
roy-lichtenstein-interior-series-the-living-room
Giorgio Linguaglossa
28 ottobre 2015
- Scrive Umberto Eco nel post https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/03/19/umberto-eco-il-realismo-minimo-il-dibattito-sulla-fine-del-postmoderno-non-tutto-e-interpretazione/
«Noi abbiamo invece la fondamentale esperienza di un Limite di fronte al quale il nostro linguaggio sfuma nel silenzio: è l’esperienza della Morte. Siccome mi avvicino al mondo sapendo che almeno un limite c’è, non posso che proseguire la mia interrogazione per vedere se, per caso, di limiti non ce ne siano altri ancora».
Il problema posto da Eco, quello del “Limite”, coglie nel segno. Non c’è solo il “Limite” della “Morte” ma anche il “Limite” del linguaggio. E dove è che il linguaggio mostra con maggiore evidenza il suo statuto di “limite”? La mia morte, la morte dell’ente uomo equivale alla morte del mio linguaggio. Il limite del mio linguaggio è la mia morte. Ma, al contempo, i linguaggi sopravvivono con gli altri esseri umani. E allora, qual è quella cosa che ci rende manifesta la presenza del «limite»? È ovvio: nell’arte e nella poesia che adombra (mai termine è stato più adatto, nel senso che fa ombra e ne è l’ombra) il “Silenzio“. Ogni Lingua ha i propri confini nel «silenzio». Il mare magnum della lingua confina e sconfina nel “silenzio”, e tutte le lingue messe insieme confinano e sconfinano nel “silenzio”. Il “silenzio” è ciò che sta al di là della lingua (e al di qua), ed è lui l’attore che mette in moto la forza inerziale delle lingue. Il “silenzio”, dunque, è il vero motore immobile che mette in azione tutte le lingue, ma questo silenzio noi lo avvertiamo, ne possiamo percepire la presenza soltanto per il mezzo della poesia e dell’arte suprema. In tal senso, ed entro questa problematica, io credo che dobbiamo porre la questione del “realismo”. Il “realismo” sta dentro la lingua, utilizza le sue categorie logiche e filosofiche, ma la lingua, ogni lingua, muta, è immersa in un viaggio perenne, in un moto di traslazione, è sorretta da una forza inerziale che ha dato il via alla traslazione delle lingue verso… verso il silenzio dell’universo al termine del pianeta terra e di esso universo.
Ritengo utilissimo il concetto di «limite» come quel qualcosa contro cui va a sbattere ogni categoria sia essa debole o forte. Per quanto grande sia la volontà di potenza del mondo della tecnica, anche essa dovrà prima o poi arrestarsi impotente di fronte alla barriera del «limite».
«Il primo principio delle cose è il nulla» scrive Leopardi il 7 agosto 1821. Il motivo è che per Leopardi «nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere o non essere in quel modo (P. 1341). Perché la solidità delle cose ha come principio il nulla, «tutto è nulla, solido nulla». (Leopardi)
Mi sembra che il modo più autentico con cui possiamo affrontare la questione del “realismo” sia questo: tenere sempre presente i concetti di “limite” e di “nulla”. E ha fatto bene Eco a ricordare che il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo pecca di realismo ingenuo, cioè di un concetto di realismo come lo può avere un analfabeta del secolo XX. E sappiamo quanti guasti abbia fatto il pensiero così semplificato nel secolo XX. Semplificare il pensiero significa portarsi dentro la barbarie.
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Roy Lichtenstein 1993 – LARGE INTERIOR WITH THREE REFLECTIONS – Tape, painted and pirnted paper on board (87 x 233 cm)
gabriele fratini
28 ottobre 2015 alle 12:55 Modifica
Interessante articolo che mi aggiorna sul vacuo percorso della filosofia negli ultimi sette anni, da quando lasciai l’università nella crescente convinzione che la filosofia si stesse incartando in sottigliezze sempre più vane. Sono comunque compiaciuto che si torni a parlare di realismo, sia pure in modi rivedibili. Un saluto.
Io penso che il bello della filosofia sia proprio nel fatto che all’atto pratico il pensiero filosofico non serve assolutamente a niente, anzi si tende a dire che uno che “filosofeggia” praticamente sta gettando il suo tempo. Eppure è il pensiero filosofico che assume una valenza gigantesca quale terreno fertile per nuovi modi di concepire qualsiasi cosa, dalla politica, all’arte e soprattutto poesia, fino a alla costruzione delle scienze, quelle esatte escluse. Quindi parlare di filosofia realista a mio avviso è un ossimoro anche piuttosto sgraziato. Diciamo piuttosto che mancano i pensatori, quelli buoni sono invecchiati, di giovani l’orizzonte è scarso.
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Roy Lichtenstein Masterpiece
Ecco una perspicua sintesi del pensiero di Maurizio Ferraris. Dal sito editori Laterza:
«Non si può fare a meno del reale, del suo starci di fronte e non essere disponibile a negoziare. Sia quello che sia, ci renda felici o infelici, è qualcosa che resiste e che insiste, ora e sempre, come un fatto che non sopporta di essere ridotto a interpretazione, come un reale che non ha voglia di svaporare in reality.
La realtà è socialmente costruita e infinitamente manipolabile? La verità è una nozione inutile? Il ‘nuovo realismo’ è anzitutto la presa d’atto di un cambio di stagione. L’esperienza storica dei populismi mediatici, delle guerre post 11 settembre e della recente crisi economica ha portato una pesantissima smentita di due dogmi centrali del postmoderno: l’idea che la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità e l’oggettività siano nozioni inutili. Le necessità reali, le vite e le morti reali, che non sopportano di essere ridotte a interpretazioni, sono tornate a far valere i loro diritti.
Quello che ora è necessario non è tanto una nuova teoria della realtà (né meno che mai una ‘teoria della nuova realtà’, che suona minacciosa anche solo a leggerla), quanto piuttosto un lavoro che sappia distinguere, con pazienza e caso per caso, che cosa è naturale e cosa è culturale, che cosa è costruito e cosa no. È qui che si aprono le grandi sfide, etiche e politiche, e si disegna un nuovo spazio per la filosofia.
È questo il senso di queste pagine, sintesi del lavoro degli ultimi vent’anni di Ferraris, nelle quali la critica del postmoderno è solo una premessa necessaria. È questo, soprattutto, il senso di una grande trasformazione che – a livello mondiale – ha investito la filosofia, portandola fuori dai vicoli ciechi che nel secolo scorso hanno indotto molti a parlare della sua fine».
«La realtà è socialmente costruita e infinitamente manipolabile e la verità è una nozione inutile: questo è stato il pensiero “postmoderno” che ha dominato negli ultimi decenni. Una visione della vita per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, possibilmente da non prendere troppo sul serio, e un approccio al mondo per cui basta desiderare e siamo in grado di cambiare la nostra vita. Il postmoderno ha pervaso ogni ambito della quotidianità, dalla politica, all’arte, alla letteratura, alla dipendenza dal linguaggio delle fiction e dei reality, così finto da sembrare vero. Maurizio Ferraris critica senza riserve questo modo di pensare e propone di tornare alla realtà dei fatti e delle verità appurabili, che esistono e sono evidenti, inemendabili. In questo “Manifesto del nuovo realismo”, che sintetizza gli ultimi venti anni del suo lavoro, indaga su alcuni concetti chiave degli ultimi decenni: emancipazione, autorità, illuminismo, decostruzione, critica, realtà, verità. Ferraris sostiene con forza il ruolo della filosofia per argomentare e difendere il realismo filosofico. “L’umanità deve salvarsi, e occorrono il sapere, la verità e la realtà. Non accettarli, come hanno fatto il postmoderno filosofico e il populismo politico, significa seguire l’alternativa, sempre possibile, che propone il Grande Inquisitore; seguire la via del miracolo, del mistero e dell’autorità”».
Ritengo che se si intende il “reale” come quella cosa-che-sta-di-fronte, sicuramente siamo fuori strada, per il semplice fatto che il “reale” sono anch’io che lo osservo e che lo guardo vivere (anche io mi posso guardare vivere mentre che vivo, ma è soltanto una astrazione mia mentale questa). Dunque, prima di parlare di “realismo” dobbiamo domandarci che cosa sia il “reale”, a patto, però, di non ricadere nelle forme di realismo ingenuo come quello di Tommaso e di Lenin di «Materialismo ed empiriocriticismo», ma mentre il primo viveva nel mondo chiuso e totalitario della Scolastica, il secondo preparava il mondo chiuso e totalitario del comunismo. Io, francamente, vorrei evitare che qualcuno tornasse a pensare in modo analogo, che si tornasse a una filosofia come quella di Tommaso e di Lenin.
Il problema che io mi pongo e che vorrei sapere dai filosofi è questo: è tutto il discorso riducibile alla ontologia? Non si dovrebbe allora parlare di una Nuova Ontologia prima di discutere di un “nuovo realismo”? Ecco, vorrei tanto avere dei lumi in proposito.
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roy lichtenstein interior with Built in Bar
Ars Poetica – Czesław Miłosz (1957)
Ho sempre aspirato a una forma più capace,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,
né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni.
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Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
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Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,
benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo.
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.
.
Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni
che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
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Perché ciò che è morboso è oggi apprezzato,
qualcuno può pensare che io stia solo scherzando
o abbia trovato un altro modo ancora
per lodare l’Arte servendomi dell’ironia.
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C’è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi
che ci aiutavano a sopportare il dolore e l’infelicità.
Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille
opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica.
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Eppure il mondo è diverso da come ci sembra
e noi siamo diversi dal nostro farneticare.
La gente conserva quindi una silenziosa onestà,
conquistando così la stima di parenti e vicini.
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L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
e ospiti invisibili entrano ed escono.
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Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,
perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.
(Czesław Miłosz, Poesie Adelphi, Milano, 1983, traduzione di Pietro Marchesani)
Ars poetica?
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Ho sempre desiderato una forma pù capiente,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di capirci non esponendo nessuno,
né l’autore né il lettore, a sublimi tormenti.
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Nell’essenza stessa della poesia c’è un non so che di sconveniente:
nasce da noi una cosa che non sapevamo fosse in noi,
quindi battiamo gli occhi come se saltasse fuori una tigre
e immersa nella luce si sferzasse i fianchi con la coda.
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Perciò giustamente si dice che la poesia sia dettata dal daimonion,
anche se è esagerato affermare che sia di sicuro un angelo.
Difficile dire da dove nasca l’orgoglio dei poeti,
se spesso si vergognano che si veda la loro debolezza.
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Quale uomo ragionevole vorrà essere una città di dèmoni,
che fanno i padroni in casa sua, che parlano molte lingue,
e come se non bastasse loro di rubargli bocca e mano,
provino per propria comodità a cambiargli il destino?
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Poiché oggi è apprezzato ciò che è morboso,
qualcuno può pensare che io stia scherzando
o che abbia scoperto un modo nuovo
di elogiare l’Arte tramite l’ironia.
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Un tempo si leggevano soltanto saggi libri
che aiutavano a sopportare dolore e infelicità.
Ciò tuttavia non è come guardare mille
opere provenienti da una clinica psichiatrica.
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E inoltre il mondo non è come ci sembra che sia
e noi siamo diversi da come ci vediamo nel nostro delirio.
La gente quindi mantiene una taciturna integrità,
guadagnandosi così il rispetto di parenti e vicini.
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Scopo della poesia è quello di rammentarci
come sia difficile restare la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta è senza chiave
e invisibili ospiti vanno e vengono.
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Ciò di cui qui parlo non è affatto poesia.
Perché i versi si possono scrivere di rado e malvolentieri,
con una insopportabile costrizione e solo sperando
che non i cattivi ma i buoni spiriti ci scelgano come loro strumento.
(1957, Versione di Paolo Statuti)
Versione inglese
Commentando questa poesia di Czeslaw Milosz Ars poetica del 1957, scrivevo su questo blog:
Proviamo a ragionare intorno a ciò che vuole dirci il poeta polacco nella poesia sopra citata:
Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è per via della latitanza di pensiero estetico da parte dei filosofi). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).
Il problema di fondo (filosofico, ed estetico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio», e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare unidirezionale (che segue pedissequamente e acriticamente il tempo della linearità metrica), cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E, si badi: io dico e ripeto da sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1968). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 edito da EiLet di Roma nel 2011.
In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.
Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi; o si opta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz al problema della poesia dell’avvenire. La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno.
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roy lichtenstein interior series
Lucia Gaddo Zanovello
Post parecchio interessante, come pure i commenti. Ritengo l’esercizio della filosofia un corroborante (talora però sterilmente defatigante) ginnasio del pensiero, che si nutre del confronto delle idee fra ‘atleti della mente’. Ora mi sto esercitando sulla bontà di certe ‘decisioni prese a maggioranza’ e su alcuni mutamenti registrati su alcune ‘verità’ o significati che paiono imparentati più col costume (che muta) che con l’assoluto. Poi penserò, mi auguro con maggior profitto di quanto non ne abbia tratto finora, a cosa si intende per ‘buon senso’ e ‘senso comune’.
D’altro canto, anche per me, fortissimamente, la poesia è una delle vie della conoscenza. Nel mio caso, temo, l’unica possibile. Ma se ‘credo’ di vedere per davvero qualcosa che mi fa paura, muoio di paura per davvero, cosa c’è di oggettivo in questo, se non l’allucinazione?
Forse una sorta di corruzione salvifica del pensiero ‘prosastico’, fattosi inabile o insufficiente, trasforma in evento poetico quella particolare scelta estetico stilistica del linguaggio, che è anche il risultato sinergico della rete espressiva determinata dalle circostanze linguistiche e spazio temporali che hanno preceduto l’evento.
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roy lichtenstein citazione make-up
Giorgio Fontana su Il Sole 24 ore del 12 marzo 2013 così scrive a proposito del saggio di Walter Siti Il realismo è l’impossibile:
Siti chiarisce subito che la metafora delle parole come specchio della realtà — di un mondo già dato e interpretato, che è sufficiente “raccontare” — è un errore capitale. L’unica arma nelle mani della letteratura è quella di uno specchio deformante, o persino un colpo di magia: il giovane Dickens che guarda la scritta di un bar attraverso la porta a vetri e invece di coffee room legge moor eeffoc, ed è colpito da quel dettaglio. Dall’esatto contrario del quotidiano.
Con una definizione magistrale, il realismo è dunque “quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà”. O più poeticamente, “una forma di innamoramento”.
Il vero realismo cade infatti sotto l’incantesimo di una scena, di un dettaglio, e da essi estrae un mondo intero: perché li ama con “parole folgoranti che azzerano i distinguo […], dettagli sottratti al flusso della consuetudine e gettati a illuminare il mistero”. Si invaghisce degli oggetti per ciò che sono, e il loro “effetto di reale” è tanto più inutile al preteso funzionamento di una storia tanto più è autentico. In una frase, “secolarizza il mondo solo per re-incantarlo”.
Questa professione di fede in un realismo che sembra quasi rovesciarsi nel misticismo è anche una dichiarazione di poetica, e aiuta a comprendere meglio l’opera dello stesso Siti — ma soprattutto, aiuta a illuminare certe zone d’ombra della narrativa contemporanea.
Le nuove correnti “pseudo-realiste” — racconti del precariato, romanzi storici, autobiografismo spinto e ritorno al romanzo psicologista — falliscono nel loro intento proprio perché vengono sedotte dall’immagine dello specchio: sono così disperatamente bisognose di documentare che dimenticano le possibilità del proprio mezzo. La dignità dell’esperienza è elevata a dignità del racconto “perché è successa davvero”, “perché assomiglia alla realtà”, e tanto basta.
Ma il vero scrittore realista (Stendhal, Flaubert, Zola) disvela un mondo possibile che non è mai dato come ovvio, bensì è “un intarsio traforato e instabile che può crollare in un soffio se lo scrittore appena si distrae”. Il cosmo sottoposto all’incantesimo della narrazione è estremamente fragile, e non ha nulla a che vedere con il bisogno di verosimiglianza.
Vi faccio notare che nel titolo manca il punto interrogativo (Ars poetica?), il quale mette in dubbio le possibilità del poeta di comporre un’opera che indichi le regole per creare l’arte poetica.
“Tutte le arti tendono alla parola, ma la parola al silenzio”
Carlo Diano
Illuminante, come sempre, il pensiero di G. Linguaglossa (ed apprezzabile anche perché si assume il ruolo socratico di sollevare la questione senza proporre soluzioni definitive) a proposito degli scottanti problemi che si pongono in ambito letterario -e non solo. Interessanti, anche, le argomentazioni di coloro che sono intervenuti al dibattito, le cui premesse, rivolte all’analisi del nostro orizzonte interpretativo, del nostro pensiero sulla realtà, non possono prescindere dal nostro essere immersi nella realtà stessa con la quale siamo costretti a fare i conti, a interagire. Intendo dire che tali problemi, il modo di affrontarli e le loro possibili soluzioni hanno una ricaduta sulla qualità stessa dell’intera esistenza, sulla direzione possibile da intraprendere che lega insieme la praxis del nostro vivere con l’ermeneutica del nostro pensare. La soluzione del problema ontologico fornita da Heidegger, con l’allontanamento del metafisico dalla speculazione filosofica ha individuato e circoscritto una “pars destruens” che, purtroppo, all’interno del suo discorso, non ha, poi, salutato alcun nuovo “avvento”. Nessuna “pars construens” ne è conseguita, nessun nuovo edificio si è saputo innalzare sulle postulate rovine di un millenario pensiero, e l’uomo di oggi ha perduto anche questo quadro di riferimento: il suo essere non poggia più da nessuna parte, è perennemente in bilico, senza più una direzione da perseguire entro cui incanalare le sue energie.
La cultura è spazzatura e l’arte ne dipende come la nettezza urbana dall’immondizia. Parlare di contenuto di verità a proposito dell’arte moderna è come parlare di immondizia dello spirito.
L’oggetto dell’estetica è qualcosa che non sta né qua né là. E l’arte non ha modo di acciuffarlo, se non con l’accalappiacani, o l’acchiappafarfalle. In ciò, il concetto di arte è affine a quello delle nuvole. È un concetto rarefatto. È un concetto meteorologico.
L’arte che vuole essere fondazionale, si ritrova ad essere funzionale, perché l’arte non fonda più alcunché tranne la propria metessi con lo spirito fatto di immondizia. Così, l’arte scopre la propria natura meteorologica e merceologica. L’arte suprema è la forma suprema di merceologia dello spirito.
L’arte suprema di Baudelaire ha mostrato che quella «promesse du bonheur» che essa promette è, in realtà, una truffa, in quanto essa è sempre meno sicura della sua esistenza e della sua sopravvivenza nella società delle merci. L’arte però risponde alla propria insussistenza con il ritorno del rimosso, ripresentando ogni volta quella promessa fedifraga sapendo della menzogna ma tacendo. Ed ecco come il silenzio si insinua nella sua struttura con il ritorno del rimosso. Baudelaire ci ha mostrato in maniera indiscutibile quanto quella promessa di felicità sia una truffa dello spirito servile e quanto la pacchianeria sia vicina all’arte nella sua più alta espressione.
«L’oggetto dell’estetica si determina come indeterminabile, negativo. Perciò l’arte ha bisogno della filosofia, che la interpreta, per dire ciò che essa non può dire e che però può esser detto solo dall’arte, che lo dice tacendolo. I paradossi dell’estetica le sono dettati dall’oggetto: “Il bello richiede forse l’imitazione schiavistica di ciò che nelle cose è indeterminabile” (P. Valéry) […]
Il momento ripetitivo del gioco è copia del lavoro non libero, così come la forma di gioco che domina al di fuori dell’estetica, lo sport, ricorda obblighi pratici ed adempie incessantemente la funzione di abituare incessantemente gli uomini alle esigenze della prassi…» (Adorno Teoria estetica)
In una parola, il Bello, concetto arcaico e ingenuo, presuppone sempre la borsa della spesa, la sporta piena di delizie dolciarie da supermarket. Dà l’illusione del piacere dell’immediatezza. E invece è il piacere dell’immondizia. Il momento del piacere nella fruizione di un’opera d’arte, non può essere intuitivo né immediato se non nella forma rozza del realismo ingenuo, che ingenuo non è perché sottoposto alla mimica e alla mimesi del «reale». Quindi, il problema si ripresenta sempre allo stesso modo. E risponde alla medesima domanda: Quest'arte è realistica? È rispondente ai criteri di ciò che intendiamo per realismo?
Il fatto è che nell’epoca del crescente impoverimento dello spirito soggettivo, di fronte al factum brutum dell'obiettività sociale, l’arte è costretta a dichiarare bancarotta e a recedere a ironizzazione dello stile floreale, a parodia dello stile.
Quindi, stabilire che cos'è il «reale» e che cosa intendiamo per reale è sempre prioritario per l'arte che non voglia apparire in funzione decorativa o utilitaristica. Però, l'arte che va a letto con il «reale» recita la parte della concubina fedifraga, e non è neanche tanto seria quanto vorrebbe apparire. Epperò, la poca serietà dell'arte è sorella della sua natura fedifraga.
«Mediante la moda l'arte va a letto con ciò cui è costretta a rinunciare e ne trae forze che si atrofizzano sotto la rinuncia; senza di questa, tuttavia, l'arte non ci sarebbe. L'arte, come apparenza, è il vestito di un corpo invisibile. La moda è il vestito come assolutezza. In questo la moda e l'arte si capiscono» (Adorno, op. cit. p.447)
Direi che la moda è il vestito del corpo visibile, e l’arte di quello invisibile.
«Il concetto di corrente alla moda – moda e arte moderna sono termini linguisticamente affini – è un caso disperato« (Adorno, op. cit. p.447)
Nell’ambito della comunicazione globale arte e nettezza urbana vanno a braccetto. Quel tanto di spirito soggettivo che trasuda dai suoi belletti, richiama alla mente l’abito della Signora Sosostris.
oh se una sana dose di realismo sostituisse l’attuale onanismo (autoreferenziale per giunta… è pazzesco, come abbiamo fatto?), il mondo sarebbe più felice
Tutto è letteratura. Essere e tempo: un romanzo difficilotto ma godibile; come pure un romanzo è la Bibbia… e lo stesso Tao:
Il Tao che può essere detto
non è l’eterno Tao,
il nome che può essere nominato
non è l’eterno nome.
Senza nome è il principio
del Cielo e della Terra,
quando ha nome è la madre
delle diecimila creature.
… dove si intenda per nome, la realtà.
Caro Lucio, perché solo diecimila creature? Le “creature” postulano – il nome stesso lo dice- un “creatore”, un atto fondativo originario. Nulla genera nulla: non si può pretendere che generi essere, ovvero qualcosa che è. A meno che tutto, cioè tutto quello che noi crediamo che sia, in realtà non è nulla, e tu ed io siamo ugualmente nulla.
Sono dell’idea che nulla sia stato creato, e che tutto esista da sempre.
inoppugnabile verità. Oggi diciamo che la civiltà è iniziata 10,000 anni fa. 10,000 anni fa dicevamo la stessa cosa. Fra 10,000 anni diremo la stessa cosa.
Uncreated
Gli scienziati stessi parlano del Big Bang come momento della nascita dell’universo.’ Per noi un fatto significativo, ma ogni nostro tentativo di indagare al di là di esso sposta l’origine ancora al di là, la fa arretrare in se stessa, Un limite delle nostre facoltà umane…
Si potrebbe chiamare questo “tutto” Universo… o anche Dio: la contraddizione (tra le nostre idee) sarebbe solo apparente.
Rispetto la sua fede, ed anche l’approccio filosofico che ha espresso anche in altre occasioni. Penso che la parola Dio non dovrebbe dividere, ma da che mondo è mondo non è stato così, purtroppo.
Abbiamo creato Dio. Se non è bello abbastanza è solo perché il logos, per quanto immaginifico, non fa volare la materia (vola di suo!). Le parole sono inadeguate, ma solo per chi non è poeta. Oltre la poesia, ci sono gesti e sentimenti.
Cordialità.
“Sono dell’idea che nulla sia stato creato, e che tutto esista da sempre.” Questo è interessante e tuttavia presuppone l’esistenza dell’eterno nella fisica anziché nella biologia. Dunque il problema inspiegabile dell’eternità rimane, si sposta solo da Dio alla fisica. L’Eternità sarebbe così la materia. O abbiamo il problema di Dio-primo motore immobile, o abbiamo il problema dell’eternità della fisica che trascende la nostra mente mortale. Tramontato Dio, ci rimane un idolo. E allora mi tengo Dio, che almeno è un’anima pensante. Questo dal punto di vista razionale.
Un saluto.
Forse il segreto sta nella fisica del tempo: nell’assoluto presente. Di questo continuo farsi sarebbe composta l’eternità. E infatti l’attimo è silenzioso perché non ci può essere pensiero nell’attimo: il pensiero ha bisogno di tempo. Queste cose le sanno i meditatori, da millenni.
Dunque tutto nasce. Anche il pensiero nasce. Ciò mi induce a credere che la materia sia nata.
Ma se Cartesio dopo le meditazioni metafisiche morì per uno starnuto, è bene che passati ragionamenti io torni alla lotta quotidiana contro le transaminasi, perché in definitiva il cervello dipende dal corpo, e se il fegato muore anche il cervello muore (come sapeva il buon Menenio, e come invece a volte trascurano i meditatori).
E se questo “Tutto” che esiste da sempre fosse Dio? Non dico il Dio delle religioni, ma un principio fondatore cui ricondurre ogni cosa, in una dimensione di Immanenza/Trascendenza Il vero fatto è che a me risulta che stiamo parlando della medesima cosa. La contrapposizione non esiste. L’incomprensione nasce da una struttura del nostro stesso linguaggio che, nel dire, adombra.
Il riferimento è alla frase di L. Mayoor Tosi: “Sono dell’idea che nulla sia stato creato e che tutto esista da sempre”
Sì, nessuna contrapposizione. Ma non penso a Dio, piuttosto ai pesci nell’acqua (H2O, il loro universo): così anche noi, solo non sappiamo ancora bene di cosa sia fatto, né se si muove o sta fermo… insomma, cose “semplici”, percepibili.
Commentando il primo quesito, quello di Giorgio Linguaglossa a proposito della citazione di Eco: altri limiti esistono.
Vi è, per esempio, un certo modo di “dimenticare”, quello in cui ci rendiamo conto di aver dimenticato qualcosa, ma non sappiamo cosa abbiamo dimenticato. Questa è la presenza, vicinissima a noi, di una dimensione inconoscibile.
Vi è poi il cosiddetto “futuro”, che non è né passato, né presente: un “a venire, avvenire” che può essere appreso solo quando, alquanto misteriosamente, questo diventa presente. In ogni istante, il futuro di colpo diventa presente, e quindi non è più futuro, ma presente.
Ecco, il futuro è totalmente e ciecamente inconoscibile, eppure ne parliamo, diciamo che esiste, possiamo perfino dire di essere certi della sua esistenza: e sopra di esso allargare la nostra tela immaginaria: “domani farò questo o quello.”
Nello stesso modo, la morte è inconoscibile: noi vediamo una persona morire, ma finché non avremo noi personalmente questa esperienza (se mai l’avremo), non potremo certo dire di conoscerla se non in questo modo indiretto, da vivi: “abbiamo visto lei/lui morire”. E se un giorno l’avremo noi questa esperienza, non sarà più “esperienza”, e noi non saremo in grado più di usare il linguaggio per esprimerla.
Certamente sentiamo dolore per un caro che muore, ma questo dolore non ci avvicina di un millimetro alla morte, ci avvicina però ad una maggiore comprensione di noi come vivi, ci avvicina alla comprensione della nostra immaginazione umana. Anche le parole che Achille pronunciava, Ulisse le esperiva da uomo vivo, pur essendosi introdotto in un mondo, l’Ade, davvero lontano dall’immaginazione dei comuni viventi.
Voglio dire, che ogni esperienza di morte che possa aver fatto Ulisse, è esperienza comunque dell’immaginazione umana, non della morte.
Questo secondo me è un presupposto indispensabile, prima di ogni altra considerazione. Solo dopo viene il linguaggio, questa àncora a cui l’uomo si attacca per sentire di esistere davvero. E con questo presupposto possiamo iniziare a parlare di linguaggio. La lingua è dei vivi. Noi tutti, qui, siamo soltanto vivi. Non esistono morti.
Ed ecco che appare la bellezza del pensiero di Eco: la morte è un assoluto limite (inconoscibile). (Come sempre, i pensieri più complessi sono i più semplici.)
Quello che dice Tarkovskij sulla morte non mi sembra irrilevante a questa discussione:
“Il tempo costituisce la condizione dell’esistenza del nostro ‘Io’, la nostra atmosfera vitale, che viene distrutta a causa della sua inutilità in conseguenza della rottura dei legami tra la personalità e le condizioni della propria esistenza quando sopravviene la cosiddetta morte. La quale comporta anche la morte del tempo individuale, per cui la vita dell’essere umano diviene inaccessibile alla sensibilità dei sopravvissuti, morta per chi le sta attorno.”
da “Scolpire il Tempo”, Ubulibri, 1997.
In strani modi anche la seguente citazione, da Mir Taqi Mir, settecentesco poeta indo-musulmano non mi sembra irrilevante:
“Una sera entrai nella bottega di quelli che soffiano il vetro, e chiesi loro: ‘artigiani del vetro, avete per caso un bicchiere che ha la forma del cuore?’ Ridendo, essi risposero: ‘tu erri in vano, o Mir: ogni calice che vedi da noi, sia esso ovale o tondo, ogni bicchiere, fu in passato un cuore che noi abbiamo fuso nel fuoco e soffiato in forma di calice. Ecco cosa trovi qui. Non troverai alcun vetro in questo luogo.'”
Qui il poeta evoca il senso di mistero che avvolge ogni cosa, che è presente in ogni più semplice attività umana o del cosmo, e il curioso, cieco-eppure-vedente vagare in esso dell’uomo(-poeta).
Quel che mi piace di Czesław Miłosz, è il suo continuo voler stare affrancato alla “realtà”, anche se si capisce che vorrebbe estraniarsene: la guerra e la storia del suo paese gliel’hanno insegnato.
Mi pare di concordare pienamente con quanto asserisce, riguardo alla realtà tradotta in poesia, Giorgio Linguaglossa, quando invita la parola poetica ad “estrarre il mondo dall’incantesimo del dettaglio”; dettaglio sottratto all’abitudine per assuefazione ‘del non vedere’, aggiungerei io, che appiattisce e banalizza il quotidiano.
È proprio vero, credo, ‘documentare’ il mondo in base alla verosimiglianza significa depauperarlo, mentre riproporlo attraverso l’intuizione poetica, a volte perfino contigua al turbamento mistico o amoroso e dunque spiazzante per la ragione e la logica, offre all’instabilità e alla fragilità del reale, anziché l’immagine univoca, e pure falsata, dello specchio, le mille facce del diamante interpretativo.
Rileggo con piacere il post di oggi sul “nuovo realismo” e “nuova ontologia”.
Condivido in toto le analisi di G. Linguaglossa, e in particolare questa illuminante considerazione sull’arte contemporanea nel commento che egli stesso ha posto tra gli interventi: “La cultura è spazzatura e l’arte ne dipende come la nettezza urbana dall’immondizia. Parlare di contenuto di verità a proposito dell’arte moderna è come parlare di immondizia dello spirito.”
Ritornerò, con il pensiero, su questa “ontologia” Linguaglossiana, in rapporto alle categorie fondamentali dell’essere, e dell’arte come espressione.
Vorrei far notare che il pensiero di Maurizio Ferraris è preso pari pari da “Il delitto perfetto” di J. Baudrillard, in cui il sociologo (ormai i filosofi come categoria sono un vuoto a perdere, vi sono i sociologi), tratta della rappresentazione del mondo arrivata ormai al suo compimento, con il mondo che sta, via via, scomparendo soppiantato dalla simulazione. La filosofia ha sostituito ha sostituito alla “cosa” la sua rappresentazione mentale (il concetto) o scritta (la parola).
L’arte concettuale, dalla metà degli anni ’60 dello scorso secolo, ha sostituito progressivamente il piacere estetico con l’arte fondata sul pensiero. Ricordo la visita alla Tate gallery di Londra, anni ’80, e le considerazioni che ho ricevuto da tutte quelle sale inutili addobbate con pezzi di roccia (land art?) e con un viottolo di sabbia con una buccia di banana fresca lasciata sul ciottolato.
Forse da lì, da quel lontano 1985, che la mia ironia è scoppiata, quando mi sono avvicinato al custode della sala e gli ho chiesto: Ma la buccia fresca di banana la cambiate ogni giorno? E chi la mangia la banana? E quanti caschi di banana usate a settimana? E chi paga per le banane? Il Museo o l’artista dell’installazione?
Oggi, tutto è in “tempo reale”, Fb, whatsApp, la Tv e internet, hanno un potere illimitato e fuori controllo. Ontologia e netiquette diventano sinonimi, paradossalmente.
L’immateriale diventa materiale, così come l’informazione è sostanzialmente disinformazione, in quanto se tutto informa niente informa, ma deforma.
La stessa grande idea nietzschiana della trasvalutazione di tutti i valori è stata realizzata nel suo opposto, vale a dire nell’involuzione di tutti i valori.
“Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse.”
Forse la poesia, divenuta rito di casta, sorella povera del sapere, vilipesa, può ancora, come dice Miłosz, essere quel qualcosa che pensavamo non ci fosse.
La morte?
Ho visto mio padre morire, nell’attimo in cui spirava, e dopo giorni di incoscienza, ecco che ha aperto gli occhi, ha guardato un punto sul muro, che io ho seguito con il mio sguardo senza vedere nulla, ma lui ha sorriso, un sorriso luminoso e poi è spirato.
Altro non so sull’argomento che non sarebbe filosofia, spicciola e di poco conto. Oppure emozioni che in versi hanno già trattato il Raboni e J. Donne, per esempio, il quale pare si fosse fatto fare un ritratto di lui morto e messo ai piedi del letto, così da contemplarlo. Ma in questo caso siamo oltre, siamo già nella simulazione.
“Carissimo Martino, sono pienamente d’accordo con te e con una boutade dico, mamma gli slavi (mamma li turchi, si esclamava una volta)” (giuseppe panetta)… sarebbe dunque, caro Linguaglossa, il caso di non pubblicare più alcun autore slavo fin tanto che questi sedicenti “poeti” sono ancora in vita.
Noi invochiamo tutta la conoscenza, da tutti e quattro gli angoli della terra.
Noi invochiamo il silenzio, non come limite ma come essenza pura, il silenzio del sasso, che non ha porte (Szymborska) ma anche il sasso nella sua durezza ha un punto debole in cui la spina (di una rosa) entra e lo penetra.
Per Sagredo ( io sono sedicenne, non sedicente, infatti al tuo cospetto, infantile, da 0-12, sono maggiorenne.)
E a riprova di quanto amiamo il mondo slavo e la sua poesia, eccotene un’altra, sempre mia, per conoscenza e per dispetto, Sagredo, in polacco, che ti dedico particolarmente.
Che ci vuoi fare, chérie …ci traducono… Oblivium…oblivii
Pstryknięcie melting-pot smaków
Szmergiel zwiędłego tłuszczu
Mit zardzewiałych pni
Przysmaczki dla tuczenia
Cieknie tłuszcz z ust
Uśmiecha się Uran i Pluton
Ugłaskuje abrakadabra
Wyrośnięte pandemonium
Gęste roje i wiercenia
Sprzedaży bitumów i pianek
Sondaż i korzyści
Udręka rośnie w masie
Dzieci ugięte jak bambusy
Boże! Niech takich już nie będzie!
Sul Silenzio delle opere d’arte
Il «silenzio» delle opere d’arte, di cui tanto si è detto, spesso con intenzione apologetica, è il contenuto di verità che non può essere pronunciato. È il limite interno dell’opera d’arte. Il limite, cosiddetto, esterno, non esiste. Lì siamo nell’etere freddo del cosmo insignificante. È significante e significativo soltanto quel contenuto di verità che può essere pronunciato. Il silenzio è l’indifferenziato che non può essere pronunziato. Altro che metafisica del «silenzio»! Per il semplice fatto che se l’arte dovesse pronunziare il silenzio, non avremmo più il silenzio. Il silenzio con cui ha a che fare l’arte è quel limite interno costituito dai limiti del Linguaggio e della Morte. Tutto il resto di cui si parla a vanvera, è fandonia,
Altro problema è il «silenzio» di ciò di cui non conviene parlare e di cui l’arte non parla. Ebbene, questo «silenzio» è il demanio dell’immondizia dello spirito. Ma anche quando «parla» l’opera d’arte non può non parlare d’altro se non di immondizia dello spirito.
Lo spirito soggettivo è sempre in conflitto con il contenuto di verità, perché quest’ultimo lo vuole piegare alle sue esigenze.
Lo spirito soggettivo è sempre in conflitto con la composizione. L’arte diventata oggi una «monade senza finestre» (Adorno) evapora nell’incomprensibilità. Se c’è attrito tra spirito soggettivo e composizione, cionondimeno, è ancora arte, anche se arte di secondo grado. Ormai, l’arte moderna non può che essere di secondo grado, è un portato di una tendenza storica.
Una facile metafisica di origine teologica ha sempre esaltato il silenzio accreditandolo di virtù immaginifiche. Ebbene, sfatiamo questa falsa e posticcia apologetica dell’insondabile e dell’indicibile. L’opera d’arte ha già sondato quello che c’era da sondare. Tutto il resto è scarto insignificante.
«Le azioni degli uomini sono le migliori interpreti dei loro pensieri». (John Locke)
Le azioni degli artisti sono le loro opere. Esse sono le migliori interpreti dei loro pensieri.
Non c’è nulla di più promiscuo che parlare di «legalità» dell’opera d’arte. Il primo che ne parlò fu Emanuele Kant molto preoccupato ad erigere un sistema filosofico che fosse accettabile alla gretta borghesia del suo tempo. Di qui l’enfasi sulla «legalità» dell’opera d’arte. Oggi si dovrebbe sostituire quel termine con un altro più congruo. Ma quale?
La Bellezza sta all’autarchia dello spirito come una sposa fedele sta al matrimonio. Il matrimonio è la sede ideale per la tirchieria dello spirito.
Il «Silenzio» è il partner ideale di un matrimonio borghese, perché lì ci stanno bene tutte le cose non dette e le ambiguità dei falsi idoli della eternità, della fedeltà e della verità. Sta bene, fa bella figura ed è confortevole vederlo in un’opera d’arte. Inoltre, fa scaturire le cose belle dalla virtù taumaturgica della falsa coscienza dell’autarchia dello spirito che si guarda bene dal vedere ciò che invece è fatiscente, ideologico, posticcio, artefatto.
Ci sono, tra gli altri, due concetti che appaiono essenziali:
1- lo spirito soggettivo é sempre in conflitto con il contenuto di verità.
2- il silenzio con cui ha a che fare l’arte é quel limite interno costituito dai limiti del Linguaggio e della Morte.
Ubaldo de Robertis
“Silenzio,Sei la cosa più bella che io abbia mai udito.” – (Pasternàk)
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“La cosa più alta che un poeta possa raggiungere è il silenzio” – (F. Halas)
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Di tutte le rivelazioni che l’arte ha fatto nel corso dei tempi, solo una piccolissima parte si conserva nell’opera d’arte e nel libro. La maggior parte di esse scompaiono con le anime che poterono o dovettero sognare le loro vittorie in silenzio.
(Il misterioso nell’arte in Musica delle sorgenti)
Otokar Březina
Il pensiero espresso da due grandissimi come Pasternak e Halas sul silenzio sono da interpretare, ma io non vorrei interpretarlo come una banale accettazione del silenzio nel senso cui si intende oggi, ma nel senso che loro avvertono esserci il silenzio come Limite interno delle possibilità linguistiche.
Ringrazio il caro Ubaldo de Robertis per aver messo in evidenza i due momenti essenziali della riflessione su una ontologia del poetico… che è ancora tutta da scrivere, e che non credo verrà mai scritta da alcuno.
Dopo tutte queste profondità di pensiero tra filosofia e arte di straordinario impatto intellettuale, che non abbisognano di ulteriori aggiunte da parte mia, voglio regalare agli amici del blog che come me hanno varcato la soglia dell’età avanzata, una poesia di quel Costantino Kavafis , trattato nella precedente spedizione… che possa riconciliarci con la nostra avventura quotidiana.
“La jeunesse blanche”
La nostra amatissima, bianca giovinezza.
la nostra giovinezza bianca, bianchissima,
ch’è infinita, e così infinitamente breve,
ali d’arcangelo schiude su di noi!…
Incessantemente s’esaurisce, incessantemente ama;
negli orizzonti bianchi si dissolve e langue.
Ah, negli orizzonti bianchi va e si perde,
per sempre va.
Per sempre no. Verrà di nuovo
tornerà verrà di nuovo.
Con le sue bianche membra, la sua grazia bianca,
verrà a portarci via la bianca giovinezza.
Ci prenderà con le sue mani bianche,
e con un lieve lenzuolo tolto al suo biancore,
con un lenzuolo bianchissimo tolto al suo biancore
ci coprirà.
Nel suo delirio bianco, nella sua semplicità, questa poesia distrugge i tempi della fisica e della matematica, con la fede assoluta di un impossibile cammino a ritroso, come in un sogno che ognuno di noi vorrebbe si realizzasse.
Perché oggi siamo così lontani da questo esempio altissimo di scrittura? E va ben oltre il silenzio invocato da molti Salvatore Martino
Flavio Almerighi, Gabriele Fratini, Lucia Gaddo Zanovello, Giorgio Fontana
con i loro colti commenti, benissimamente recuperati e orchestrati da Giorgio Linguaglossa hanno dato corpo, linfa, sostanza a una pagina memorabile di questo blog.
I commenti che ne sono scaturiti fin qui sono di ottima fattura, di alta erudizione. L’effetto diretto scaturente dalla loro meditata lettura è l’arricchimento problematico. Per ogni tipo di “lettore”.
Tante sono le affermazioni degne d’essere appuntate contro l’oblio, contro la dimenticanza ( “La moda è il vestito del corpo visibile, l’arte di quello invisibile”; ” E’ il silenzio il limite interno dell’opera d’arte”; e altre).
Ma a me pare (spero davvero di sbagliarmi io ) che poca importanza sia stata attribuita a “la voce”, che per me è centrale nell’esperienza del poeta.
Soltanto nell’accezione non positiva il silenzio è non voce, non parola.
Dice qualcuno: “La voce più voce di tutte è quella di coloro che hanno parlato, annunciato, profetizzato…”
E’ questa voce della/nella profondità perdura ed è in grado di riemergere
in ogni momento cruciale. E incrocia la voce del poeta che poi forse la frantuma in altre voci ma sempre nel timore, proprio del poeta, che
violando il silenzio è come se interrompesse un discorso in atto chissà da quanto tempo…E la sua stessa voce appare al poeta come un’intrusa in quel silenzio che non è assenza di suono ma è esso stesso un linguaggio
proveniente dalla profondità del tempo e dello spazio.
Sì che la poesia stessa, come scrittura verticale, permane come una possibilità di preghiera…
Gino Rago
L’unico silenzio che apprezzo e in cui riesco a ritrovarmi è quello nei cimiteri poco frequentati, ed è quel silenzio a irrobustirmi dentro. Esiste il silenzio inerte, ma è un’altra cosa, completamente inutile, il classico tappeto sotto cui si nasconde ogni cosa o sotto cui ci si nasconde. Ogni cosa, materiale o immateriale, esiste nella misura in cui riusciamo a percepirla, e non è detto che esista altro per noi attualmente impercettibile. Resta la possibilità dello spirito, della trascendenza, che non mi nego.
finché la morte non si tradì ridendo
a. s.
contrari fastidiosi
Coi miei versi misurerò la tua Rovina, non il Tempo!
e al Nulla aggiungo la mia Tomba, non la Cenere!
Coi tuoi versi misurerò il Tempo, non la sua Rovina!
e al Tutto sottraggo la tua Cenere, non la Tomba!
Il futuro non erediterà i miei vermi,
ma il prodigio dei tuoi versi, non una Carestia!
Il passato erediterà i tuoi versi,
non il prodigio dei miei vermi, non un’Abbondanza!
Io mi ritraggo dalle ciarle con la mia Rovina,
la (mia) Vita non si vanterà della tua Ombra.
Andrò incontro al silenzio con la tua Ombra,
la (tua) Vita si vanterà della mia Rovina.
La rapida Eternità non m’aspetta per i miei resti,
ma per quei versi esponenziali avranno più vita le sue pretese.
Mi vanterò soltanto perciò che non ho saputo vendere: la mia Poesia!
Non avrà la mia Ombra la tua Cenere preziosa!
Non mi vanterò per tutto ciò che ho saputo vendere: la tua Poesia!
Avrà la tua Cenere la mia preziosa Ombra!
Antonio Sagredo
Vermicino, 27/28 gennaio 2005