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L’esordio poetico di un narratore: dieci poesie da “Rifiuto di obbedienza” di Antonio Debenedetti (Parenti Editore, Firenze, 1958). Nota critica di Marco Onofrio, con stralci dalla Prefazione di Giorgio Caproni

debenedetti

Antonio Debenedetti

Dal volume monografico di Marco Onofrio: “Nello specchio del racconto del racconto. L’opera narrativa di Antonio Debenedetti” (EdiLet, 2011), pp. 26-28:

L’esordio assoluto [di Antonio Debenedetti] data 1958, ed è in poesia, con la silloge Rifiuto di obbedienza, prefata da Giorgio Caproni. In questo libriccino giovanile già si sente il sobbollire acido di una lingua che ferve e che spumeggia, in procinto di farsi incandescente:

Piange mare / sbuffi spumosi, / chiareduovo. / Autunnio mare / friabile madreperla. / «Angosciabar» / noi deflagrati in Jazz, / l’ebreo a chiavistello / negli occhi poeta di sesso. / Ghetto, / tu Ghetto colpa di Ghetto. / Il mare incosciente / come fanciulla puttana, / si sdraia largo.

E ancora:

Amore manovale / spumeggiante come rimorto tufo, / quieta meraviglia / di cosa tremula. / La madre la figlia / l’incanto di una cocciniglia. / Sifiliticamente venali / nel quieto odore dell’amido / sparse nel verde prato / pavido di vento.

La scrittura è un riflesso condizionato che consegue, in modo quasi automatico, dalle riserve di energia letteraria accumulata attraverso gli incontri, le suggestioni, le innumerevoli letture. È la risposta più coerente che Antonio Debenedetti può e deve, fin dall’origine, alla propria esistenza. È il corollario della propria storia e lo sbocco naturale di certe premesse. E infatti si manifesta nei termini di una vera e propria inevitabilità: come quella di un tuono che rimbomba dopo il lampo che è già scoccato. C’è un furore linguistico esagitato e incontenibile che deve avere sfogo. Lo scrittore ha bisogno prima di sparare a ruota libera la sua potenza, per poi aggiustare il tiro e trovare le strade più sue. Come un cantante che prova la voce e ne tenta l’estensione, fino ai limiti estremi, prima di riconoscere il percorso di stile più congeniale alla propria natura. Sono poesie sospese, e in qualche modo irrisolte, fra un surrealismo d’antan con aperture “metafisiche” (Savinio, più che de Chirico) e un espressionismo barocco alla Scipione, mentre si sente, qua e là, un velato battito ungarettiano. Una lingua mossa, colorita, linguacciuta, sferzata da neologismi, che si innalza a vertici visionari (“luna / drago dalle poppe d’oro”) o sfuma in trasparenze sfarinate (“la sera è un faro / nel cielo scrosciante / polvere di vetro”), per poi, dal cuore stesso delle accensioni eidetiche e sonore, ricadere vertiginosamente verso il corporeo, il viscerale, il grottesco e l’osceno (“Tramonto. / Sensuale una scorreggia lunga / sale / dai morbidi violini profumati / cavea attendibile: / patriota un inno anale”). Ma percorre la raccolta un che di querulo, di involuto, di artefatto: una mancanza di esperienza umana, un rifare il verso, un orizzonte che deve ancora schiudersi. C’è da superare l’ostacolo di un certo retaggio da enfant gâté (malgrado l’infanzia non proprio gioiosa) della buona borghesia intellettuale, che gli fa scorgere “nel perimetro d’un pantano (…) Walhalla materni”. E poi, a tratti, un anfanare sordo: il fermento del grumo linguistico in formazione. Si sente che Antonio si sta ancora cercando, che l’autore è ancora di là da venire, però qualcosa c’è: l’annuncio di un talento lirico-espressivo. Debenedetti, intanto, una cosa a se stesso l’ha già chiarita: l’abbandono della poesia e il passaggio alla narrativa. Comincia a preferire la narrativa perché mette le carte sul tavolo, perché è chiamata alla verifica di un rendiconto razionale: implica e impone la rintracciabilità delle cose che si dicono e dello stile che si usa. La poesia, invece, spesso gioca con le carte nascoste: può permettersi di essere volutamente indecifrabile, proprio perché non è chiamata a non esserlo. Ma in realtà la sostituzione è meno traumatica di quel che sembra: leggendo la Mansfield capisce che può continuare a fare poesia utilizzando, anziché i versi, uno strumento estremamente versatile, interessante e rappresentativo: il racconto breve.

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Dalla prefazione di Giorgio Caproni:

Conobbi la prima volta Antonio quando ancora, coi pantaloni corti, stava preparandosi agli esami di ammissione alla scuola media. I suoi genitori, fidando troppo nella mia amicizia e nelle mie attitudini didattiche, mi avevano pregato di metterlo sulla buona strada. Fu nel ’46 o nel ’47, non ricordo con precisione. Ma ricordo la sua intelligenza (un acido che bruciava, appena aperte, le pagine del Sussidiario) era il più grosso impedimento alla mia buona volontà. Il mondo era appena uscito dal terremoto e dall’incendio che sappiamo, e Antonio, nato non ad occhi chiusi in quell’inferno, sapeva un poco di zolfo. (…) Oggi, dopo dieci anni, incontro ancora Antonio, e con un fascicolo di versi piuttosto strani, i quali mi hanno dato netta l’impressione, più che dei soliti fiori, di funghi anzichenò velenosi nati nello sfasciume di un bosco parrasio, evidentemente, e almeno per lui, già decrepito, anche se per noi, fino alla vigilia, così ricco d’incanti (…). Vi riconosco la natura della sua intelligenza, corrosiva più che costruttiva (medioevale, per ignoranza o rifiuto di quanto è armonicamente humanum), e irregolare e pungente come un piccolo pinnacolo gotico, sul quale però si sia esercitata (penso alla Carota della Sapienza) l’ironia d’un alunno del Borromini. (…) È una sorta di costituzionale incapacità di “abbandonarsi” al sentimento e ai teneri moti del cor profondo, propria di chi ha dovuto, a sue spese, imparare a diffidare dell’uno e degli altri, e che sembra intirizzir la mano nell’attimo stesso in cui il canto (dopo tutto ancora sospirato) stava per nascere.

caproni

Giorgio Caproni

SPLEEN

Muri d’orto
immonde fioriture,
estraneo giaciglio
non porto ubriaco
di torrida sabbia;
stranieri
il viale, l’anima, il tempo
a questa angoscia.
Ma viene vento
di coccolona sera
ed oblio di città
di ritorni
di smarrite occasioni.

*
Piange mare
sbuffi spumosi
chiareduovo.
Autunnio mare
friabile madreperla.
«Angosciabar»
noi deflagrati in Jazz,
l’ebreo a chiavistello
negli occhi poeta di sesso.
Ghetto,
tu Ghetto colpa di Ghetto.
Il mare incosciente
come fanciulla puttana,
si sdraia largo.

NOSTALGIA DI SCIROCCO

Più a Sud
soffrono vertigini
per l’alto, luminoso,
correre della luna.

*
Amore manovale
spumeggiante come rimorto tufo,
quieta meraviglia
di cosa tremula.
La madre la figlia
l’incanto di una cocciniglia.
Sifiliticamente venali
nel quieto odore dell’amido
sparse sul verde prato
pavido di vento.

LINFA SUDICIA E VITALE

Nel meriggio astrale
sei
il vago viola
d’una mora
attinta
allo slabbrato sole.
In Roma
di pietre feconde
di gatti estetici
di maschioni fattucchiere,
madre puttana
sei
come un caldo stagno
antico.

NOTTE

Nutrice notturna d’angosce
la luna,
drago dalle poppe d’oro.

VICOLI

In questa Cabala
la fuga illuminata
delle finestre vuote
come un ascensore
di angeli ruffiani.
Favola
di uno scenario crudele.

IL BIVIO

Piangere azzurrini quasi squillanti
tra muro e fosso
nel nitore d’ossi di seppia.
Fluiscono le cose semplici
come passano lucertole,
nel perimetro d’un pantano
scorgere
Walhalla materni.
Nel ventre della fattucchiera virile
filiformi spasimi
nello spazio d’un polveroso infinito.

SERALE ACCORATO

Mezza donna mezza ragazzina
mezza libidine
ed una gonna turchina.
Natichella paradisiaca
sanità accoccolata
nel rombio dei gufi di ghetto.
Corrono topi sulle rive del Tevere
Corrono monachelle nel ventre a Dio.
Tramonto.
Sensuale una scorreggia lunga
sale
dai morbidi violini profumati
Cavea attendibile:
patriota un inno anale.

GIÙ DAL GIANICOLO

Città
tenera assassina.
Vomitata:
rintocco di campana
in tensione ghirigori.
Maschioni
folgorati e petrigni
seducono la schiena
nel ridere per caso
automatici.

PanoramaDalGianicolo

Panorama di Roma dal Gianicolo

[Fonte Wikipedia] Antonio Debenedetti. Figlio del critico Giacomo Debenedetti e fratello della storica dell’arte Elisa, risiede dalla primissima infanzia a Roma, dove tuttora vive. Avvia il suo impegno come critico letterario sulle pagine del “Punto” e l'”Avanti!” alla fine degli anni Cinquanta. Dal 1963 collabora con il “Corriere della sera”, in cui svolge tutta la sua carriera di giornalista divenendo inviato speciale per la cultura, ad eccezione di una breve interruzione in cui passa a “La Stampa”. Ha collaborato con numerosi programmi radiofonici e televisivi (Rai Tre, Rai Educational) dedicati ai libri. Negli ultimi anni ha ideato e condotto “Cartoline dal paese dei libri” su Radio Città Futura. L’opera narrativa di Debenedetti vede l’affiancarsi di romanzi – In assenza del signor Plot (1976); La fine di un addio (1985); Se la vita non è vita (1991, Premio Viareggio); Un giovedì, dopo le cinque (2000, finalista Premio Strega) – e raccolte di racconti, tra le quali ricordiamo: Ancora un bacio (1981); Spavaldi e strambi (1987); Racconti naturali e straordinari (1993, Premio Selezione Campiello); Amarsi male (1998); E fu settembre (2005); In due (2008); Il tempo degli angeli e degli assassini (2011). Nello specchio del racconto. L’opera narrativa di Antonio Debenedetti, di Marco Onofrio (EdiLet, Roma, 2011), è a oggi la più completa monografia critica sullo scrittore.

 

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