dell’anniversario della sua morte):

La tavola è apparecchiata per sei
rose e cristalleria
e tra i miei ospiti
dolore e tristezza.
E con me mio padre
e con me mio fratello.
Passa un’ora. Finalmente
bussano alla porta.
Come dodici anni fa,
la mano è fredda
e frusciano le grigie
sete fuori moda.
Ed il vino tintinna dall’oscurità
e canta il vetro:
come ti abbiamo amato,
quanto tempo è passato!
Mi sorriderà mio padre,
il fratello mi verserà del vino,
lei mi porgerà la mano senza anelli
e mi dirà:
-I miei tacchetti sono nella polvere,
si è scolorita la treccia
e cantano da sotto terra
le nostre voci.

1940

La Cvetaeva normalmente ricordava con facilità i versi altrui fin dalla prima lettura. Ma nella sua poesia di risposta si discosta dallo stile di ballata di Tarkovskij, dal trocheo, utilizza il giambo cosa che da’ ai versi una forza particolare ed un certo drammatismo. La Cvetaeva chiama quelli seduti al tavolo a suo modo: in Tarkovskij – “il padre, il fratello, Lei ed i simbolici dolore e tristezza”. Nella Cvetaeva : “due fratelli, un terzo – tu e tua moglie, il padre e la madre”. Marina Ivanovna non capì – o non volle capire – che alla cena di Tarkovskij viene la sua donna amata, che era morta. Forse, sapendolo, non gli avrebbe scritto quei versi di risposta che risuonavano non soltanto come un rimprovero ma anche come una speranza in un cambiamento in meglio delle loro relazioni. Comunque alla cena non era stata invitata.

Ripeto continuamente il primo verso
e continuamente correggo una parola:
“Ho apparecchiato la tavola per sei…”
te ne sei dimenticato uno – il settimo.

Non siete allegri in sei.
Sui volti – getti di pioggia…
Come hai potuto a questa tavola
aver dimenticato un altro – la settima…

Non sono allegri i tuoi ospiti,
se ne sta inoperosa la caraffa di cristallo.
Sono tristi loro – e triste tu,
quella non invitata – la più triste di tutti.

Non c’è allegria e non c’è luce.
Ah, non mangiate e non bevete.
-Come hai potuto dimenticare il numero?
Come hai potuto sbagliarti a contare?

Come hai potuto, come hai osato non capire
che il sei (due fratelli, un terzo –
tu e la moglie, il padre e la madre)
diventa il sette – ci sono anch’io al mondo!

Hai apparecchiato la tavola per sei
ma il mondo non si misura in sei.
Più che uno spaventapasseri tra i vivi
voglio essere uno spettro – con i tuoi.

(I miei)

Timida come un borsaiolo,
oh – senza toccare nemmeno un’anima! –
davanti al servizio non apparecchiato
mi metto senza essere stata chiamata, la settima.

Orsù! – ho rovesciato il bicchiere!
E tutto quello che aveva sete di scorrere,
tutto il sale dagli occhi, tutto il sangue dalle vene –
dalla tovaglia – sul pavimento.

E – non c’è la bara! Separazione – nemmeno!
La tavola ha sciolto l’incantesimo, la casa si è risvegliata.
Come la morte – al pranzo nuziale
Io – la vita sono giunta al momento della cena.

…Nessuno: non un fratello né un figlio né un marito
né un amico – e tuttavia faccio un rimprovero:
tu, che hai apparecchiato la tavola per sei – anime
non mi hai messa nemmeno in un angoletto.

6 marzo 1941

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Marina Cvetaeva

….Presto apparve chiaro che Arsenij Tarkovskij (che, peraltro, definì sempre l’incontro con la Cvetaeva come l’avvenimento più importante della sua vita) evita gli incontri con lei. Nella primavera del 1941 addirittura non la salutò ad una fiera di libri al Circolo degli scrittori. Egli era un uomo, un poeta che preferiva amare molto più che accettare l’amore. In questo atteggiamento il suo punto di vista coincideva con quello di Anna Achmatova. Semplicemente – sia fisicamente che emozionalmente – egli non poteva dedicare a Marina Ivanovna più tempo di quanto non gliene avesse già dedicato. Aveva una giovane moglie ed una figlia adottiva, una ex moglie con due bambini piccoli ed una madre anziana … Erano morte le persone amate. Non di meno gli dispiaceva perdere anche l’amicizia con la Cvetaeva come testimoniano i versi a lei dedicati che qui presentiamo tratti dalla raccolta Sobranie Socinenij, 2 v., Mosca 1991.

RICORDI di M.I. CVETAEVA
I – Da un vecchio quaderno

Tutto in realtà si collegò – la stessa aria
intorno a te fino alle stesse tue stelle

e la cintola ed ogni tuo cocciuto,
elastico passo ed il verso sgraziato.

Tu – nessuno garantisce per te,
libera di ardere e libera di elargire,
pensa soltanto: non c’è stata separazione,
torneranno a stringersi, come le acque, gli anni.

Per la felicità – per il dolore – per gli anni – la mano.
Non schiudere di nuovo le ali chiuse:
a te sono soggette le acque fatali,
non bisogna di nuovo separarle.

(1939)

II – Il lavaggio dei panni

Marina lava i panni.
Nella superbia, l’effervescente schiuma
le sue alacri mani
scaraventano sulla nuda parete.

Strizza i panni. La finestra –
spalanca sulla strada ed appende il vestito.
Fa’ lo stesso,
che vedano pure anche questa crocifissione.

Risuona un aeroplano al di là della finestra
lungo il catino si allarga la schiuma,
per la prima volta urla a squarciagola di giorno
la sirena dell’allarme aereo.
Dal grigio abito alla finestra
quattro arscin nel buio
fino alla porta.
Come sul fondo di un fiumiciattolo
nelle verdi tenebre – sta Marina.

Da due mesi dalla fronte
allontana le ciocche ostinatamente
ma più avanti il destino-padrone di casa
sarà ancora più ostinato sul Kama … (2)

(1963)

III

Elabuga

Chiamo – non risponde, dorme profondamente Marina.
Elabuga, Elabuga, argilla di cimitero.

Con il tuo nome si potrebbe chiamare una palude di fango,
con il tuo nome, come fosse un chiavistello, serrare un cancello.

Con te, Elabuga, si potrebbero spaventare bambini odiosi,
potrebbero giacere nelle tue tombe mercanti e banditi.
E su chi hai soffiato il tuo atroce gelo?
Per chi sei stata l’ultimo terrestre rifugio?

Di quale cigno hai udito il canto prima dell’alba?
Tu hai sentito l’ultima voce di Marina.

E adesso, maledetta – come mai non piangi?
Brilli come puro oro: nascondi Marina!

(1941)

IV (3)

Amici, amanti della verità, proprietari
di tempi trafitti dalle morti
cosa vi lesse la Cvetaeva
tornando dal suo funerale?

Cosparsi i capelli di argilla
e più gialla dell’argilla la sua mano,
c’era tanto silenzio che la voce
io non sentivo da lontano.

Forse il suo compito
stava nel fatto che, alzandosi sulle punte,
senza sosta mettesse l’accento
sull’impennata del verso dispari.

Sul Kama quali ultime
parole le giunsero in ricordo
in quell’amara ma ancora estiva
dolorosa ora della terra

che salutava i soldati che andavano in guerra,
vedova, come una madre naturale,
quella terra, che pur aveva
il vezzo di non carezzare gli estranei?

Con tutta la massa, con tutta la vostra potenza
voi siete laggiù, oltre l’ultima linea –
con tutta la vostra ingiusta verità
e il giusto errore.

(1962)

V

Io ascolto, non dormo, mi chiami, Marina, (4)
canti, Marina, per me, minacci con l’ala, Marina,
come le trombe degli angeli cantano sulla città
e soltanto con la tua incurabile amarezza
il nostro pane avvelenato prenderai nel Giudizio universale.
Così portavano le ceneri natali alle porte di Gerusalemme
gli esuli, quando David componeva salmi
ed il nemico piantava le sue tende su Sion.
Ma nelle mie orecchie risuona il tuo mortale richiamo,
al di là della nuvola nera arde la tua ala
come fuoco profetico sulla crudele volta celeste.

(1946)

VI – Come ventidue anni fa

E per ogni uomo, c’è la morte
per ogni fuscello il fuoco e i tacchi
ma per me anche in questo stridore di denti, in questo pianto (5)
un’altra morte è più percepibile di tutte le separazioni.

Perché – freccia – non mi sono bruciato nel grembo
dell’incendio? Perché il mio semicerchio
non si è concluso? Perché nel palmo della mano
la vita, come un rondone, tengo? Dove è il mio migliore amico,
dove il mio idolo, dove l’angelo dell’ira
e della giustizia? A destra sangue e a sinistra
sangue. Ma la tua morte, senza sangue, è cento volte
più mortale.
Io, ributtato indietro dalla corda
della guerra, non chiuderò i tuoi occhi.
E di cosa sono colpevole? Di cosa sono colpevole?

(1963)

VII – Tra ventidue anni

Non discorsi –
no, io non voglio
I tuoi tesori – giuramenti e pianti –
non imparerò di nuovo a scrivere
e il mio modo di parlare non modificherò.

Non per coraggio davanti alla morte – tu
hai realizzato fino in fondo tutti i tuoi propositi
nei tuoi quaderni fino ai limiti
dove è finito il tuo inchiostro –
non la supremazia –

io di darò
tutto ciò che è mio, affinché a te di diritto
nel giorno superfluo ti consegnino infine
nella terra – la tua gloria terrena –

non l’audacia delle tue passioni
e non che tutto è uguale
ma insegnami soltanto
dalla tomba il tuo ricordo, Marina!

Come ho paura di dimenticarti
e scambiare in un attimo
Il retto fosforescente filo
per raddoppiare, triplicare
le rime –
e nella tua poesia
seppellirti di nuovo.
(1963)

(1) (ndt) Ariadna Efron – figlia primogenita della Cvetaeva e Sergej Jakovlevic Efron (1912-1975
(2) (ndt) Kama – fiume della repubblica tartara, sulla cui confluenza col fiume Toima si trova la cittadina di Elabuga.
(3) (ndt) Nella cittadina di Cistopol’, non lontana da Elabuga, erano stati evacuati numerosi scrittori. La C. sperò di essere assunta nella mensa degli scrittori che vi si stava per aprire. Dopo aver sbrigato lì varie pratiche, la C. il 28 agosto del 1941 fece ritorno a Elabuga dove si impiccò il 31 dello stesso mese.
4) (ndt) I due poeti avevano una comune ossessione: l’insonnia. In russo sonno e sogno sono espressi con un’unica parola son. Marina adorava i sogni ad occhi aperti, creare e sognare erano per lei la stessa cosa, al punto che l’insonnia diventò la sua musa. Scrive la Cvetaeva: “Dopo la notte insonne, indifferenti sono nemici e amici – Se ti diranno non son fresche le tue guance, rispondere dovrai: con l’insonnia ho fatto baldoria”.
(5) (ndt) Cfr Matteo 8,10

cvetaeva

Marina Ivanovna Cvetaeva (Zvetaeva), in russo: Мари́на Ива́новна Цвета́ева (Mosca, 8 ottobre 1892 – Elabuga, 31 agosto 1941). Scrive di lei Anna Achmatova: «Spesso Marina inizia una poesia con un do di petto». A 18 anni pubblica (1910) Album Serale, la sua prima raccolta di poesie. È l’esordio di un autentico talento: il libro viene recensito dai principali poeti dell’epoca. È bella, ricca, intelligente, anticonformista. Scriverà centinaia di poesie, diciassette poemi, otto drammi in versi, opere di narrativa e saggistica oltre ad uno scambio epistolare con Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak, suo grande platonico amore impossibile. Pasternak le scrive nella sua Autobiografia un commosso riconoscimento: «La verità è che bisognava leggerla attentamente. Quando lo feci rimasi senza respiro per l’abisso di purezza e forza che si spalancava… In breve non è un sacrilegio dire che ad eccezione di Annenskij, Blok e con qualche riserva Andrej Belyi, la Cvetaeva prima maniera era precisamente ciò che avrebbero voluto essere e non furono tutti gli altri simbolisti messi insieme».
Scrive di lei Iosif Brodskij ne Il canto del pendolo «Sul piano formale è considerevolmente più interessante di tutti i sui contemporanei, compresi i futuristi, e le sue rime sono più inventive di quelle di Pasternak». Nella sua poesia c’è una sorta di partitura musicale. Scrive Marina ai suoi lettori: «Il mio libro deve essere eseguito come una sonata. I segni sono le note. Sta al lettore realizzare o deformare». Nel 1911 sposa Sergej Efron a cui fa una promessa che manterrà nonostante i suoi amori collaterali etero e saffici: «Ti seguirò come un cagnolino».
Nel 1912 esce la seconda raccolta, Lanterna magica, e nel 1913 Da due libri. Nel 1917 inizia la rivoluzione, Efron si arruola tra le guardie bianche, e di lui non si saprà più nulla. Assiste ad ogni umiliazione fino ad elemosinare il cibo per sé e le due figlie Alja e Irina che morirà a due anni in un orfanatrofio per denutrizione. Nel 1922 fugge a Praga per raggiungere il marito. Nasce il terzo figlio, della cui paternità si dubita e al quale lei si lega morbosamente. A Praga scrive molte opere importanti: Dopo la Russia, L’accalappiatopi, Il poema della montagna e Il poema della fine. Nel ’25 la famiglia è a Parigi dove vivono di stenti grazie ai lavori domestici di Marina presso varie famiglie. Efron si arruola ai servizi segreti russi ed è accusato di aver partecipato ad un omicidio. Fugge a Mosca con la figlia Alja che condivideva i principi rivoluzionari. Marina resta fedele alla sua antica promessa: «Ti seguirò come un cagnolino». Nel 1939 Marina li raggiunge a Mosca con Mur. In tempo per salutarli poco prima che vengano arrestati.
Marina invia nei campi di concentramento dove si trovano il marito e la figlia lettere e pacchi con stivali, berretti, scialli, carote essiccate: «a immergerle nell’acqua bollente rinvengono, Alja ricordati che contengono vitamine». Inizia la guerra, i nazisti invadono la Russia, Marina con il figlio nel 1941 sono evacuati a Elabuga, nella Repubblica autonoma di Tataria. Fa domanda per ottenere un posto di lavapiatti in un mensa del Fondo letterario e non lo ottiene. Mur si lamentava della vita che conducevano, pretendeva un abito nuovo ma il denaro che avevano bastava appena per due pagnotte. La domenica 31 agosto del 1941, rimasta da sola a casa, la Cvetaeva salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e si impiccò. Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia. Nessuno andò ai suoi funerali, svoltisi tre giorni dopo nel cimitero cittadino, e non si conosce il punto preciso dove fu sepolta. Domenica 31 agosto 1941 rimasta sola a casa, sale su una sedia e si impicca a una trave. Ha 49 anni. Lascia un biglietto d’addio e d’amore profondo: per Mur che la disprezzava per la sua sciatteria e per la sua dubbia reputazione. L’epitaffio era già stato scritto, autografo, il 3 maggio 1913 a 20 anni:
.
«… Leggi – di ranuncoli
e papaveri colto un mazzetto –
che io mi chiamavo Marina
e quanti anni avevo…

Solo non stare così tetro,
la testa china sul petto.
Con leggerezza pensami,
con leggerezza dimenticami».

Arsenij

arsenij tarkovskij con il figlio andrej

Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij nasce nel 1907 ad Elizavetgrad (oggi Kirovograd) in Ucraina, e si dedica fin da giovane alla traduzione di numerosi poeti da svariate lingue (armeno, turkmeno, karakalpaco, georgiano, ebraico e arabo). Quanto questo assiduo esercizio di traduzione abbia influito sulla sua poesia è un problema aperto, ma certamente la frequentazione di una palestra stilistica così vasta ha avuto un peso rilevante nella elaborazione della peculiarissima aura di inattualità delle sue poesie e conforterà il poeta nei lunghissimi anni di silenzio cui sarà costretto. Il primo volume delle sue poesie vedrà la luce soltanto nel 1962, Pered snegom (Neve imminente, 1929-1940); nel 1969 esce Vestnik (Il messaggero 1966-1971); nel 1974 Sticotvorenija (Poesie); nel 1978 e nel 1979 escono rispettivamente Volsebnye gory (Le montagne incantate) e Zimnijden (Giornata d’inverno 1971-1979). Il 27 maggio 1989 muore a Mosca e viene sepolto a Peredelkino.

Donata De Bartolomeo è nata a Taranto e vive a Roma. Ha tradotto poesie di Arsenij Tarkovskij, Osip Mandel’stam, Voznesenskij, Aleksandr Blok, Evtusenko, Marina Cvetaeva, Bella Achmadulina ed altri poeti russi del novecento.

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22 risposte a “POESIE EDITE E INEDITE di MARINA CVETAEVA (1892-1941) e ARSENIJ TARKOVSKIJ (1907-1989) – Una storia d’amore in versi – A cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

  1. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/26/poesie-edite-e-inedite-di-marina-cvetaeva-1892-1941-e-arsenij-tarkovskij-1907-1989-una-storia-damore-in-versi-a-cura-di-donata-de-bartolomeo-e-kamila-gayazova/comment-page-1/#comment-19674
    Anni fa (poteva essere il ’96 o ’97?) ero andato a pranzo con il critico Sergei Averintsev, di passaggio a Bologna, assieme a Davide Rondoni e a una professoressa di russo della facoltà di Lingue. Mi ricordo che gli dissi: “Per me Tarkovskij (figlio, regista) è uno dei più grandi poeti russi della seconda metà del secolo XX, lei è d’accordo?” Mi rispose che questa cosa, semmai, si sarebbe potuta dire di suo padre (che pure io avevo letto). Mi ha colpito, il Sagredo, quando ha detto, in altro loco, che Arsenij Tarkovskij si trovi un gradino sopra Brodskij: l’ho sempre pensato anche io ma la gara, nella mia lettura o rilettura delle loro opere, è ancora aperta…Questo post, con le belle traduzioni della De Bartolomeo (si spera in una raccolta cartacea), non può che farmi contento per la mia simpatia verso i Tarkovskij, anche la moglie. Per contatti in comune, potrebbe capitarmi di conoscere Tarkovkij, figlio del regista… Ma forse meglio di no. I miti o i figli dei miti forse non si dovrebbero mai incontrare… Non so…

  2. r.m.

    ottimo e complesso articolo che leggo con piacere da non addetto ai lavori! un plauso alla De Bartolomeo per serietà d impego,
    r.m.

  3. gino rago

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/26/poesie-edite-e-inedite-di-marina-cvetaeva-1892-1941-e-arsenij-tarkovskij-1907-1989-una-storia-damore-in-versi-a-cura-di-donata-de-bartolomeo-e-kamila-gayazova/comment-page-1/#comment-19677
    Desidero elogiare, senza freni emotivi né riserve mentali, l’arte di tradurre di Donata De Bartolomeo per la scelta, per forza lucida ma anche di pathos, operata nel suo lavoro di sottrazione di tutte le parole, e dellle scene, non rispondenti al suo progetto di emersione della quintessenza dei versi dei due poeti: Tarkovskij-Cvetaeva.
    Difatti, nella nota di presentazione, la De Bartolomeo sceglie una frase
    folgorante per la caratterizzazione totale di Tarkovskij nelle seguenti parole,
    tanto semplici quanto rivelatrici d’uno stato d’animo e d’una secca modalità esistenziale: “… un poeta che più che accettare l’amore voleva
    amare…”
    E poi la descrizione dello scenario nel quale l’incontro Cvetaeva-Tarkovskij
    avviene: “… il colore verde antico delle pareti…”; ” la mobilia di legno rosso,
    uno scrittoio, un divano, una credenza sormontata da un antico specchio…”;
    E ancora: “Sia il colore delle pareti che il mobilio si addicevano molto
    alla padrona di casa…”
    Vien fuori un’atmosfera modernista nella quale il mondo e gli oggetti
    vanno verso il soggetto poetante, oggetti e mondo posti dinnanzi al
    poeta-uomo come entità rientranti nel suo dominio.
    Per dirla con Marc Augé, Donata De Bartolomeo propone un “Luogo
    Antropologico” in cui situa i due poeti Tarkovskij-Cvetaeva e traduce
    i loro versi con tale e in tale consapevolezza. Perciò quello della traduzione
    della De Bartolomeo non è un “lavoro” ma si eleva ad “arte” perché entra
    nel sangue, nella vita, nell’anima, nella carne del poeta che traduce.
    E oso andare anche oltre, così:

    “Una stanza nel cuore della città.
    Un colore verde antico alle pareti.
    L’argento costa troppo. Un divano.
    Uno scrittoio. Una credenza sormontata da uno specchio.
    Il poeta è un oracolo sul divano.
    La traduttrice entra nella stanza. Ha un carico
    di nevi sullo scialle. Guarda il poeta.
    Resiste al suo sguardo. “Quanto tempo è passato..”
    Il poeta fa gli occhi piccoli: “Che tempo?… Quale tempo?
    Lo sai che esiste soltanto il presente…”
    “Ricordavo la dacia. il giro con te intorno alla dacia…

    Gino Rago

    • Donata de bartolomeo

      Gentile Gino Rago, sono commossa per il fatto che il mio lavoro le abbia ispirato versi così belli ma sono soprattutto stupita…deve sapere che il mio “amore” x tarkovskji è nato quando, sprofondando nella neve fino alle ginocchia, sono andata a visitare la dacia di Pasternak a peredel’kino. Nel locale cimitero mi sono imbattuta x caso nella tomba di Tarkovskji…è stato tutto come lei lo ha descritto: la neve, la dacia, io che sentivo il poeta a me vicino! Grazie di cuore a lei e a tutti gli altri che con tanta attenzione e benevolenza si sono accostati a questi due autentici giganti
      Donata de Bartolomeo

      • gino rago

        https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/26/poesie-edite-e-inedite-di-marina-cvetaeva-1892-1941-e-arsenij-tarkovskij-1907-1989-una-storia-damore-in-versi-a-cura-di-donata-de-bartolomeo-e-kamila-gayazova/comment-page-1/#comment-19684
        A Giorgio L., a Donata D. B.

        Una stanza nel cuore della città.
        Un colore verde antico alle pareti.
        L’argento costa troppo. Un divano.
        Uno scrittoio. Una credenza sormontata da uno specchio.
        Il poeta è un oracolo sul divano.
        La traduttrice entra nella stanza. Ha un carico
        di nevi sullo scialle. Guarda il poeta.
        Resiste al suo sguardo. “Quanto tempo è passato..”
        Il poeta fa gli occhi piccoli: “Che tempo?… Quale tempo?
        Lo sai che esiste soltanto il presente…”
        “Ricordavo la dacia. Il giro con te intorno alla dacia…
        Noi due affondati nella neve. Il vento di ghiaccio.”
        Il poeta non si scompone. Guarda la traduttrice
        attonito come in una notte di stelle.
        “Lo sai. Voglio amare più che accettare l’amore.
        Ma ti tengo in me come un respiro…”
        Il poeta lascia la stanza. Accende lo sguardo
        davanti al travertino della Piramide Cestia.
        Va verso San Paolo fuori le Mura. Le nevi,
        la bufera, la dacia sciolte tutte nel nitrico del tempo.
        La traduttrice ammira i mosaici bizantini della Basilica.
        Anche lei è a San Paolo. Si gira di scatto.
        Si trova nelle braccia del poeta…
        Roma per loro prepara il plenilunio.

        Gino Rago

  4. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/26/poesie-edite-e-inedite-di-marina-cvetaeva-1892-1941-e-arsenij-tarkovskij-1907-1989-una-storia-damore-in-versi-a-cura-di-donata-de-bartolomeo-e-kamila-gayazova/comment-page-1/#comment-19678
    Nell’intervista a Iosif Brodskij pubblicata su questa rivista e tratta dal libro edito da LietoColle Dialoghi con Iosif Brodskij (2016) è riportato questo dialogo:

    Brodskij: Ma questa non è affatto una contraddizione. È il tempo la fonte del ritmo. Ricorda quando ho detto che ogni poesia è tempo riorganizzato? E più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo. Così Cvetaeva è uno dei poeti più ritmicamente vari, ricchi e generosi. Tuttavia, la “generosità” è una categoria della qualità; e noi cerchiamo di operare solo quantitativamente, non è vero? Il tempo parla all’individuo con voci diverse. Il tempo ha un suo basso, un suo tenore. E un suo falsetto. Semmai, Cvetaeva è il falsetto del tempo, una voce che va oltre la nozione musicale.

    Volkov: Così lei pensa che l’eccedenza emotiva di Cvetaeva abbia lo stesso scopo della neutralità di Auden? Cvetaeva raggiunge lo stesso effetto?

    Brodskij: Lo stesso, se non maggiore. Secondo me, Cvetaeva, come poeta, per tanti aspetti è più grande di Auden. Quel suo tono tragico… alla fine, il tempo stesso capisce cosa sia. Deve capirlo e farsi sentire. È da qui, da questa funzione del tempo, che è apparsa Cvetaeva.

    Volkov: Ieri, tra l’altro, era il suo compleanno, e ho pensato: sono passati così pochi anni; se Cvetaeva fosse sopravvissuta potrebbe essere ancora con noi, potremmo vederla e parlare con lei. Lei, Iosif, ha parlato sia con Achmatova che con Auden. Frost è morto da non molto. Insomma, i poeti di cui stiamo discutendo, sono nostri contemporanei, e allo stesso tempo sono già figure storiche, quasi dei fossili.

    Brodskij: Sì e no. Questo è molto interessante Solomon. Di fatto, la visione del mondo che lei trova nelle opere di questi poeti è entrata a far parte della nostra percezione. Se vuole, la nostra percezione è il completamento logico (o forse illogico) di ciò che è contenuto nelle loro poesie; è lo sviluppo dei principi, delle motivazioni, delle idee, che si esplicitano nelle opere degli autori da lei citati. Dopo averli scoperti, nella nostra vita non è successo più nulla di così sostanziale, non è così? Cioè, io ad esempio, non ho incontrato niente di più significativo. Compreso il mio proprio pensiero… queste persone semplicemente ci hanno creato. E basta. Ecco cosa li rende nostri contemporanei. Nient’altro ci poteva formare così, almeno me, come Frost, Cvetaeva, Kavafis, Rilke, Achmatova, Pasternak. È questo che li rende nostri contemporanei, finché non tireremo le cuoia, fintanto che saremo vivi. Penso che l’influenza di un poeta, questa sua emanazione o irradiazione, si estenda per una o due generazioni.

    Volkov: Quando ha conosciuto per la prima volta le poesie di Cvetaeva?

    Brodskij: A diciannove, vent’anni circa. Perché prima non ero particolarmente interessato a tutto questo. Cvetaeva, ovviamente, la leggevo già allora, ma non nei libri, solo nelle copie battute a macchina del samizdat. Non mi ricordo chi me l’ha dato, ma quando ho letto il Poema della montagna, tutto si è sistemato. E da allora, niente di quello che poi ho letto in russo mi ha fatto un’impressione così grande come Marina.

  5. Io sono affascinato dal Pasternak di “Mia sorella la vita”. Però stranamente – leggendo in traduzione con testo a fronte – la sua poesia non mi arriva come quella di Mandel’štam, per non dire poi della Achmatova che – più “conservatrice” – leggo (o mi par di leggere) con relativa facilità. In Brodskij, sia pur ad alto livello, sia chiaro – qualche volta sento un che di meccanico e forzato nella costruzione delle immagini o delle metafore per questo mi colpiva l’osservazione di Sagredo, in altra sede, che lo sentiva un gradino sotto Tarkovskij. Potrebbe anche essere un problema di traduzioni…

  6. Ci sono spunti di discussione, elementi di lettura ed analisi infiniti in questo articolo e in queste splendide traduzioni: Marina C. alla fine della sua vita, che non si discosta (incredibile coerenza nell’incoerenza del suo gelido eppur straripante amore e che si ripete nei vari incontri della sua vita) da quello che ha sempre pensato sull’amore: “Quando amo una persona, io la prendo con me in ogni luogo, dentro di me non mi separo da lei, me ne approprio, un po’ per volta la trasformo nell’aria che respiro e in cui respiro-in dovunque e in nessun luogo. Non so assolutamente stare insieme, non mi è riuscito neanche una volta. Ne sarei capace se fosse possibile non vivere in nessun luogo, essere in eterno viaggio, semplicemente- non vivere.. A me sono d’ostacolo le persone, i numeri delle case, gli orologi che segnano le 10 o le 12… Quando sono senza l’altro, l’altro in me è più intero- e più vero. I dettagli della vita e dei giorni, tutta la minutaglia quotidiana (vivere è appunto sminuzzare) nell’amore mi sono insopportabili… Sapete dove e come sto bene? Nei posti nuovi- su un molo, su un ponte- più vicini al nondove, nelle ore che confinano con le nessune. Non sopporto la tensione amorosa, che in me è smisurata- non sopporto questa totale metamorfosi di me stessa nel mio proprio orecchio, tutto teso verso l’altro…Dalla vita sono assente. Amare è essere presenti ancora più intensamente, incarnarsi all’estremo- quaggiù.”

  7. gino rago

    I platani sul Tevere diventano betulle
    (a Giorgio L., a Donata D. B.)

    Una stanza nel cuore della città.
    Un colore verde antico alle pareti.
    L’argento costa troppo. Un divano.
    Uno scrittoio. Una credenza sormontata da uno specchio.
    Il poeta è un oracolo sul divano.
    La traduttrice entra nella stanza. Ha un carico
    di nevi sullo scialle. Guarda il poeta.
    Resiste al suo sguardo. “Quanto tempo è passato..”
    Il poeta fa gli occhi piccoli: “Che tempo?… Quale tempo?
    Lo sai che esiste soltanto il presente…”
    “Ricordavo la dacia. Il giro con te intorno alla dacia…
    Noi due affondati nella neve. Il vento di ghiaccio.”
    Il poeta non si scompone. Guarda la traduttrice
    attonito come in una notte di stelle.
    “Lo sai. Voglio amare più che accettare l’amore.
    Ma ti tengo in me come un respiro…”
    Il poeta lascia la stanza. Accende lo sguardo
    davanti al travertino della Piramide Cestia.
    Va verso San Paolo fuori le Mura. Le nevi,
    la bufera, la dacia… Tutto sciolto nel nitrico del tempo.
    La traduttrice ammira i mosaici bizantini della Basilica.
    Anche lei è a San Paolo. Si gira di scatto.
    Si trova nelle braccia del poeta…
    Roma per loro prepara il plenilunio.
    I platani sul Tevere diventano betulle.
    Bella Achmadùlina senza fruscii irrompe.
    Il sapore delle mele rimane sulle labbra.

    Gino Rago

    (Dichiaro che i versi de “I platani sul Tevere diventano betulle” sono inediti
    e che sono dedicati a Giorgio Linguaglossa (“Il poeta”) e a Donata De Bartolomeo (“La traduttrice”).
    Questi versi hanno sùbito trovato la fonte d’ispirazione nella “arte “ di tradurre di Donata De Bartolomeo.
    Ho immaginato Giorgio Linguaglossa e Donata De Bartolomeo prima in una stanza d’un palazzo nel cuore d’una città (Mosca?), nell’assedio di ricordi di venti gelidi e bufere intorno a una dacia…
    Poi, con un brusco salto di spazio e di tempo, li ho collocati in una Roma di mosaici dorati e di platani che, per prodigio poetico, diventano betulle sotto la magia d’un plenilunio d’aprile. Roma intende far festa per loro.
    Ma tutta la composizione si organizza, nell’autonomia e compiutezza d’ogni verso, per preparare Il verso finale, “Il sapore delle mele rimane sulle labbra”, per la sua potenza evocativa, metaforica,
    emotiva, potenza che quasi mi folgorò quando anni or sono in questo verso mi sono imbattuto: verso che incontrai proprio a opera di Donata De Bartolomeo, quando tradusse le «Poesie scelte»
    della Achmadùlina, per la Fondazione Piazzolla, e che Giorgio Linguaglossa mi fece conoscere…)
    Anch’io dico a Giorgio Linguaglossa e a Donata De Bartolomeo:
    “Ho vissuto nel mondo e ho cercato di essere migliore”.

    Gino Rago

  8. antonio sagredo

    Nessun slavista italiano ( e credo anche europeo) eguaglia le traduzioni delle poesie di Pasternàk, come quelle di A. M. Ripellino, che essendo anche raffinato poeta e sublime saggista (basta leggere il saggio su V. Chlebnikov per rendersi conto quale maestria critica-linguistica lo sorreggesse), ha saputo cogliere le trame linguistiche più sottili dei/nei versi del poeta russo. Basta ascoltare i versi recitati-cantati di Carmelo Bene de “In morte di un poeta” (vedi internet), che scelse quasi sempre le sue versioni. [L’attore e regista salentino pur non essendo uno specialista, seppe fin da giovanissimo cogliere lo spirito dei poeti russi (primi anni ’60); lo stesso Ripellino – mi confessò – fu sorpreso di come il Bene avesse saputo interpretare nell’unico modo possibile i poeti russi: non era affatto facile, ma ci riuscì perfettamente.]
    Tra Ripellino e Pasternàk esiste un carteggio – di cui spesso mi diceva commosso – che aveva lo scopo di sciogliere alcuni nodi-incomprensioni nei versi; e di questi ne parlò direttamente con Pasternàk quando lo visitò a Peredelkino; testimone di questo incontro fu Evtušenko, nella veste di Virgilio.
    Rifacendomi ai sentimenti del/la Margiotta, quando stabilisce un rapporto fra Pasternàk e Mandel’štam, devo dire che si tratta soltanto di disposizioni d’animo momentanee: entrambi i poeti sono uno all’altezza dell’altro senz’altra distinzione critica. Si insinua fra di loro due la presenza amorosamente assillante, per entrambi, della Cvetaeva, che ricevette sempre da loro due (e non solo) grandissimo plauso. (non è necessario leggere – se non per curiosità quanto scrisse il Brodskij su di lei, e al solo fine di bibliografia); quanto questo poeta-samizdat scrisse su di lei già lo sapevamo bene da quanto scrissero i poeti e i critici formalisti russi, contemporanei della poetessa – e poi vi sono i saggi di alcune slaviste italiane, esaurienti e quasi definitivi che ne esaltano – a giusta ragione – la preminenza su tante poetesse europee).
    Ebbene – e ritorno al valore di A. Tarkovskij – resto fermo nel mio giudizio di sempre che: il Brodskij poeta è un gradino al di sotto. Brodskij se la deve vedere anche col valore di alcuni suoi compagni di strada del samizdat, che non gli furono inferiori affatto, e a tale scopo consiglio la lettura di un testo fondamentale come quello di Marco Sabbatini “Cultura e Poesia Underground a Leningrado”, Europa Orientalis, Salerno 2008. Molti di questi compagni di strada di Brodskij sono deceduti. Mentre il Tarkovskij riconosce Majakovskij, specie il primo giustamente, Brodskij per manifesta ignoranza non lo riconosce [come anche Elena Dundovich, che in un suo scritto (2013) sulla Achmatova non nomina affatto Majakovskij (e lo stesso Ripellino)]…. Come è possibile scrivere dei poeti russi dell’inizio del secolo scorso senza nominare Majakovskij, che con tutti i più importanti poeti suoi contemporanei ebbe contatti stretti anche se contrastanti, e che da tutti ebbe affetto e plauso? – Brodskij come la Dundovih ignorano volutamente p.e. il primo Majakovskij, perché non lo hanno mai conosciuto abbastanza per dirne (basta leggere il saggio di Ripellino “Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia” per rendersene conto della sua primaria importanza!
    E volutamente A. Tarkovskij è stato ignorato a lungo, forse perché oscurato dai “grandi”… forse, ma noi sappiamo ora che ha una sua propria singolarità che lo pone di poco al di sotto di questi “grandi”, e che ha già da tempo un suo posto definitivo. Il figlio regista Andrej disse che suo padre fu “uno dei più grandi poeti russi della seconda metà del secolo XX”, (l’amore filiale può tutto). Certo egli occupa un posto quasi parallelo a quello Nikolaj Zabolovskij… questi due sono poeti, p.e., che si pongono a lato dei “grandi” senza affatto sfigurare.
    Quanto la Cvetaeva, Brodskij ripete quello che già era conosciuto e più volte scritto, e molto prima di lui: lo stesso Pasternàk e tutti gli altri “grandi”, che dedicarono a lei molte poesie tutte inneggianti alla sua grandezza.
    ————
    Il grande filosofo-poeta ateista Andrzej Nowicki (1919-2011) dedica alla Cvetaeva questi straordinari versi del 2010, (già vegliardo, ma che già da giovanissimo ne ammirava i versi) :
    ——
    Cvet

    Fuggiva dalla gente e negli alberi
    si rifugiava, e quando con le scuri
    gli alberi abbatterono, notò
    che nel tavolo dove i versi scriveva
    un albero ancora viveva,
    un albero che era stato,
    che era e che sempre sarà,
    non solo là dov’era, ma
    ovunque
    leggeranno le sue parole,
    dove il colloquio della poetessa
    con l’albero è registrato.

    Ma non solo lei parlava,
    perché anche il tavolo parlava molto
    con la sua lingua peculiare –
    con la melodia degli alberi,
    quindi per capire le sue parole
    il suo canto devi bene ascoltare.

    Il tavolo che le parlava
    era cresciuto in Cina,
    quindi si può facilmente immaginare
    che una fanciulla cinese vi abitava.

    Quella stessa che un giorno
    su una tavola dipinse
    incantevole per colori e forma
    il suo autoritratto,
    sapendo che un giorno verrà
    qualcuno che s’innamorerà di esso
    e meriterà che ella
    emerga dal ritratto
    tendendo le braccia.

    Tu sai che sono un albero,
    e io so che tu sei un fiore
    e che verrà qualcuno per il quale tu sarai
    il più degno di ammirazione, di stima,
    e del suo amore ergantropico –
    un mondo
    incantevole.

    Dunque scrivi versi incantevoli
    e trasformati in questi versi
    per riconoscerti in essi
    con lo sguardo, con l’udito, con il tatto
    e con le braccia del cervello –
    per afferrarli e assorbirli in te.

    Ma tu, o Lettore, riuscirai
    come Marina Cvetaeva
    a sentire e capire
    il canto di un albero?

    2.12.2010
    [trad. dal polacco di Paolo Statuti
    (vedi suo blog. : Un’anima e tre ali”)
    su suggerimento di A. Sagredo)].

    ——————————————————————————————
    Le versioni della De Bartolomeo delle poesie di entrambi i poeti qui presentati – l’ho già scritto – sono degnissime di nota.

    • Sagredo, ti ringrazio per la bella poesia di Nowicki e per il commento di sostanza.
      Nell’ edizione di «Mia sorella la vita» che ho io, le traduzioni credo che siano di Nadia Cicognini (con uno scritto introduttivo della Cvetaeva)… Ripellino tradusse mai integralmente quest’opera? Nel 2009 sono uscite delle sue traduzioni da Pasternak (uso grafia Einaudi ma so come si pronuncia)… Come si accorda il barocco nativo di Ripellino rispetto allo stile (e a quella certa musica) di Pasternak?
      Su Ripellino, oltre alle sue cose, mi capitò di leggere un saggio di Cortellessa, in una raccolta di scritti critici uscita per Fazi, qualche anno fa… (Che tu, Sagredo, puoi anche ignorare, visto che lo conoscevi di persona)…
      Mi ha sempre «intrigato», anche come poeta in proprio, sin dalla scoperta del suo nome e cognome: Angelo, Maria e Ripellino (con le i che portano luce). Nomina sunt consequentia rerum?
      Sì, Sagredo, il mio «problema» o sentimento problematico con quel libro di Pasternak, detto nel commento precedente, è solo un fatto soggettivo e forse dovuto alle traduzioni.
      Quanto a Carmelo Bene, (io sono nato a Lecce, sebbene sia andato via da bambino e tornato solo nei luoghi marini d’estate) consentitemi una citazione da Pound: « Il genio è la capacità di vedere dieci cose là dove l’uomo comune ne vede solo una, e dove l’uomo di talento ne vede due o tre»… Non posso dimenticare le sue interpretazioni di Pasternak e di Majakóvskij.
      Personalmente, lo amo ma (come mi accade con Nietzsche) non lo prendo come il Verbo…
      I geni, l’uomo comune e l’uomo di talento: ciascuno ha la sua funzione e importanza, purché non ci siano casi di ipertrofismo dell’Ego e confusioni di ruoli… L’umiltà è sempre la migliore medicina, anche per leggere o scrivere poesia. E poi ci sono anche i geni del male (e non alludo a Bene)… Benché un genio nefasto forse non possa essere veramente geniale (affermazione con il beneficio del dubbio, da verificare con esempi di veri geni che abbiano causato morte e dolore)…
      Un’ ultima battuta, prendendo spunto proprio da quel che diceva Sagredo sulla genialità di Bene; se non ricordo male, Fortini metteva in guardia dagli specialisti (non so se l’idea l’abbia presa da György Lukács) e Weber parlava di «specialisti senza intelligenza».
      Dico questo, non per punzecchiare qualche specialista qui (ce ne sono anche di intelligenti) ma perché credo che il divenire storico degli ultimi tempi tenda sempre più a creare un sapere di settore e a confinare gli uomini entro recinti: così, si controlla meglio e meglio si gestisce. Pensate a certe aziende dove ogni settore è un’isola non comunicante… Io credo in una comunità amorosa (pur con i tanti difetti degli uomini), dove tutto sia messo in circolo e in movimento e ciascuno fornisca il suo contributo; ma per questo ci vorrebbe un comune orizzonte ultimo. Nella società medioevale erano Dio e la Chiesa e gli altri poteri temporali.
      Però c’era un Ordine. E per un anarchico alla Tolstòj come me, l’ordine è speculare all’anarchia…
      Che gusto c’è a trasgredire nella nostra società così sfilacciata? Non so…

  9. mI SCRIVE STAMATTINA lUCIO MAYOOR TOSI [purtroppo non posso inserire l’immagine in questo luogo):

    Spero si capisca, dall’immagine che vi allego, come intendo muovermi in pittura nella narrazione per frammenti.

    I frammenti possono essere disposti sulla parete in serie infinita di combinazioni. Ciascun frammento è completo in sé.
    Questo che vedete è un esempio tra i tanti che si potrebbero fare.

    Per me questo è ciò che rimane dell’opera d’arte unica. Lo sapevo già dieci anni fa, quando facevo arte digitale, che sarebbe andata così.
    Era già chiaro a Benjamin, ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità – anche se è un libro che oggi possiamo considerare a dir poco obsoleto – il resto lo ha fatto Duchamp, insieme a certa critica d’arte: la pittura sembra morta. A questo penso sempre. Ma è perché la società si sposta, come un grande elefante. Una mandria di elefanti… Se c’è qualcosa di sbagliato, non sta nella pittura o nella poesia ma nella testa di chi non si rende conto.

    In pittura l’opera unica è scomparsa, ha perso cioè ogni altro valore oltre a quello di essere decorativa. Ecco quel che ne resta: frammenti. Ma sono frammenti che possiamo comporre liberamente nello spazio per creare, non una ma un’infinità di opere nuove. Così facendo, l’artista che compone per frammenti, finisce con l’adottare il chiacchierio della comunicazione odierna; ma lo fa selezionando, ponendosi obiettivi di qualità. E’ un passo avanti rispetto al Pop di Andy Warhol. Anche se ne coglie il messaggio.

    [Scusa Giorgio ma stamattina non mi riesce quasi di scrivere. Accade sempre, quando sto per più tempo con la pittura che con la poesia].

    mio Commento:

    Il problema del «frammento» in poesia si ripropone con forza ogni volta che ci rivolgiamo alla pittura, alla scultura, alla musica etc., l’arte figurativa è un milione di chilometri più in avanti rispetto alla poesia. In poesia siamo arretrati di milioni di anni luce, si pensa ancora alla scrittura poetica come a qualcosa che sta a metà tra Sandro Penna e Balestrini, ma quello era un mondo antidiluviano che è scomparso con il Cretaceo! Oggi un poeta degno appena di questo nome non può continuare a scrivere à la maniére de Bacchini e di Bertolucci, lo ripeto: con tutto il rispetto per questi due degni poeti).

    Vorrei chiedere a Lucio Mayoor Tosi di mandarmi qualche sua opera figurativa in jpeg così da inserirle in un post, magari con un mio commento impolitico.

    • Fatto. Mi scuso se non dico nulla di utile a proposito di questo bellissimo e interessantissimo articolo di Gayazova e De Bartolomeo. Il fatto è che mi ha commosso – sempre, in presenza di Marina Cvetaeva – per la sua storia certo, ma per me è “Il mio Puskin”, che non ha dolore eppure fa di più. Anche le poesie sì, ma a volte il tono solenne, quel dare peso alle parole li sento poco attuali, lontani più di un secolo – Penso ai rapporti, oggi virtuali, tra poeti, dove si discute di forma,rime e accenti, come Marina con Arsenij Tarkovskij, all’amore “assente”, le rivalità e tutto il resto nelle meravigliose e disperate storie di quegli esseri stranamente incarnati che sono i poeti. E si rivive. Ringrazio anche Antonio Sagredo per i suoi giudizi di valore, sempre attendibili. Metteremo tutti questi frammenti da qualche parte, ne sono certo. Anche le poesie di Gino Rago, che qui sembra fare esperimenti con il punto, quasi un allenamento, ma si capisce che doveva mettere in riga una forte emozione. La stessa ho provato io leggendo questo articolo.

  10. Francesca Dono

    sindrome di Stendhal per questi due poeti di stupefacente grandezza. Lode alla traduttrice per le splendide versioni, ma anche a Gino per la bellissima poesia. In pittura, invece, sto cercando la spazialità collegando vari frammenti. Fino ad ora ho raccolto immagini scaturite da un concetto o per visioni mentali. Saranno tutte pitture diverse,credo. In digitale anche. Lucio Mayoor dovremmo interfacciarci su alcune cose….

  11. Le cose sono frammenti di un mondo cosificato

    Le cose sono quelle cose che si ritirano dagli oggetti

    Gli oggetti nudi ci indicano che un tempo essi sono stati cose.

    Ecco, in queste poesie di Cvetaeva e di Tarkovskij abbiamo la netta percezione che quegli oggetti nominati sono diventati cose… Gli uomini nella loro esistenza alienata hanno necessariamente a che fare sempre con gli oggetti, non sapendo mai come e quando quegli oggetti ri-diventeranno cose…

  12. antonio sagredo

    Le sensazioni che ho provato leggendo degli incontri qui riferiti (di cui sapevo qualcosa, anche di impreciso) fra Cvetaeva e Tarkovskij sono molteplici, ma quella che più mi si è impressa è stata quella di in/seguire la poetessa verso la sua fine con le testimonianze qui riportate… di una effettiva quanto imposta realtà senza scampo…di cambiarla almeno un po’ sarebbe stata sufficiente alla poetessa per ancora soprav/vivere… mi ha colpito la soggezione che Tarkovskij provava verso questa “creatura messa a nudo, mentre voi avete tutti una corazza!” (parole della poetessa)… una soggezione e insieme il sentimento di allontanarsene per non essere bruciato: cosa che fece prima della sua fine… una sorte di rimorso dopo 22 anni gli fece scrivere quei versi che qui leggiamo con una certa apprensione e commozione (questo lo possono comprendere soltanto gli studiosi seri che con questi poeti, tramite le traduzioni dei loro versi, sono i più vicini e sinceri amici)… la devozione che la De Bartolomeo (mi) mostra per Arsenij Tarkovskij è una testimonianza accorata di come si devono affrontare i poeti russi ( e non solo)… dunque noi sappiamo di più dalle sue ricerche e traduzioni su questi due poeti che per motivi diversi ma così incatenati non possiamo che amare e rispettare… entriamo nella loro quotidianità e intimità con passo vigile, attenti a non disturbare le loro parole, e i loro silenzi fanno parte anche della nostra vita.

  13. L’ha ribloggato su CIANURO EMOTIVO INCHIOSTRO D'ANIMA SINISTRAe ha commentato:
    Si tratta di un ciclo di poesie palesemente scritte da Arsenij Tarkovskij à la màniere della Cvetaeva (vedi l’uso delle lineette). L’uno risponde all’altra.

    “Io ascolto, non dormo, mi chiami, Marina…”

  14. Giuseppe Talìa

    Le notizie inedite circa gli incontri tra la Cvetaeva e Tarkovskij, che Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova portano a conoscenza, sono di fondamentale importanza: l’uno risponde all’altra. Si riconobbero e si amarono, Cvetaeva e Tarkovskij, per come ci si può riconoscere ed amare, da poeta a poeta, due giganti, due segnati dal destino mimetico. Oggi, difficilmente, si può avere un tale riconoscimento reciproco, un simile incontro di destino, per il semplice fatto che quandanche un uguale incontro destinato avviene, esso si perde, irrimediabilmente, nella superficie massmediatica. Eppure, di incontri significativi e di reciproca ri-conoscenza avvengono ancora, seppur mediati, mediatizzati, annullati dalla stessa medialità o crossmedialità.
    La bella poesia di Gino Rago, dedicata a D. De Bertolomeo e G. Linguaglossa, tratta proprio di un incontro di destino mimetico. Un incontro da ricordare, da segnare.
    Preferisco la prima versione, quella dove la narrazione si interrompe: “Ricordavo la dacia. Il giro con te intorno alla dacia…,” piuttosto che la seconda o terza versione, in cui l’espansione disloca i Due da un ricordo a una progressione d’informazione, San Paolo fuori le Mura…
    Ma, è il verso “Lo sai. Voglio amare più che accettare l’amore”, che restituisce interamente entrambi i soggetti: Poeta-poeta, poeta-traduttrice, traduttrice-poeta, indissolubilmente.

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