Vincenzo Petronelli POESIE INEDITE in italiano e nei dialetti di Barletta e di Andria con traduzione in italiano e una Dichiarazione di poetica dell’autore

gif tacchi a spillo

Vincenzo Petronelli è nato a Barletta l’8 novembre del 1970. Sono laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiedo ad Erba in provincia di Como, dove sono approdato quattordici anni fa per amore di quella che sarebbe poi diventata mia moglie ed ho una bambina 10 anni. Dopo un primo percorso post-laurea che mi ha visto impegnato come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e come redattore editoriale, ho successivamente intrapreso un percorso professionale nel campo della consulenza aziendale, che mi ha condotto al mio attuale profilo di consulente in tema di comunicazione ed export; nel contempo proseguo nel mio impegno come ricercatore in qualità di cultore della materia, occupandomi in particolare di tematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare e la cultura di massa. Inoltre abbraccio un ampio spettro di interessi culturali che spaziano dalla letteratura, alla linguistica, alla musica, al cinema, allo sport. Per quanto concerne la poesia, è una passione che mi accompagna ininterrottamente dall’età di sedici anni e che ho coltivato in modo febbrile nel corso del tempo, divorando libri di opere di poeti provenienti dalle più disparate tradizioni ed aree geografiche, per poi cominciare a comporre mie poesie in modo più consapevole dall’età di ventinove anni. Attualmente faccio parte del gruppo letterario Ammin Acarya di Cantù.

Vincenzo Petronelli. Dichiarazione di poetica

La  poesia ha sempre costituito per me il punto di convergenza e sublimazione della totalità del mio “cosmo” intellettuale, il ganglio attorno cui si annodano i miei amori per la letteratura e la storia, le scienze sociali e la linguistica, il folklore e la musica, il cinema e lo sport, in un concetto di “poesia totale” o come più mi piace definirla, poesia antropologica. In ciò risiede la diversità di canoni linguistici e moduli espressivi che da sempre cerco di perseguire, attitudine figlia di una formazione poetica eclettica maturata assiduamente nel corso degli anni e snodatasi attraverso l’incontro con poeti, tradizioni e filoni i più disparati nello spazio e nel tempo; dalla poesia italiana novecentesca, alle tradizioni poetiche di area ispanofona e lusofona, slava, anglofona (irlandese in particolare), persiana, araba, cinese (in particolare la produzione dell’epoca T’ang), interessandomi tanto alla poesia culta che a quella di espressione popolare. E’ così che partito da un’impostazione iniziale prevalentemente lirica, sono poi giunto, incarnando tale visione “olistica” (incapace per natura di rimanere ingabbiato dentro definizioni stilistiche o concettuali)  a cimentarmi con scritti di impostazione più narrativo – prosastica giungendo anche ad abbracciare il genere comico, poiché da sempre l’ironia è uno degli elementi caratterizzanti la mia personalità. Dal punto di vista linguistico, amo passare dall’italiano alle miei idiomi locali (barlettano e andriese, mare e terra insieme) alternando occasionalmente anche scritti in alcune delle lingue straniere di mia conoscenza. Nuclei centrali della mia poesia sono il rapporto con la terra (in una sorta di interscambio continuo tra materia e spirito), il rapporto con la memoria, il mondo e le culture popolari mediante la narrazione della loro quotidianità che inevitabilmente si fa storia.

Il mio afflato per la poesia è sempre stato accompagnato dall’amore per la parola e per la straordinaria possibilità offerta dall’arte poetica di plasmare, modellare, disarticolare e ricomporre lo stesso suono o lemma in universi di significato continuamente cangianti, facendone materia plastica, sino a giungere alla sublime possibilità di sovvertire e rimodulare i canoni precostituiti di ogni sistema linguistico. Ovviamente la catalizzazione verso la parola sussume l’interesse per la lingua, veicolatrice di cosmologie di significato culturale e strumento privilegiato di espressione antropologica; ciò mi ha condotto, già agli albori dei miei cimenti poetici ad abbinare le proprietà espressive di una lingua “colta”, quale è la nostra lingua nazionale, con le suggestioni “naturaliste” delle lingue locali (nel mio caso i dialetti o idiomi locali – che dir si voglia –  delle mie due città, Barletta ed Andria), creando una sorta di “sincretismo stilistico” che culmina in una “popolarizzazione” del registro linguistico italiano ed al tempo stesso in una “liricizzazione” dei miei dialetti, storicamente estranei ad una vera eredità poetica che non sia quella macchiettistica dell’elzeviro paesano. Peraltro, ho sempre trovato che questo scomposizione e sovvertimento di canoni espressivi estremamente stimolante in termini creativi, grazie all’estrema libertà compositiva offertami, in cui il “meticciato” dei linguaggi si completa mediante il trapianto, nella mia versificazione, di modelli poetici derivanti da altre tradizioni legate alla mia formazione e maggiormente orientate verso una concezione popolare alta della poesia, attinente alla visione del mio progetto poetico. Lo si evince in particolare nei confronti del mio uso dei dialetti, in cui ho potuto godere dell’enorme privilegio di ritagliare loro su misura una sintassi poetica originale (essendo loro sconosciuti come accennavo, dei veri modelli pre-esistenti) per cui ad esempio diversi componimenti realizzati in dialetto, traggono in realtà motivo d’ispirazione in modelli irlandesi, slavi, ispanici, ecc. Tutto ciò mi consente oltretutto di rimanere al riparo, proprio per ciò che concerne le composizioni dialettali, dal rischio di una percezione “localistica” o peggio ancora “etnica” della mia produzione (elementi dai quali rifuggo decisamente) ed al contrario di evidenziarne i caratteri universali, poiché pur avendo per ontogenesi un rapporto forte (materico a volte) con la terra,in realtà ho sempre visto in tale matrice il trampolino e la bussola per proiettarmi verso il mondo. In tale contesto si pongono anche sperimentazioni che pur comparendo – finora almeno – in maniera più rarefatta, costituiscono parte dell’orizzonte del mio corpus poetico e che mi conducono alla composizione in alcune delle lingue estere di mia conoscenza, alla sovrapposizione di più lingue, fino al pastiche linguistico.

Foto by Richard Vergez

foto Richard Vergez

Giorgio Linguaglossa

STATUALITA’ DEL LINGUAGGIO POETICO E MERIDIONALISMO POETICO DEGLI AUTORI DEL SUD

Pur con tutte le scriminanti a discarico della poesia di Vinvenzo Petronelli, mi sento di scagliare una freccia in parziale suo favore: direi che il suo meridionalismo è tipico della poesia in dialetto del Sud, tipica anche della autrice forse «migliore» della poesia in dialetto del Sud: Assunta Finiguerra. Il meridionalismo della poesia in dialetto del Sud purtroppo è una malattia endemica del Sud. Ci sarà pure una ragione di questo fatto? E infatti c’è, e la ragione sta nel mancato sviluppo nel Sud di una borghesia attiva e progressista, nel mancato sviluppo del Sud come, oserei dire, stato unitario (anche se aggregato alla repubblica italiana). La statualità di uno stato è molto importante anche per la poesia e per il linguaggio poetico. Voglio dire che c’è una equazione tra statualità o mancata statualità di uno stato e i linguaggi delle sue comunità linguistiche. E questo ha senz’altro una ripercussione anche sul linguaggio poetico di quelle comunità linguistiche,

Però, un elogio che mi sento di fare a carico di questa poesia è che non si tratta di una poesia low cost, come moltissima poesia romano milanese e di Pordenone e Mantova e altre località della villeggiatura poetica disseminate in italia; almeno qui siamo davanti ad una poesia che un tempo si definiva “onesta”. Certo l’onestà non basta a fare una poesia, così come l’onestà non basta a fare dei politici capaci, come vediamo nei 5Stelle, però è già qualcosa.

Esemplificando un po’ potremmo dire che c’è una poesia low cost che si può acquistare in ogni buon supermercato dello stile, in specie in epoche di saldi e compri tre paghi due: abbassando il registro stilistico, lo schema prosodico, espungendo le metafore, le metonimie, le anadiplosi, le catacresi, le anafore etc., desertificando la tradizione, succede che alla poesia non rimanga altro da fare che registrare, come succede in alcuni autori contemporanei, le ubbìe della vita quotidiana: una sorta di cronachismo borderline del tipo: “al mattino quando si alza a mio marito gli puzza l’alito”, oppure una sorta di iperrealismo ingenuo del tipo: “fontana, finestra, albero, mare”. Si tratta di un vero e proprio deposito di tecniche stilistiche ampiamente provate e assimilate dal corpo sociale della piccola comunità letteraria, e in tal senso queste tecniche sono ampiamente leggibili e digeribili. Per il vero, il problema della costruzione di una “nuova” poesia avrebbe richiesto un processo del pensiero molto più elevato e una gestazione molto più complessa che gli autori del minimalismo e dell’iperrealismo non sono affatto capaci di offrire.

Vincenzo Petronelli

U SPUSALIZZIE

Atténəmə jêrə də Cérəgnolə
manəsciavə i parolə accomə e curtiddə;
mamminəmə jêrə andrəsànə,
propriə u pajeisə d’i zappatourə e di bbábunə
ndò i dìibbətə pəsèvenə
accomə a na zochə ngánnə.

Na sciurnàtə appêsə də Márzə,
nonònnə facèttə mbáccə ‘a figghjə:
“Nan nə tənéimə daggè abbastánzə de uájə,
ng’i vuléimə scì a truè a fòrzə? Cə jə, tə fêtə
l’árjə ca tə nə vu scì da ddò?”, chə l’ucchjərə appəcciàtə.

‘A sêrə, doppə ca fərnavə də cusì,
mamminəmə assavə i fotograféje
da ìində o tərèttə,
adunénnə i pənzìirə nzìimə o ppànə da sope a távələ;
méndrə atténəmə sə sciavə a còlchə e sə sciuscelavə
ch’i rraggiunamìinde sou; u prèstətə da cercà a bánghə, a máchən-a novə,
i bastárdə ch’ i mannèvənə a schəmmunəchə.

Traduzione

Il matrimonio

Mio padre era di Cerignola
maneggiava le parole come coltelli;
mia madre era andriese,
proprio la città dei contadini e dei “va bene”
dove i debiti pesavano
come una corda intorno al collo.

Un giorno incerto di Marzo
mio nonno disse rivolgendosi a sua figlia:
“Non abbiamo già abbastanza guai,
da andarceli a cercare a tutti i costi? Cosa c’è, ti puzza
l’aria, che vuoi andar via da qua?”, con gli occhi accesi.

Alla sera, dopo che finiva di cucire,
mia madre tirava fuori le fotografie
dal cassetto,
raccogliendo i pensieri insieme al pane sul tavolo;
mentre mio padre andava a dormire e si gingillava
con i suoi ragionamenti; il prestito da richiedere in banca, la macchina [nuova,
i bastardi che gli portavano sfortuna.

IL VOLO

Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.

Così ogni notte
liberato il mio inquieto colombo,
raccolgo
come contrabbandiere di confine
il povero bagaglio dei miei ricordi
ed attraverso i sentieri tracciati.

Sono ampi spazi
disseminati nel bianco fragore di case
col volto dei millenni,
e suoni
riecheggianti nelle stanze
dalle strade mute,
voci di bambini
sospinti dal vento
per le valli.

Sono mani dure
ed occhi rugosi di contadini
asserragliati nelle loro memorie
squarciate dagli inverni,
e donne che cuciono
la trama sottile di un tempo impari,
inebriate di sole
che esonda dai muri d’ombra
le loro ali di cera.

Sono stazioni scomparse
tra anfratti di treni a vapore,
che rinfrangono accenti di giorni passati
mescolati
agli odori del mezzogiorno
ed alle grida dei venditori.

Sono sfumature di bianco e nero
e contorni di terra e sangue
che la storia
non cancellerà.

Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.

.
ENDRE ADY

Sopə a Murge l’alt-a déjə è assoutə l’autunnə;
ndruppəchènnə, d’a stràtə d’u Parədàne
nzìimə a l’árjə prênə d’a salzə de pumədourə,
u sendibbə.

Mə nə sciavə ch’a rámbə d’i Mònàchə a joscə
e tuttə ‘na vòltə u foumə d’i calarounə
mə jagnèttə də voucə ca sfuscèvənə vəlocə,
vùulə de sckázzamurìiddə.

M’attucchèttə l’autunnə, scialpəscènne i parolə
ca mə zumbèrənə ngánnə da rêtə ‘e prêtə d’i cásərə
e u sendibbə fuscì p’i trasunnèddə, ‘i scàlə,
i fənèstə maravəgliàtə.

Po ndrəsèttə a staggionə jalzèttə a cotə
e chə na rəsàtə l’autunnə sparəscèttə ‘o recone.
‘U pajéisə se ne scurdèttə a lèstə a lèstə, ma jej u vətìibbə
rêtə all’ômbrə du trênə p’a maréinə

Traduzione

Sulla Murgia è arrivato l’autunno l’altro ieri;
inciampando, dalla strada del Paredano
insieme all’aria pregnante della salsa di pomodori
mi arrivò.

Me ne andavo per la scalinata delle Monache nel pomeriggio
ed improvvisamente il fumo dei calderoni
mi riempì di voci sfuggenti, rapide,
folletti in volo.

Mi toccò l’autunno, balbettando parole
che mi fecero trasalire dalle pietre delle case
e lo sentì fuggire per le stradine, le scale,
le finestre sorprese.

Poi improvvisamente l’estate tornò ad agitare la coda
e con una risata l’autunno si nascose al riparo.
Il paese se ne dimenticò velocemente, ma io lo vidi
dietro l’ombra del treno per la marina.

 

CUNGÊDE
(P‘A MÓRTE DE NU PUÊTE GIARGIANÊSE)

Josce
allassàtə i fənèstə apèrtə
ca o segnôrə sté a murì!

A fənèstə sopə a Murgə
jə nu spècchiə,
na travèttə;
ddò jə uguàlə a ddéice
solə o marángə,
pelonə o cìilə;

ddò jə uguàlə
bənədittə
o pàne nèrghə,
lénguə də màrə
o de tèrrə.

(“Os meninos subiram pela figueira
para eles comerem os frutos;
desde aquì os posso olhar;
desde aquì os posso ouvir;
Ah, que dìa tão lindo
para eu animar a vida!”).

Joscə
allassàte i fənèstə apèrtə
ca o səgnôrə va déicə l’orazzionə!

Na saittêrə,
a Murgə jə na saittêr-a d’orə
d’orə biánghə
ca sə spəcchiascə
mbáccə o cìilə.
N’arcəpéinə,
a Murge je n’arcəpéinə d’argèndə
ca sciuppascə
u maləvèrmə
Íində a làne d’i nnuvələ .

(“Os camponesês sairam aos campos
para eles cortarem o trigo;
desde aquì os posso olhar;
desde aquì os posso ouvir:
que dìa tão lindo
para eu cantar da vida!”)

joscə
pə favorə
allassàtə i fənèstə apèrtə!

Hoje
por favor
deixai as janelas abertas!

.
CONGEDO
(IN MORTE DI UN POETA STRANIERO)

Oggi
lasciate le finestre aperte
che il signore sta morendo!

La finestra sulla Murgia
è uno specchio,
un miraggio;
qui è uguale dire
sole o arancio
pozzanghera o cielo;
qui è uguale
agnello
o pane nero,
lingua di mare
o di terra.

(“I bambini sono venuti verso gli alberi di fico
per poter mangiare i frutti;
da qui posso vederli,
da qui posso udirli,
Ah, che bel giorno
per poter animare la vita!”)

Oggi
lasciate le finestre aperte
che il signore deve pregare!

Una feritoia,
la Murgia è una feritoia d’oro
d’oro bianco
che si specchia
di fronte al cielo.

Un erpice,
la Murgia è un erpice d’argento
che estirpa
il verminaio
nella lana delle nuvole.

(“I contadini sono andati nei campi
a tagliare il grano;
da qui posso vederli,
da qui posso udirli,
Ah, che bel giorno
per poter cantare della vita!”)

Oggi
per favore
lasciate le finestre aperte!

Oggi
per favore
lasciate le finestre aperte!

 

U TRABBUCCHE (22 ottôbrə d’u trəndanovə)

Na nòttə de chìitrə e trùunə
(lámbə ìində o cìilə d’a guèrrə)
rêtə ‘o stradonə d’a piccòlə
a reconə d’u mourə.

Na fəréitə ca jusckə
dôlcə, me stròzzə ngànnə,
d’o còrpə tou ca s’abbəgnascə
e ca u sèndə arrəspərè.

Ìində ‘o moute d’i pássə,
n’ômbrə affuchàtə de suldàtə
fáccə də bandéitə;

n’addorə də nêv ə
sopə‘a tèrr-a jársə;
po m’avvrázzə u màrə.
Traduzione

IL CAPANNO DA PESCA (22 ottobre del trentanove)

Una notte di pietre e tuoni
(lampi nel cielo di guerra)
dietro lo sterrato della “piccola”
a riparo del muro.

Una ferita lancinante
dolce, mi strozza in gola
dal corpo tuo che si soddisfa
e che sento respirare.

Nel silenzio dei passi
un’ombra soffocata di soldato,
faccia di bandito;

un odore di neve
su questa terra arsa,
poi mi abbraccia il mare.

SETTEMBRE

Dójə də finə Séttémbrə,
addaurə de chiouv-a préinə
i də mirrə nùuvə da rə candòinə.

M’arrecordə na uagnédd-a chiàinə
a l’appitə rèitə a u strataunə,
rə sckàimə sordə də rə uagneunə
da fourə a rə casərə d’u quartìirə,
povərə caserə də zappateurə,
ndò rə stéddə jérənə vaucə
də mùurtə, də sandə, də féstə.

26/11/2011

Traduzione

Una giornata di fine Settembre,
odore carico di pioggia
e di vino nuovo dalle cantine

Mi ricordo una ragazza incinta
camminare a piedi dietro lo sterrato,
le grida sorde dei ragazzi
fuori le case del quartiere,
povere case contadine,
dove le stelle erano voci
di morti, di santi, di festa.

NEVICATA

La volta di ruggine che accarezza i comignoli ai tetti, distilla come malvasia, i fumi ed i volti dell’inverno. Tra poco la neve coprirà l’antracite della strada; tra poco con i passi infeltriti echeggeranno abbrunati nel crepuscolo, contrappunti di voci, canti e risa di mani rudi e fate, di fuorilegge di vento, di nomi sorpresi dal tempo.

ANDONJÈTTƏ

Andonjèttə, ca stasêrə
stè a ddè ffoure assolə,
assəttàtə tra u ləmonə
e a rosamaréinə
(A bavèttə de tèrrə
allèndə u fagugnə).

A sêrə də fìnə staggionə
tênə nu ziffrə de vocə:
assummègghjə a na cáppə də réisə
de criatourə lundànə.
(A bavèttə də tèrrə
arrəzzəcascə u musckə).

Chéss-a nòttə appêsə ‘o màrə
tə pupətascə parolə jágrə
də lágrəmə e bərlándə,
də jòcchjərə stutàtə nzéinə.

19/5/2008

Traduzione

Antonia

Antonia, che stasera
sei fuori casa da sola,
seduta tra il limone
ed il rosmarino,
(Il refolo da terra
spezza il favonio).

La sera di fine estate
ha un vortice di voce:
somiglia ad un mantello di risa
di bambini lontani.
(Il refolo da terra
accapona la schiena).

Questa notte sospesa sul mare
ti bisbiglia parole aspre
di lacrime e brillanti,
di occhi spenti in grembo.

UN AMORE DI ROSA

Mia cugina lasciò la scuola all’età di nove anni;
smise di svolazzare tra i campi del nonno
per trascorrere le giornate tra un angolo della cucina
ed il laboratorio di biancheria intima.

A quindici anni cominciò a ricamare il corredo
nei pomeriggi di maggio di campane in penombra,
alla domenica quando le sartine affollavano i cortili;
tutto andava “come sempre fu e come sempre sarà”.

In quelle sere d’estate del millenovecentosettantanove
aveva serpi di sette canne ad arroventarle il ventre
nel tramestio di lettere che le ragazze del quartiere
si passavano di nascosto dagli spioncini sulle scale,

mentre dalla gradinata attendeva i “giargianesi”
che le avevano tracciato itinerari negli occhi,
truccati da parole di cristallo ed ossidiana
annodate attorno a promesse di fili di perle.

L’avvolgevano il profumo di tigli e di lavanda,
mescolati all’aroma dei fioroni e dei gelsi appena colti,
della menta e delle piante di basilico, dell’odore terrigno
di lumache ed “acquasale” che inondavano le case contadine.

Fu un attimo: poi il vento dal Castello voltò il suo sguardo ad est
detergendo gli occhi dall’afrore di salsedine increspata dal favonio
ed impolverando gli altari delle chiese già ammanniti;
così, tutto tornò ad essere “come sempre fu e come sempre sarà”.

PUGLIA

Scarno profilo calcareo
di pietre violate
nella luce in declivio
del tramonto d’oriente.

Rugoso sorriso d’ambra
segnato dall’afrore di stagione,
cicaleccio di giorni immoti
che rincorrono il tempo.

Aromi aspri ed inebrianti
di terra,
di sangue e vita
avvinghiati a recessi pagani.

Bianche lenzuola appese
ad un raggio di sole
esile linea di confine
tra pensieri e ferite.

Miraggio che assale
nelle brume del giorno,
creature d’argilla
ubriache di storie e di ieri.
Testata politticoNOVECENTO
(da un’intervista ad Edit Brück)

“Quanta stella c’è nel cielo
quanta cattiveria nel cuore dell’uomo?”

Echeggiavano nei miei giorni invernale di bambina
i versi slavati di Petőfi
tra i muri di scuola scrostati;
attendevamo l’uscita per correre,
raccolti i capelli nei foulards ed i passi appesantiti dalla neve
incuranti
dei volti scheggiati dal vento dall’Alföld.

Amavo osservare nel pomeriggio
il destino imperscrutabile della Puszta
che adombrava i confini dell’Ucraina,
appena distinti dal fiato vitreo dalle stalle
ed alla sera dalle luci a petrolio della csàrda,
dove le famiglie condividevano con gli stessi accordi
le morse della storia
e l’alito della redenzione.

D’improvviso
vidi il cielo di cristallo della Tisza
abbrunarsi sotto un lugubre mantello corvino
come un’infinita notte polare,
sulla stessa terra di mille e più natali ormai straniera
e la faccia e le mani sporcarsi di fango,
in un’agonia di ingiurie,di risa di scherno, di sputi.

Sentì il vento di violini farsi macabro,
nel dissolversi del volto di mio padre oltre il filo spinato
in un pomeriggio senza più sera,
con addosso l’odore acre della mortificazione
e l’orizzonte inspiegabile prima, poi silente
della cenere nell’aria.

Vidi corpi nudi, piagati, sezionati
come cavalli in fiera dal respiro affannoso
ed avvertì il sapore dell’odio rappreso
sulle vesti e sulle cicatrici,
fino ad un’inattesa anestesia di mani pietose
a cingere le corazze ormai svuotate dei nostri accenti.

Ritrovai la libertà, ormai esangue
con le sue nuove itineranti celle,
a soffocare il mio impeto di abbracciare il mondo per inveire,
quando capì di essere solo nuova carne
per antichi rituali.
………………………………………………………………………
Dopo sessant’anni
salpando di porto in porto a ricucire le vele,
mi accompagnano ancora quei versi slavati di Petőfi:
“Quanta stella c’è nel cielo,
quanta malvagità nel cuore dell’uomo?”

.
LA VISITA

Sairə də vuzzə
də finə agostə,
rə ciamareuchə annəsəlévənə
ndrəpəcannə,
appənneutə a na bavéttə d’ariə
ìində a la céstə.

Nzəghərdeunə na stascəddàitə,
la cambàin-a sordə də la Treneté,
na facci-a bianghə de fémmene,
na cappətéddə nérvə,
nu rəsariə.

Traduzione

Serata livida
di fine agosto,
le lumache annaspaavano
inciampando ,
appese ad un filo d’aria
nella cesta.

Improvvisamente una sferzata,
la campana sorda della Trinità,
una faccia bianca di donna,
una mantellina nera,
un rosario.

.
MEMENTO

Vertigini di un tempo gitano
sgranavano gli occhi alla notte
come sguardi fuggenti in attesa
del viaggiatore in dissolvenza.

Improvviso un eco di danze popolari,
carezza di lievi pieghe di vesti plebee,
riflesso te(pe)rso di memoria.

.
OLOCAUSTO GITANO

La fornace esalava acre odor di morte
ma sotto ignari cantavano la sorte
uguale da mille anni di angherie:la sorte
che anneriva il cielo di acre odor di morte.

TEATRO

Oggi mi è tornato in mente
nella penombra di novembre
quel pomeriggio di quasi trent’anni fa;
il tuo respiro affannoso
prorompente dalla scala condominiale
(in perpetua sfida
con il tuo asma bronchiale)
nell’ansia di raggiungermi in magazzino
prima che potessi sfiorare i fili
nel quadro elettrico.

Teatro
erano le tue stanze,
le tue giornate affollate
di plausibili orizzonti metafisici
in quei giorni di lanugine
dei polverosi anni ottanta;
ammiravo gli infiniti spazi
dei tuoi possedimenti
inestimabili
a qualsiasi stima di mercato.

Seppi per telefono
un giorno di marzo dell’altr’anno
che eri tornato;
il referto parlava di pochi mesi
di prugnole selvatiche
e di tabacco da masticare.
Ripensandoci oggi,
ho sentito scrostarmi di dosso
la vernice degli eventi.
Era teatro
ancora e sempre, solo, teatro,
la scena perfetta del congedo
rimasta immemore,
tra un volto di madonna illirica
e la processione dei creditori.
Laboratorio gezim e altriPUESÉJƏ DƏ VÌIRNƏ

Quánnə s’arrəcurdavə də chiddə ddéjə lònghə də vìirnə
pənzavə soprattuttə ‘a chiovə
ca affucavə i trasunnèddə d’u quartìirə
e jagnavə i vəgnàlə ddé vəcéinə.

S’arrəcurdavə précéisə-précéisə
i fémmənə ca scèvənə fuscènnə-fuscènnə
accomə u cìilə sə faciavə də chiòmmə,
téndə ch’i mourə sə dèvənə vocə ìində a còrtə
e i ffigghjə e e nəpotə s’accucchjèvənə lorə e lorə addé forə
a aduné i pénnə da sopə ‘e firrə.

P’i criatourə jèrrənə déjə də fèstə
mmèzzə a cuddə mərvəronə də vocə
ch’i ggiôvənə a cəcərəgghjé ìində o moutə addé fforə
(fòrsə dəcèvənə u rəsárjə o facèvənə
i mascéinə pə nan fángə sckatté l’òssərə)
mèndrə i vvècchje scèvənə arrəsədjènnə i vacéilə
pə méttələ sôttə e tèttə d’i lamiounə
pə tené l’ácquə p’a càsə (pənzavə ca jêrə strànə a véitə d’i ffémmənə,
chə tuttə cuddə tìimbə ca struscèvənə rêtə a ll’ácquə, mmèzzə a chiovə
e e fféilə a’ fundànə); po’ stənnèvvənə i rráchənə p’accumməgghjé i firrə,
a motə, a bəcəclèttə, i libbrə də l’attànə (ca cə mmògghjə a madònnə
facèvənə a palascéinə, scomodavə a tuttə a sacra famigghjə).

Tìimbə ddo jorə, scapulèvənə ll’ummənə d’a cambágnə e jêrə
na côrsə a prəparé da mangé accomə ‘a vəscigljə də Natàlə;
jêre na pəfanéje də zjànə, cuggéinə, də mònnə
rêtə ‘o Castiddə, də suldàtə e masciàrə, də stizzə də véinə,
də gastèmmə o guvèrnə, a guèrrə, a Mussoléinə e se cunzəlèvənə ch’a bənédəzzionə d’a chiovə e d’a musəchə.

N’o səndibbə mé parlé d’i ddéjə də solə;
“u solə assucavə a tèrrə e affagugnavə a càpə” dəciavə; na nòttə
də quécchə énnə ndràtə, préimə də pəgghjé sunnə, me dəcèttə
ca spəravə d’arrué a féinə də cuddə vìirnə, ca jêrə picchə e bbunə
ca nan vədavə téndə ácquə e l’árvərə acchəssì bérəfáttə.

U vìirnə spəccèttə e partibbə suldàtə;
mə chiamèttə u cumannéndə na matéinə də lugljə də fagugnə, pə ddirmə də chiamé a càsə, ca m’avèvənə cərcàtə.
Traduzione

POESIA D’INVERNO

Quando ricordava quei lunghi giorni d’inverno
pensava soprattutto alla pioggia
che inondava le strade del quartiere
e riempiva i vignali lì vicino.

Ricordava precisamente
le donne che si affrettavano
appena il cielo diventava color del piombo,
tanto che i muri si avvisavano tra loro
e le figlie e le nipoti si riunivano tra loro all’esterno
per ritirare i panni da dagli stendini in ferro.

Per i bambini erano giorni di festa
in quella a cuddə ridda di voci
con le donne giovani a chiacchierare fuori in silenzio
(forse recitavano il rosario o facevano
gli scongiuri affinché non ci si spezzassero le ossa)
mentre le anziane andavano raccogliendo i catini
per sistemarli sotto i tetti dei depositi
per avere l’acqua per casa (pensava che la vita delle donne era strana,
con tutto quel tempo che perdevano per l’acqua,tra la pioggia
e le file alla fontana); poi stendevano i teli per coprire gli attrezzi,
la moto, la bicicletta, i libri di suo padre (che se disgraziatamente
si fossero ammuffiti, avrebbe scomodato tutta la sacra famiglia).

Dopo un paio d’ore, rientravano gli uomini dalla campagna ed era
una corsa a prəparare da mangiare come alla vigilia di Natale;
era tutta un’epifania di zii, cugini, di mondi
oltre il Castello, di soldati e streghe, di sorsi di vino,
di bestemmie verso il governo, la guerra, Mussolini e si consolavano con la benedizionə della pioggia e della musica.

Non lo sentì mai parlare di giorni di sole;
“il sole prosciugava la terra e soffocava la testa” diceva; una notte
di qualche anno fa, prima di prendere sonno, mi disse
che sperava di arrivare alla fine di quell’inverno, perché da parecchio
non vedeva così tanta acqua ed alberi così rigogliosi.

L’inverno finì ed io partii per il servizio militare;
mi chiamò il comandante una mattina afosa di luglio, per dirmi
di chiamare casa, perché m’avevano cercato.

33 commenti

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33 risposte a “Vincenzo Petronelli POESIE INEDITE in italiano e nei dialetti di Barletta e di Andria con traduzione in italiano e una Dichiarazione di poetica dell’autore

  1. Qui non cambia niente. Si ripropone la scenografia meridionale con un linguaggio che richiama a sé piccoli ambienti familiari, memorie, malinconie del passato, emergenti come cultura degli anni 50 e del dopoguerra, con lo status mentale e poetico collegato ai vari Pierro, Sinisgalli ecc.Il riferimento ad un ambiente antropo-sociologico ricrea una atmosfera intensamente evocativa, confermando il ristagno dentro un revival di figure e volti domestico-patriarcali. E’ la terra dei ricordi e dei risvegli umbratili della memoria a prevalere sul linguaggio che si uniforma alle tipologie dei soggetti e dell’ambiente.E qui credo che Vincenzo Petronelli sia un buon “narratore” che sacrifica la poesia.

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    • vincenzo petronelli

      La ringrazio per il Suo contributo Mario, che come vede è risultato per me particolarmente stimolante, tanto da avermi suscitato delle riflessioni riportate nel mio intervento in basso.Mi farebbe piacere poter continuare in qualche modo a confrontarmi con lei, anche alla luce del fatto che questa è una parte della mia produzione,che nel suo complesso risulta essere molto variegata, sia stilisticamente che tematicamente.Cordiali saluti

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  2. Concordo con Gabriele nel rilevare il riproporsi una “scenografia meridionale” che tutti conosciamo.Eppure, non riesco a sottrarmi al richiamo dolce di questa scenografia immortale; perchè fa parte di molti di noi Italiani,meridionali e non,ha la forza dei Lari, un irresistibile richiamo ancestrale.Va detto, anche, che il giovane poeta è padrone della nostra lingua,che ha letto e leggerà ancora, con quella fame di sapere che regge la civiltà, a qualunque latitudine.

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    • vincenzo petronelli

      Grazie mille per il Suo commento, cara Anna.Mi fa piacere che abbia colto la mia non esclusiva aderenza al canone linguistico dialettale: mi fa piacere perché se indubbiamente la scelta del registro locale ha una connotazione filologica frutto di una scelta ponderata e precisa, come spiego nel mio intervento in basso, è anche vero, sempre dal punto di vista antropologico (e mi scuso per la ricorrenza alquanto prolissa di quest’aggettivo nella mie dichiarazioni poetiche, ma non è caso del resto se ho definito la mia una “poesia antropologica”) che il mio sia un interesse rivolto alla condizione umana, colta soprattutto da angolazioni sociali ed ambientali, universale e tale tensione culmina espressivamente in un interesse non già rivolto verso singole lingue, ma bensì verso la “lingua” tout court, come strumento culturale privilegiato. Per questo motivo, mi sono anche cimentato – seppur di rado – in composizioni in alcune delle lingue estere di mia conoscenza, in particolare in spagnolo, portoghese ed ungherese.
      Per quanto concerne le letture, sono un onnivoro per natura, nella poesia e nella vita e per me continuare a leggere, a formarmi nella coltivazione dei miei interessi è un dogma imprescindibile, proprio per quella “fame di sapere” che giustamente evidenziava essere il motore primo della civiltà.Cordiali saluti.

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  3. Preciso che quando dico”giovane poeta”non mi riferisco tanto all’età anagrafica quanto al modo di porsi rispetto alla poesia,intesa come eterna scoperta della realtà ,con quell’attenzione umile e generosa che connota le anime giovani.

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  4. STATUALITA DEL LINGUAGGIO POETICO E MERIDIONALISMO POETICO DEGLI AUTORI DEL SUD

    Vincenzo Petronelli POESIE INEDITE in italiano e nei dialetti di Barletta e di Andria con traduzione in italiano e una Dichiarazione di poetica dell’autore


    Pur con tutte le scriminanti a discarico della poesia di Vinvenzo Petronelli, mi sento di scagliare una freccia in parziale suo favore: direi che il suo meridionalismo è tipico della poesia in dialetto del Sud, tipica anche della autrice forse «migliore» della poesia in dialetto del Sud: Assunta Finiguerra. Il meridionalismo della poesia in dialetto del Sud purtroppo è una malattia endemica del Sud. Ci sarà pure una ragione di questo fatto? E infatti c’è, e la ragione sta nel mancato sviluppo nel Sud di una borghesia attiva e progressista, nel mancato sviluppo del Sud come, oserei dire, stato unitario (anche se aggregato alla repubblica italiana). La statualità di uno stato è molto importante anche per la poesia e per il linguaggio poetico. Voglio dire che c’è una equazione tra statualità o mancata statualità di uno stato e i linguaggi delle sue comunità linguistiche. E questo ha senz’altro una ripercussione anche sul linguaggio poetico di quelle comunità linguistiche,

    Però, un elogio che mi sento di fare a carico di questa poesia è che non si tratta di una poesia low cost, come moltissima poesia romano milanese e di Pordenone e Mantova e altre località della villeggiatura poetica disseminate in italia; almeno qui siamo davanti ad una poesia che un tempo si definiva “onesta”. Certo l’onestà non basta a fare una poesia, così come l’onestà non basta a fare dei politici capaci, come vediamo nei 5Stelle, però è già qualcosa.

    Esemplificando un po’ potremmo dire che c’è una poesia low cost che si può acquistare in ogni buon supermercato dello stile, in specie in epoche di saldi e compri tre paghi due: abbassando il registro stilistico, lo schema prosodico, espungendo le metafore, le metonimie, le anadiplosi, le catacresi, le anafore etc., desertificando la tradizione, succede che alla poesia non rimanga altro da fare che registrare, come succede in alcuni autori contemporanei, le ubbìe della vita quotidiana: una sorta di cronachismo borderline del tipo: “al mattino quando si alza a mio marito gli puzza l’alito”, oppure una sorta di iperrealismo ingenuo del tipo: “fontana, finestra, albero, mare”. Si tratta di un vero e proprio deposito di tecniche stilistiche ampiamente provate e assimilate dal corpo sociale della piccola comunità letteraria, e in tal senso queste tecniche sono ampiamente leggibili e digeribili. Per il vero, il problema della costruzione di una “nuova” poesia avrebbe richiesto un processo del pensiero molto più elevato e una gestazione molto più complessa che gli autori del minimalismo e dell’iperrealismo non sono affatto capaci di offrire.

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    • Credo nei dialetti nella freccia che lei scaglia a favore del mancato sviluppo del Sud, nel senso che restando in un certo senso in un medioevo l’approccio a tratti mostra una purezza lontana dalle finzioni
      del finto progresso, che disgrega l’anima. Non sono esistenzialiste, si potrà dire come ho già letto da qualche parte che l’autore sia uno dei tanti epigoni di Montale e della poesia novecentesca?

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      • vincenzo petronelli

        Grazie mille per il suo commento egillarosabianca; in effetti ho sempre cercato, ricercando una poetica del quotidiano e delle classi subalterne ed un forte rapporto con il concetto di territorio (non necessariamente il mio) il tono risulta per forza di cose più descrittivo e narrativo, cercando poi la “nobilitazione poetica” (sperando di riuscirvi) con l’allegoria; senz’altro però non è un taglio esistenzialista.Cordiali saluti.

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    • vincenzo petronelli

      Caro Giorgio, innanzitutto ti ringrazio per lo spazio concessomi oltreché (e non sarò mai in grado di farlo a sufficienza) per la tua instancabile opera di divulgatore che ci permette di rifornire costantemente i nostri orizzonti poetici.Trovo mirabile (e lo dico non solo da amante di poesia, ma anche da studioso di storia e scienze sociali) la tua ricostruzione socio-poetica della storia della produzione “in vernacolo” come si diceva una volta, delle regioni meridionali e che altro non è che un riflesso della storia generale di quelle terre. Come evidenzio a seguire nel mio commento più diffuso, ci sono delle specificità discriminanti in questo senso per ciò concerne peculiarmente la storia sociale generale della mia zona (che difatti una vera e propria tradizione poetica non la contempla) e nella mia formazione, ma l’assunto generale è ineccepibile.Grazie ancora Giorgio ed a presto.

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  5. IL PROBLEMA DELLA STATUALITA DEL LINGUAGGIO POETICO E DEL MERIDIONALISMO POETICO DEL SUD

    Vincenzo Petronelli POESIE INEDITE in italiano e nei dialetti di Barletta e di Andria con traduzione in italiano e una Dichiarazione di poetica dell’autore


    nel parlare di stato e di statualità linguistica mi riferisco a quanto asserito da Mandel’stam nei suoi saggi sulla corrispondenza (stretta) tra la statualità e la lingua di relazione e il linguaggio poetico.
    Per farmi capire, porto un esempio di un poeta italiano che non vive in Italia da sessanta anni e che si esprime con un linguaggio poetico sostanzialmente estraneo alla statualità della lingua di relazione così come si è costituita in italia: Alfredo de Palchi.
    Chi leggesse la sua poesia, se ha qualche grano salis, si renderebbe conto che il linguaggio impiegato da de Palchi nella sua poesia è un linguaggio «allotrio», come dire che è un linguaggio poetico che si è inventato una lingua di relazione sottostante. Non so se mi sono spiegato, ma il distinguo è importantissimo… la novità del linguaggio poetico depalchiano sta tutta qui.
    Insomma, paradossalmente, a mio avviso, il linguaggio poetico di de Palchi in virtù della sua genealogia immaginaria, può permettersi di ignorare il problema nel quale sono invece invischiati i linguaggi poetici del secondo Novecento di chi abita in Italia, ovvero: la mancata riforma del linguaggio poetico italiano… quella riforma che la Nuova Ontologia Estetica sta tentando di mettere a punto e che l’ultimissimo Pasolini aveva in animo di porre in opera.

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    • vincenzo petronelli

      Caro Giorgio, innanzitutto ti ringrazio per lo spazio concessomi oltreché (e non sarò mai in grado di farlo a sufficienza) per la tua instancabile opera di divulgatore che ci permette di rifornire costantemente i nostri orizzonti poetici.Trovo mirabile (e lo dico non solo da amante di poesia, ma anche da studioso di storia e scienze sociali) la tua ricostruzione socio-poetica della storia della produzione “in vernacolo” come si diceva una volta, delle regioni meridionali e che altro non è che un riflesso della storia generale di quelle terre. Come evidenzio a seguire nel mio commento più diffuso, ci sono delle specificità discriminanti in questo senso per ciò concerne peculiarmente la storia sociale generale della mia zona (che difatti una vera e propria tradizione poetica non la contempla) e nella mia formazione, ma l’assunto generale è ineccepibile.Grazie ancora Giorgio ed a presto.

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  6. Giuseppe Talìa

    Spesso i poeti del Sud, in particolar modo i poeti del Sud che scrivono in dialetto, sono un po’ dei suonatori di zampogna, descrivono ciò che è accaduto nel loro paesello, la miseria umana, i sogni infranti, un passato di memoria che si nutre di terra, quotidianità fatta di pane, di tavole imbandite, di una natura agreste e contadina. Non riescono, questi poeti del Sud che scrivono in dialetto, a uscire fuori dalle maglie del passato e del rimpianto, non riescono in definitiva a fare una operazione di recupero dei lemmi e dei sintagmi, di innervare nel dialetto, nelle esperienze delle loro epifanie, un agire presente, e nemmeno un uso della lingua dialettale capace di silenziare una certa memoria, come, ad esempio, fa Cesare Ruffato.

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    • vincenzo petronelli

      Caro Giuseppe Talia, grazie mille per il tempo speso per la Sua osservazione.Mi incuriosisce e stimola molto la Sua osservazione, come quella di Mario Gabriele e quella che segue la di Donfrancesca a seguire la Sua, perché non riesco a capire se (e trovo davvero stimolante approfondire tale riflessione) se costituisca una sconfitta, o diciamo un limite delle mie poesie qui proposte o se l’operazione mimetica che sottende la creazione artistica sia talmente ben riuscita nel ricalcare le formule linguistiche popolari, da riuscire a “mescolare le carte” Non starò qui a ripetere quanto riportato in basso nel mio commento e né è per me motivo di scervellamento, anche perché poi il resto del mio repertorio è completamente differente e nelle mie produzioni più recenti questi temi sono quasi assenti, ma mi incuriosisce per capirle meglio.Una cosa però mi preme sottolineare: il fatto che poi ci siano dei temi ricorrenti non riesco a capire in che modo possa essere una concrezione della poesia dialettale, se non invece una condizione intrinseca alla creazione artistica che riflette, mutatis mutandis, l’universalità della condizione umana nel tempo e nello spazio, universalità che forse la circoscrittività fisica dei microcosmi popolari evidenzia ancor più spiccatamente. Credo in definitiva che gli stessi contenuti trasposti in italiano avrebbero probabilmente suscitato una reazione diversa. Condivido appieno la necessità di sperimentare nuove modalità espressive nell’uso poetico dei dialetti e questo posso credo sia un risultato cui sono approdato, non solo perché ho creato una lingua poetica che di fatto non esiste come retaggio, ma anche la costruzione ed il lessico proposto è spesso frutto di invenzioni, per stimolo creativo talvolta, per colmare delle lacune funzionali dei mie dialetti talaltra.Grazie ancora per le Sue feconde osservazioni.

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      • Giuseppe Talìa

        Gentile Petronelli, benvenuto nella rivista. Mi piacerebbe (e ci piacerebbe) continuare e conoscere e leggere la sua opinione riguardo a molti altri autori presentati sull’Ombra. Credo che Lei abbia gli strumenti giusti per indagare la “substantia nigra” della poesia.

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        • vincenzo petronelli

          Grazie mille Giuseppe; ne sarò ben lieto, essendo la poesia – usando un ossimoro – una vera e propria religione laica per me.A presto.

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  7. donfrancesca23

    Credo non si tratti solo di una questione dialettale. Insomma io scrivo anche in dialetto. Dal dialetto ho imparato a creare anche altro. Non mi dispiacerebbe suonare , invece, la zampogna . Uscire dagli schemi non è facile e non e’ da tutti. Occorre grande coraggio e apertura mentale nonchè senso di ribellione alla sindrome da eccesso di conformismo. Devi dimenticare cio’ che hai imparato e guardare oltre. Sono d’accordo con Giorgio sulla statualità del linguaggio etc.
    Cari saluti.

    p.s.
    opinione molto personale.

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  8. antonio sagredo

    ….ripeto la mia invidia per chi sa scrivere in dialetto, qualunque esso sia… ma essendo salentino non posso che plaudire a questo poeta qui presentato…la mia meraviglia è che ho fatto davvero gran fatica a leggere e comprendere – mia incapacità naturale ma non linguistica – eppure ancora una volta le Puglie (non: Puglia!) mi sorprendono, del resto come sempre coi suoi dialetti che possiedono del fantastico cantare (forse tutte le regioni italiane hanno similarità, diffiicle dire familiarità). Quanto agli interventi sono tutti da me accettati – o meglio loro accettano me – poiché ognuno ha la sua singolarità: Al di là del dialetto qui presentato, la traduzione che ne viene data è anch’essa più che positiva… i temi, si sa, non cambiano e paradossalmente forse è meglio così… possiamo dunque sperare che le nuove generazioni ne facciano uso, anche linguistico.
    Complimenti al Petronelli… quanto alla poesia del Montale è meno viva dei dialetti!
    adieu

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    • vincenzo petronelli

      Caro Antonio Sagredo, grazie mille per le Sue annotazioni e grazie anche per l’apprezzamento delle mie poesie.Giustissima la sua osservazione sulle Puglie (del resto noi pugliesi sappiamo bene quanto grandi ed affascinanti siano le differenze interne della nostra estesa regione, riflesso dell’Italia tutta in scala ridotta. La difficoltà nel leggere i miei dialetti credo dipenda non solo dalla diversità notevole tra i nostri dialetti, ma probabilmente anche dal fatto di aver adoperato il sistema di trascrizione fonetico in alcuni casi, come ad esempio per la “e” muta tipica della nostra fonetica da “codice fiscale”. Come scrivevo in risposta a Giuseppe Talia, la costante delle tematiche poetiche credo sia normale. poiché altro non è che il contrassegno della perpetuazione della condizione umana.Infine La ringrazio infinitamente per i complimenti.Buona serata.

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  9. Poesie di vita e amore, forse tanto illustrate ma per via delle metafore. Nella poesia Matrimonio di metafore non ce n’è. Allora bisogna imparare dal dialetto come fare per inventarsi un altro tipo di metafora, chiamarla “giro di parole” tra le cose mentre accadono. Ed evitare la “Terra arsa”, magari con un colore secco, una cicala fuori posto. Più da vista che da canzone.
    Questo sarebbe il dono del dialetto, secondo me, insieme all’ironia nei sentimenti. Tolto l’illustrato si sentirebbe il vento delle pale eoliche, il dolce barocco come l’immagino io che non so distinguere tra le puglie come sa fare Sagredo. Ma ho letto con piacere perché l’animo e il poeta ci sono; solo penso a quanti scarti ancora si potrebbero fare evitando il questo e quello di ogni lingua e tradizione, anche se pare di starci dentro immersi. E invece sono luoghi, persone.

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    • vincenzo petronelli

      Caro Lucio Tosi, La ringrazio per l’attenzione concessa ai miei scritti e per il Suo apprezzamento anche linguistico. Per ciò che concerne la “Terra arsa” è curioso come questa invece sia una metafora, poiché l’arsura in questo caso è da intendersi piuttosto come l’aridità interiore che il protagonista della poesia respira nella sua comunità, a causa del suo “imperdonabile peccato” legato alla sua omosessualità.La conclusione del Suo intervento non solo la condivido appieno, ma la trovo poeticamente molto intensa e suggestiva. Grazie mille!!

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  10. gino rago

    Nei versi di Petronillo or ora letti sento suggestioni bodiniane e soprattutto scotellariane, ricondubili come sono e senza sforzi a quella stagione mai conclusa della “poesia a vocazione neorealista”, anche se nel caso di Petronillo non è fuori corso parlare di una sorta di “realismo magico” come nel meglio della narrativa di Corrado Alvaro di Gente in Aspromonte. Ma credo che il poeta dauno abbia metabolizzato anche Macondo del Marquez
    di Cent’anni di solitudine.
    Ciò che conta, ( hanno ragione tutti i commenti, ma soprattutto quelli di Anna Ventura e di Francesca Dono) è che le parole che questo poeta usa gli “appartengono” nella loro verità di un’antropologia nella memoria poetica ancora intatta.
    Gino Rago

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    • vincenzo petronelli

      Caro Gino Rago, innanzitutto mi fa molto piacere il Suo intervento, avendo avuto modo di apprezzare alcuni suoi scritti già propostici da Giorgio in questa stessa sede, nonché reperiti anche altrove.La ringrazio per la stima e l’apprezzamento e come affermo di seguito, mi fa enormemente piacere che abbia individuato due figure importanti della mia formazione come Bodini e Garcia Marquez ed attraverso quest’ultimo anche questo concetto di “contaminazione di culture” che cerco di realizzare. Grazie anche per l’affermazione finale, che trovo davvero molto bella e significativa dal punto di vista dell’eredità culturale che le nostre lingue locali incarnano e che possono perpetuarsi solo nella misura in cui riusciamo ancora a calarle nella nostra opera e nella nostra realtà quotidiana.Ringrazio sentitamente.

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  11. Giuseppe Talìa

    Premetto: nel mio precedente commento non ho espresso nessuna valutazione riguardo all’autore presentato, ho solo puntualizzato come “spesso” i poeti del Sud (con le dovute eccezioni) che scrivono in dialetto non apportano nessuna innervatura nuova alla lingua dialettale, ma si fanno trasportare da epifanie di memoria trapassata. Riguardo all’autore mi ritrovo pienamente nel commento di Mario M. Gabriele, in quello di Anna Ventura (che saluto caramente) per la dolcezza dei suoi suggerimenti. Non mi sento di scagliare nessuna freccia, come fa Linguaglossa, perché il mio arco è rotto. Non invidio nessun poeta che scriva in dialetto, se non quelli che sanno rigenerare la lingua dialettale, quelli che osano. Sono sicuro che Petronelli abbia, da buon studioso quale appare, fatto una seria ricerca etimologica, fonetica e grafica, non conoscendo la lingua-dialetto dell’autore non posso dare giudizi di merito. Il mio precedente commento non va certo in questa direzione.
    Le mie origini sono il Sud, per questo non potevo esimermi dal misurarmi con una delle tante lingue-dialetto delle Calabrie (le cinque Calabrie), tenendo in conto che c’è un poeta calabrese, Alfredo Panetta, bravo, che scrive in un dialetto delle tante varianti delle varie Calabrie.
    Per chi come me, figlio di esodo, tornare alle radici non è certo facile. Ci si arma del Rohlfs, dizionario, e della propria memora.

    Ecco un esempio. Ho immaginato mio nonno novantenne e di certo non smart alle prese con internet. Non offro traduzione della seguente, abbastanza decifrabile, tranne che per tradurre “tweet”, pressoché intraducibile in dialetto, ho dovuto far ricorso a un suono onomatopeico, “chiù-chiù” che poi è il verso dell’assiuolo (Pascoli). Gli ultimo due versi sono, invece, un proverbio.

    In giru è tuttu nu vu vu vu
    Non si parra d’attru
    Vu vu vidisti chi fici?
    Vu vu voi i sai?
    Vu vu voi i ‘ccatti?
    Vu vu voi i futti?
    Apri ‘u gnòmmaru e mbija
    A luna lunella i na pitta e na cullurella
    na junta i brosachi nta l’acqua
    Alillà, na chiùbbica di chiù-chiù
    e nd’annu chimmu ti dinnu ca…
    vroccula zoccula e predicaturi
    dopu Pasca non servanu cchiùni

    • leggasi la doppia LL come il suono “gli” dello spagnolo. Dialetto del basso Ionio, ma diverso da quello reggino.
    • Gnòmmaru=gomitolo
    • Mbija=attaccare, incollare
    • Junta= unità di misura che sta nel palmo delle due mani, giumella
    • Brosachi=rospi
    • Chiùbbica=moltitudine

    Al buon Sagredo, un tantino campanilista, dedichiamo tre haiku calabri: il primo, una cartolina; il secondo un quadro desolante ma, purtroppo, metafora viva e di cui si offre traduzione; il terzo, surrealismo made in Calabria (si offre traduzione approssimativa)

    Grasta di focu.
    ‘U pipi guarda o mari.
    Russu puru ‘u celu.

    O xancu du xumi
    nu cannitu i landeglia
    e du’ xeri lordi.
    A fianco del fiume/un canneto di latta/e due stracci sporchi.

    ‘U ‘mpicciarrobbi.
    ‘U ‘zzimmaru c’a ‘ngilla
    tutti ‘mbraschati.

    L’appendiabiti./Il caprone con l’orbettino/tutti mischiati.

    A Francesca Dono, invece, in attesa di sapere se realmente ha intenzione di apprendere come si suona la zampogna, o, meglio in attesa di leggere le sue poesie dialettali, dedico questa che sicuramente capirà anche senza traduzione ma con rime-rime baciate.

    Sta luna sculacchiata
    nta l’aria mbarzamata
    uòcchiu d’umbra ‘nzampanata
    e nu gruttuni i luci i fata

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    • donfrancesca23

      Sei bravo Giuseppe . L’ idioma reggino è un po’ diverso dalla Calabria del Nord. È Calabro- siculo. La Zampogna? Si, mi piacerebbe imparare. Anche la cornamusa. Amo la musica. Per le poesie…ci penso. Devo prima trovarle. Un caro saluto. Ovvio tutti compreso l’amico Gino Rago..

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  12. antonio sagredo

    grazie del dono di Talìa… la mia invidia deve essere vista positivamente, senza alcuna malignità intendo… è solo la mia impotenza a dettarmi lo stupore… da ricordare l’ultima fatica di Carmelo Bene ” ‘l mal de’ fiori” che è un elogio e un trionfo di vari dialetti dal nord al sud e che raccomando di leggere… la fatica straordinaria del salentino io considerai un tempo come vicolo cieco, ma devo ricredermi…

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  13. Giuseppe Talìa

    Grazie Francesca. E finalmente riesco a stupire Sagredo, Pater. Anche questa è N.O.E, folk N.O.E.

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  14. vincenzo petronelli

    Per prima cosa vi ringrazio del tempo speso per dispensarmi i vostri preziosissimi commenti;pur scrivendo da una ventina d’anni, ho cominciato a cimentarmi con la proposizione dei miei testi da poco tempo e quindi tutti i suggerimenti sono utilissimi per crescere ed arricchirmi; soprattutto è stato interessantissimo (probabilmente perché essendo ai miei primi approcci verso il confronto critico non è ancora una cosa per me consueta)vedere come nella percezione di ogni lettore, i componimenti assumano delle accezioni sconosciute spesso allo.stesso autore. Vorrei tuttavia puntualizzare alcuni aspetti relativi al retroterra antropologico – linguistico delle mie poesie, stimolato positivamente in particolare dalle osservazioni di Mario Gabriele, per precisare che ho trovato sorprendente la sua opinione delle mie poesie come “tradizionali”, perché come tutti coloro che il mondo popolare l’hanno conosciuto davvero, detesto l’oleografia e quindi mi tengo a distanza dai topoi;per intenderci, condivido la critica mossa da Valentino Zeichen a Pasolini, quando alla famosa metafora sulla sparizione delle lucciole, osservava come avesse miille motivi per preferire l’adozione della luce elettrica. Posso dure quindi che il vagheggiamento arcadico sua abbastanza lontano dalla mia attitudine.In concreto ii protagonisti delle mie poesie in dialetto cercano nella maggior parte dei casi di ribaltare un destino loro avverso proprio per la subalternità della loro condizione (e spesso sono donne non a caso) di cui non sono certo fieri;l’unico caso di compiacimento “estetico”è quello del protagonista di “Congedo”che però non a caso è un nobile portoghese trapiantato sulla Murgia barese che si diletta a guardare “I contadini che raccoglievano i fichi”, evidentemente ignorandone la fatica;lo stesso tono da canzone “lorchiana” ha in realtà un intento parodistico di un certo mondo tardo-feudale; oltretutto lo stesso componimento è caratterizzato dal doppio registro barlettano/portoghese che non è certo legato a schemi tradizionali. Ci sono poi dei componimenti legati alla memoria, ma l’unico legato alla mia terra è “Settembre”; “Il volo” che potrebbe sembrare echeggiante lo stesso tema, è ambientata in Grecia. “Memento”in Kazakhstan e del resto ritengo(da buon studioso di storia ed antropologia) che il rapporto con la memoria sia un elemento costitutivo dell’uono (e direi un dovere, purtroppo spesso disatteso, da parte degli intellettuali) Anche la stessa citazione di Pierro e Sinisgalli (che ritengo grandi poeti) mi lusinga, ma è una linea poetica non presente nella mia formazione (avendo letto ancora troppo poco della loro poesia) formazione peraltro eclettica e difficilmente riconducibile ad un incanalamento di genere preciso, come speravo che emergesse dai diversi registri linguistici e canoni stilistici utilizzati. È così che ad esempio “Il Matrimonio” deve la sua ispirazione alla poesia degli esordi di Paul Muldoon ed è una storia trasposta in una cronaca riguardante la mia famiglia, ma nata in Irlanda); “Endre Ady” è un adattamento in ambiente pugliese di un componimento del grande poeta ungherese, “Poesia d’inverno” è debitrice al poeta colombiano Jotamario Arbelaez, senza contare poesie come “Novecento” ed “Olocausto Gitano”. La scoperta della possibilità di comporre nei miei dialetti in realtà data a partire da fine anni’90 ed è un’intuizione frutto dei miei interessi antropologici e del fatto,solo apparentemente paradossale, di aver avuto la fortuna di viaggiare molto. Avendo da sempre una vocazione “ecumenica” conseguente e non contraddittoria rispetto alla la mia forte radice “tellurica” e parlando varie lingue straniere, ho avuto una formazione non legata solo alla poesia italiana, ma anche molto a quella internazionale con una quantità innumerevole di riferimenti poetici provenienti da realtà disparate europee e non e pur avendo interessi antropo-filologici notevoli verso le lingue minoritarie e popolari, l’idea di scrivere in dialetto non mi aveva mai sfiorato, fino a quando ho compreso che i miei idiomi locali fossero lo strumento espressivo che mi consentissero di plasmare il “materiale di cultura popolare”che raccoglievo in giro per il mondo: cercando una lingua popolare ‘materna” (con la magia arcaica delle lingue popolari) ho compreso come l’opzione ottimale fosse proprio l’adozione dei miei dialetti, trovando peraltro entusiasmante da un punto di vista antropologico, l’accostamento tra microcosmi geograficamente così distanti e da un punto di vista linguistico l’assoluta assenza in tali dialetti di una vera tradizione poetica, il che mi ha consentito di sviluppare un altro esperimento interessante e cioè quello dell’innesto sui miei dialetti di modelli poetici provenienti soprattutto dall’Irlanda e dalla poesia latino americana e mi fa particolarmente in questo senso l’osservazione di Gino Rago (di cui sono estimatore) su Garcia Marquez (ma anche quella su Bodini essendo lui sì, un poeta meridionale di riferimento per me) e di crearmi di fatto un mio modello linguistico, per cui posso rispondere alla pertinentissima osservazione di Giuseppe Talia che in effetti si tratta di un modello innovante. Anche su questa mancanza di tradizione poetica dialettale nel nord barese, mi preme evidenziare un’importante annotazione sociologica. Quando si parla del centro e del sud Italia, si dimentica spesso di sottolineare il particolare dinamismo imprenditoriale che da sempre connota l’Adriatico molto più del Tirreno e dello Jonio e che caratterizza anche la mia zona, caratterizzata da interamente da città e quindi in realtà a differenza di ciò che leggevo, fortemente borghesi come impostazione mentale;la mia stessa frequentazione del mondo contadino nasce dal fatto che la famiglia di mia madre fosse dell’entroterra prima e successivamente dai miei incontri di viaggio, mentre nella mia città di nascita era già raro trovare contadini negli anni settanta. La verità secondo me è che se le radici della propria poesia affondano nelle culture popolari e nella storia e non si tratta di pura elucubrazione intellettuale è inevitabile che ci siano delle tematiche ricorrenti, perché si compulsano direttamente le istanze fondamentali della vita umana e forse questa radice (così pregnante in altre tradizioni poetiche a me care) fanno difetto in generale alla storia poetica italiana, per le ragioni giustamente evidenziate da Giorgio e probabilmente è facile vederle come dei cascami della poesia dialettale.Mi scuso per la lunghezza del messaggio, ma erano delle annotazioni che mi sentivo di precisare. Grazie di cuore a tutti.

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  15. donfrancesca23

    scaffogghi e cariddi nta gebbia i mpari Cola.
    Ficimu sempri a guerra
    mi cugghiumu nozzuli i supala.
    Nto mbasciu ri robbi na stampa i casa.
    Nuddu. Nuci e acqua sgarrata.
    Chianu murimu. I panza ndi sturdimu.
    Pani aschittu. Nu sulu sciatu
    ndi tiniva pi Maju.
    Furmiculi nte peri. Muddichi sciancati.
    Ora pirdimu
    senza mancu sciaurari.
    Occhi chini i petra.

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    • vincenzo petronelli

      Complimenti Donfrancesca, davvero bella. Colgo l’occasione per ringraziarla per il Suo contributo e non vorrei averle dato l’impressione di averla trascurata, ma avrei dovuto ripetere pedissequamente il commento trascritto in risposta a Talia, cui Lei si è accodata.Mi avete offerto, come potrà vedere nella mia risposta a Giuseppe Talia, un notevole spunto di riflessione, che mi piacerebbe possa tradursi in un confronto fecondo. Buona serata.

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      • donfrancesca23

        caro Vincenzo non si preoccupi. Non mi sento trascurata . Non soffro di protagonismo .Lei ha risposto giustamente ai commenti dove l’analisi della sua poesia si rivela piu’ dettagliata e professionale. Le scrivo subito che io sono di poche parole. Non amo fare critica, ma questo appare evidente. Ho poco tempo a disposizione. Dedico le mie forze maggiori alla conoscenza. Grazie . Lei è molto gentile. Comunque , mi chiamo Francesca Dono. Forse dovrei variare qualcosa in gravatar. Un caro saluto e benvenuto in questa meravigliosa rivista di divulgazione culturale.

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  16. Giuseppe Talìa

    Cara Francesca. ‘mpari Cola è un topos della poesia del basso reggino. Dalle mia parti, diceva mio nonno, Cola era il nome che si dava al maiale (erano tempi in cui il maiale all’ingrasso, viveva nella stessa casa degli umani, i quali, per non spaventarlo per l’imminente uccisione dicevano : domani facimu a festa a Cola, ndr Nicola).
    “Acqua sgarrata”, Muddichi sciancati”. C’è tanto Francesca Dono.
    Consiglio solo una più corretta ortografia.

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    • donfrancesca23

      Cola da noi è il diminuitivo di Nicola. Corretta ortografia? Grazie del consiglio Giuseppe, ma cosa intendi per corretta ortografia? I punti, le doppie o?… In dialetto reggino e’ tutto doppio. I punti mi servono per frammentare. Forse la mia imperfezione va di pari passo al genere umano che rappresento. Carissimi saluti da Milano.

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  17. donfrancesca23

    diciamo che è sciancata come i muddichi….

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