Archivi del giorno: 16 gennaio 2016

Aldo Onorati, dal libro “La voce e la memoria” (EdiLet, 2015): L’ULTIMA INTERVISTA A DIEGO FABBRI

Aldo Onorati (insieme allo scrittore Raffaele Di Paolo) si è incontrato con Diego Fabbri poco tempo prima della sua scomparsa, avvenuta a Riccione il 14 agosto 1980. L’intervista che l’autore di “Processo a Gesù” ha rilasciato può quindi considerarsi una sorta di testamento spirituale.

Diego-Fabbri

Diego Fabbri

Quali possibilità offre il teatro?
– Il giovane trova nel teatro la prima forma suggestiva per entrare in relazione con gli altri e con il mondo, il primo modo di prendere coscienza di sé e di affermarsi per quello che è. È a mio parere un modo quasi inconsapevole di esercitare “la conoscenza”, e di viverne tutte le rivelazioni. Conoscere gli altri e il mondo attraverso il teatro è una esperienza che si addice proprio ai giovani. Io da ragazzo, dodici, quattordici anni, cominciai a recitare in un teatrino di Oratorio, e del teatro mi piacque subito tutto: non solo quel che riguardava la recitazione e la rappresentazione, la domenica sera, ma prima ancora la ricerca e la scelta di una commedia, e poi il periodo delle prove in cui una vicenda e i personaggi venivano studiati, precisati, in qualche modo scavati, e anche la preparazione della scena e dei costumi (molti di quei drammi erano in costume). Fu in quegli anni di adolescenza che ebbi i primi segni evidenti della mia vocazione teatrale. E non fu scrivendo una commedia o un semplice bozzetto (non ci pensavo nemmeno), bensì partecipando come attore a una rappresentazione particolare. La Filodrammatica in cui recitavo era stata invitata a tenere uno «spettacolo» al riformatorio della mia città (io sono nato e vissuto fino alla vigilia della guerra a Forlì, poi mi trasferii a Roma dove continuo a stare), e la commedia scelta per quella recita insolita era, mi ricordo ancora, Il buon pastore di Ambrosi, un autore non privo di qualche talento. Il riformatorio costituiva un padiglione a se stante delle carceri, e la filodrammatica per raggiungere il palcoscenico dovette entrare, in gruppo, nelle carceri: spioncini, sferragliare di chiavi e chiavistelli, le alte mura dei cortili, i corridoi con le celle protette dalle inferriate, i secondini e qualche volto di detenuto che si affacciava e spiava… E finalmente il piccolo palcoscenico, poco più di una predella rialzata dal piano terra, con un leggero sipario che si apriva e chiudeva come una tenda casalinga. Però gli elementi del teatro c’erano tutti: il palco rialzato, le luci, la scena e il sipario; e naturalmente la platea, ancora vuota, che aveva in fondo una sorta di galleria o balconata un po’ speciale: era chiusa da una inferriata alta fino al soffitto. E finalmente, mentre si stava completando l’operazione del trucco (è sempre eccitante per un attore, grande o minimo che sia, diventare per mezzo di ceroni colorati, di nero fumo, di parrucche o barba o baffi, un altro, assumere le sembianze e i caratteri di un’altra persona), ecco l’arrivo del pubblico. Uno strano pubblico: la platea si andava riempiendo ordinatamente di giovanetti come me (anno più anno meno) vestiti di un bigio forse righettato e dalle teste rapate quasi a zero, e la galleria di detenuti adulti che si accalcavano dietro l’inferriata. A destra e a sinistra della platea, accanto ai «minori», c’erano i guardiani che li tenevano d’occhio. Io che spiavo dalla fessura del sipario ero un po’ a disagio, ansioso in un modo diverso da come mi sentivo prima dell’inizio di una delle solite recite settimanali. E la commedia ebbe inizio: al principio ci fu un brusio diffuso e un curioso scalpiccìo, una sorta di disturbo che mi parve in qualche modo sedizioso (la sala s’era fatta buia e il rumorìo dei giovani carcerati sfuggiva alla individuazione dei guardiani), ma ben presto si fece silenzio perfetto e fu la storia che riviveva sul palco ad averla vinta. Era una storia commovente fino alle lacrime e scelta, direi, per quella recita di circostanza. Raccontava le vicende pietose di un ragazzo rubato da una tribù di zingari di passaggio e finalmente, dopo avventurose traversie, ritrovato dal padre grazie anche all’aiuto di un prete. Non solo il silenzio era autentico, ma l’attenzione si animava dei segni inconfondibili della commozione: io, che facevo il giovanetto rubato all’affetto dei genitori, vedevo le facce di quelli delle prime file, sentivo il tirar su col naso, il raschiarsi la gola e vedevo il fuggevole sventolare di qualche fazzoletto. Quando il piccolo protagonista, che si credeva orfano, si butta alla fine nelle braccia del padre ritrovato, non solo l’ovazione fu fragorosa e prolungata, ma la commozione non fu più trattenuta, e anche dietro le alte grate dove sedevano i detenuti adulti la partecipazione fu calda. Noi attori ci inchinammo a ogni salva di applausi. Ma non era finita, perché le disposizioni del Direttore carcerario erano queste: la galleria sarebbe stata per prima svuotata degli spettatori, e questo fu fatto immediatamente; i ragazzi che gremivano la platea non si sarebbero invece mossi, avrebbero atteso che gli attori avessero raggiunto lo stanzone dove all’inizio si erano preparati e truccati. E per far questo noi dovevamo scendere in platea, percorrere il «canale» centrale e raggiungere lo spogliatoio. Fu il momento più eccezionale, almeno per me, poiché molti di quei ragazzi s’erano talmente identificati con la sorte del protagonista, e avevano talmente rivissuto in loro stessi la sua pena, che al mio passaggio fu un protendersi di braccia, di mani, di volti, ci fu una specie di frenesia di toccarmi, di stringermi la mano che mi commosse indicibilmente. Era come se passasse la statua miracolosa di un santo, del “loro santo”. Mi resi conto poi più tardi che quella era, alla radice, la forza liberatoria, trasfiguratrice, “catartica” del teatro di cui avevano parlato i greci fin dalle origini. Mi resi conto da quella giovanile esperienza che la vera funzione del teatro doveva essere proprio un offrire, attraverso vicende anche crudeli, una soluzione esemplare di speranza, di riconciliazione, di fede. Io, a quel tempo, non sapevo ancora né di Eschilo né di Sofocle né di Euripide e non mi rendevo conto di che cosa, in concreto, significasse “catarsi”, ma avevo avuto la gran ventura di aver vissuto in prima persona una “catarsi” prima ancora di conoscerne, astrattamente, la definizione. Poi, quando cominciai a scrivere per il teatro, otto o dieci anni dopo, mi resi conto che la mia vocazione si era manifestata e precisata proprio quel giorno, in quel teatrino delle carceri per minori. Credo che fino ad oggi, nelle varie e oramai numerose opere che ho scritto e rappresentato, io sia rimasto istintivamente fedele a quello spirito di liberazione, a quello scopo di offrire speranza, certezza, spirito di riscatto e riconciliazione.
I giovani, penso, anche oggi, in forme nuove, vogliono la stessa cosa: e oggi più di allora trovano nel teatro un modo diretto di manifestare quel che sono e quel che vogliono, di manifestare la loro essenza e la loro migliore sincerità.
Racconterebbe qualche sua esperienza di autore drammatico?
– Riguardano quasi tutte questo rapporto tra quel che accade sul palcoscenico e il modo e l’intensità di partecipazione di chi ascolta. In Processo a Gesù, dove una parte del dramma si svolge in platea e coinvolge più direttamente il pubblico (benché gli spettatori che intervengono siano però attori seduti in poltrona), è accaduto molto spesso, e non solo in Italia, che certi spettatori non avvertissero questa “finzione” e intervenissero nel dibattito credendolo non previsto dalla commedia, ma veramente improvvisato. Al punto di aspettare gli attori sulla strada alla fine dello spettacolo, fuori del teatro, per porre loro certe domande. Mi si potrebbe dire che in questo equivoco il pubblico è indotto dalla natura tecnica della commedia che apre un vero e proprio dialogo con gli spettatori. Lo stesso rapporto di identificazione è comunque avvenuto per una commedia “chiusa” come Processo di Famiglia in cui tre coppie di sposi si contendono il possesso di un bambino, Abele, il quale a conclusione della contesa muore. Questo dramma venne presentato a Parigi al Théâtre de l’Oeuvre ed io assistetti a numerose rappresentazioni. Alla fine di una serata, mentre uscivo insieme agli attori, fui avvicinato nell’ingresso del teatro da un giovane il quale mi disse con la voce spezzata dall’emozione che aveva ritrovato nella mia commedia qualcosa, anzi molto di quel che tormentava la sua vita: aveva avuto un figlio da una ragazza, non l’aveva sposata, anzi si era allontanato da lei, era venuto a Parigi, ma voleva dirmi che quella notte stessa avrebbe preso un treno per il sud della Francia e sarebbe andato a riconoscere suo figlio. Mi ringraziava stringendomi le mani. Gli dissi che ero io, eravamo noi, che dovevamo ringraziarlo perché ci dava il conforto di sentire che la nostra fatica di uomini di teatro non era soltanto di natura estetica, ma di profonda natura umana, per cui sentivamo che valeva la pena continuare a compierla. Potrei aggiungere decine di episodi che hanno accompagnato le rappresentazioni di miei lavori, ma mi pare che questi due siano abbastanza indicativi. Dico soltanto che reazioni di questo genere non sono avvenute soltanto per opere impegnate, ma anche per commedie che considero più disinvolte e in qualche modo brillanti. Nel corso delle repliche di Lascio alle mie donne mi capitò di essere interpellato perché il “caso” che io avevo rappresentato, e che credevo raro e di mia invenzione, corrispondeva invece a una casistica piuttosto abbondante e indicativa.

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Cosa pensa del recupero dei valori popolari attraverso il teatro?
– Il mio convincimento fermissimo è che il teatro o è una realtà popolare o non è. Il cosiddetto teatro di élite è una distorsione del teatro, è un teatro malato e anchilosato a cui manca la linfa vitale, quella di poter rivolgersi a tutti. Il teatro che passa alla storia, quello che dura, si fonda e prospera solo sui valori popolari, sui sentimenti fondamentali e permanenti, sui conflitti che nella loro essenza non mutano mai pur nel mutare delle forme sociali e degli avvenimenti della storia. All’indomani dell’introduzione del divorzio in Italia una persona, dopotutto amica, mi fece notare che, col divorzio, Processo di Famiglia non avrebbe probabilmente più dato luogo a conflitto e a dramma. Gli risposi che non mi pareva in nessun modo vero: il divorzio non cancella i sentimenti e non risolve i loro conflitti. Risolve semmai, su un piano pratico, rapporti di persone che non hanno già più, tra loro, sentimenti; hanno tutt’al più interessi da regolare, ma ciò non ha niente a che fare con l’essenza del teatro. Il teatro è la rappresentazione di conflitti originari: non la rappresentazione di procedure. A meno che dietro le procedure non vi siano dei sentimenti o delle passioni elementari offesi, conculcati, violentati. Se una legge e le sue procedure impedissero di esercitare la libertà insorgerebbe un autentico drammatico conflitto. L’eroe è la sintesi dei valori essenziali dell’uomo (e perciò popolari) comuni a tutti o ai più. Questi valori popolari non sono affatto grezzi come qualcuno pensa, ma invece ricchi di sfumature e di variazioni. La sfumatura e la variazione non devono però far dimenticare il colore di base o il motivo fondamentale. Se un teatro intende dire qualcosa al proprio Paese deve affondare le radici nello stato popolare e nei valori che sono di tutti. Per questo un teatro davvero popolare deve essere nello stesso tempo teatro nazionale, cioè del popolo che si identifica con le caratteristiche di un Paese. Tutto il resto è divagazione o elusione della realtà e di un dovere. Jacques Copeau, uno dei massimi uomini di teatro francese, disse a proposito della popolarità in questo settore: «Non si tratta di sapere – scrive – se il teatro d’oggi trarrà il suo fascino da questo o quell’esperimento, se attingerà la sua forza dall’autorità di questo o quel maestro della scena. Io credo che ci si debba chiedere se sarà marxista o cristiano, poiché occorre che sia vivo, vale a dire popolare. Il teatro, per vivere, deve offrire all’uomo delle ragioni di credere, di sperare, di espandersi. Questa sorgente di nuovo calore, in quanto a me, oso dire che la troveremo soltanto in una religione d’amore».
Si parla di teatro di quartiere, di rivalutazione del dialetto…
– Il teatro di quartiere è una realtà, e quando non è costretta da condizionamenti politici, ma si muove con quella sufficiente libertà che consenta un effettivo alternarsi di motivi e di voci tanto per quel che riguarda i contenuti quanto per quel che riguarda le forme drammaturgiche, mi sembra una realtà che merita espansione e sostegno. I dialetti, poi, sono le fonti prime del linguaggio, e il linguaggio, come sappiamo tutti, è alla base del teatro. Il riaffiorare di commedie in dialetti poco diffusi, se affrontato con serietà di ricerca e di espressione, non può che essere seguito con la massima attenzione. Non bisogna però nascondersi la difficoltà di circolazione di queste opere che richiedono un uditorio in qualche modo specializzato e territorialmente circoscritto. Solo opere di alto livello ed elaborate linguisticamente giungono a varcare i confini stabiliti dai singoli dialetti e a diventare in certo modo nazionali. Ma questa opera di filtro è lunga e ardua: si pensi al Ruzzante.
È più difficile essere attori di cinema o di teatro?
– Stesse difficoltà: si pensi a Gassman. Certo che un’attrice di spiccata piacevolezza farà con successo, almeno in Italia, del cinema anche se reciterà in maniera men che mediocre; o un attore di straordinaria bravura teatrale come Salvo Randone giungerà al cinema molto tardi e in parti di fianco. È il gioco delle vocazioni, dei talenti e anche delle occasioni: ma, alla base, per un attore di cinema e di teatro ci sono analoghe difficoltà anche se per esigenze diverse.

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Salvo Randone

In mezzo a tanti idoli (sportivi, politici, cantanti, attori) che costituiscono, specialmente per i giovani, punti di riferimento indiscussi, quale significato ha la figura di Cristo e cosa rappresenta per le nuove generazioni?
– La domanda propone una risposta molto ardua perché la figura di Cristo ha subìto delle sensibili contraffazioni fino ad alterarne i connotati autentici. Negli anni – dal ’30 al ’50 – in cui maturai il personaggio di Cristo per giungere poi al dramma-processo che è del 1955, io mi trovavo di fronte a una figura di Gesù statica e fissa come un’icona. Io amo molto le icone: esse sono oggetto di contemplazione e di suggestione, suscitatrici di eventi, ma non sono di per sé un evento in movimento, in azione. Non solo Cristo era un’icona, ma anche i personaggi della prima cristianità, gli apostoli e i primi discepoli, avevano una loro tradizionale staticità e fissità. E avevano una loro lontananza, vale a dire uno stacco, e un distacco, dalla contemporaneità, dagli uomini del nostro tempo. Pietro era un rinnegatore del suo Capo, ma un rinnegatore con l’aureola; Tommaso un razionalista incredulo, ma anche lui con l’aureola; la Maddalena era sì una peccatrice, ma che tipo di peccatrice fosse era quanto mai sfumato perché nel frattempo anche attorno ai capelli di Maddalena si era dilatata un’aureola di santità; solo con Giuda ci si poteva prendere maggiori confidenze perché Giuda era il traditore. Questo timore di offendere l’aureola, aveva dal Medioevo in poi mantenuto la turba dei personaggi evangelici lontani da noi. Ed io avevo intuito, o mi era parso di intuire, che tra la tipologia degli uomini di oggi e quella degli apostoli e dei primi cristiani vi era una profonda affinità. Si trattava dunque di vedere quei primi santi-apostoli come probabilmente furono, in quel tempo, prima che avessero l’aureola, così come li videro, li giudicarono gli uomini di allora; e cercare di restituire, oggi, la loro primitiva umanità. Mi pareva che l’adagio popolare “scherza coi fanti e lascia stare i santi” non fosse, in sostanza, proprio vero poiché in un certo senso “scherzare anche coi santi” è un sentirli vicini, familiari, consanguinei. Credo di essere stato il primo, o uno dei primissimi, che tentò, almeno a teatro, di stabilire una confidenza con i primi personaggi cristiani. Credo che proprio questo spirito di confidenza e di parentela sia stato uno dei motivi del vivo e generale successo di Processo a Gesù, in Italia e nel mondo intero. Ciò comunque non impedì che gruppi di cattolici conservatori denunciassero la mia opera al Sant’Uffizio, il quale archiviò per due volte le denunce. Se da una parte mi sento soddisfatto di avere avvicinato i personaggi della prima storia sacra cristiana agli uomini di oggi ripristinando una parentela che si era fatta un po’ opaca, ho poi avuto qualche rimorso e qualche rammarico quando mi sono accorto che la parentela e la confidenza con Gesù e con gli Apostoli sono a poco a poco diventati arbitrio e anche licenza o addirittura irriverenza perfino blasfema. È forse un prezzo che si è dovuto pagare a un’epoca ribelle e ostile al senso del sacro. D’altra parte è pur vero che «chi ha troppo temuto i pericoli dell’errore non temerà mai abbastanza quelli dell’indifferenza». Io credo che il mondo cristiano di una sola cosa debba temere: proprio dell’indifferenza di cui una mentalità materialistica cerca di circondarlo. Penso che la figura di Cristo col suo messaggio siano, oggi più che mai, le uniche soluzioni per soddisfare le inquietudini e le aspirazioni di noi uomini sempre in cerca di una realtà interiore e sociale che ci acquieti pur mantenendoci in cammino. Noi non intendiamo fermarci, né riposare: intendiamo dare un senso alla nostra fatica e al nostro incessante andare. E questo senso profondo me lo dà, in modo pieno, soltanto Cristo. È lui il mio Supremo Compagno di strada. In questo senso faccio mie, partecipandovi intimamente, le parole di Dostoevskij, il nostro grande contemporaneo: «Dio mi manda talvolta dei minuti nei quali io sono del tutto sereno; in questi minuti io amo e trovo di essere amato dagli altri, e in questi minuti io ho creato in me stesso il simbolo della fede, nel quale tutto mi è chiaro e sacro. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, di più virile e perfetto di Cristo; e non solo c’è, ma con geloso amore mi dico che non può non esserci. E non basta: se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo anziché con la verità». Questo strenuo, fino all’irrazionale, attaccamento alla Figura reale e al Messaggio vivente e giovane di Cristo è, per me, l’unico motivo di certezza e di speranza della nostra vita: certezza e speranza che, oltre a dar significato alla nostra operosità, danno ad essa una durata e una dimensione che varca i limiti del tempo.

«Il Nuovo Informatore Librario», novembre 1980

copertina

Aldo Onorati, nato ad Albano Laziale nel 1939 è scrittore, dantista, storico della letteratura e autore di versi. Ha insegnato Lettere negli istituti superiori e ha condotto corsi di specializzazione in «Tecnica del verso». Ha pubblicato quasi tutte le sue opere con Armando editore, presso cui ha lavorato per un certo periodo come curatore dell’Ufficio stampa. È stato direttore editoriale e di collane di critica. Giornalista, ha collaborato per decenni ad «Avvenire», «L’Osservatore Romano», «Il popolo», «Giornale d’Italia», «Specchio economico», «Giornale di Brescia» etc., ed anche alla RAI-TV, III programma, «Dipartimento scuola educazione». Ha diretto numerosi organi di stampa, fra cui «Terza Pagina», «Interviste oggi» e «Quaderni di filologia e critica». Fra i suoi libri di narrativa più conosciuti, Gli ultimi sono gli ultimi che fu scoperto da Carlo Levi e tradotto in Coreano, Esperanto, Francese etc.; Nel Frammento la vita, VI edizione; La sagra degli ominidi (VII edizione), che Domenico Rea ha prefato in IV ed., Lettera al padre (VI ediz.), il recente Le tentazioni di frate Amore, già in II ristampa con Tracce di Pescara e Il sesso e la vita con EdiLet, prefato da Marco Onofrio, il quale ha riproposto Onorati come poeta in un’originalissima opera da lui scritta e divulgata (Il mistero e la clessidra, EdiLet, 2009). Le sue liriche sono raccolte in Tutte le poesie, Anemone Purpurea 2005. Fra i saggi critici, spicca Dante e l’omosessualità, in cui Onorati rivede l’atteggiamento della critica riguardo il giudizio dell’Alighieri sugli omosessuali; inoltre, Il crepuscolo del Novecento, I cinque pilastri della stoltezza (Armando 2003), Dante, Petrarca, Boccaccio e Boiardo ed Ariosto e molti altri. Importante è la supervisione e il saggio critico di post-fazione che Onorati ha fatto al libro di Louis La Favia sulla scoperta di un inedito di Dante: «Chanzona ddante» (Longo, Ravenna 2012). La sua autorità di dantista lo porta a commentare il sommo Poeta in Italia e all’estero. Di recente, la Presidenza Centrale della Società Dante Alighieri gli ha conferito, al Vittoriano di Roma, il diploma di benemerenza con medaglia d’oro «Per la profonda conoscenza dell’Opera dantesca, al punto di diventare testimone nel mondo della Divina Commedia». È in via di pubblicazione con la stessa Società un’ampia sinossi critica dei 34 canti dell’Inferno. Le sue opere di poesia e di narrativa sono state tradotte in 16 lingue, fra cui Coreano, Esperanto, Francese, Inglese, Spagnolo, Portoghese, Romeno, Tedesco, Russo (la silloge Domande assurde è apparsa prima a Mosca, tradotta e prefata da Evghenij Solonovich, e poi in Italia), Cinese, Polacco etc. Ha diretto una collana di ecologia da Armando, scrivendo alcuni libri di successo per le scuole. Attualmente collabora a “Pagine della Dante” e a “Leggere:tutti”.

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