Poesie di Vincenzo Petronelli, Le ragazze nei vestiti d’estate, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Dal minimalismo anni Ottanta alla motorizzazione della nuda vita nella poesia di oggi, Lucio Mayoor Tosi, pomodoro, stampa digitale

Lucio Mayoor Tosi, stampa digitale, Pomodoro
[Lucio Mayoor Tosi, stampa digitale]
Vincenzo Petronelli, è nato a Barletta l’8 novembre del 1970. Sono laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiedo ad Erba in provincia di Como, dove sono approdato diciotto anni fa per amore di quella che sarebbe poi diventata mia moglie, ho una figlia di 14 anni.
Dopo un primo percorso post-laurea che mi ha visto impegnato come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e come redattore editoriale, ho successivamente intrapreso un percorso professionale nel campo della consulenza aziendale, che mi ha condotto al mio attuale profilo di consulente in tema di comunicazione ed export; nel contempo proseguo nel mio impegno come ricercatore in qualità di cultore della materia, occupandomi in particolare di tematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare e la cultura di massa.Dal 2018 sono presidente del gruppo letterario Ammin Acarya di Como, impegnato specificamente nella divulgazione ed organizzazione di eventi nell’ambito letterario e poetico. Alcuni miei scritti sono comparse nelle antologie IPOET 2017 e Il Segreto delle Fragole 2018 ( Lietocolle), Mai la Parola rimane sola, edita nel 2017 dall’associazione Ammin Acarya di Como e sul blog letterario internazionale “L’Ombra delle Parole”.

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Poesie di Vincenzo Petronelli

Le ragazze nei vestiti d’estate

La carrozza di mezzogiorno, lungo il viale dello Steccato,
accompagna il cambio della guardia nella torre d’avvistamento.

Il corridoio converge verso il tavolo da cucina: un cesto di fichi fioroni
ed un presagio di zingara, adornano il mattino della sposa di giugno.

La radio annuncia mare in tempesta tra Zara e il golfo del Quarnaro:
prevede vento di sciacallo e polvere da sparo al tramonto.

Dal balcone di Cesenatico, il professore dispensa saggezza all’ora del caffè: meglio il 4-4-2, è più prudente.

Anna esce subito dopo pranzo per l’allenamento di atletica,
mentre suo padre depone l’uniforme socialista;
il quartiere è una girandola di glutei ondeggianti tra le finestre e la spiaggia, nella penombra scabra del meriggio.

Le commesse al giovedì sera hanno occhi di scoglio e di miele:
ci sono carte da decifrare sul limes d’occidente.

Marisa ha un vestito da mannequin, nel deposito degli attrezzi agricoli: l’hanno vista l’ultima volta in una notte chiara di cornacchie,
intrappolata in un labirinto.

Dalla finestra della scuola d’arte, i sorrisi delle ragazze nei vestiti estivi
ed il monito dell’insegnante di metrica latina: “Ragazzo mio,
tu non conosci l’esametro dattilico: non combinerai mai nulla nella vita”.

Il Viaggio

La lunga scia dei corvi sul mattino della Puszta;
con il bagaglio del loro sguardo
percorrono a ritroso la staccionata del tempo.

Il sole ha i piedi nudi, nel livore di inizio marzo,
tra volti di cera squarciati dagli inverni
e trame sghembe di tessuti femminili.

Edith ha otto anni al risveglio:
indossa un vestito a fiori regalatole dalla nonna e legge i versi di Petőfi
seduta sulla panchina di pietra della scuola.
“Quanta stella c’è nel cielo
quanta cattiveria nel cuore dell’uomo?”.

Viaggia con i corvi e i contrabbandieri di confine
attraverso stanze mute di vento
e gli echi stranieri dei bambini nelle valli.

Nomi composti a memoria, di stazioni lontane
depositi di carri bestiame,
addobbati di cristalleria viennese.

I nomadi al tramonto hanno portato gli occhi con sé
per vedere il fiato opaco nelle stalle
– appena illuminate dai fuochi della csárda -:
le orecchie per udire i tintinnii dei bicchieri di Galizia
e la tempesta strisciante dei violini”.

Maddalena ha un figlio con il capo reclinato:
ha sognato tanto il latte materno
da sanguinare dalla testa.
Lo culla, vestendolo con uno straccio da cucina:
“Quando sarete grandi, imparerete da voi stessi
quante lacrime ci sono dietro queste lettere
e quanti pianti”

L’ombra di suo padre in dissolvenza,
spugne d’aceto e una corona di spine,
dietro un’eco clamorosa di risate.

I cavalli sfilano in silenzio per le fiere dell’Est,
mentre ne sezionano il manto.
Gli anziani chiudono gli occhi, ripercorrendo i sentieri dell’Alföld,
la gola sotto l’ascia del signore.

Sazi, i corvi lasciano la pianura verso il mare Adriatico:
Croazia, Veneto, Puglia, a depurare le loro ali.

Edith ha ottantotto anni quando si addormenta
leggendo i versi di Petőfi: “Quanta stella c’è nel cielo,
quanta cattiveria nel cuore dell’uomo?”

The party is over

“Non c’è un motivo apparente per questa morte in un giorno di ottobre”.

Ci sono marosi sotterranei sulla rotta per Buenos Aires,
mentre Evelyne attende dietro l’inferriata.

Molly O’Driscoll non annaffia i gerani da tre giorni:
“se anche gli amanti non si perdono, non ritroveranno l’amore”.

Il savory pudding di Nonna Carolyne, lasciato sulla tavola per colazione
prima di raggiungere i contadini per la raccolta delle patate.
L’ispettore raccoglie le briciole tra le mani, fissando il ritratto di Patrick Kavanagh.

Il pagliaccio ha suonato tutta la notte, sulle note di “Tabular Bells”:
sul pavimento, tracce di aforismi da “the tell-Tale heart”,
testi di canzoni di Billie Eilish, nella luce fioca dei led.

Mrs. Ryan trascorre le sere arrampicata alle travi alla ricerca di Andromeda, disturbata dal fascio di luce.
Tra Eros e Thanatos c’è Virgil Avenue con la Trinity Church:
“È scivolata su queste pietre, come il sudario sul Monte Calvario”.

Dietro la sagrestia, un vomere inceppato, tra le pietre dei granai;
mani bambine, cingono ombre di scialli stinte, tra sentieri di cardi.

“Qual è la soglia della colpa ispettore?”: risuona nel vuoto la domanda del parroco:
“Il falegname di Betlemme, il macchinista di Cernăuţi, il bambino di Belfast,
tra gli scogli del silenzio?”

“Ispettore O’Driscoll, il caso è chiuso.”

“È morta in un giorno di ottobre, senza una rima,
né una ragione o una profezia”.

Molly è tornata ad annaffiare i gerani questa mattina: il professore dice
che Urano è nella costellazione del Leone e che l’Oltre
non avrà dominio.

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

È noto che l’Italia durante anni sessanta settanta ha subito l’invasione delle lavatrici, della televisione in bianco e nero, delle cinquecento e delle seicento Fiat, delle vacanze di massa sulle spiagge popolari; in quegli anni fa la sua comparsa la Olivetti n.22, i negozi sono pieni di merci, le ragazze indossano la minigonna e si pettinano con la coda di cavallo, indossano i pantaloni, inizia e prosegue la motorizzazione della vita privata, le masse contadine si trasformano in piccola borghesia e in sottoproletariato, il proletariato nel frattempo va a finire in paradiso… la vita privata e il quotidiano ne risultano rivoluzionate, le Brigate rosse si avviano alla sconfitta politica e la antiquata forma-poesia post-ermetica viene defenestrata senza tanti complimenti e sostituita con una poesia chewingum masticabile e digeribile dai novissimi la cui omonima antologia reca l’anno 1961. Detto in breve, durante gli anni settanta ha inizio il fenomeno della poesia del privato con il libro di Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo, e con l’Antologia a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, Il pubblico della poesia del 1975. Con la fine del tentativo del compromesso storico e l’omicidio Moro del 1978 l’Italia cambia registro, agli anni di piombo subentra il decennio della vita affluente e delle discoteche, il privato sostituisce definitivamente il pubblico, il quotidiano sostituisce il politico e la poesia ne registra gli smottamenti: fanno la loro comparsa il riduzionismo e il minimalismo con l’opera di Valerio Magrelli, Ora serrata retinae (1980).

C’è da dire che oggi quelle tematiche private e privatistiche del primo minimalismo si sono esaurite e si sono trasformate nella privatizzazione e nella tribalizzazione della «nuda vita» privata. Rimane presso i continuatori di quella impostazione privatistica dell’arte, della poesia e del romanzo un intendimento situazionista e privatistico, posiziocentrico, sopravvivono il romanzo e la poesia memorialistiche, rimane in vigore, nel migliore dei casi un descrittivismo psicologico di matrice neo-verista e neoorfico, una linea minoritaria di un tipo di poesia già minoritaria ai suoi albori.

C’è da dire che in questi ultimi anni è diventata sempre più palese una forte reazione a quella visione privatistica del privato e a quel minimalismo neghittoso. La nuova ontologia estetica di questi ultimi anni è la più drastica e convinta reazione a un indirizzo e a un versante della recente poesia italiana che ha ormai esaurito (semmai ce l’ha avuto) l’iniziale effetto propulsivo. Vincenzo Petronelli ha seguito con attenzione la ricerca della rivista e ne ha tratto indubbi benefici: ha posto nel bagagliaio degli oggetti smarriti l’io e le sue commessure, le sue adiacenze e pertinenze, lo stile è diventato dichiarativo; il poeta pugliese ha preso atto che quell’indirizzo di poesia privatistica è andata a sbattere sul muro dell’«impenetrabile tediosità del quotidiano» (per usare la dizione di Agamben) e sulla de-politicizzazione della vita culturale delle masse della democrazia italiana; oltre quella koiné stilistica frutto di compromesso tra neoverismo e neoorfismo, non era possibile andare. Quel tipo di autobiografismo introspettivo, igienico e auto ironico a glicemia controllata è finito nella rigatteria delle istituzioni stilistiche defunte. Questo è oggi lampante. Quell’autobiografismo è finito nella autobiologia, nella «nuda vita», nella vita vegetativa delle nuove post-masse che si nutrono di cliché ipoveritativi. Quell’autobiografismo (nella poesia come nel romanzo nel cinema e nelle arti figurative) è finito nella ipoverità, nel migliore dei casi nell’intrattenimento.

Di tutta quella medietà culturale oggi è rimasto un grande mercato di narratività logografiche e ipoveritative, Vincenzo Petronelli ne prende atto e cambia registro, assume l’illatenza, lo stile dichiarativo ed espositivo in terza persona, fa esperienza della parola parlata, impiega disparati registri stilistici, mesce sapientemente il vissuto di vari personaggi con fraseologie dichiarative, nomina il noto e l’ultroneo, l’assurdo e la tecnica fonografica:

Dal balcone di Cesenatico, il professore dispensa saggezza all’ora del caffè: meglio il 4-4-2, è più prudente.

Anna esce subito dopo pranzo per l’allenamento di atletica,
mentre suo padre depone l’uniforme socialista;
il quartiere è una girandola di glutei ondeggianti tra le finestre e la spiaggia, nella penombra scabra del meriggio.

44 commenti

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44 risposte a “Poesie di Vincenzo Petronelli, Le ragazze nei vestiti d’estate, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Dal minimalismo anni Ottanta alla motorizzazione della nuda vita nella poesia di oggi, Lucio Mayoor Tosi, pomodoro, stampa digitale

  1. mariomgabriele

    caro Vincenzo Petronelli,
    sono appena le 9 e il mattino non si è ancora rivelato con tutte le ionosfere linguistiche e accidentali, tra bollettini di guerra pandemica e cadute di razzi cinesi, che con vera sorpresa leggo i tuoi testi poetici, diversi da quelli presentati a suo tempo su questa Rivista, dove emergeva un cliché linguistico di ampia caratura e atmosfera di tipo meridionale e che ora tu rivitalizzi con una fisionomia psicologica e psicoestetica, molto gradevole nella sua forma metrica e percorso ricostruttivo, Tutto ciò mi ha permesso di sostare con molto piacere sulla poesia con l’incipit – The party is over -, che mi ha lasciato in un gradevole registro fatto di soggetti plurimi, supportati da una anglofonia tra paesaggi vari ed evocazione di immagini all’interno di un collaudato sistema espressivo. Su questa linea la sciatteria non esiste e la poesia diventa una griffe rispetto al momento attuale. Con cordialità. Mario Gabriele.

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    • vincenzo petronelli

      Buongiorno Mario, innanzitutto mi scuso per risponderti solo ora, ma impegni familiari domenicali non mi hanno consentito di farlo prima. Devo dire che anch’io amo le scoperte e gli approfondimenti poetici del mattino che precedono “la messa in moto” del mondo con i suoi strali di regime: trovo che abbiano un continuum diretto con la dimensione onirica che esalta la trascendenza poetica.
      Caro Mario, ti ringrazio infinitamente per il tuo commento: è per me davvero un onore ed un grande motivo di soddisfazione personale, vedere la mia poesia accreditata, attestata, convalidata, in quella che, come scrivevo ieri è la mia dimora poetica. Leggere l’interpretazione ermeneutica di GIorgio ed adesso anche il tuo commento e quelli degli altri nostri amici è un incoraggiamento importante per me per proseguire sul percorso del rinnovamento della mia scrittura. Mi fa piacere il fatto che tu sottolinei la distanza rispetto al mio vecchio “usus scribendi”, poiché mi permette di calcolare l’itinerario percorso in questi anni e l’evoluzione del mio lavoro, che molto deve anche ai tuoi suggerimenti e contributi,a cominciare dalle giuste osservazioni da te mossemi in occasione della pubblicazione dei mie vecchi testi.
      In verità, essendo sempre stata una cifra della mia formazione intellettuale, c’era già “in nuce” all’epoca un anelito nel coniugare il “locale” con il “globale”, rispetto alla cui articolazione, l’uso frequente del dialetto tendeva proprio alla creazione di una koiné universale, nella misura in cui le lingue più “terragne” paiono offrire una maggior libertà di creazione “cosmognonica”: tant’è vero che molti dei miei brani all’epoca composti in dialetto, in realtà erano un tentativo di ri-collocazione “primigenia” di spunti, storie raccolte magari durante i miei innumerevoli viaggi nei luoghi più disparati (Irlanda – che come si intuisce da uno dei miei scritti presentati quest’oggi, mi è particolarmente cara – Messico, Kazahstan, ecc.), ma evidentemente ciò determinava una sorta di rarefazione dell’atmosfera ad una dimensione da “cliché”, senza contare la concatenazione che si veniva a creare tra quell’impostazione poetica e i “nodi scorsoi” della memoria, che rischiano di creare trappole intrise di passatismo. E soprattutto, fermo restando il problema principale, vale a dire come sottolinea Giorgio, il fatto che di avere allora un approccio che ancora non riusciva a sbarazzarsi delle concrezioni superficiali dell’io, di cui mi sono liberato per scovare le increspature profonde dell’esistenza. Un mio amico che mi conosce bene e con cui condivido la passione per il cinema, leggendo la poesia della Noe, mi ha fatto osservare che il passaggio dalla scrittura della poesia tradizionale a quella della Noe equivale ad uscire da una sala con in corso una proiezione di un film di John Ford (con tutto il rispetto) ad una in cui si trasmette un film di Bergman: è esattamente questo tipo di stimolo “palingenetico” che mi entusiasma per l’approccio che la tua poesia e quella della Noe mi ha trasfuso e che mi consente di dar vita a quelle atmosfere che cogli nelle mie scritti pubblicati in quest’articolo.
      Ti ringrazio infinitamente Mario per le tue parole ed in generale per i tuoi insegnamenti da cui continuo avidamente ad attingere.
      Un grande abbraccio.

      Vincenzo

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  2. Riporto l’interrogativo di Lucio Mayoor Tosi:
    8 maggio 2021

    «La maggior parte dei versi di instant poetry qui riportati si avvalgono ancora della semantica; stridono nel significato ma sono frasi compiute: iniziale maiuscola, punto e a capo. Nel mentre non accade nulla. Siamo sicuri che senza un vero intervento sul linguaggio, sulla parola, ma badando unicamente all’immagine, alla casualità degli eventi, o agendo su paradossi, si ottenga quel passaggio esistenziale, ontologico, che è lecito aspettarsi dal poetico? Dove sta la differenza tra la gag e un verso dal significato eccentrico? Come fare per vivere in ambiente kitchen, ma poetry?»

    A questo interrogativo risponde così Giuseppe Gallo:
    9 maggio 2021 alle 9:03

    «Ho letto con molto interesse sia l’intervista al filosofo Slavoy Zizek che i molteplici esempi di Istant poetry. E mi viene da dire che veri esempi di poetry kitchen siano, e ormai da tanto tempo, anche gli spot pubblicitari. Essi, per la loro struttura, dissolvono lo spazio e il tempo e impongono al nostro corpo e alle nostre percezioni la cinica sacralizzazione degli oggetti. D’altronde, sia Linguaglossa che Tosi, ribadiscono che “Il tempo del fantasma è l’istante”.
    Questo concetto potrebbe essere concepito anche in un’altra versione: “l’istante è il fantasma del tempo”. Fantasma che pretende di essere visto, anche se in modo “istantaneo”. Oggi, infatti, la realtà sembra imporsi solo e soltanto, attraverso “selfie” momentanei. Attimi in cui il tempo è “sottratto” e risucchiato. Ed è anche chiaro che in questo tipo di discorso, ogni discorso è senza fondamento. Forse è per questo che L. M. Tosi evoca “volontà di rivolta” e “Atti di disobbedienza” rispetto alla ordinarietà dei linguaggi. Allora, se vogliamo mitragliare la logica dell’io, il razionalismo cartesiano e le sue “eccedenze”, dobbiamo saltare oltre il fosso e precipitare noi stessi in quei luoghi, ancora inesplorati dove la parola sopravvive, nuda e sola con se stessa, perché finora abbiamo sfiorato il non-senso, il paradosso e, a volte, anche in modo didascalico, la stessa “quadrimensionalità” di Linguaglossa. Allora faccio mie anche le perplessità di L.M. Tosi: dove e come intravedere
    ” quel passaggio esistenziale, ontologico, che è lecito aspettarsi dal poetico? … Come fare per vivere in ambiente kitchen, ma poetry?”»

    È ovvio che se la poetry kitchen nella versione instant poetry prendesse a modello la struttura dei tweet, farebbe dei calchi e nulla più, le frasi dichiarative hanno nel mondo moderno la preminenza sulle fraseologie memorative o memoriali, quindi se vogliamo adoperare la lingua di oggi non possiamo ripristinare, così come sono, modelli del passato e di altre forme di organizzazione civile. Penso che la instant poetry debba essere fondata sul principio della illatenza, ma senza dimenticare che non c’è illatenza senza latenza, non c’è fondo o fondamento senza sfondo, la poesia deve sempre riuscire a ripresentare lo sfondo, la latenza, il che non significa appiattirsi sul paradosso e sul non-senso, il fuori-senso che la poetry kitchen persegue è qualcosa di più e di diverso da non-senso (concetto che presuppone sempre il senso). Il fuori-senso non presuppone più il senso, sta fuori, è un esopianeta del linguaggio, un ribelle all’orbita del senso e del sensorio e del sensato.

    Nella poesia di Vincenzo Petronelli c’è una indubbia continuità tra le fraseologie della tradizione e quelle del fuori-senso, la sua ricerca è valida perché impegnata a cucire piuttosto che a scucire, a contrassegnare la continuità piuttosto che la discontinuità e la rottura con la tradizione. È lecito, è il suo personale percorso, non c’è una regola valida per tutti.

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    • vincenzo petronelli

      Caro Giorgio, innanzitutto colgo l’occasione per ringraziarti ancora per la tua attenzione nei confronti della mia poesia. Trovo – come sempre – molto pertinenti le tue osservazioni, tanto in relazione al “generale” quanto alla relazione tra questo ed il “particolare” relativo alla mia scrittura. Sono perfettamente d’accordo sulla collocazione della istant poetry nell’ambito del fuori-senso, cioè della sua completa destrutturazione: come spesso abbiamo sottolineato, lo spirito della nostra ricerca poetica consiste proprio nell’abbattimento, scavalcamento delle convenzioni e degli affioramenti di superficie della realtà sensibile. Concordo, per quanto riguarda i miei versi, anche sul fatto di situarmi ancora in una realtà di mezzo: spesso, a causa di una natura versatile, preferisco le “terre di mezzo”, quelle dei sincretismi, delle ibridazioni, delle contaminazioni, poiché mi appaiono le soluzioni più fertili e promettenti. In questo caso tuttavia, lo ritengo solo uno stadio di mezzo, all’interno di una fase transitiva verso l’approdo alla dimensione del fuori-senso – dovuta credo, anche alla mia tendenza alla narrazione, legata a sua volta anche ad altre esperienze culturali, che probabilmente lega ancora una parte della mia composizione a schemi tradizionali – che sicuramente costituisce l’orizzonte verso il quale ho orientato la mia bussola, sperando di riuscire a raggiungerla quanto prima.
      Un caro saluto ed un abbraccio.

      Vincenzo

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  3. gino rago

    In buona sostanza, per integrare in parte le riflessioni di Giorgio Linguaglossa e di Mario Gabriele sui testi in stile kitchen di Vincenzo Petronelli, parlerei anche di Photo-texts nelle sinergie tra foto e testo, nel senso che nella immaginazione di Vincenzo Petronelli si susseguono, l’una dopo l’altra, le immagini-foto di luoghi, situazioni e personaggi (il professore, per esempio, all’ora del caffè rimanda a Edoardo al balcone…) che il poeta trasforma in parole.

    O, se si vuole, potremmo parlare anche di Photo-book nel senso che su ogni istantanea il poeta appone una didascalia, una annotazione.
    E’ un procedere per istanti o meglio per frammenti, come Roland Barthes alla “ricerca” della madre morta, in La camera chiara.

    Ciò che conta è che in questa operazione di legame stretto fra immagini e parole le ekphrasis di Petronelli risultano minuziose, ricche di dettagli che dicono ciò che le sole immagini non sono in grado di dire.

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    • vincenzo petronelli

      Buongiorno Gino,
      ti ringrazio per le tue prezione osservazioni: come già scritto prima, sono per me nettare presioso per alimentare questo mio itinerario. Ti dirò che mi piace molto la tua lettura delle mie poesie, poiché centra un elemento per me cruciale, cioé l’importanza della rappresentazione eidetica, che è l’apparato sensoriale principale nella mia percezione poetica. La mia ispirazione molto spesso parte proprio da un processo di rivelazione visiva, che mi dispiega la trama da seguire come fossi in contemplazione di fronte ad un polittico, per procedere da lì al sezionamento dei nessi logici che traducono quelle sensazioni in parole, ma che vanno indifferibilmente disossati per ritrovare – sempre nell’ambito dell’esperienza poetica – le connessioni profonde di causa – effetto, procedimento possibile solo attraverso la frammentazione del verso. Sono consapevole che sul fronte della frammentazione probabilmente abbia ancora della strada da compiere, perché a volte mi sembra di essere un po’ troppo verboso e ci sto lavorando assiduamente, ma la mia tendenza – forse per la mia passione per la pittura del sei e settecento – a ricercare la minuziosità nel particolare, in taluni casi necessita l’impiego di qualche parola in più ed il fatto che tu veda tale ricchezza descrittiva come una qualità, non disgiunta dal lavoro “per sottrazione” della nostra poetica, mi rallegra davvero; così come mi fa piacere il fatto che tu abbia adoperato il termine “ekphrasis” perché è effettivamente il concetto cui si lega il mio procedimento.
      Un caro saluto.

      Vincenzo

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  4. Mimmo Pugliese

    HA UN PO’ DI FEBBRE

    Ha un pò di febbre la palma
    accende la lanterna dell’orizzonte
    sporco d’inchiostro
    rimesso dai pescherecci

    Un uomo si è perso nel parco
    ha un cappello a tese larghe
    porta becchime per gli uccelli
    il sole non si vede

    Sugli scogli è fermo il giorno
    si lava le rughe
    e allenta le bretelle di coccodrillo
    i soffioni bianchi sono felici

    E’ nuovo il respiro della bambola
    che non ha mai volato
    e muore in fondo al viale
    marinai bevono in cristalli di Boemia

    Sepolti nella torba
    cìgolano i vagoni della metro
    hanno un sogno che non accadrà mai
    la scuola del quartiere ha palpebre allegre

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  5. Scrivevo, poco tempo fa, a proposito dell’opera di
    Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 30×30 cm acrilic 2020.

    L’accadere della verità dell’opera d’arte è nient’altro che l’evento del suo accadere. L’accadimento è esso stesso verità, non come adeguazione e conformità di parola e cosa, ma come indice della difformità permanente che si insinua tra la parola e la cosa. L’arte come accadere della verità significa preannuncio dell’aprirsi di orizzonti storico-destinali.
    L’arte è allora quell’evento inaugurale in cui si istituiscono gli orizzonti storico-destinali dell’esperienza delle singole umanità storiche.
    Le opere d’arte sono origine di esperienze di shock tali da sovvertire l’ordine costituito dei significati consolidati dalla vita di relazione. L’ovvietà del mondo diventa non-ovvietà. Nuove forme storico-sociali di vita sono di solito introdotte da opere d’arte che le hanno preannunciate. Le opere d’arte dell’ipermoderno si configurano quindi come produzione di significati in condizioni di spaesamento permanente, di sfondamento rispetto a sistemi stabiliti dei significati ossidati. Le opere d’arte oggi hanno senso soltanto se «aprono», se preannunciano nuove mondità, nuovi possibili modi di vita e forme di esistenza, altrimenti deperiscono a cosità.

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  6. L’ek-, il sorgere del linguaggio nella poesia del tardo Mario Luzi si manifesta dall’abisso silenzioso del fondamento.

    Ad esempio, la poesia di Luzi (Frasi e incisi di un canto salutare, del 1990) non è esclusivamente veicolo della dimensione ontica, ma ambisce a ri-velare anche la dimensione ontologica : l’aver-luogo del linguaggio. Queste particolari poesie luziane compiono un evento impossibile: accogliere, attraverso il silenzioso mostrarsi del linguaggio sulla pagina, ciò che non può essere accolto e mostrato nel parlare del linguaggio. Se il linguaggio custodisce l’indicibile dicendolo, la poesia luziana prodiga l’indicibile
    tacendolo. Il nascimento è così rivelato da ciò che dovrebbe celarlo: la parola. La parola compie una silenziosa epifania del silenzio. Ecco dunque la poesia mistagogica. Mistagogia significa «condurre nel mistero». Ma qui è lecito intendere la definizione in senso ancora più strettamente etimologico: il termine mysterión deriva infatti da myé ō, che significa «sto chiuso», «sto silenzioso», «serrato» con le labbra, da cui il corrispettivo italiano «muto». Questo vocabolo era usato nei riti dei culti misterici e indicava sia l’indicibile in sé, sia le rivelazioni che l’iniziato doveva tacere.

    L’ek-, il sorgere del linguaggio nella poesia kitchen si manifesta dall’abisso rumoroso del fondamento.

    Nella poetry kitchen la parola non ha luogo lungo la via di una silenziosa epifania del silenzio, ma lungo la via di una rumorosa diafania, della disfania del rumore. Il rumore delle parole è diafano e disfanico, ci fa considerare lo sfondo, l’abisso che sta in contro luce, dietro, sotto la parola, le parole tutte. Il mysterion se c’è è quello che deriva dallo «stare aperti», stare in accoglimento del rumore delle parole. È il rumore, solo il rumore che ci può condurre davanti alla soglia del segreto del linguaggio. Allora diventa chiaro che l’abisso silenzioso del linguaggio viene rivelato dal rumore delle parole, dalla loro disfanica diafania. Solo quando siamo davanti al rumore, al frastuono delle parole possiamo provare l’esperienza del loro silenzio, non viceversa. È questo il grande equivoco in cui cade la poetica del silenzio di Mario Luzi e di tutte le ipotesi di poesia mistagogica o ipnagogica.

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    • vincenzo petronelli

      E’ proprio così caro Giorgio: sappiamo dagli studi musicali che sono proprio i silenzi a definire gli spazi, i margini della sonorità, ma non può darsi silenzio senza suono; è al tempo stesso il silenzio, la dimensione culminante – incontro epifanico quasi – dell’esperienza musicale, ma esso esiste solo in rapporto alla fonte sonora, rumorosa, alla musica.
      Come spesso mi piace ripetere, anche in questo caso è un lavoro per sottrazione di materia, alla ricerca dell’entelechia negli equilibri del verso e della sua sonorità, sino a valicare i limiti dati allo spazio sonoro e raggiungere l’ulteriorità della sua dimensione fisica.

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  7. gino rago

    Instant poetry

    Il sanmarzano rosso di Lucio Mayoor Tosi:
    “Scendo dalle nuvole o salgo verso il cielo?
    Sono dove voglio essere o dove vuole il padrone?”
    A metà strada fra terra e nuvole
    il missile sparato in Cina lo fa in mille pezzi.
    (Gino Rago)

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  8. milaure colasson

    la mia ultima poesia dalla raccolta inedita Les choses de la vie.

    43.

    La rage dans sa fragilité
    se pique avec la rose nommée Zarina Topiska

    Les gouttes de Napoléon se répandent
    sur l’opulente poitrine de la princesse de St. Hubert

    Rencontre inattendue un panneau publicitaire
    indique à Giacometti le travestissement de l’insaisissable

    Madame De La Syphilis injecte son venin
    sur une gracieuse sylphide de passage
    dans les beaux quartiers de Paris rue de la Pompe en 1832

    Les ombres d’Eredia et de la blanche geisha
    se faufilent dans les pétales de la rose
    se parfument avec les gouttes de Napoléon
    traversent les illusions des algorithmes
    et de la Social Machine
    après s’’être entièrement dénudées
    dans les salons du Château de Versailles

    *

    La rabbia nella sua fragilità
    si punge con la rosa denominata Zarina Topiska

    Le gocce di Napoleone si effondono
    sull’opulento seno della principessa di St. Hubert

    Incontro inatteso un pannello pubblicitario
    indica a Giacometti il travestimento dell’inafferrabile

    Madame De La Syphilis inietta il suo veleno
    ad una graziosa silfide di passaggio
    nei bei quartieri di Parigi via della Pompe en 1832

    Le ombre di Eredia e della bianca geisha
    si intromettono tra i petali della rosa
    si profumano con le gocce di Napoleone
    attraversano le illusioni degli algoritmi
    e della Social Machine
    dopo essersi interamente denudate
    nei saloni del Castello di Versailles

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  9. milaure colasson

    le glorie dell’antico e del vintage coabitano con la moderna ossessione della merce, il feticismo degli oggetti-merce, la moda, la cronaca, nera e rosa, la politica ridotta a feticcio, ideologema, fake new e ogni altra apparenza: avatar, sosia, maschere etc. entrano nell’immaginario della poetry kitchen come captate, catturate da una forza o campo magnetico. Una volta stabilito un campo elettromagnetico, questo agisce da sé, attira gli attori e il materiale di risulta e quello nuovo di zecca in un pot-pourri, li fagocita. E nulla rimane di essi se non il nome. La dialettica penetra nell’immagine, diventando categoria della somiglianza.

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    • vincenzo petronelli

      “attraversano le illusioni degli algoritmi
      e della Social Machine
      dopo essersi interamente denudate
      nei saloni del Castello di Versailles”.

      Cara Marie Laure, grazie per questa tua ulteriore affascinante poesia: leggere i tuoi brani vuol dire attraversare un viaggio tra campi semantici, in un mondo liquido di disfacimenti e rifacimenti, fotografia del mondo attuale nella dinamica, ma rispetto l quale i poeti della Noe, di cui sei indubbiamente uno dei massimi rappresentanti, propone il suo rimodellamento attraverso la ricerca delle onde sotterranee che sottostanno alle maree superficiali.

      Un caro saluto.

      Vincenzo

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  10. gino rago

    Instant poetry

    A Roma, caffetteria del Chiostro del Bramante
    all’Arco della Pace n. 5
    il pomodoro rosso con il ciuffo verde
    beve un cappuccino con l’uccello Petty di Marie Laure Colasson:
    “Quante parole dobbiamo usare
    per avvertire il silenzio tra le parole?”.

    (Gino Rago

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  11. Sono un po’ inca…to!
    In passato eravamo poety oggi siamo kichen!
    E la pubblicità butta la pasta.

    (Dietro la sagrestia, un vomere inceppato, tra le pietre dei granai;
    mani bambine, cingono ombre di scialli stinte, tra sentieri di cardi.) Bellissimo!

    Ringrazio Vincenzo Petronelli per queste sue poesie che dimostra appieno il suo percorso, la sua storia, il suo approdo. Grazie.

    Grazie OMBRA.
    (Che bello leggere Gallo…)

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    • vincenzo petronelli

      Caro Mauro,
      grazie per il tuo commento: sono io a ringraziare te per la tua attenzione e per le tue poesie che leggo sempre con grande interesse (non vedo l’ora di leggere il tuo libro che sto per acquistare). Mi fa particolarmente piacere evidenziare come – visto che fai riferimento alla “mia storia” – nella mia formazione e nella mia storia, sia fortemente presente la tua Ruvo e non solo perché la Murgia è da sempre il mio retroterra, il mio Dna che ha poi funto da piattaforma per conoscere e filtrare il resto del mondo, ma in particolare per gli anni del liceo trascorsi nella tua città, nella quale torno sempre molto volentieri.

      Un caro saluto.
      Vincenzo

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  12. vincenzo petronelli

    Ben ritrovati amici dell’Ombra. Innanzitutto è per me un enorme privilegio avere l’opportunità di vedere delle mie poesie pubblicate su questa che sento ormai come la mia dimora poetica e che così nitidamente ha influenzato, arricchito, palingenetizzato (mia licenza) il mio percorso di scrittura, la quale non è ormai neanche lontanamente rapportabile alla sua precedente fisionomia. Ed è un privilegio ed un piacere ancora più grandi, leggere i vostri commenti che mi gratificano e mi incoraggiano a proseguire in questa direzione, apparsami fin dall’inizio il giusto e più stimolante indirizzo, nell’impulso di cambiamento della mia versificazione che già avvertivo, ma che chiaramente non è stato a primo impatto un percorso semplicissimo. Ringrazio infinitamente Giorgio – la cui meritoria opera non mi stancherò mai di elogiare, per il contributo impareggiabile che sta imprimendo al rinnovamento dello statico panorama complessivo della poesia italiana – per la sua lettura ermeneutica, in grado – noumelogicamente – di rischiarare punti spesso non ancora consciamente presenti nella percezione del poeta stesso, permettendogli di dilatarne la visione e di definire la decifrazione delle proprie griglie concettuali. Grazie davvero di cuore a tutti e lunga vita all'”Ombra” ed alla Noe,

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  13. Guido Galdini

    C’era un pomodoro di Codigoro
    che un bel giorno si è ritrovato senza lavoro
    ha deciso di diventare una mongolfiera
    che vola su nel cielo mattina e sera
    e guarda da là in alto le onde del mare
    che gran fatica devono fare per arrivare
    mentre a lui basta un filo di vento per scorrazzare
    senza padroni, senza premura e senza frontiere
    le nuvole che sono gente di buon cuore
    lo hanno accolto con compiacenza tra di loro
    era rosso di gioia quel pomodoro.

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    • Guido Galdini

      Una piccola estensione finale.
      Scusate.

      C’era un pomodoro di Codigoro
      che un bel giorno si è ritrovato senza lavoro
      ha deciso di diventare una mongolfiera
      che vola su nel cielo mattina e sera
      e guarda di là in alto le onde del mare
      che gran fatica devono fare per arrivare
      mentre a lui basta un filo di vento per scorrazzare
      senza padroni, senza premura e senza frontiere
      le nuvole che sono un popolo di buon cuore
      lo hanno accolto con compiacenza tra di loro
      era rosso di gioia quel pomodoro
      che mai più farà ritorno a Codigoro.

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      • vincenzo petronelli

        Caro Guido, trovo che il pomodoro di Codigoro è un’invenzione lingusitica ed esptessiva strepitosa; perché non pensare ad una specie di sua piccola Odissea che attraversi la intemperie del mondo attuale? Ne sarebbe un testimone straordinario seconde me.
        Un saluto.

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  14. Stavo leggendo questa poesia di Guido Galdini mentre pensavo alla lettera alla redazione di Vincenzo Petronelli, e mi sono reso conto di quanta libertà e gioia e ilarità circola nella poetry kitchen… devo ammettere che la Noe poi evolutasi in poetry kitchen è stata una scuola inimitabile per tutti noi che l’abbiamo frequentata, che ci ha insegnato la condivisione della ribellione alle normologie che abbondano nella nostra società, la profezia di Marcuse degli anni sessanta si è avverata purtroppo!, l’uomo è ormai diventato ad una dimensione normologata e normografata, la società occidentale si è de-politicizzata, la tradizionale patria dei partiti progressisti si è rivelata inidonea a comprendere le modificazioni del mondo, i populismi e le demoKrature si sono infiltrate in tutti i paesi occidentali dell’Europa (in quelli orientali le demoKrature c’erano già da un pezzo), per fortuna è arrivato il Covid19 che si è abbattuto come un uragano sul mondo e ci ha costretto a ripensare il futuro che vogliamo costruire. L’arte occidentale non ha fatto una bella figura, e neanche la poesia, ormai i poeti non hanno nulla da dire di importante, fanno una poesia di supernicchia, e sono contenti così, il Nobel alla Gluck è stato il coronamento finale di questa discesa culturale della poesia in Occidente. A questo punto la NOe e la poetry kitchen sono state un balsamo, si sono rivelate una necessità: quella di reagire allo stato di costrizione e di coscrizione alla normologia imperante oggi in Europa e, in particolar modo, in Italia il paese che ha conosciuto una severa stagnazione economica (con annessa decrescita felice) e della vita intellettuale che durano da più di venti anni. Stagnazione e normologia sono state il binario sul quale ha viaggiato la fragile demoKrazia italiana. In questo contesto, la poetry kitchen è un atto di ribellione intellettuale allo status quo, e avrà tanto più impatto quanto più sarà capace di intercettare il bisogno di rinnovamento e di ribellione che circola in Italia e in Occidente.

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    • vincenzo petronelli

      Purtroppo è proprio così e credo che il panorama della poesia italiana, per quello che vedo confrontandomi con il resto del mondo, sia particolarmente sconfortante,
      Credo che l’élite salottiera che nel nostro paese ha sempre cercato di dominare la produzione poetica non abbia più limiti alla propria ingordigia, anche grazie ad internet che ha determinato la nascita di una schiera di cloni da laboratorio, che in fondo cercano di ritagliarsi a loro volta un posto da convitati in quella stessa cena; cena della quale a loro rimarranno probabilmente le ossa, ma dalla quale usciranno inebriati dalla vicinanza ai semidei e dalle loro promesse di un nome appiccicato a qualche copertina. E così si producono prove tecniche di regime culturale, cui la Noe fieramente si oppone con la sua voce minoritaria, ma ferma e determinata.

      Buona serata a tutti

      Vincenzo Petronelli

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  15. Anche “Molly O’Driscoll” è per me un fuori-senso. Mi arriva come un senza-nome, di persona al mondo, in quel reale televisivo, credibile e familiare, cioè domestico. Niente affatto un eroe.
    Nomi-simbolo, come sonagli indossati da figure danzanti. Figure del tribale occidentale. Abbastanza da ritenere che saremo sempre, noi umani, una razza primitiva; che a pensarci bene, è rassicurante… voglio dire, essere gli stessi che nascendo ci riprovano dall’inizio, e la cui natura non cambia. E quindi possiamo anche chiamarci O’Driscoll.
    Di Vincenzo Petronelli il buon verso lungo, che però ben si adatta alla frammentazione, e perfino al distico. Forse troppe parole, ma è giusto che ciascuno muova le proprie armate per difendersi dalla lingua del poetichese interiorizzato… e mi piace che si raccontino delle storie, che a volte nascono da niente: una pausa di silenzio Ohhh! nel chiasso di un telefilm che non supera la soglia dell’orecchio, e inizia perciò a farsi autentico.

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    • vincenzo petronelli

      Caro Lucio,
      ti ringrazio per la tua lettura: c’è in effetti tanto del mio approccio e della mia personalità in ciò che scrivi. Mi piace narrare storie ed il mio sforzo in questi anni (ancora da migliorare, ne sono consapevole) è proprio nell’abbinare la narrazione alla frammentazione, ma mi fa piacere che emerga comunque la “storia”.
      I nomi, i luoghi, le storie sono, come dici giustamente, dei simboli, di un mondo, un vissuto che è un possibile paradigma di lettura del mondo.
      Mi piace anche il tuo riferimento all’eterna primitività dell’uomo: in fondo da studioso di antropologia, lo sforzo sotteso alla mia ricerca è proprio l’individuazione delle costanti nel cambiamento e del cambiamento nelle costanti, esercizio che trovo affascinante, come quando camminando per Milano, mi compaiono angoli di insularità.
      Ti saluto caramente.

      Vincenzo

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  16. Scrive Hans-Georg Gadamer:

    «l’essere che può venir compreso è il linguaggio».*

    Qualunque cosa diciamo o non diciamo, ricadiamo sempre all’interno del linguaggio la cui sostanza è data dal rumore delle parole. Non possiamo sfuggire al rumore delle parole perché qualunque cosa facciamo qualunque parola nominiamo, ricadiamo sempre all’interno del linguaggio. Il Silenzio ci è sconosciuto ed è destinato a rimanere sconosciuto, ciò che con il linguaggio poetico possiamo conoscere è il silenzio NEL linguaggio, quel silenzio che sta dentro il linguaggio e che il linguaggio custodisce.

    Heidegger, nel suo In cammino verso il linguaggio, esordisce così:

    «L’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo […]. In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente».1

    Con queste parole, il filosofo esclude nel modo più assoluto la dimensione del silenzio. L’uomo è colui che non può conoscere il silenzio. Se l’uomo parla incessantemente anche quando tace, è lecito pensare che non esista alcun silenzio possibile. In realtà, lo scopo di Heidegger non è quello di affermare l’inesistenza del silenzio: piuttosto, le sue parole intendono stabilire il centro e il confine dell’esperienza umana: il linguaggio. Il linguaggio infatti sembra porsi come una frontiera insuperabile, un orizzonte chiuso oltre il quale non è dato spingersi. L’oltre del linguaggio è dunque un pensiero che non può essere veramente pensato: resta fuori dalla sfera dell’umano. Anzi: resta fuori dalla sfera dell’essere. Non perché, per Heidegger, il linguaggio sia l’essere, ma perché l’essere si dà solo nel linguaggio. Non è l’uomo a parlare, bensì il linguaggio, l’essere che si dà nel linguaggio.
    Il linguaggio umano, non ha per Heidegger il proprio fondamento nella interiorità; non è la lingua costruita dall’esserci che si attua nell’espressione dei moti interiori, al contrario, è il linguaggio che si appropria dell’esserci.

    Se niente fuoriesce dalla dimensione del linguaggio, in cosa consiste il silenzio che dovrebbe essere un tacere di tutti i linguaggi? Forse si può ipotizzare l’esistenza di un silenzio generato per nominazione dalla parola che lo designa. Per dimostrare la non esistenza di una simile possibilità, basta che si pronunci a voce alta la parola «silenzio», ed ecco che in ogni ascoltatore comparirà un vago simulacro che rimanda al senso della parola pronunciata. Per Heidegger questo fenomeno accade proprio perché il linguaggio parla: ha cioè il potere di chiamare ciò che nomina.
    Ecco allora che anche il silenzio può essere chiamato all’esistenza proprio dalla parola che lo designa: viene manifestato per nominazione. Ma è questo il vero silenzio? Il silenzio è forse costituito dallo stesso parlare del linguaggio? Ma il silenzio chiamato in causa in questo modo è più semplicemente una parola. E se è soltanto una parola, una parola che infrange il silenzio, come può essere il silenzio? Il vero silenzio allora non è nel mero parlare del linguaggio. Il silenzio, se esiste, si colloca sempre all’interno della sfera del linguaggio, ma non nel suo parlare: si trova piuttosto sul fondo, anzi, nel fondamento del logos. Il silenzio è ciò che, nell’atto stesso del dire, tace. Questo silenzio radicale non è altro che l’essere, che si rivela nascondendosi nel linguaggio.
    Il linguaggio poetico è allora il luogo dove questo silenzio può essere ri-velato, di nuovo coperto con le parole ma mai dis-velato. Il fondamento silenzioso del linguaggio, che è l’essere, appare e scompare attraverso il linguaggio poetico come attraverso un cristallo. Il cristallo raccoglie e imprigiona, lascia intravvedere l’oltre, oppure si appanna e mostra la opacità di sé. Il linguaggio è la Voce e il Silenzio dell’ ex-sistere.

    «Il voler-dire e il voler-aver-coscienza non vanno però intesi in senso psicologico, ma come un nulla, una negatività che non esprime «alcuna proposizione significante: [sono cioè] il puro aver luogo del linguaggio […], una dimensione puramente logica».2
    Il linguaggio è dunque scisso in due piani distinti: «die Sage, il dire originario e silenzioso dell’essere che, in quanto coincide con lo stesso aver-luogo del linguaggio e con l’apertura del mondo, si mostra (zeigt sich), ma rimane indicibile per la parola umana, e il discorso umano, la “parola dei mortali” che può soltanto rispondere alla Voce silenziosa dell’essere».3

    Heidegger afferma:

    «Fare l’esperienza di qualcosa – si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio –significa che quel qualcosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma. Fare esperienza del linguaggio significa quindi: lasciarsi prendere dall’appello del linguaggio, assentendo ad esso, conformandosi ad esso.Se è vero che l’uomo ha l’autentica dimora della sua esistenza nel linguaggio,indipendentemente dal fatto che ne sia consapevole o no, allora un’esperienza che facciamo del linguaggio ci tocca nell’intima struttura del nostro esistere».4

    * Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo 1960, trad. e cura di Gianni Vattimo, Milano, Bompiani, 1983, p. 542.
    1 Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. di Alberto Caracciolo e Maria Caracciolo Perotti, a cura di Alberto Caracciolo, Milano, Mursia, 1973, p. 27.
    2 Cfr. G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, ivi, p. 107.
    3 ivi, p. 77.
    4 M. Heidegger, op. cit. p.29.

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  17. Natale.
    di Lucio Mayoor Tosi

    Natale: spuntano le margherite. Le mucche svizzere suonano coi loro batacchi come fa il cucchiaino su questa tazza. Fuori c’è un sole che spacca. Preparo la borsa per la piscina scandinava, mi vesto, mi specchio, ascolto il telegiornale e penso: la voglia di morire non sta negli ospedali, viene prima, viene a vent’anni anche se oggi si vive più a lungo, più a lungo con la voglia di morire.
    Le margherite sono piene di zucchero, preparo la borsa scandinava e ballo con la voglia di morire su questa tazza. A natale spuntano i batacchi sul cucchiaino, fuori c’è un sole che ha voglia di morire. Vent’anni, tanto vivono le mucche.
    Le parole del TG sono margherite scandinave. Fuori c’è un sole che spacca, lo sapevo, ieri sera c’erano stelle intermittenti. Ho sognato che mi morivo tra le braccia perché la borsa da ballo era senza cucchiaino, le batterie del cuore erano scariche e non avevo soldi, ne’ per comprarne di nuove ne’ per rifarmi i denti. Le stelle intermittenti erano senza batacchi e le mucche ruminavano nella tazza.
    Per vivere più a lungo, più a lungo di vent’anni, bisogna avere la borsa piena di cucchiaini e poi andare in ospedale dove abita la voglia di vivere. Ti portano la minestra, il prosciutto con gli spinaci svizzeri intanto che il telegiornale racconta fiabe sull’economia dove si parla delle aspettative di vita ormai tanto lunghe che in pensione ci andranno le piscine scandinave, a Natale, mentre c’è un sole che spacca e le mucche svizzere preparano la borsa con tanto di tazze e cucchiaini, prima di morire dentro, a vent’anni, sul più bello, insieme alle margherite.

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    • Oh grazie, Giorgio. È una poesia datata 2013, sono passati 8 anni; ma otto anni con L’ombra delle parole è come aver fatto un master supplementare alla facoltà della poesia!

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      • caro Lucio,

        allora vuol dire che 8 anni fa tu ERI già kitchen, pensavi, vivevi e scrivevi da kitchen… quello che molti non riescono proprio a comprendere è che per scrivere kitchen bisogna essere kitchen, e tu lo eri già 8 anni fa. La tua prosa è bella perché sconcerta, è sconcertante, non dà certezze alcuna ad alcuno, e così semplicemente va verso il fuori-senso e il fuori-significato, senza volerlo, forse, e magari senza mai raggiungerlo… perché sia chiaro che il fuori-senso e il fuori-significato sono utopia, sono una aspirazione irraggiungibile. Ma a noi piace ciò che è irraggiungibile, questa è una sfida kitchen degna di essere vissuta.

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  18. antonio sagredo

    ….ho trovato piacere a leggere i versi di Petronelli, che da tempo non assaporavo… le atmosfere irlandesi quasi centrate, e per questo seguono questi miei umili versi che offro ai lettori
    —-
    Le Simplegadi

    Conducimi sulla soglia che martella la liquida torre
    perché le pietre sono erranti per un desiderio della carne.
    Il sangue crolla sulle strade cantando come spumosa sirena,
    ma il traghetto ad ogni passo traduce la roccia alla rovina.
    Quando la colomba s’accartoccia sul fiume ed Elia piange
    nei canali in piena le oscure torbe discorrono coi lampioni.

    Si scontrano i due Ulissi allo specchio coi fossili dei due Poteri
    e la Madre non si trasmuta se la soglia è un calco della Storia.
    Dublino, la troia, non è caduta per le madonne di pietra
    e la soglia si muove se la Torre s’arresta al suo principio.
    La paralisi ai piedi del Viceré gli fa cantare eretici salmi,
    l’usuraia ha i denti cariati che segnano il nero selciato.

    La città di birra e di patate e focacce di torba sanno di placenta,
    la tosse dei libri parlanti espulse il negoziante come un feto.
    L’epifania s’illumina come un accattone e Molly è pietosa,
    il suo amante dalle scarpe gialle faceva il dandy come Bloom.
    Esplose l’epifania come un occhio di bue levitando il palco,
    le sorelle cucinano camicie e piselli, il tanfo delle ascelle è sparso.

    Canta Stephen il corale sulla liquida soglia e i calzoni sono solidi,
    il portone si chiude, i cardini sono in lacrime, i Poteri ambigui.

    Antonio Sagredo

    Roma, 25/26 novembre 2016

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    • Con la poesia kitchen si fa esperienza di linguaggio, mai del vuoto. Il linguaggio come registro delle somiglianze immateriali è un campo di segni e di segnature, la poesia ha a che fare con i segni e le segnature, come risulta evidente dalla poesia di Guido Galdini e da questa quartina di Antonio Sagredo. La somiglianza immateriale viene messa in moto dal campo poetico, ciascun autore può costruirsi il proprio campo poetico e lì mettere in opera la facoltà mimetica e il registro delle somiglianze immateriali. Da questo registro la soggettività viene ad essere emancipata della sudditanza al significato e alla lingua della comunicazione. La soggettività non ha nulla a che fare con la comunicazione.

      Agamben scrive che «l’enunciato è la segnatura che marca il linguaggio per il puro fatto del suo darsi», (66) la poesia ha a che fare con la segnatura, marca un campo di segnature e la loro parentela. Possiamo anche dire che ogni tipo di poesia marca un proprio campo di segnature.

      1 G. AGAMBEN, Signatura rerum si compone dei seguenti saggi brevi: Che cos’è un paradigma? (11-34); Teoria delle segnature (35-81), Archeologia filosofica (82-112)

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    • vincenzo petronelli

      Caro Antonio,
      grazie a te per la tua attenzione nella lettura delle mie poesie, e per il tuo attestato di stima: attenzione e stima che mi onorano, pensando alla tua personalità ed alle tue esperienze poetiche. Come dice Giorgio, in effetti l’Ombra e la Noe sono della case molto accoglienti in cui sviluppare un confronto e relazioni umane ed artistiche ricche: posso dire che in pochi altri contesti – non solo poetici, ma culturali in generale – ho trovato questa predisposizione alla sinergia, che per me è un elemento indifferibile di crescita intellettuale.
      Ti ringrazio anche per la tua poesia, che impreziosisce la parte irlandese dei miei componimenti qui proposti: avverto – da una prima, rapida lettura – un’atmosfera notturna, sospesa tra vitalità ed onirismo, una Dublino quasi Ulyssiana ed una realtà umana nuda, colta nelle sue pulsioni profonde.
      La trovo molto interessante e ben costruita e sicuramente, approfondendola, mi chiarirà ed amplierà ulteriormente i suoi orizzonti.

      Un caro saluto.

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  19. La maggior parte delle esperienze meditative hanno lo scopo di silenziare la mente, e qui aprirsi all’esperienza di essere – al di fuori del linguaggio. – Non è esclusiva degli asceti, lo può fare chiunque.
    Ma questo non è importante per la poesia, perché poesia ha sede nel linguaggio, nella mente, quindi non ha a che fare con l’ascetismo. Ma è vero che poesia può, a tratti, farsi congiunzione tra essere e linguaggio.
    Questo è anche tra gli esercizi più belli dello zen: parli e parli per ore, per intere giornate, finché essere e parola finiscono col fondersi nell’immediato; non un semplice parlare spontaneo, ma un dire pilotato creativo e mirato dalla mente in essere. Accade, per eccesso di parola, una trasformazione (il termine è Satori). Per un poeta, è come se finito di scrivere, continuasse nella vita quella che pare essere una condizione idilliaca. Però poi si assesta e diventa normale, pensare e non pensare affatto.

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  20. “Sazi, i corvi lasciano la pianura verso il mare Adriatico:
    Croazia, Veneto, Puglia, a depurare le loro ali. (V. Petronelli)

    Probabilmente sono gli stessi che vedo posarsi sulle antenne di questo maggio senza aria. Dov’è l’odoroso? Si avverte solo una forza esplosiva di uomini. Niente di niente è rimasto nella ciliegia. Il poco di dolce si vende a parte, in fiale per la torta gelato di trenta anni fa o più. I corvi invece ci accarezzano la barba, intuiscono che al largo sono ormeggiale navi della stupidità. Sbuffano in mare ciò che il cielo respinge. Un anno fa si implorava il Dio delle macchine di mandare un santo per ogni paese a benedire il pane. Oggi gli stessi dicono che bisognerebbe fare delle spighe di ferro e da queste ricavare la ruggine.
    In fondo alle ciminiere arde il ghiaccio. Si va a birra qualche volta e in costume da bagno percorriamo campi di sci. Da questa parte dell’orizzonte esplodono i pomodori. Qualcuno dice che erano angurie. Mutazioni di Magritte che mettono piede nella realtà bombardata da neutrini. Conservano semi neri e si nutrono di sogni. Gli unici che continuano a muoversi spontaneamente, come le fettine di terra sotto i nostri piedi tondi. Grandioso il porto Noe che ci mostri. Ciao e tanti complimenti.

    APPENING CON IPPOPOTAMO

    Tre bottiglie chiedono di Nerone. Il grande imperatore
    Che tutti temono stravede per Geremia.

    Il profeta delle lamentazioni ha un gesto di stizza
    perché un razzo colpisce il risvolto dei pantaloni.

    Il programma non è quello giusto e noi trattiamo il lampo
    col sorriso delle signore in tv.

    Dei bonzi che pregano all’ombra della Datura
    Non s’è saputo più nulla. Uno di loro è stato fucilato ma si è girato
    Verso gli esecutori. Perché leggergli l’esito del Nobel?

    Al risciacquo segue una centrifuga di settant’anni.
    Nel filtro ci sono pezzi di RNA e monetine del 60.

    Le figurine Panini giocano sul letto a strisce verdi.
    L’arbitro ha la barba sotto il mento e il lauro sul capo.

    Manca Rivera, non se ne trova uno per passaggi da goal.
    Di solito soccorre un tubo che collega il lenzuolo al 3070.

    Passano minuti gravidi di corvi.
    Uova che infilano aghi e corrono a velocità zero.

    Qualcuno soggiorna nel 2021. Il distributore di benzina
    È seduto al bar. L’angolo acuto fa da fondamento al palazzo del Governo.

    Il cielo si raccoglie in baobab. Alle zebre si sommano i leoni.
    Appening alle quattro con ippopotami su sedie di plastica.

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    • vincenzo petronelli

      Caro Franco,
      grazie infinite per i tuoi apprezzamenti e le tue osservazioni, che come da parte di tutti voi, sono per me un prezioso corroborante che mi conforta nel proseguio della mia ricerca poetica. In effetti il quadro distopico che dipingi nella tua lettura è lo sviluppo ontogenetico del paesaggio che immaginavo mentre scrivevo e che hai ritratto perfettamente. Complimenti per la tua poesiai, come sempre mirabile nell’unire fili sottilissimi che attraverso la geometria delle parole e il baluginio icastico, trovano una loro organicità interna, definendo un mondo di ipostasi semiologiche.
      Buona serata e un bacio a Bari.

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  21. “Ça parle”, dirà Lacan: ‘esso parla’. L’inconscio parla.

    L’“Inconscio”, non il soggetto, la coscienza: il “soggetto” è ciò che viene parlato dall’Inconscio. «Ciò che è proprio dell’ordine dell’Incoscio […] non è né essere né non essere. Si tratta infatti e piuttosto del non-realizzato» (Lacan)

    Parlavo ieri con un poeta il quale mi diceva che non riusciva a scrivere prescindendo dal soggetto, dal pronome di terza persona singolare. Io ho tentato di controbattere dicendogli che quello che lui crede sia il soggetto in realtà è il rappresentante dell’inconscio, e nient’altro. Lui mi ha risposto che ormai era troppo vecchio per fare a meno della finzione dell’io. Io gli ho risposto che non è mai troppo tardi per rinunciare alle illusioni.

    L’Inconscio non esiste in sé, se esso è un lavoro del “significante” è privo di una realtà già data: esso è un “effetto” di qualcos’altro e come tale va inteso. Il soggetto esiste in quanto rappresentante del taglio del significante che incide l’inconscio.
    Inutile dire che ci siamo lasciati da buoni amici

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  22. Quartine.
    di Lucio Mayoor Tosi

    Siccome il tempo volgeva al peggio, il cuore
    stentava ad aprirsi all’essere che calava davanti
    al buon senso di una merda da scrivere
    senza parentesi e senza riuscirci. Buffone!

    Trovarsi con insegne che sbocciano
    pazienti sui rami che avevo affastellato, senza
    consultare internet. Faccio da me, faccio da solo
    le consultazioni, al posto di manovra.

    L’umano imperfetto imperfetta abbastanza
    da chiudere per sempre il libro. Macchine fedeli
    capaci di tutto quando si tratta di ben sbagliare.
    Ma son fiorite le rose, il bene che fanno!

    Malato in pigiama su terra nera e trascurata.
    Spopolano in due metri quadrati le radici dell’edera.
    Natura ombrosa e cattiva, piena di aggettivi e bave.
    Sempre, dove manca il proposito. E a lungo.

    Ora: due mantelle s’il vous plaît. Siamo due
    anche se non si vede. L’altro è comandante del poggio,
    vive di medaglie, lassù. E mentre tutti guardano in alto
    lui si toglie le scarpe. Cammina, respira e parla.

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  23. Dietro la sagrestia, un vomere inceppato, tra le pietre dei granai;
    mani bambine, cingono ombre di scialli stinte, tra sentieri di cardi.(V.Petronelli)
    È noto che l’Italia durante anni sessanta settanta ha subito l’invasione delle lavatrici, della televisione in bianco e nero, delle cinquecento e delle seicento Fiat (G.Linguaglossa)
    sono appena le 9 e il mattino non si è ancora rivelato con tutte le ionosfere linguistiche e accidentali, tra bollettini di guerra pandemica e cadute di razzi cinesi(M.M.Gabriele)
    non c’è fondo o fondamento senza sfondo, la poesia deve sempre riuscire a ripresentare lo sfondo, la latenza, (G.Gallo)
    non c’è fondo o fondamento senza sfondo, la poesia deve sempre riuscire a ripresentare lo sfondo, la latenza, (G.Gallo)
    Un uomo si è perso nel parco/ha un cappello a tese larghe
    porta becchime per gli uccelli/il sole non si vede (M. Pugliese)
    È il rumore, solo il rumore che ci può condurre davanti alla soglia del segreto del linguaggio. (G.Linguaglossa)
    Una volta stabilito un campo elettromagnetico, questo agisce da sé, attira gli attori e il materiale di risulta e quello nuovo di zecca in un pot-pourri, li fagocita. (M.Colasson)
    In passato eravamo poety oggi siamo kitchen!
    E la pubblicità butta la pasta. (M.Pierno)
    A Roma, caffetteria del Chiostro del Bramante
    all’Arco della Pace n. 5/il pomodoro rosso con il ciuffo verde/
    beve un cappuccino con l’uccello Petty di Marie Laure Colasson:
    “Quante parole dobbiamo usare/per avvertire il silenzio tra le parole?” (G.Rago)
    e guarda da là in alto le onde del mare
    che gran fatica devono fare per arrivare
    mentre a lui basta un filo di vento per scorrazzare (G.Galdini)
    L’arte occidentale non ha fatto una bella figura, e neanche la poesia, ormai i poeti non hanno nulla da dire di importante, (G.Linguaglossa)
    Abbastanza da ritenere che saremo sempre, noi umani, una razza primitiva; che a pensarci bene, è rassicurante… (L.M.Tosi)
    quando camminando per Milano, mi compaiono angoli di insularità (V.Petronelli)
    Quando la colomba s’accartoccia sul fiume ed Elia piange
    nei canali in piena le oscure torbe discorrono coi lampioni (A.Sagredo)
    Oggi gli stessi dicono che bisognerebbe fare delle spighe di ferro e da queste ricavare la ruggine. (F.P.Intini)

    …e adesso senza impalcatura…

    Dietro la sagrestia, un vomere inceppato, tra le pietre dei granai;
    mani bambine, cingono ombre di scialli stinte, tra sentieri di cardi.
    È noto che l’Italia durante anni sessanta settanta ha subito l’invasione delle lavatrici, della televisione in bianco e nero, delle cinquecento e delle seicento Fiat
    sono appena le 9 e il mattino non si è ancora rivelato con tutte le ionosfere linguistiche e accidentali, tra bollettini di guerra pandemica e cadute di razzi cinesi
    non c’è fondo o fondamento senza sfondo, la poesia deve sempre riuscire a ripresentare lo sfondo, la latenza
    non c’è fondo o fondamento senza sfondo, la poesia deve sempre riuscire a ripresentare lo sfondo, la latenza
    Un uomo si è perso nel parco/ha un cappello a tese larghe
    porta becchime per gli uccelli/il sole non si vede
    È il rumore, solo il rumore che ci può condurre davanti alla soglia del segreto del linguaggio.
    Una volta stabilito un campo elettromagnetico, questo agisce da sé, attira gli attori e il materiale di risulta e quello nuovo di zecca in un pot-pourri, li fagocita.
    In passato eravamo poety oggi siamo kitchen!
    E la pubblicità butta la pasta.
    A Roma, caffetteria del Chiostro del Bramante
    all’Arco della Pace n. 5/il pomodoro rosso con il ciuffo verde/
    beve un cappuccino con l’uccello Petty di Marie Laure Colasson:
    “Quante parole dobbiamo usare/per avvertire il silenzio tra le parole?”
    e guarda da là in alto le onde del mare
    che gran fatica devono fare per arrivare
    mentre a lui basta un filo di vento per scorrazzare
    L’arte occidentale non ha fatto una bella figura, e neanche la poesia, ormai i poeti non hanno nulla da dire di importante,
    Abbastanza da ritenere che saremo sempre, noi umani, una razza primitiva; che a pensarci bene, è rassicurante…
    quando camminando per Milano, mi compaiono angoli di insularità
    Quando la colomba s’accartoccia sul fiume ed Elia piange
    nei canali in piena le oscure torbe discorrono coi lampioni
    Oggi gli stessi dicono che bisognerebbe fare delle spighe di ferro e da queste ricavare la ruggine.

    Grazie OMBRA.

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    • vincenzo petronelli

      Complimenti Mauro: impressionante la tua capacità di saper ricucire in un unico collage, vari pensieri, passaggi, riflessioni “kitchen”, cucendovi attorno un ordito che a sua volta acquisisce un senso definito e profondo, essenziale. Proprio come si fa in cucina. recuperando gli avanzi per dar vita nuovi piatti, che spesso costituiscono poi l’essenza della tradizione gastronomica.
      Buona serata.

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  24. milaure colasson

    Via via
    Vieni via di qui
    Niente più ti lega a questi luoghi
    Neanche questi fiori azzurri
    Via via
    Neanche questo tempo grigio
    Pieno di musiche
    E di uomini che ti son piaciuti
    It’s wonderful
    It’s wonderful
    It’s wonderful
    Good luck my baby
    It’s wonderful
    It’s wonderful
    It’s wonderful
    I dream of you
    Via via
    Vieni via con me
    Entri in questo amore buio
    Non perderti per niente al mondo
    Via via
    Non perderti per niente al mondo
    Lo spettacolo d’arte varia
    Di uno innamorato di te
    It’s wonderful
    It’s wonderful
    It’s wonderful
    Good luck my baby
    It’s wonderful
    It’s wonderful
    It’s wonderful
    I dream of you
    Via via
    Vieni via con…

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  25. milaure colasson

    Agli astronauti della navicella spaziale poetry kitchen

    un saluto a tutti i convenuti e un complimento ai testi di Vincenzo Petronelli, una bella scoperta per me che non lo conoscevo, un bravo senza intermediazioni a Mauro Pierno per il suo “compostaggio” di testi kitchen… ma ormai tutta la vita video-quotidiana è ragguagliabile a un grande schermo di compostaggi linguistici, un bravo anche a Antonio Sagredo in specie per la quartina citata da Linguaglossa nel suo twetter e anche a Lucio Mayoor Tosi per il suo brano di 8 anni fa. Si vede che vi divertite tutti e divertendoci facciamo cose non scontate, e anche difficili da eseguire. Questa è poesia kitchen. Un saluto a Mario Gabriele “il capostipite” di questo genere di poesia e a Gino Rago, poeta buffet al quale devo chiedere come ha fatto a scoprire che Werner Aspenstrom è stato nel passato un mio corteggiatore, quando gli dissi in pubblico che la sua poesia mi faceva dormire. Strano a dirsi lui se la prese e da allora non mi rivolse più la parola! Ah, i poeti, e il loro Ego smisurato! A Francesco Paolo Intini gli dico che spesso vorrei rubare certi suoi versi e impossessarmene.
    Infine, mi sono molto divertita nel leggere gli pseudo-quasi-limerick di Guido Galdini.
    Complimenti a tutti gli autori di instant poetry e al regista di questa pagina, Il direttore dell’Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani Giorgio Linguaglossa.

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  26. antonio sagredo

    Forse
    io vedo
    nella vita
    tutto un qualcosa
    di profondamente bislacco
    come una palude percorsa
    da stupidi
    martiri
    e santi.

    a. s.
    1968

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