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Scrittore, poeta, critico letterario, consulente editoriale

“Genova” di Dino Campana: l’effimero «traguardo» dei “Canti Orfici” (1914). Lettura critica di Marco Onofrio

genova al tramonto

Genova al tramonto

“Genova” è la composizione che chiude i Canti Orfici e – per intensità e potenza evocativa – costituisce il “messaggio” definitivo dell’intero libro, il presumibile traguardo dell’intenso e faticoso viaggio (la «tragedia dell’ultimo germano in Italia») posto in essere da Dino Campana attraverso il mistero del mondo. Il poeta, giunto a questo stadio del percorso, è ormai pienamente immerso nel Mito. Un indizio esemplare: la nube si ferma nel cielo, cioè il tempo si blocca, tutto si immobilizza nella pienezza di una condizione eterna ed essenziale, non soggetta alla caducità. Attenzione, non è un altro mondo: è bensì lo stesso che noi conosciamo, libero dalla prigione del limite che sempre ce lo sottrae ad una piena comprensione e «arcanamente illustrato», capace cioè di sciogliere il suo nodo, rendendo manifesto già nelle apparenze l’arcano senso delle cose. Il poeta ascolta «voce di poeti», esce dal labirinto dei vichi genovesi e colloca il suo sguardo ormai acutissimo di voyant nella vastità indefinita del panorama marino: visione forte di luce, solare di freschezza, misteriosa di sogno e d’incanto.

E udìi canto udìi voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni
Benigne un primo oblio parvero ai proni
Umani ancor largire: dai segreti
Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare
Bianco nell’aria: innumeri dal mare
Parvero i bianchi sogni dei mattini
Lontano dileguando incatenare
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di maggio.

La descrizione è potente, numinosa, irrevocabile: si sente che l’Evento è ormai maturo, prossimo a compiersi. A differenza dei «proni umani», che si contentano di un «primo oblio», il poeta “sa”: è un’«anima partita» prima di tornare, che raggiungerà l’Oblio perfetto dell’eterno per sforzo di ricerca e virtù di conoscenza, trionfante di una luce (il cordone di luce reciso con l’atto violento del nascere ad un corpo) conquistata attraversando le tenebre, a prezzo del “male di vivere”. Egli dunque è ad un passo dal riabbracciare la condizione prenatale, quel «più lungo giorno» da cui poter cogliere in vita la rivelazione suprema dell’universo. L’attesa orfica della prima strofe (dalle forme verbali al passato) viene momentaneamente disattesa dalla seconda e dalla terza strofe, che la stemperano in digressione descrittiva giocata ancora sul tema della Forza: la «febbre de la vita» che senza posa accende la brulicante e sonora animazione della città marinara (ma si noti il dettaglio “mitico” delle «venditrici uguali a statue porgenti / frutti di mare con rauche grida cadenti / su la bilancia immota»). I tempi verbali al presente di questa digressione (tranne il «così ti ricordo ancora e ti rivedo», che invece coincide con l’atto dello scrivere) hanno chiaramente un valore durativo. Il contenuto del ricordo riempie anche la quarta strofe, ed è un fatto piuttosto strano (ma per questo ancor più notevole), giacché proprio qui avviene la tanto attesa rivelazione. La rivelazione declinata al passato come ricordo implica un porsi al di là di essa: il poeta ce ne parla ad Evento compiuto (ma il suo stesso poterne parlare, utilizzando parole umane, significa che la conquista dell’Eterno è stata effimera, un attimo fuggente che nulla ha portato di definitivo: l’ennesimo scacco). Come già in Pampa, basta la visione del cielo stellato per innescare il flusso della voyance. Il poeta camminava da solo tra i palazzi di Genova nell’ombra della sera quando vide i «mille e mille occhi benevoli / delle Chimere nei cieli» (una sorta di assenso alla rivelazione)… ed ecco che le stelle-Chimere (simboli metafisici dell’eterno) attrassero la «visione di Grazia», finta dal vento salmastro del mare, che spontaneamente si liberò e ascese in un movimento che Campana cerca disperatamente di assecondare e riprodurre, obbligando la poesia ad acrobazie sintattiche che finiscono quasi per vanificarne il senso.

Quando,
Melodiosamente
D’alto sale, il vento come bianca finse una visione di Grazia
Come dalla vicenda infaticabile
De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale
Dentro il vico ché rosse in alto sale,…
Marino l’ali rosse dei fanali
Rabescavano l’ombra illanguidita,…
Che nel vico marino, in alto sale
Che bianca e lieve e querula salì!

L’ambiguità di questi versi è celebre, basti pensare ad esempio al sintagma «d’alto sale» del v. 54: “sale” è sostantivo oppure terza persona singolare del verbo “salire”? La prima interpretazione verrebbe forse comprovata dal possibile enjambement «sale / marino» (sempre che “marino” non si leghi a “vico”, riprendendo il sintagma «vico marino» del v. 57) e proverebbe l’ennesima eco dantesca (Paradiso II, 13) nei Canti Orfici; con la seconda interpretazione avremmo per un istante la mimesis dell’Evento in fieri (ma “sale” andrebbe subito a contendere con l’esito ineluttabile del “salì”– che alla fine prevale: lo scacco non sarebbe comunque scongiurato). Ma perché, ad ogni modo, «d’alto sale» e non «in alto sale» come troviamo ai vv. 57, 58 e 61? L’unico possibile trionfo dell’attesa orfica che illuminava la prima strofe, l’unica conquista definitiva (ma sempre a condizione di astrarre dal seguito di “Genova”), si cela dietro quel “sale”, la cui ambiguità sintattica lascia il varco aperto ad una solo probabilistica interpretazione verbale. Campana cerca in tutti i modi di fermare sulla carta la melodia dell’universo, di rendere con i mezzi stessi della poesia il movimento della sua incarnazione visionaria. Riprende di continuo il discorso, dilatandolo e variandolo con effetti di eco circolare, perché è consapevole di ciò che volta a volta sta perdendo nell’affidare a parole umane la suprema alterità dell’inesprimibile.

«Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che bianca e lieve e tremula salì:…» –
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca…
Bianca quando nel rosso del fanale
Bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì…

La scansione temporale della scrittura oscilla inquietamente fra le prospettive dell’«ora di già» e dell’«era già», per cui davvero, come scrive Giovanni Boine, «la cosa da dire è la cosa ormai detta». Emerge il disagio di una “traduzione” inevitabilmente seconda rispetto a ciò che solo la musica, forse, sarebbe in grado di esprimere (oppure una poesia di una parola sola che significasse insieme tutte le parole – e le poesie possibili – del mondo). Il poeta sente che non basta un unico approccio a “consumare” la visione, e allora la attacca da più punti, in tentativi ripetuti (ma sempre insufficienti). Tuttavia, oltrepassando lo stereotipo dell’artista in lotta titanica con la forza annichilente della propria “possessione”, si può forse ipotizzare che la destrutturazione sintattica della quarta strofe sia dovuta al tentativo consapevole di riprodurre in musica la qualità dinamica della visione (che a sua volta traduce all’occhio il «melodiosamente» con cui viene annunciata)? La musica, dunque, si transcodifica in pittura (la visione), e la pittura viene messa in moto e “cinematografata” in sequenze ripetute degli stessi fotogrammi (si veda ad esempio il “ralenti” dei vv. 63-65, che Campana cifra tra virgolette), per rendere con i mezzi della poesia, seppur «faticosamente», l’«eco attonita» che chiude la sarabanda dei suoni, e che incontriamo “detta” solo nei vv. 71 e 72.

canti orfici

Taciuta anche l’ultima eco della «visione di Grazia», lo sguardo del poeta torna come abbagliato, incapace di distinguere dettagli, al fervore lucente della sera genovese. La quinta strofe recupera in presa diretta lo scenario del porto: il battello approda e poi si scarica cigolando, mentre già i passeggeri sciamano per le vie della «città tonante». Il poeta riposa vigile nell’abbraccio finalmente benigno di tutte le cose, nel tepore della nuova condizione che lo riavvicina con doloroso amore allo spettacolo del mondo (e al destino dei suoi simili): il crepuscolo “brilla”, gli alberi dei battelli sono «quieti di frutti di luce», il paesaggio è “mitico”, la sera è «calida di felicità», c’è un «grande velario / di diamanti disteso sul crepuscolo», sul molo «corrono i fanciulli e gridano / con gridi di felicità» … E ancora: la luce del tramonto «s’è fusa in pietra di cenere » (cioè si è come materializzata, catturata per sempre dall’ardesia dei palazzi), dai vichi si ode «fragore di vita» e il cielo è un «velario d’oro di felicità», come un guardaroba dove «il sole ricchissimo / lasciò le sue spoglie preziose», i suoi «resti magnificenti», prima di tuffarsi nel mare… È una dolcezza antica che torna a baciare ogni fenomeno dell’Essere, il languido struggimento che prova l’esule quando pensa al focolare domestico: il poeta guarda il mondo con occhi intrisi di questa stessa luce, estende all’universo il suo cuore di gioia e arriva a farne il proprio dominio, il proprio focolare. L’iniziazione orfica ha dunque prodotto un risultato tangibile, il viaggio dell’«anima partita» ha raggiunto infine l’evidenza di un traguardo: la pace serena e consapevole della nuova armonia grazie a cui il poeta può finalmente “abitare” il mondo. Ma si tratta di un dominio ben altro che durevole, una gioia cosmica “intensa”, sì, ma “fugace”, sottratta in breve al dominio del Mito e tuffata nel gorgo annichilente del divenire, quel divenire che riprende il sopravvento e cancella (come l’onda del mare i castelli di sabbia) la tanto faticosamente conquisa prospettiva di accordo fra Io e mondo. Ed ecco allora che il sole «intesse un sudario d’oblio», che pure ancora vien detto «divino per gli uomini stanchi» (ma è impossibile ignorare il richiamo a distanza fra «velario» e «sudario», e il salto qualitativo che si produce fra la gloriosa fecondità del primo e la spettrale sacralità di morte e sacrificio del secondo); ed ecco anche i viaggiatori che poco prima si avventuravano fiduciosi per le piazze e le vie di Genova, tra schiamazzi di fanciulli (simbolo positivo di gioia, di innocenza ritrovata), ecco che i viaggiatori si trasformano in “ombre” e camminano «terribili e grotteschi come i ciechi» … Il Mito, insomma, si è spento con gli ultimi bagliori del crepuscolo e il poeta è ripiombato nel carcere del tempo. Ce lo conferma la sesta strofe, che è un “notturno” oppresso dalla «tristezza / inconscia de le cose che saranno» (il presente che “culla” il futuro, la notte che prepara i destini del giorno che verrà) e dal «vomito silente» della ciminiera (è ormai esaurita la potenza trasfiguratrice che permetteva di redimere e di accordare al mondo i segni alienanti della modernità), anche se parzialmente addolcito dalla percezione della Forza che si addormenta nel silenzio inoperoso del porto (che «oscilla dentro un ritmo / affaticato» e riposa a sua volta nel «dolce scricchiolio / dei cordami»). L’ultima strofe recupera l’atmosfera degli ultimi paragrafi de La Notte nel ricordo della prostituta “mitica”, che qui è detta «Siciliana proterva opulente matrona» e «Piovra de le notti mediterranee» (si noti l’eco delle «canzoni di cuori in catene» e della «melodia invisibile» nei canti «lenti ed ambigui ne le vene de la città mediterranea», oppure de «la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiudessero» in «tu / la finestra avevi spenta»). Con la finestra si spegne anche l’ultimo fotogramma dell’“apparente”: resta solo la sterminata “devastazione” cosmica (l’eterno del cielo stellato) nella quale annega l’obiettivo cinematografico del poeta e si perde, dissolvendosi ad infinitum, la sua visione. Complessivamente, resta impossibile una liberazione orfica: non solo, ma la forza della Storia impone sempre un destino di sangue al “boy” che si cimenta comunque nel tentativo (ed ecco il colophon finale da W. Whitman):

They were all torn
And cover’d with
The boy’s
Blood.

Marco Onofrio

campana_costetti

Giovanni Costetti, ritratto di Dino Campana

 

GENOVA

Poi che la nube si fermò nei cieli
Lontano sulla tacita infinita
Marina chiusa nei lontani veli,
E ritornava l’anima partita
Che tutto a lei d’intorno era già arcana-
mente illustrato del giardino il verde
Sogno nell’apparenza sovrumana
De le corrusche sue statue superbe:
E udìi canto udìi voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni
Benigne un primo oblìo parvero ai proni
Umani ancor largire: dai segreti
Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare
Bianco nell’aria: innumeri dal mare
Parvero i bianchi sogni dei mattini
Lontano dileguando incatenare
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di Maggio.

*

Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagna
cinerea
Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto
Ride l’arcato palazzo rosso dal portico grande:
Come le cateratte del Niagara
Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al
mare:
Genova canta il tuo canto!

*
Entro una grotta di porcellana
Sorbendo caffè
Guardavo dall’invetriata la folla salire veloce
Tra le venditrici uguali a statue, porgenti
Frutti di mare con rauche grida cadenti
Su la bilancia immota:
Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperiale
Su per l’erta tumultuante
Verso la porta disserrata
Contro l’azzurro serale,
Fantastica di trofei
Mitici tra torri nude al sereno,
A te aggrappata d’intorno
La febbre de la vita
Pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto
Instornellato de le prostitute
E dal fondo il vento del mar senza posa.

*

Per i vichi marini nell’ambigua
Sera cacciava il vento tra i fanali
Preludii dal groviglio delle navi:
I palazzi marini avevan bianchi
Arabeschi nell’ombra illanguidita
Ed andavamo io e la sera ambigua:
Ed io gli occhi alzavo su ai mille
E mille e mille occhi benevoli
Delle Chimere nei cieli:. . . . . .
Quando,
Melodiosamente
D’alto sale, il vento come bianca finse una visione di
Grazia
Come dalla vicenda infaticabile
De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale
Dentro il vico marino in alto sale,. . . . . .
Dentro il vico chè rosse in alto sale
Marino l’ali rosse dei fanali
Rabescavano l’ombra illanguidita,. . . . . .
Che nel vico marino, in alto sale
Che bianca e lieve e querula salì!
«Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che bianca e lieve e tremula salì: …..»
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca. . . . . . . .
Bianca quando nel rosso del fanale
Bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì. . . . .
Di già tutto d’intorno
Lucea la sera ambigua:
Battevano i fanali
Il palpito nell’ombra.
Rumori lontano franavano
Dentro silenzii solenni
Chiedendo: se dal mare
Il riso non saliva. . .
Chiedendo se l’udiva
Infaticabilmente
La sera: a la vicenda
Di nuvole là in alto
Dentro del cielo stellare.

*

Al porto il battello si posa
Nel crepuscolo che brilla
Negli alberi quieti di frutti di luce,
Nel paesaggio mitico
Di navi nel seno dell’infinito
Ne la sera
Calida di felicità, lucente
In un grande in un grande velario
Di diamanti disteso sul crepuscolo,
In mille e mille diamanti in un grande velario vivente
Il battello si scarica
Ininterrottamente cigolante,
Instancabilmente introna
E la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul molo
Corrono i fanciulli e gridano
Con gridi di felicità.
Già a frotte s’avventurano
I viaggiatori alla città tonante
Che stende le sue piazze e le sue vie:
La grande luce mediterranea
S’è fusa in pietra di cenere:
Pei vichi antichi e profondi
Fragore di vita, gioia intensa e fugace:
Velario d’oro di felicità
È il cielo ove il sole ricchissimo
Lasciò le sue spoglie preziose
E la Città comprende
E s’accende
E la fiamma titilla ed assorbe
I resti magnificenti del sole,
E intesse un sudario d’oblio
Divino per gli uomini stanchi.
Perdute nel crepuscolo tonante
Ombre di viaggiatori
Vanno per la Superba
Terribili e grotteschi come i ciechi.
Vasto, dentro un odor tenue vanito
Di catrame, vegliato da le lune
Elettriche, sul mare appena vivo
Il vasto porto si addorme.
S’alza la nube delle ciminiere
Mentre il porto in un dolce scricchiolìo
Dei cordami s’addorme: e che la forza
Dorme, dorme che culla la tristezza
Inconscia de le cose che saranno
E il vasto porto oscilla dentro un ritmo
Affaticato e si sente
La nube che si forma dal vomito silente.

*

O Siciliana proterva opulente matrona
A le finestre ventose del vico marinaro
Nel seno della città percossa di suoni di navi e di carri
Classica mediterranea femina dei porti:
Pei grigi rosei della città di ardesia
Sonavano i clamori vespertini
E poi più quieti i rumori dentro la notte serena:
Vedevo alle finestre lucenti come le stelle
Passare le ombre de le famiglie marine: e canti
Udivo lenti ed ambigui ne le vene de la città mediterranea:
Ch’era la notte fonda.
Mentre tu siciliana, dai cavi
Vetri in un torto giuoco
L’ombra cava e la luce vacillante
O siciliana, ai capezzoli
L’ombra rinchiusa tu eri
La Piovra de le notti mediterranee.
Cigolava cigolava cigolava di catene
La grù sul porto nel cavo de la notte serena:
E dentro il cavo de la notte serena
E nelle braccia di ferro
Il debole cuore batteva un più alto palpito: tu
La finestra avevi spenta:
Nuda mistica in alto cava
Infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena.

stelle-cadenti

Marco Onofrio. Nato a Roma nel 1971, scrive poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria. Per la poesia ha pubblicato 10 volumi – sui 23 totali – tra cui D’istruzioni (2006), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove (2013), Ai bordi di un quadrato senza lati (2015). Ha pubblicato inoltre, tra i volumi di critica, monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni. Il volume su Campana è uscito nel 2010 e si intitola Dentro del cielo stellare. La poesia orfica di Dino Campana (pp. 688, Euro 16). Web Site: www.marco-onofrio.it

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UNA RIPROPOSTA: LA POESIA DI CORRADO GOVONI (1884-1965) da “Gli aborti”, 1907– un Commento di Giorgio Linguaglossa con una scelta di poesia “Dove stanno bene i fiori”, “Il cuculo”, “Nel cimitero di Corbetta”, “Villa chiusa nella campagna romana”, “Charlot”, “Arcobaleno”, “Effetto di nebbia”

 

Govoni

Commento di Giorgio Linguaglossa

Corrado Govoni è un «classico» indiscusso del primo Novecento, anzi, uno dei «classici» di tutto il Novecento. La poesia “Dove stanno bene i fiori” è un esempio impareggiabile dell’estro e della magnifica capacità che Govoni ha di spaziare con le metafore e le immagini, con le analogie e i parallelismi, come mai forse nessun altro nel Novecento. È impressionante quell’andare a briglia sciolta da invenzione ad invenzione, da immagine ad immagine, senza dare tregua al lettore, senza blandirlo con soluzioni languide, servizievoli o ammiccanti, obbligandolo a seguirlo nella sua funambolica ascesa alla immaginazione poetica più sbrigliata e libera di tutto il primo Novecento italiano. Sotto questo aspetto, non c’è nessun altro poeta del primo Novecento (con l’eccezione di Palazzeschi) che possa stare al pari della sfrenata libertà metaforica di Govoni; c’è da restare perplessi, meravigliati e smarriti dinanzi alle iperboli funamboliche delle immagini che si susseguono senza tregua.

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Marc Chagall, “Sopra la città”

Sarebbe ora di rileggere con altri occhiali i grandi poeti del primo Novecento. Torniamo a rileggere la poesia a briglia sciolta di Govoni, vediamo con quale strabiliante svolgimento di immagini Govoni tematizza il tema: prende il tema dei “fiori” e ci fa sopra una poesia che ha una straordinaria brillantezza e «trasandatezza» formale. Scrive Mengaldo: «Govoni appresta quel repertorio di oggetti e temi che sarà tipico della sensibilità “crepuscolare” (parola tematica che in lui compare presto), e lo fa in modo straordinariamente elementare, e, per così dire, feticistico”, accompagnandolo con “arpeggi di annoiata chitarra” (Solmi). In realtà Govoni è soprattutto attratto dalla superficie colorata del mondo, dalla varietà infinita dei suoi fenomeni, che registra con golosità inappagabile e fanciullesca, quasi in una volontà di continua identificazione col mondo esterno» (P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. 5). Il giudizio riduttivo di Mengaldo è indicativo della cecità e della ristrettezza di campo concettuale con cui il critico citato guarda alla poesia di Govoni. Mengaldo fa una duplice operazione: dimidia il valore della poesia dei crepuscolari per puntare dritto sulla poesia del primo Montale, quello degli Ossi e quello delle Occasioni, canonizzato quale spina dorsale della poesia del Novecento; inoltre, l’idea guida di Mengaldo ripete il cliché del topos accademico che guarda alla poesia del primo Novecento dal punto di vista della poesia maggioritaria del secondo Novecento. Mengaldo svaluta la prima per rivalutare la seconda; svaluta la libertà sfrenata e gioiosa dei grandi poeti del primo Novecento come Campana, Govoni, Palazzeschi, i futuristi, Lucini, Saba, i crepuscolari, per rivalutare la poesia del pedale basso del Montale di Satura (1971) e della poesia post-montaliana del disimpegno e dell’ironia, della cultura dello scetticismo e del disinganno dinanzi alla invasione della società di massa.

de chirico_immagine periodo metafisico

de Chirico_periodo metafisico

Alla luce degli eventi che hanno punteggiato la poesia italiana in questi ultimi tre quattro decenni, dobbiamo rovesciare come un guanto il giudizio critico di Mengaldo e rivalutare quei poeti che nel primo Novecento hanno corso a briglia sciolta sulle ali di una irrefrenabile aria di libertà creativa (Govoni) e di una estenuata malinconia (i crepuscolari). Occorre riparametrare quella presunta centralità della poesia del secondo Novecento che aveva (ed ha) la sua referenza sociale nella piccola borghesia. Ritengo sia giunto il momento di ribaltare i giudizi (anzi, i pregiudizi) consolidati. Proviamo a rileggere all’incontrario la poesia del primo Novecento. Devo fare un inciso su ciò che ci dice la poesia del minimalismo. Attraverso quella poesia si può leggere, in filigrana, ciò che stava diventando il Paese: una Italia invasa dalla cultura dello scetticismo, dal demagogismo, dal disimpegno assunto a nuova ideologia di massa, dall’ironizzazione scontata e facile, da una cultura che non aveva cognizione di ciò che stava avvenendo, che continuava a fare una narrativa del disincanto, del ritorno al privato, alla cronaca, al quotidiano, al particulare, allo scetticismo. Una cultura celebrativa e inaugurale del Presente fondata sulla digressione e su una sorta bilanciamento e oscillazione tra il quotidiano e il privato. E l’affermarsi di una clericatura di massa dotata di invarianza e di tatticismi e di uno stile cosmopolitico, transpolitico. A questo punto, corre l’obbligo di fare una distinzione tra il correre a briglia sciolta della poesia di un Govoni e di un Palazzeschi del primo Novecento e lo sbocco del Paese nel fascismo: non c’è alcun legame tra le due cose; quello che poi emerse negli anni Trenta è stato il richiamo all’ordine de “La Ronda” che la poesia di Cardarelli in certa misura legittima: il ritorno all’ordine politico e il ritorno all’ordine del testo poetico. Occorre leggere la storia della poesia del Novecento con un’altra lente di ingrandimento. E, direi, anche con altri occhiali. Per tornare all’oggi, è utile e salutifero guardare alle esperienze poetiche del primo Novecento con l’occhio critico di chi abita l’omologismo del post-minimalismo di massa dei nostri giorni.

(da Gli aborti, 1907)

Dove stanno bene i fiori

I ciclami, nei chiostri di marmo.
Le ortensie, nelle rosse Certose.
Le margherite, nei prati.
Le viole, tra le foglie secche
lungo i fossi.
La malva, nelle pentole dei poveri, alle finestre.
Gli oleandri, nei vestiboli dei ricchi.
Le rose, dentro gli orti di campagna.
I tuberosi, nei giardini dei collegi.
Le aquilegie, nei cortili dei castelli antichi.
Le ninfèe, come
bianche lavandaie, sotto i ponti.
Gli edelvai, vicino ai nidi delle aquile.
I convolvoli, nelle siepi delle strade.
I glicini, sui ruderi.
L’edera, come una decorazione verde
intorno agli alberi veterani.
I gigli, sugli altari e in processione.
Le orchidee, simili ad aborti, nei bicchieri.
Le azalèe, nelle chiese protestanti.
Le camelie, nei vasi di maiolica sulle scale.
I narcisi, davanti agli specchi.
I garofani rossi, nella bocca delle amanti.
I crisantemi, sulle tombe e nelle tavole.
I pensè, come maschere curiose alle finestre.
I papaveri, nel frumento.
I begliuomini dai fiori ascellari
simili ad arlecchini, negli orti delle zitelle.
Le violacciocche, lungo i viali delle passeggiate.
I semprevivi, nelle camere dei malati e davanti ai santi.
I gelsomini, alle finestre degli ospedali.
I funghi, nei boschi umidi
nelle travi marcite
e nell’anima mia.

Il cùculo

O cùculo, bel cùculo barbogio
che voli sopra il fresco canepaio ,
cantando il tuo ritornello gaio,
il vecchio ritornello d’orologio:
tu sei la primavera pazzerella,
che si nasconde e canta allegra: – Orsù,
venitemi a pigliar… cucù! cucù!
dietro il frumento che va in botticella.
E quando, dopo un lungo inseguimento,
tu speri d’acciuffarla nel frumento,
ella, che ti spiò e venir ti vide,
eccola là, che canta e ti deride
da un alto pioppo, tremulo d’argento,
che s’alza in fondo al campo di frumento.
O cùculo mio del cùculo vaio
che voli sopra il fresco canepaio.

Nel cimitero di Corbetta 

Povera creatura inutile!
io ti conosco, forse.
Eri una delle tante bambine
ch’io vidi nei cortili delle cascine;
scalza, seduta sul limitare
con la tazza di latte sui ginocchi
e un gran pane di frumentone ai denti
e con le compagne intenta a giocare.
Eri anche bella ed accarezzata
da tutti: quando il male
ti spense in un istante.
Ora t’hanno sepolta e più nessuno
stasera si ricorderà di te.
Tranne tua madre che non dormirà,
sospirerà guardando il tuo lettino
vuoto, accanto alla finestra nera
aperta sulla notte di primavera
pensando ch’eri così piccola …
(…sì, ma il becchino
ha sudato scavandoti la fossa
profonda come la sua vanga!
sì, ma non tanto
che tua madre per te non pianga!)
e che sei qui sotto, sola nella tomba oscura,
e che forse hai paura,
tu ch’eri così piccola
che bastava una lucciola
pendula ad uno stelo a farti lume
lungo la via,
così piccola e leggera
nella tua culla, che bastava a muoverla
l’onda dell’avemaria!
O povera innocente, dormi in pace!
Ché anche tu avrai, come ogni misero,
la tua fresca coroncina
di vetro, che il ragno,
che tesse tesse e non sa nulla,
ti rinnoverà ogni mattina;
e invece del tuo lettino bianco
nella camera nera
sei adagiata in una culla
d’odori di primavera,
e se non senti più la voce della tua mamma
hai l’usignolo che ti canta la ninna nanna.

Villa chiusa 
nella campagna romana

So d’una villa chiusa e abbandonata
da tempo immemorabile, segreta
e chiusa come il cuore d’un poeta
che viva in solitudine forzata.

La circonda una siepe, e par murata,
di amaro bosso, e l’ombra alla pineta
da tanto più non rompe né più inquieta
la ciarliera fontana disseccata.

Tanta è la pace in questa intisichita
villa che sembra quasi ogni cosa
sia veduta attraverso d’una lente.

Solo una ventarola arrugginita
in alto su la torre silenziosa,
che gira, gira interminatamente.

Charlot

Con la tua bombetta all’idrogeno
piena d’uova di pasqua e canarini;
con la tua finanziera rattoppata
che ha nelle tasche i resti dell’aquilone
impiccato al lampione del sobborgo
per rumoroso vertebrato fazzoletto;
con la tua giannettina di rabdomante,
scettro di re in esilio,
bastone del vescovo pazzo,
vincastro del pastore;
con le tue scalcagnate scarpe
buone da far bollire nella pentola
nei giorni della carestia;
pagliaccio schiaffeggiato dai milioni:
girerai sempre l’ironico disco
della luna dei poveri
col tuo tacco di eterno vagabondo,
usignolo fischiato dal silenzio,
sull’ipocrita cuore del mondo.

Arcobaleno 

È cessato or ora il temporale
e il prato odora
di menta glaciale.
È un immenso fruscio di pioggia
che sgocciola lenta lenta
lungo i tremuli fili d’erba,
dalle ciglia rosee dei fiori.
Laggiù il cielo sereno
è il grande innaffiatoio di smalto azzurro
col manico variopinto dell’arcobaleno.

Effetto di nebbia

Nella nebbia luminosa del mattino
la casa dolcemente indietreggia e s’appanna;
si piegan sullo stelo, nel giardino,
dolci fiori di spuma e di panna.

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Kjell Espmark, POESIE SCELTE da Quando la strada gira (1993), Illuminazioni e da Lo spazio interiore (2014) – La tradita: solo un contorno senza forza, A fianco del suo banco c’è il banco. Traduzione di Enrico Tiozzo, con una Nota critica di Giorgio Linguaglossa

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Kjell Espmark (1930) è tra i maggiori scrittori svedesi della sua generazione. La prima pubblicazione di poesia avviene nel 1956. È anche saggista, romanziere e drammaturgo, ha al suo attivo una sessantina di volumi che gli sono valsi la cattedra di Letterature comparate all’Università di Stoccolma, la cooptazione nell’Accademia di Svezia – dove ha ricoperto per un lungo periodo l’incarico di presidente della commissione Nobel – e una grande quantità di premi nazionali e internazionali. fra le opere più note ritroviamo libri come Vintergata (2007), Det enda nödvändiga – Dikter 1956-2009 (2010) e la sua autobiografia, dello stesso anno, I ricordi mentono, tradotto e pubblicato in Italia nel 2014. Con Aracne ha pubblicato il romanzo L’oblio. Sempre con Aracne ha pubblicato Lo spazio interiore, opera con la quale ha vinto il Premio Letterario Camaiore 2015 – Sezione Internazionale.

Nota critica di Giorgio Linguaglossa

Il problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa», così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente. È interessante andare a computare la topologia della poesia di Espmark; di solito si tratta di interni domestici ripresi per linee diagonali, sghembe e in scorcio; le storie esistenziali sono quelle della grande civiltà urbana delle società postindustriali; le vicende sono quelle del privato, quelle esistenziali, vicende sobriamente prosaiche di una prosaica vita borghese; non c’è nessuna metafisica, ma un domesticità e una prosaicità dei toni e delle situazioni Potremmo definire questa poesia di Espmark come una sobria e prosaica epopea dell’infelicità borghese del nostro tempo post-utopico. Emerge il ritratto di una società con Signore e Signori alla affannosa ricerca di un grammo di autenticità nell’inautenticità generale Qui da noi nel secondo Novecento hanno tentato questa direzione di sviluppo della poesia Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhuller (1985) e Franco Fortini con Composita solvantur (1995), da diversi punti di vista e con opposte soluzioni, ma sempre all’interno di un concetto di resistenza ideologica alla società borghese, la dimensione esistenziale in sé era estranea a quei poeti come alla cultura italiana degli anni Settanta Ottanta. Per il resto, quella problematica esistenziale che balugina in Espmark, da noi è apparsa per fotogrammi e per lacerti, in modo balbuziente e intermittente, qua e là. Più chiaramente quella problematica è presente nella poesia italiana del Novecento presso i poeti non allineati, in Alfredo De Palchi con Sessioni con l’analista (1967), in Helle Busacca con la trilogia de I quanti del suicidio (1972) ; in chiave interiorizzata, in Stige di Maria Rosaria Madonna (1992); in chiave stilisticamente composta in  Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996). Ma siamo già a metà degli anni Novanta. In ambito europeo è stato il tardo modernismo che ha insistito su questa problematica: Rolf Jacobsen con Silence afterwards (1965), Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) e, infine, Kjell Espmark con le poesie che vanno dal 1956 ai giorni nostri. Si tratta di un ampio spettro di poeti europei che hanno affondato il bisturi sulla condizione umana dell’uomo occidentale del nostro tempo. Presentiamo qui una scelta delle poesie del poeta svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo, lasciando alle poesie la diretta suggestione di quanto abbiamo appena abbozzato.

foto segnali stradali Possiamo paragonare la poesia di Espmark ad una fotografia asimmetrica, dove non ‘è un baricentro, non c’è un equilibrio, ma disequilibrio, frantumi, frammentazioni. Dove ci sono segnali stradali, nebbie che si intersecano con fumi di ciminiere e gas di scarico delle automobili, dove lo spazio verticale è ripreso orizzontalmente. Il vero segreto dell’arte contemporanea è il disequilibrio... magari invisibile ma pervasivo, che si diffonde in tutte le direzioni, come micro fratture che minano dall’interno anche il materiale più resistente. Il disequilibrio, l’estraneità, il perturbante, l’unheimlich, il rimosso, l’inaudito, l’equivoco, la crisi esistenziale vista dal vivo dei personaggi fanno parte integrante della poesia di Espmark.

Abbiamo bisogno di una poesia che abbia nei suoi ingredienti di base quelle «cose» che Lucio Mayoor Tosi ha chiamato con una brillante definizione il “fermo immagine”, il “girare intorno all’oggetto”, la frantumazione, la «fragmentation»; ed io aggiungerei, la sovrapposizione e l’entanglement delle immagini e dei frammenti. Il mondo globale ha prodotto e messo in circolo una miriade di frammenti incomunicabili. Quei frammenti siamo noi. Siamo frammenti de-simbolizzati. Siamo diventati Altro. Utilizzare e assimilare questi frammenti è un atto di vitale importanza non solo per la poesia ma anche per il romanzo. Infatti, ho fatto due nomi di romanzieri che hanno scritto romanzi a partire dalla raccolta di frammenti: Orhan Pamuk e Salman Rushdie. I poeti italiani sembrano alieni da questa impostazione delle problematiche del «poetico». In questi ultimi anni del nuovo millennio sembra configurarsi una nuova sensibilità per la poesia che abbia il suo punto centrale nella problematica dell’esistenza. Non è un caso che questa problematica sia al centro delle riflessioni di questa rivista. Anche in Italia qualcosa sembra muoversi.
Utilizzare i “frammenti” significa piegare la sintassi e la fonetica alla «natura» dei frammenti, cambiare il modo stesso di costruzione del verso libero modulato sull’antico calco endecasillabico, significa fare i conti con un nuovo concetto di “spazio” e di “tempo” metrico, significa la velocizzazione del lessico, e il suo rallentamento…

kjell espmark

Kjell Espmark

Leggiamo questa poesia dello svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo. Me l’ha mandata il grande traduttore dallo svedese. Leggiamola. E osserviamo la frasi sincopate, i repentini cambi di marcia, le impennate delle analogie, le perifrasi interrotte; i punti di vista che si intrecciano e si accavallano, i fermi immagine, le riprese etc.
Voglio dire che qui abbiamo qualcosa di nuovo come impianto di una struttura, una struttura in versi liberi che perde continuamente il proprio baricentro, che perde l’equilibrio, e che proprio grazie a questa continua perdita di equilibrio metrico e sintattico, paradossalmente, la poesia riesce a mantenersi in un assai precario e nuovo equilibrio. Ecco, questo è un esempio del modo di scrivere una poesia assolutamente moderna.

Ella è dunque stata un’altra per otto anni
senza saperlo.
Ogni giorno c’è stato un equivoco.
Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo.
L’inaudito non è nel guardare all’improvviso
in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti.
L’inaudito è vedere un pomeriggio
scambiati otto anni della propria vita.
I figli l’hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore
è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti
una comunanza piena di antenne vaganti.
Solo lei ne è rimasta fuori.
II prezzo per la calma di tutti splendenti come maggiolini
è la sua esistenza falsificata.
Ella guarda il volto trasparente nello specchio.
È del tutto estraneo.
Le mani che diventano bianche intorno al lavandino
non più del suo proprio biancore
non sono sue. Lei non può trattenersi.
E vomita tutti i ricordi menzogneri:
questo volto semichiaro su di lei
sciolto in desiderio e assicurazioni
la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate
questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo
quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento.
Ella vomita tutta questa vita falsa
queste giornate dal tanfo di gusci di gambero.

da Lo spazio interiore, traduzione di Enrico Tiozzo (Aracne, 2014)

La tradita: solo un contorno senza forza

Lei è dunque stata un’altra per otto anni
senza saperlo.
Ogni giorno c’è stato un equivoco.
Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo.
L’inaudito non è nel guardare all’improvviso
in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti.
L’inaudito è vedere un pomeriggio
scambiati otto anni della propria vita.
I figli hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore
è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti
una comunanza piena di antenne pendolanti.
Solo lei ne è rimasta fuori.
Il prezzo per la calma di tutti splendente come maggiolini
è la sua esistenza falsificata.
Si guarda il volto trasparente nello specchio.
È del tutto estraneo.
Le mani che diventano bianche intorno al lavandino
non più del suo proprio biancore
non sono sue. Lei non può trattenersi.
E vomita tutti i ricordi menzogneri:
questo volto semichiaro su di lei
sciolto in desiderio e assicurazioni
la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate
questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo
quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento.
Lei vomita tutta questa vita falsa
questi giornate dal tanfo di gusci di gambero.
Infine siede sul pavimento del bagno
del tutto messa a nudo. Nulla è rimasto degli otto anni.
Solo il sapore di metallo in bocca.
Dovete restituirmi i miei anni!
I bambini se la cavano, inaspettatamente adulti, imbarazzati
dalla retorica, da questi resti di disperazione’
che nemmeno ha parole proprie.
E gli occhi dei vicini nelle maioliche del bagno!
Lei siede avvolta intorno al suo vuoto doloroso.
Cerca di proteggere la sua povertà con la schiena contro tutti quelli che hanno saputo.

A fianco del suo banco c’è il banco

Lei ascolta con tutto il corpo.
Le labbra dell’insegnante si muovono. E lei sente
ma manca tuttavia le sue parole di qualche millimetro
come quando si cerca di prendere una pietra nell’acqua.
C’è un altro mondo, a un palmo di distanza dal suo.
Proprio vicino alla carta della Svezia
pende una carta sulla Svezia –
stesse città e stessi lembi di laghi
stessi campi gialli e verdi
eppure un regno irraggiungibile che risplende.
Adesso discutono, si muovono le bocche.
Certo lei sente. Ma ciò che si dice veramente
passa scoppiettando oltre le sue orecchie
verso chi abita nel paese giusto.

Eppure li può catturare nella pausa
quando raffreddata racconta come presero il padre
che lottava, tirato in ogni direzione.
E la madre che cercava di nascondersi tra le mani.
Tutto viene venduto per venti risate cianciate.
Racconta a gambe aperte, con le calze calate.

Ma nulla viene tolto al suo successo.
Quando poi prende posto nella loro conversazione
incontra quel diaframma sottile
che separa il mondo dal mondo
e quel sorriso che fa così male
perché è fatto per non essere notato.
Se potesse infiltrarsi nella loro Svezia
e cautamente sedersi in mezzo a loro
allora la sedia non diventerebbe una sedia
e lei stessa non diventerebbe reale?
Un passo a lato, non servirebbe di più.
Ma non trova neanche una parola per quel passo.
E la classe sa: lei non la troverà mai.
La lingua tra queste quattro mura
sente la sua vita che verrà.
Lei può lottare fino a smembrarsi tirata in ogni direzione.
In questa grammatica gentilmente inflessibile
ciascuno ha il suo posto finale.

da Quando la strada gira trad. Enrico Tiozzo, Ed Bi.Bo.1993

Impromptu

È un giorno esploso in pezzi.
Abbiamo litigato da annerire l’intonaco
ma abbiamo ritrovato la strada
verso di te, verso di me.
Mi sollevo un po’ in modo che la pelle sudata
frusciando si stacchi dalla pelle
e metto il mio cuore al posto giusto nel tuo:
un piatto di terracotta sopra all’altro.

La finestra è aperta: maggio è blu.
Nella trave sopra noi avanza
la morte un millesimo di pollice, con uno schiocco.
Ma il ciuffolotto rosso sul ramo nudo
canta, canta.
Il piumaggio del petto si muove nel vento.
Quanto più grande è il canto
del corpo tremante!

L’apocalisse silenziosa

Da oblio e indifferenza
vengono i quattro cavalieri
così lisi da secolari riproduzioni
che gli stanchi lineamenti
si possono prendere per pieghe della carta.
I loro zoccoli così silenziosi che la rugiada è intonsa,
il rumore discreto come il russare di un rondinino.

Il primo agita una frusta di paglia
e il verde della giungla si fa bianco.
Il secondo immerge il suo bastone nel fiume
e i pesci affiorano con la pancia all’aria.
Il terzo tira una freccia contro lo spazio
e una luce ignota filtra per la ferita
meravigliato si guarda il braccio che si macchia.
Il quarto apre il suo sacco sulle case
e i molti si accoppiano, ciecamente come mosche,
per riempire la terra ancora e ancora.

Adesso i quattro corrono per la strada del villaggio,
silenziosi come una nuvolea di polvere.
La nostra lingua
può a malapena vederli e fiutarli.
Solo il sonno ha parole
per ciò che a lungo abbiamo attesa
ma che non osiamo riconoscere.
Il dormiente fa un gesto
come per festeggiare o per difendersi
e senza accorgersene cessa di respirare.

.
Illuminazioni

1.
Stavo davanti alla cattedrale contadina di Lau,
ho aperto di un dito la porta,
preparato al bianco fresco della stanza
e sono impietrito. Forse era l’acustica
e le voci dei visitatori insieme con la fessura –
io non ho alcun bisogno di spiegazioni.
Ma tutta la chiesa era una potente bocca
mormorante di voci di angeli.
non c’era alcuna misericordia in quella musica.

2.
I bambini siedono uno di fronte all’altro,
stranamente bianchi
in una stanza bianca davanti a un pianoforte bianco.
È la nostra sala da pranzo e tuttavia non lo è.
I loro capelli sono così chiari che lo sguardo non li regge
essi ridono bassi e acuti
inaspettatamente si accordano.
Anche la musica sembra bianca.
I bambini possono avere quindici e dodici anni.
Difficile decidere
perché non pesano niente
e l’immagine nega un contesto.
Ma c’è qualcosa di strano nella luce.
È troppo chiaro
anche per queste finestre alte.
Allora si vede come le carte bianche alle pareti
scuriscono nei bordi estremi, s’accartocciano
e fanno passare una fiamma, sempre più.

3.
Con il manico del mio ombrello colante
batto sul sarcofago
e ti invito ad uscire
dalla terza fila
nel sotto Escorial.
Silenzio. La pioggia lassù.

Capisco che mi aspetti
nel tuo regale studio.
La scala serpeggia attraverso gli anni.
Il tuono si raccoglie prima della visita.

4.
In mezzo alla vita questa porta nella tappezzeria:
deve esserci sempre stata
sebbene non ce ne siamo mai accorti.
La apro
– il rumore è come quando si strappa un lenzuolo –
e l’odore di anni inibiti esce con la muffa.
Là dietro c’è una donna mummificata
in una stanza più piccola di un armadio.
I suoi occhi cono al di là di ogni conversazione,
la figura sfocata delle tele di ragno.
Le labbra rugose sussurrano,
bianche di rabbia:
– Non potevi lasciarmi morire!

5.
Siedo sulla scala e «mi» rado.
L’acero che nasconde la strada e il mondo
è un litigioso romanzo russo
in cui c’è la storia di tutto il podere.
Nel capitolo di oggi c’è qualcosa in giuoco.

Tolgo uno strato di schiuma e barba:
non c’è alcun volto dietro.
Devo accettarlo
come la mancanza di un contatto linguistico
con la rondine che proprio ora va sotto il cornicione:
un arco jet che atterra su una stazione di lavaggio auto
ma non vuole accettare una metafora.

È presto, è prima del testo.
Le betulle sono attraversate dalla luce.
È così chiaro che il verde dell’erba si arrende.

«Solo se tu rinunci al tuo nome
puoi uscire fuori nel paesaggio.»

Il cerfoglio vaga, una possibile salvezza.
«Hai solo alcuni minuti di tempo».
Il coniglio nell’erba sta fermo,
la sua gola pulsa:
dice di no ad ogni intervista.

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L’esordio poetico di un narratore: dieci poesie da “Rifiuto di obbedienza” di Antonio Debenedetti (Parenti Editore, Firenze, 1958). Nota critica di Marco Onofrio, con stralci dalla Prefazione di Giorgio Caproni

debenedetti

Antonio Debenedetti

Dal volume monografico di Marco Onofrio: “Nello specchio del racconto del racconto. L’opera narrativa di Antonio Debenedetti” (EdiLet, 2011), pp. 26-28:

L’esordio assoluto [di Antonio Debenedetti] data 1958, ed è in poesia, con la silloge Rifiuto di obbedienza, prefata da Giorgio Caproni. In questo libriccino giovanile già si sente il sobbollire acido di una lingua che ferve e che spumeggia, in procinto di farsi incandescente:

Piange mare / sbuffi spumosi, / chiareduovo. / Autunnio mare / friabile madreperla. / «Angosciabar» / noi deflagrati in Jazz, / l’ebreo a chiavistello / negli occhi poeta di sesso. / Ghetto, / tu Ghetto colpa di Ghetto. / Il mare incosciente / come fanciulla puttana, / si sdraia largo.

E ancora:

Amore manovale / spumeggiante come rimorto tufo, / quieta meraviglia / di cosa tremula. / La madre la figlia / l’incanto di una cocciniglia. / Sifiliticamente venali / nel quieto odore dell’amido / sparse nel verde prato / pavido di vento.

La scrittura è un riflesso condizionato che consegue, in modo quasi automatico, dalle riserve di energia letteraria accumulata attraverso gli incontri, le suggestioni, le innumerevoli letture. È la risposta più coerente che Antonio Debenedetti può e deve, fin dall’origine, alla propria esistenza. È il corollario della propria storia e lo sbocco naturale di certe premesse. E infatti si manifesta nei termini di una vera e propria inevitabilità: come quella di un tuono che rimbomba dopo il lampo che è già scoccato. C’è un furore linguistico esagitato e incontenibile che deve avere sfogo. Lo scrittore ha bisogno prima di sparare a ruota libera la sua potenza, per poi aggiustare il tiro e trovare le strade più sue. Come un cantante che prova la voce e ne tenta l’estensione, fino ai limiti estremi, prima di riconoscere il percorso di stile più congeniale alla propria natura. Sono poesie sospese, e in qualche modo irrisolte, fra un surrealismo d’antan con aperture “metafisiche” (Savinio, più che de Chirico) e un espressionismo barocco alla Scipione, mentre si sente, qua e là, un velato battito ungarettiano. Una lingua mossa, colorita, linguacciuta, sferzata da neologismi, che si innalza a vertici visionari (“luna / drago dalle poppe d’oro”) o sfuma in trasparenze sfarinate (“la sera è un faro / nel cielo scrosciante / polvere di vetro”), per poi, dal cuore stesso delle accensioni eidetiche e sonore, ricadere vertiginosamente verso il corporeo, il viscerale, il grottesco e l’osceno (“Tramonto. / Sensuale una scorreggia lunga / sale / dai morbidi violini profumati / cavea attendibile: / patriota un inno anale”). Ma percorre la raccolta un che di querulo, di involuto, di artefatto: una mancanza di esperienza umana, un rifare il verso, un orizzonte che deve ancora schiudersi. C’è da superare l’ostacolo di un certo retaggio da enfant gâté (malgrado l’infanzia non proprio gioiosa) della buona borghesia intellettuale, che gli fa scorgere “nel perimetro d’un pantano (…) Walhalla materni”. E poi, a tratti, un anfanare sordo: il fermento del grumo linguistico in formazione. Si sente che Antonio si sta ancora cercando, che l’autore è ancora di là da venire, però qualcosa c’è: l’annuncio di un talento lirico-espressivo. Debenedetti, intanto, una cosa a se stesso l’ha già chiarita: l’abbandono della poesia e il passaggio alla narrativa. Comincia a preferire la narrativa perché mette le carte sul tavolo, perché è chiamata alla verifica di un rendiconto razionale: implica e impone la rintracciabilità delle cose che si dicono e dello stile che si usa. La poesia, invece, spesso gioca con le carte nascoste: può permettersi di essere volutamente indecifrabile, proprio perché non è chiamata a non esserlo. Ma in realtà la sostituzione è meno traumatica di quel che sembra: leggendo la Mansfield capisce che può continuare a fare poesia utilizzando, anziché i versi, uno strumento estremamente versatile, interessante e rappresentativo: il racconto breve.

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Dalla prefazione di Giorgio Caproni:

Conobbi la prima volta Antonio quando ancora, coi pantaloni corti, stava preparandosi agli esami di ammissione alla scuola media. I suoi genitori, fidando troppo nella mia amicizia e nelle mie attitudini didattiche, mi avevano pregato di metterlo sulla buona strada. Fu nel ’46 o nel ’47, non ricordo con precisione. Ma ricordo la sua intelligenza (un acido che bruciava, appena aperte, le pagine del Sussidiario) era il più grosso impedimento alla mia buona volontà. Il mondo era appena uscito dal terremoto e dall’incendio che sappiamo, e Antonio, nato non ad occhi chiusi in quell’inferno, sapeva un poco di zolfo. (…) Oggi, dopo dieci anni, incontro ancora Antonio, e con un fascicolo di versi piuttosto strani, i quali mi hanno dato netta l’impressione, più che dei soliti fiori, di funghi anzichenò velenosi nati nello sfasciume di un bosco parrasio, evidentemente, e almeno per lui, già decrepito, anche se per noi, fino alla vigilia, così ricco d’incanti (…). Vi riconosco la natura della sua intelligenza, corrosiva più che costruttiva (medioevale, per ignoranza o rifiuto di quanto è armonicamente humanum), e irregolare e pungente come un piccolo pinnacolo gotico, sul quale però si sia esercitata (penso alla Carota della Sapienza) l’ironia d’un alunno del Borromini. (…) È una sorta di costituzionale incapacità di “abbandonarsi” al sentimento e ai teneri moti del cor profondo, propria di chi ha dovuto, a sue spese, imparare a diffidare dell’uno e degli altri, e che sembra intirizzir la mano nell’attimo stesso in cui il canto (dopo tutto ancora sospirato) stava per nascere.

caproni

Giorgio Caproni

SPLEEN

Muri d’orto
immonde fioriture,
estraneo giaciglio
non porto ubriaco
di torrida sabbia;
stranieri
il viale, l’anima, il tempo
a questa angoscia.
Ma viene vento
di coccolona sera
ed oblio di città
di ritorni
di smarrite occasioni.

*
Piange mare
sbuffi spumosi
chiareduovo.
Autunnio mare
friabile madreperla.
«Angosciabar»
noi deflagrati in Jazz,
l’ebreo a chiavistello
negli occhi poeta di sesso.
Ghetto,
tu Ghetto colpa di Ghetto.
Il mare incosciente
come fanciulla puttana,
si sdraia largo.

NOSTALGIA DI SCIROCCO

Più a Sud
soffrono vertigini
per l’alto, luminoso,
correre della luna.

*
Amore manovale
spumeggiante come rimorto tufo,
quieta meraviglia
di cosa tremula.
La madre la figlia
l’incanto di una cocciniglia.
Sifiliticamente venali
nel quieto odore dell’amido
sparse sul verde prato
pavido di vento.

LINFA SUDICIA E VITALE

Nel meriggio astrale
sei
il vago viola
d’una mora
attinta
allo slabbrato sole.
In Roma
di pietre feconde
di gatti estetici
di maschioni fattucchiere,
madre puttana
sei
come un caldo stagno
antico.

NOTTE

Nutrice notturna d’angosce
la luna,
drago dalle poppe d’oro.

VICOLI

In questa Cabala
la fuga illuminata
delle finestre vuote
come un ascensore
di angeli ruffiani.
Favola
di uno scenario crudele.

IL BIVIO

Piangere azzurrini quasi squillanti
tra muro e fosso
nel nitore d’ossi di seppia.
Fluiscono le cose semplici
come passano lucertole,
nel perimetro d’un pantano
scorgere
Walhalla materni.
Nel ventre della fattucchiera virile
filiformi spasimi
nello spazio d’un polveroso infinito.

SERALE ACCORATO

Mezza donna mezza ragazzina
mezza libidine
ed una gonna turchina.
Natichella paradisiaca
sanità accoccolata
nel rombio dei gufi di ghetto.
Corrono topi sulle rive del Tevere
Corrono monachelle nel ventre a Dio.
Tramonto.
Sensuale una scorreggia lunga
sale
dai morbidi violini profumati
Cavea attendibile:
patriota un inno anale.

GIÙ DAL GIANICOLO

Città
tenera assassina.
Vomitata:
rintocco di campana
in tensione ghirigori.
Maschioni
folgorati e petrigni
seducono la schiena
nel ridere per caso
automatici.

PanoramaDalGianicolo

Panorama di Roma dal Gianicolo

[Fonte Wikipedia] Antonio Debenedetti. Figlio del critico Giacomo Debenedetti e fratello della storica dell’arte Elisa, risiede dalla primissima infanzia a Roma, dove tuttora vive. Avvia il suo impegno come critico letterario sulle pagine del “Punto” e l'”Avanti!” alla fine degli anni Cinquanta. Dal 1963 collabora con il “Corriere della sera”, in cui svolge tutta la sua carriera di giornalista divenendo inviato speciale per la cultura, ad eccezione di una breve interruzione in cui passa a “La Stampa”. Ha collaborato con numerosi programmi radiofonici e televisivi (Rai Tre, Rai Educational) dedicati ai libri. Negli ultimi anni ha ideato e condotto “Cartoline dal paese dei libri” su Radio Città Futura. L’opera narrativa di Debenedetti vede l’affiancarsi di romanzi – In assenza del signor Plot (1976); La fine di un addio (1985); Se la vita non è vita (1991, Premio Viareggio); Un giovedì, dopo le cinque (2000, finalista Premio Strega) – e raccolte di racconti, tra le quali ricordiamo: Ancora un bacio (1981); Spavaldi e strambi (1987); Racconti naturali e straordinari (1993, Premio Selezione Campiello); Amarsi male (1998); E fu settembre (2005); In due (2008); Il tempo degli angeli e degli assassini (2011). Nello specchio del racconto. L’opera narrativa di Antonio Debenedetti, di Marco Onofrio (EdiLet, Roma, 2011), è a oggi la più completa monografia critica sullo scrittore.

 

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PASSIONE TANGO – una parodia di F. T. Marinetti e cinque poesie italiane sul “pensiero triste che si balla”

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«Il segreto del tango sta in quell’istante di improvvisazione che si crea tra passo e passo. Rendere l’impossibile una cosa possibile: ballare il silenzio». Carlos Gavito

«[il tango è] un grande abbraccio magico dal quale è difficile liberarsi. Perché in esso c’è qualcosa di provocante, qualcosa di sensuale e, allo stesso tempo, di tremendamente emotivo. Il tango è un linguaggio in cui convivono tragedia, malinconia, ironia, amore, gelosia, ricordi, il barrio amato, la madre, pene e allegrie, odori di bordelli e di attaccabrighe». J. L. Borges

tango1

ABBASSO IL TANGO! di Filippo Tommaso Marinetti (11/1/1914)

Un anno fa, io rispondevo ad una inchiesta del “Gil Blas” denunciando i veleni rammollenti del tango. Questo dondolio epidermico si diffonde a poco a poco nel mondo intero, e minaccia di imputridire tutte le razze, gelatinizzandole. Monotonia di anche romantiche, fra il lampeggìo delle occhiate e dei pugnali spagnuoli di De Musset, Hugo e Gautier.
Ultimi sforzi maniaci di un romanticismo sentimentale decadente e paralitico verso la Donna Fatale di cartapesta.
Goffagine dei tango inglesi e tedeschi, desiderii e spasimi meccanizzati da ossa e da fracs che non possono esternare la loro sensibilità. Plagio dei tango parigini, e italiani, coppie-molluschi, felinità selvaggia della razza argentina, stupidamente addomesticata, morfinizzata, e incipriata.
Possedere una donna, non è strofinarsi contro di essa, ma penetrarla.
– Barbaro!
Un ginocchio fra le cosce? Eh via! Ce ne vogliono due!
– Barbaro!
Ebbene sì, siamo barbari! Abbasso il tango e i suoi cadenzati deliqui. Vi pare dunque molto divertente guardarvi l’un l’altro nella bocca e curarvi i denti estaticamente l’un l’altro, come due dentisti allucinati? Strappare? … Piombare? … Vi pare dunque molto divertente inarcarvi disperatamente l’uno sull’altro per sbottigliarvi a vicenda lo spasimo, senza mai riuscirvi? … o fissarvi la punta delle vostre scarpe, come calzolai ipnotizzati? … Anima mia, porti proprio il numero 35? … Come sei ben calzata, mio sogno! … Anche tuuuu! …
Contagocce dell’amore. Miniatura delle angosce sessuali. Zucchero filato del desiderio. Lussuria all’aria aperta. Delirium tremens. Mani e piedi d’alcolizzati. Mimica del coito per cinematografo. Valzer masturbato!
Tango, rullio e beccheggio di velieri che hanno gettata l’ancora negli altifondi del cretinismo. Tango, rullio e beccheggio di velieri inzuppati di tenerezza e di stupidità lunare. Tango, tango, beccheggio da far vomitare. Tango, lenti e pazienti funerali del sesso morto! Oh! Non si tratta certo di religione, di morale, né di pudore! Queste tre parole non hanno senso, per noi!
Noi gridiamo Abbasso il tango! in nome della Salute, della Forza, della Volontà e della Virilità.

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FANTASIA SU UN QUADRO D’ARDENGO SOFFICI di Dino Campana

Faccia, zig zag anatomico che oscura
la passione torva di una vecchia luna
che guarda sospesa al soffitto
in una taverna café chantant
d’America: la rossa velocità
di luci funambola che tanga
spagnola cinerina
isterica in tango di luci si disfà:
che guarda nel café chantant
d’America:
sul piano martellato tre
fiammelle rosse si sono accese da sé.

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TANGO di Cesare Pavese

Mi son visto una notte in una sala chiusa
e l’abbraccio dei corpi che danzavano,
sollevati e schiantati dalla musica,
sotto la luce livida che filtrava nei muri,
di lontano, mi soffocava il cuore
come in fondo a un abisso, sotto il buio.
Tra bagliore e bagliore,
giungono spaventose
scosse di una tempesta,
che impazzisce là in alto,
sopra il mare.
Mi giungevano a tratti,
pallide e stanche,
le ombre dei danzatori,
vibrazioni di un mare moribondo.
E vedevo i colori,
delle donne abbraccianti
illividirsi anch’essi,
e tutto rilassarsi
di spossatezza oscena,
e i corpi ripiegarsi,
strisciando sulla musica.
Solo ancora splendeva
su quella febbre stanca
il corpo di colei
che fiorisce in un volto
tanto giovane e chiaro
da fare male all’anima.
Ma era solo il ricordo.
Io la guardavo immobile
e la vedevo, dolorosamente,
nella luce del sogno.
Ma passava strisciando,
senza scatti più, languida,
con un respiro lento
e mi pareva un gemito d’amore,
ma l’uomo a cui s’abbandonava nuda
forse non la sentiva.
E un’ubbriachezza pallida
le pesava sul volto,
sul volto tanto giovane e stupendo
da fare male all’anima.
Tutti tutti tacevano di ebbrezza,
travolti dentro il gorgo
di quella luce livida,
posseduti di musica,
nelle carezze ritmiche di carne,
e stanchi tanto stanchi.
Io solo non potevo abbandonarmi:
cogli arsi occhi sbarrati,
mi fissavo smarrito
su quel corpo strisciante.

(23-26 giugno 1928)

tango4

TANGO di Mario Luzi

Poi sulla pista ardente
lontanamente emerse
la donna spagnola,
era un’ombra intangibile in un soffio
di musiche viola il suo sorriso.

Percepiva l’accento
della notte col senso melodioso
del suo passo e quel ciclo
di libertà infinita era l’evento
triste della sua vita senza scampo.

ARGENTINA-TANGO-STAGE

IL TANGO DELLE INCUDINI di Aldo Onorati

Eri triste una volta. Ora hai compreso
che l’ombra è delle nuvole, che il sole
è sempre quello.
Ma la fuga dei giorni e le speranze
schiacciate dal tacco che danza
(nascemmo incudine!)
la danza e le balere (strisciante speranza
battuta serpe a primavera
finzioni a paralume dei tabù, serrato il monte
di Venere fra quelle due colonne
al mio sangue proibite).

Spegni la radio! Il mangiadischi
coperto dal motore
le ginocchia rotonde
avvicina la veste
serpi schiacciate da tacchi a spillo
da tacchi larghi
(chi balla sopra di noi? Attorcìgliati
a qualche gamba, presto! Mordi o sarai schiacciata!)
Il tuo profilo fra i vetri e le insegne. Ginestre
sopra il grembo e sul cuore. Un giorno
ormai sepolto nella memoria
(il momento supremo, i rantoli, le unghie
a sguainare la schiena, i morsi e tante
generose bugie…)
un giorno
stretti e lontani, sul pavimento, disfatti
(inaciditi i sudori, i battiti
convulsi)
un giorno ti gridai:
«Negli spruzzi del fango son racchiusi
tutti i frantumi della nostra vita».

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TANGO PERPENDICULAR di Stefano Benni

È nel pavimento lavato dove brillano
I pesci d’oro delle scarpe nuove
È nel sudore sulla fronte del violinista
È nel Cupido dal dente cariato
che fa sedere le coppie, aspettando la mancia
È nel bicchiere di Tempranillo
dove lui desidera lei, attraverso un rosso inferno
È nella segatura ben sparsa,
perché nessuna lacrima vada persa
È nel primo sopraggiungere del tango
È nella notte curiosa dietro la porta chiusa
Ma se non ti tengo tra le braccia
Tutto questo è una cartolina odorosa
Per un barbiere che dorme
Per un barbiere che sogna

È nella dama piccola che si appoggia
Al cavaliere come a un parapetto di balcone
E guarda ombre di passi passare
In un fiume di neon e di fumo
nel suo grande music-hall personale
È nel sorriso dello scemo che non può ballare
ma dentro di sé conquista e seduce
La bionda triste, con l’uomo al fianco
che parla di sacchi di caffè, e non ama il tango
È nel gesto di Carlos che spalanca
Il bandoneon, come Mosè che apre il mare
È nel frusciare di una gonna, in un attimo di silenzio
È nell’odore di rosa, calzini ed assenzio
Ma se non ti bacio come si baciano i ragazzi
Tutto questo è nostalgia, per un mare dipinto
Per un marinaio senza più nave
Per un marinaio senza più vento

È nella tosse roca del ballerino migliore
Che indossa la morte, come un abito ben fatto
E nella vecchia coppia che danza
“Enganadora” per la millesima volta
È nella vecchia ferita da coltello
il giorno che qualcuno difese qualcuna
Nelle risate troppo forti e smargiasse
Nelle farfalle che si uccidono sulle lampade rosse
È nella grazia e nell’arroganza
Di questo contrappunto, che ci trascina
nei campi di luna, oltre la porta
Ma se non mi sei vicina, amore
Tutto questo è uno spartito vecchio
Dentro una vecchia valigia di carta
Dentro una vecchia valigia sporca.

 

 

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JUNZABURŌ NISHIWAKI. CINQUE POESIE TRATTE DA “FAVOLE MODERNE”. Un esempio di Poesia modernista giapponese, con traduzione di Ornella Civardi

Nishiwaki_Junzaburo

Junzaburō Nishiwaki (西脇 順三郎, 1894-1982) poeta giapponese, saggista e critico, specializzato in modernismo, dadaismo e surrealismo, è stato anche un abile pittore di acquarelli. Studia pittura con Fujishoma Takeji e Kuroda Seiki, ma deve rinunciare alla carriera artistica per la morte improvvisa del padre. All’Università studia latino, inglese, greco e tedesco, dimostrando una straordinaria attitudine alle lingue, e scrive la sua tesi di laurea direttamente in latino. Pubblica alcune poesie in inglese, pur avversando la poesia del romanticismo, in particolare nella forma estenuata e nuvolosa in voga nel Giappone del suo tempo. Famosa è la sua traduzione in giapponese della The waste land di Eliot. Nishiwaki sperimenta già giovanissimo nuove tecniche poetiche e inizia a scrivere poesia in giapponese. Nel 1927 pubblica alcune poesie su una rivista di poesia surrealista giapponese; l’anno seguente, con altri collaboratori, fonda la rivista Shi to Shiron («Poesia e Teoria poetica») e diventa il leader della nuova poesia giapponese. Nel 1933 pubblica Ambarvalia, una raccolta che mette insieme i tentativi poetici fatti fino a quel momento. Nel 1937, dopo lo scoppio della seconda guerra cino-giapponese, Nishiwaki cessa improvvisamente le pubblicazioni, annunciando l’intenzione di dedicarsi allo studio della poesia classica. È tra i 14 poeti arrestati con l’accusa di sedizione, dopo l’introduzione della Legge di mobilitazione nazionale: infatti la censura del governo interpreta alcune delle sue poesie surrealiste come rivelatrici di una posizione critica. Sconosciuto in Italia, fatta eccezione per il serio contributo dato in senso conoscitivo dalla rivista «In forma di parole» con il citato volume cui ci riferiamo, in Giappone Nishiwaki è ampiamente riconosciuto come il fondatore e maestro della poesia giapponese moderna. I critici tendono a sottolineare le influenze europee nella sua poesia, il che ha portato altri a mettere in discussione lo “stile giapponese” del suo canone, in particolare della sua poesia più tarda. Per esempio, Osea Hirata suggerisce che Nishiwaki sia tanto giapponese quanto occidentale, e che appartenga nello stesso tempo a entrambe le letterature. Hirata, critico inglese del lavoro di Nishiwaki, ha anche indagato la natura “traslazionale” del suo linguaggio poetico. Nishiwaki è morto all’età di 88 anni, il 5 giugno 1982, per infarto cardiaco.

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Per la strada di Kōshū

Discendi un lungo tratto ed ecco stridìo di cicale
Le bacche rosse ai viburni
Il ratto delle Sabine, ovvero una casa di sasso nello stile di Corinto
Guarda, ci sta il vecchio fabbricatore di tamburi
Col pigionante, maestro di francese
Che un giorno – dopo melanzane marinate e cavedani in sashimi
A furia di tracannare vino di canna
Ci si paralizzarono le lingue

Versi

Occhio intento al mondo
Trasparenza d’ali di cicala
Ormai solo l’occhio resta
Nell’uomo uccello
Dalla bella testa!
Per la fatale china lamento
Estate di rose
Qualcuno che ha portato fiori di malva
Terra color albicocca
E qualcuno che ha chiesto col braccio proteso indicando
— È quella
Casa tua?
Nel gomito del corso superiore del mercurio
Eruzione dorata di fiori d’altea
Tra le gambe della donna che s’arrampica sull’albero
Estasi a ventaglio
Inarcata crisi
Il giorno che la formica sale lungo il mirto crespo
Qualcuno in ozio sul ciglio della strada

Malinconia di Dolben poeta della natura

Stanza prima

Su gialle pasture
Sto in poltrona
Una foglia di trifoglio appiccicata nel mezzo della fronte
Lascio lo sguardo naufragare lontano

Affacciarsi da un arbusto di fatsia
E sorridere non è comodo ma insomma
Si può fare

Sdraiato come una forbice d’oro
Dentro un tappeto steso nel deserto
Ogni momento scruto verso la moschea
Che avvisa se di fumare il sigaro sia arrivata l’ora
Ma dalla torre non viene melodia

Stanza seconda

Colgo viole come un kōtō a sette corde nei campi a primavera
Rovescio il mare in una coppa di zaffiro
E ci affondo la basetta

Bevendo lo sciroppo
Il Serafino vola in cielo
Nero affonda clangore di bronzo
Punto il suo mento verso la donna
O custode levigato!

Stanza terza

E per finire sono diventato gommagutta

Ifigenia mutilata

1

È venuta
Color fiore di biancospino
Violetto di lillà
Chiome bionde
La donna androgina

Cristallo di benzina
Picasso
Nella catena delle sue metamorfosi
Trova ridendo la rosa

2

Storia d’una fessura tra le natiche
Nel blocco di pietra
Testa e braccia
Divelte
Una folta ciocca bionda
Recisa via
Rimane appiccicata sulla schiena
Brama di un’amputata dea di babilonia
Il sentimento del pensiero
Inatteso viene avanti.
Un’estate di sconforto viene avanti
Come viene l’ape ai fiori della vite

3

Hooo
Accarezza col fiato la finestra
Coppa di ghiande e spini
– Ancora non ho fatto mai l’amore
Ma la voce e la figura d’un uomo
M’inseguono da due giorni –
Ha scritto per lettera
La signora preoccupata

Su un disegno di Matisse

Nella nobile dimora antica provveduta
Di terrazza su Rue Bois
Prendendo colazione discorrevo
Con Madame Goiron
Intima di Jean Cocteau
Frumento nella campagna franca
E papaveri rossi dappertutto
Cantava il rossignol
Vigneti lungo la Ronne
Contadini ciarlanti
Con cappelli alla Van Gogh
Né dimentico poi
Sulle rose di rovo
La cesta d’albicocche
Per il vecchio che spiana delle donne
Ogni fossetta di mento o d’ombelico
Ha trovato il liscio disparito l’uomo
E come colui che inventi
Color di carne può ben essere chiamato
Alla festa dell’estate
Liscio, sogno sommo dell’umana stirpe!
La donna dell’estate – ape d’estate
Trafigge le pupille del reale
Dove sono gigli gialli
E l’alba tigre
Viso di donna o matita che compone sull’ardesia
Forse spigolo di gemma di tra volteggianti foglie di platano
Una donna
S’avvicina
Tra le foglie del platano
Viene avanti
Dritta verso di noi
E nel close-up scompare
Né l’uomo che attendeva la richiama
Prende una sigaretta
Alza le palpebre
E fissa la corteccia

nishi

L’opera poetica Favole Moderne, a cura di Ornella Civardi, è apparsa in Italia su «In forma di parole», anno XXV, IV Serie, n. 1, gennaio-febbraio-marzo 2005.

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Aldo Onorati, dal libro “La voce e la memoria” (EdiLet, 2015): L’ULTIMA INTERVISTA A DIEGO FABBRI

Aldo Onorati (insieme allo scrittore Raffaele Di Paolo) si è incontrato con Diego Fabbri poco tempo prima della sua scomparsa, avvenuta a Riccione il 14 agosto 1980. L’intervista che l’autore di “Processo a Gesù” ha rilasciato può quindi considerarsi una sorta di testamento spirituale.

Diego-Fabbri

Diego Fabbri

Quali possibilità offre il teatro?
– Il giovane trova nel teatro la prima forma suggestiva per entrare in relazione con gli altri e con il mondo, il primo modo di prendere coscienza di sé e di affermarsi per quello che è. È a mio parere un modo quasi inconsapevole di esercitare “la conoscenza”, e di viverne tutte le rivelazioni. Conoscere gli altri e il mondo attraverso il teatro è una esperienza che si addice proprio ai giovani. Io da ragazzo, dodici, quattordici anni, cominciai a recitare in un teatrino di Oratorio, e del teatro mi piacque subito tutto: non solo quel che riguardava la recitazione e la rappresentazione, la domenica sera, ma prima ancora la ricerca e la scelta di una commedia, e poi il periodo delle prove in cui una vicenda e i personaggi venivano studiati, precisati, in qualche modo scavati, e anche la preparazione della scena e dei costumi (molti di quei drammi erano in costume). Fu in quegli anni di adolescenza che ebbi i primi segni evidenti della mia vocazione teatrale. E non fu scrivendo una commedia o un semplice bozzetto (non ci pensavo nemmeno), bensì partecipando come attore a una rappresentazione particolare. La Filodrammatica in cui recitavo era stata invitata a tenere uno «spettacolo» al riformatorio della mia città (io sono nato e vissuto fino alla vigilia della guerra a Forlì, poi mi trasferii a Roma dove continuo a stare), e la commedia scelta per quella recita insolita era, mi ricordo ancora, Il buon pastore di Ambrosi, un autore non privo di qualche talento. Il riformatorio costituiva un padiglione a se stante delle carceri, e la filodrammatica per raggiungere il palcoscenico dovette entrare, in gruppo, nelle carceri: spioncini, sferragliare di chiavi e chiavistelli, le alte mura dei cortili, i corridoi con le celle protette dalle inferriate, i secondini e qualche volto di detenuto che si affacciava e spiava… E finalmente il piccolo palcoscenico, poco più di una predella rialzata dal piano terra, con un leggero sipario che si apriva e chiudeva come una tenda casalinga. Però gli elementi del teatro c’erano tutti: il palco rialzato, le luci, la scena e il sipario; e naturalmente la platea, ancora vuota, che aveva in fondo una sorta di galleria o balconata un po’ speciale: era chiusa da una inferriata alta fino al soffitto. E finalmente, mentre si stava completando l’operazione del trucco (è sempre eccitante per un attore, grande o minimo che sia, diventare per mezzo di ceroni colorati, di nero fumo, di parrucche o barba o baffi, un altro, assumere le sembianze e i caratteri di un’altra persona), ecco l’arrivo del pubblico. Uno strano pubblico: la platea si andava riempiendo ordinatamente di giovanetti come me (anno più anno meno) vestiti di un bigio forse righettato e dalle teste rapate quasi a zero, e la galleria di detenuti adulti che si accalcavano dietro l’inferriata. A destra e a sinistra della platea, accanto ai «minori», c’erano i guardiani che li tenevano d’occhio. Io che spiavo dalla fessura del sipario ero un po’ a disagio, ansioso in un modo diverso da come mi sentivo prima dell’inizio di una delle solite recite settimanali. E la commedia ebbe inizio: al principio ci fu un brusio diffuso e un curioso scalpiccìo, una sorta di disturbo che mi parve in qualche modo sedizioso (la sala s’era fatta buia e il rumorìo dei giovani carcerati sfuggiva alla individuazione dei guardiani), ma ben presto si fece silenzio perfetto e fu la storia che riviveva sul palco ad averla vinta. Era una storia commovente fino alle lacrime e scelta, direi, per quella recita di circostanza. Raccontava le vicende pietose di un ragazzo rubato da una tribù di zingari di passaggio e finalmente, dopo avventurose traversie, ritrovato dal padre grazie anche all’aiuto di un prete. Non solo il silenzio era autentico, ma l’attenzione si animava dei segni inconfondibili della commozione: io, che facevo il giovanetto rubato all’affetto dei genitori, vedevo le facce di quelli delle prime file, sentivo il tirar su col naso, il raschiarsi la gola e vedevo il fuggevole sventolare di qualche fazzoletto. Quando il piccolo protagonista, che si credeva orfano, si butta alla fine nelle braccia del padre ritrovato, non solo l’ovazione fu fragorosa e prolungata, ma la commozione non fu più trattenuta, e anche dietro le alte grate dove sedevano i detenuti adulti la partecipazione fu calda. Noi attori ci inchinammo a ogni salva di applausi. Ma non era finita, perché le disposizioni del Direttore carcerario erano queste: la galleria sarebbe stata per prima svuotata degli spettatori, e questo fu fatto immediatamente; i ragazzi che gremivano la platea non si sarebbero invece mossi, avrebbero atteso che gli attori avessero raggiunto lo stanzone dove all’inizio si erano preparati e truccati. E per far questo noi dovevamo scendere in platea, percorrere il «canale» centrale e raggiungere lo spogliatoio. Fu il momento più eccezionale, almeno per me, poiché molti di quei ragazzi s’erano talmente identificati con la sorte del protagonista, e avevano talmente rivissuto in loro stessi la sua pena, che al mio passaggio fu un protendersi di braccia, di mani, di volti, ci fu una specie di frenesia di toccarmi, di stringermi la mano che mi commosse indicibilmente. Era come se passasse la statua miracolosa di un santo, del “loro santo”. Mi resi conto poi più tardi che quella era, alla radice, la forza liberatoria, trasfiguratrice, “catartica” del teatro di cui avevano parlato i greci fin dalle origini. Mi resi conto da quella giovanile esperienza che la vera funzione del teatro doveva essere proprio un offrire, attraverso vicende anche crudeli, una soluzione esemplare di speranza, di riconciliazione, di fede. Io, a quel tempo, non sapevo ancora né di Eschilo né di Sofocle né di Euripide e non mi rendevo conto di che cosa, in concreto, significasse “catarsi”, ma avevo avuto la gran ventura di aver vissuto in prima persona una “catarsi” prima ancora di conoscerne, astrattamente, la definizione. Poi, quando cominciai a scrivere per il teatro, otto o dieci anni dopo, mi resi conto che la mia vocazione si era manifestata e precisata proprio quel giorno, in quel teatrino delle carceri per minori. Credo che fino ad oggi, nelle varie e oramai numerose opere che ho scritto e rappresentato, io sia rimasto istintivamente fedele a quello spirito di liberazione, a quello scopo di offrire speranza, certezza, spirito di riscatto e riconciliazione.
I giovani, penso, anche oggi, in forme nuove, vogliono la stessa cosa: e oggi più di allora trovano nel teatro un modo diretto di manifestare quel che sono e quel che vogliono, di manifestare la loro essenza e la loro migliore sincerità.
Racconterebbe qualche sua esperienza di autore drammatico?
– Riguardano quasi tutte questo rapporto tra quel che accade sul palcoscenico e il modo e l’intensità di partecipazione di chi ascolta. In Processo a Gesù, dove una parte del dramma si svolge in platea e coinvolge più direttamente il pubblico (benché gli spettatori che intervengono siano però attori seduti in poltrona), è accaduto molto spesso, e non solo in Italia, che certi spettatori non avvertissero questa “finzione” e intervenissero nel dibattito credendolo non previsto dalla commedia, ma veramente improvvisato. Al punto di aspettare gli attori sulla strada alla fine dello spettacolo, fuori del teatro, per porre loro certe domande. Mi si potrebbe dire che in questo equivoco il pubblico è indotto dalla natura tecnica della commedia che apre un vero e proprio dialogo con gli spettatori. Lo stesso rapporto di identificazione è comunque avvenuto per una commedia “chiusa” come Processo di Famiglia in cui tre coppie di sposi si contendono il possesso di un bambino, Abele, il quale a conclusione della contesa muore. Questo dramma venne presentato a Parigi al Théâtre de l’Oeuvre ed io assistetti a numerose rappresentazioni. Alla fine di una serata, mentre uscivo insieme agli attori, fui avvicinato nell’ingresso del teatro da un giovane il quale mi disse con la voce spezzata dall’emozione che aveva ritrovato nella mia commedia qualcosa, anzi molto di quel che tormentava la sua vita: aveva avuto un figlio da una ragazza, non l’aveva sposata, anzi si era allontanato da lei, era venuto a Parigi, ma voleva dirmi che quella notte stessa avrebbe preso un treno per il sud della Francia e sarebbe andato a riconoscere suo figlio. Mi ringraziava stringendomi le mani. Gli dissi che ero io, eravamo noi, che dovevamo ringraziarlo perché ci dava il conforto di sentire che la nostra fatica di uomini di teatro non era soltanto di natura estetica, ma di profonda natura umana, per cui sentivamo che valeva la pena continuare a compierla. Potrei aggiungere decine di episodi che hanno accompagnato le rappresentazioni di miei lavori, ma mi pare che questi due siano abbastanza indicativi. Dico soltanto che reazioni di questo genere non sono avvenute soltanto per opere impegnate, ma anche per commedie che considero più disinvolte e in qualche modo brillanti. Nel corso delle repliche di Lascio alle mie donne mi capitò di essere interpellato perché il “caso” che io avevo rappresentato, e che credevo raro e di mia invenzione, corrispondeva invece a una casistica piuttosto abbondante e indicativa.

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Cosa pensa del recupero dei valori popolari attraverso il teatro?
– Il mio convincimento fermissimo è che il teatro o è una realtà popolare o non è. Il cosiddetto teatro di élite è una distorsione del teatro, è un teatro malato e anchilosato a cui manca la linfa vitale, quella di poter rivolgersi a tutti. Il teatro che passa alla storia, quello che dura, si fonda e prospera solo sui valori popolari, sui sentimenti fondamentali e permanenti, sui conflitti che nella loro essenza non mutano mai pur nel mutare delle forme sociali e degli avvenimenti della storia. All’indomani dell’introduzione del divorzio in Italia una persona, dopotutto amica, mi fece notare che, col divorzio, Processo di Famiglia non avrebbe probabilmente più dato luogo a conflitto e a dramma. Gli risposi che non mi pareva in nessun modo vero: il divorzio non cancella i sentimenti e non risolve i loro conflitti. Risolve semmai, su un piano pratico, rapporti di persone che non hanno già più, tra loro, sentimenti; hanno tutt’al più interessi da regolare, ma ciò non ha niente a che fare con l’essenza del teatro. Il teatro è la rappresentazione di conflitti originari: non la rappresentazione di procedure. A meno che dietro le procedure non vi siano dei sentimenti o delle passioni elementari offesi, conculcati, violentati. Se una legge e le sue procedure impedissero di esercitare la libertà insorgerebbe un autentico drammatico conflitto. L’eroe è la sintesi dei valori essenziali dell’uomo (e perciò popolari) comuni a tutti o ai più. Questi valori popolari non sono affatto grezzi come qualcuno pensa, ma invece ricchi di sfumature e di variazioni. La sfumatura e la variazione non devono però far dimenticare il colore di base o il motivo fondamentale. Se un teatro intende dire qualcosa al proprio Paese deve affondare le radici nello stato popolare e nei valori che sono di tutti. Per questo un teatro davvero popolare deve essere nello stesso tempo teatro nazionale, cioè del popolo che si identifica con le caratteristiche di un Paese. Tutto il resto è divagazione o elusione della realtà e di un dovere. Jacques Copeau, uno dei massimi uomini di teatro francese, disse a proposito della popolarità in questo settore: «Non si tratta di sapere – scrive – se il teatro d’oggi trarrà il suo fascino da questo o quell’esperimento, se attingerà la sua forza dall’autorità di questo o quel maestro della scena. Io credo che ci si debba chiedere se sarà marxista o cristiano, poiché occorre che sia vivo, vale a dire popolare. Il teatro, per vivere, deve offrire all’uomo delle ragioni di credere, di sperare, di espandersi. Questa sorgente di nuovo calore, in quanto a me, oso dire che la troveremo soltanto in una religione d’amore».
Si parla di teatro di quartiere, di rivalutazione del dialetto…
– Il teatro di quartiere è una realtà, e quando non è costretta da condizionamenti politici, ma si muove con quella sufficiente libertà che consenta un effettivo alternarsi di motivi e di voci tanto per quel che riguarda i contenuti quanto per quel che riguarda le forme drammaturgiche, mi sembra una realtà che merita espansione e sostegno. I dialetti, poi, sono le fonti prime del linguaggio, e il linguaggio, come sappiamo tutti, è alla base del teatro. Il riaffiorare di commedie in dialetti poco diffusi, se affrontato con serietà di ricerca e di espressione, non può che essere seguito con la massima attenzione. Non bisogna però nascondersi la difficoltà di circolazione di queste opere che richiedono un uditorio in qualche modo specializzato e territorialmente circoscritto. Solo opere di alto livello ed elaborate linguisticamente giungono a varcare i confini stabiliti dai singoli dialetti e a diventare in certo modo nazionali. Ma questa opera di filtro è lunga e ardua: si pensi al Ruzzante.
È più difficile essere attori di cinema o di teatro?
– Stesse difficoltà: si pensi a Gassman. Certo che un’attrice di spiccata piacevolezza farà con successo, almeno in Italia, del cinema anche se reciterà in maniera men che mediocre; o un attore di straordinaria bravura teatrale come Salvo Randone giungerà al cinema molto tardi e in parti di fianco. È il gioco delle vocazioni, dei talenti e anche delle occasioni: ma, alla base, per un attore di cinema e di teatro ci sono analoghe difficoltà anche se per esigenze diverse.

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Salvo Randone

In mezzo a tanti idoli (sportivi, politici, cantanti, attori) che costituiscono, specialmente per i giovani, punti di riferimento indiscussi, quale significato ha la figura di Cristo e cosa rappresenta per le nuove generazioni?
– La domanda propone una risposta molto ardua perché la figura di Cristo ha subìto delle sensibili contraffazioni fino ad alterarne i connotati autentici. Negli anni – dal ’30 al ’50 – in cui maturai il personaggio di Cristo per giungere poi al dramma-processo che è del 1955, io mi trovavo di fronte a una figura di Gesù statica e fissa come un’icona. Io amo molto le icone: esse sono oggetto di contemplazione e di suggestione, suscitatrici di eventi, ma non sono di per sé un evento in movimento, in azione. Non solo Cristo era un’icona, ma anche i personaggi della prima cristianità, gli apostoli e i primi discepoli, avevano una loro tradizionale staticità e fissità. E avevano una loro lontananza, vale a dire uno stacco, e un distacco, dalla contemporaneità, dagli uomini del nostro tempo. Pietro era un rinnegatore del suo Capo, ma un rinnegatore con l’aureola; Tommaso un razionalista incredulo, ma anche lui con l’aureola; la Maddalena era sì una peccatrice, ma che tipo di peccatrice fosse era quanto mai sfumato perché nel frattempo anche attorno ai capelli di Maddalena si era dilatata un’aureola di santità; solo con Giuda ci si poteva prendere maggiori confidenze perché Giuda era il traditore. Questo timore di offendere l’aureola, aveva dal Medioevo in poi mantenuto la turba dei personaggi evangelici lontani da noi. Ed io avevo intuito, o mi era parso di intuire, che tra la tipologia degli uomini di oggi e quella degli apostoli e dei primi cristiani vi era una profonda affinità. Si trattava dunque di vedere quei primi santi-apostoli come probabilmente furono, in quel tempo, prima che avessero l’aureola, così come li videro, li giudicarono gli uomini di allora; e cercare di restituire, oggi, la loro primitiva umanità. Mi pareva che l’adagio popolare “scherza coi fanti e lascia stare i santi” non fosse, in sostanza, proprio vero poiché in un certo senso “scherzare anche coi santi” è un sentirli vicini, familiari, consanguinei. Credo di essere stato il primo, o uno dei primissimi, che tentò, almeno a teatro, di stabilire una confidenza con i primi personaggi cristiani. Credo che proprio questo spirito di confidenza e di parentela sia stato uno dei motivi del vivo e generale successo di Processo a Gesù, in Italia e nel mondo intero. Ciò comunque non impedì che gruppi di cattolici conservatori denunciassero la mia opera al Sant’Uffizio, il quale archiviò per due volte le denunce. Se da una parte mi sento soddisfatto di avere avvicinato i personaggi della prima storia sacra cristiana agli uomini di oggi ripristinando una parentela che si era fatta un po’ opaca, ho poi avuto qualche rimorso e qualche rammarico quando mi sono accorto che la parentela e la confidenza con Gesù e con gli Apostoli sono a poco a poco diventati arbitrio e anche licenza o addirittura irriverenza perfino blasfema. È forse un prezzo che si è dovuto pagare a un’epoca ribelle e ostile al senso del sacro. D’altra parte è pur vero che «chi ha troppo temuto i pericoli dell’errore non temerà mai abbastanza quelli dell’indifferenza». Io credo che il mondo cristiano di una sola cosa debba temere: proprio dell’indifferenza di cui una mentalità materialistica cerca di circondarlo. Penso che la figura di Cristo col suo messaggio siano, oggi più che mai, le uniche soluzioni per soddisfare le inquietudini e le aspirazioni di noi uomini sempre in cerca di una realtà interiore e sociale che ci acquieti pur mantenendoci in cammino. Noi non intendiamo fermarci, né riposare: intendiamo dare un senso alla nostra fatica e al nostro incessante andare. E questo senso profondo me lo dà, in modo pieno, soltanto Cristo. È lui il mio Supremo Compagno di strada. In questo senso faccio mie, partecipandovi intimamente, le parole di Dostoevskij, il nostro grande contemporaneo: «Dio mi manda talvolta dei minuti nei quali io sono del tutto sereno; in questi minuti io amo e trovo di essere amato dagli altri, e in questi minuti io ho creato in me stesso il simbolo della fede, nel quale tutto mi è chiaro e sacro. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, di più virile e perfetto di Cristo; e non solo c’è, ma con geloso amore mi dico che non può non esserci. E non basta: se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo anziché con la verità». Questo strenuo, fino all’irrazionale, attaccamento alla Figura reale e al Messaggio vivente e giovane di Cristo è, per me, l’unico motivo di certezza e di speranza della nostra vita: certezza e speranza che, oltre a dar significato alla nostra operosità, danno ad essa una durata e una dimensione che varca i limiti del tempo.

«Il Nuovo Informatore Librario», novembre 1980

copertina

Aldo Onorati, nato ad Albano Laziale nel 1939 è scrittore, dantista, storico della letteratura e autore di versi. Ha insegnato Lettere negli istituti superiori e ha condotto corsi di specializzazione in «Tecnica del verso». Ha pubblicato quasi tutte le sue opere con Armando editore, presso cui ha lavorato per un certo periodo come curatore dell’Ufficio stampa. È stato direttore editoriale e di collane di critica. Giornalista, ha collaborato per decenni ad «Avvenire», «L’Osservatore Romano», «Il popolo», «Giornale d’Italia», «Specchio economico», «Giornale di Brescia» etc., ed anche alla RAI-TV, III programma, «Dipartimento scuola educazione». Ha diretto numerosi organi di stampa, fra cui «Terza Pagina», «Interviste oggi» e «Quaderni di filologia e critica». Fra i suoi libri di narrativa più conosciuti, Gli ultimi sono gli ultimi che fu scoperto da Carlo Levi e tradotto in Coreano, Esperanto, Francese etc.; Nel Frammento la vita, VI edizione; La sagra degli ominidi (VII edizione), che Domenico Rea ha prefato in IV ed., Lettera al padre (VI ediz.), il recente Le tentazioni di frate Amore, già in II ristampa con Tracce di Pescara e Il sesso e la vita con EdiLet, prefato da Marco Onofrio, il quale ha riproposto Onorati come poeta in un’originalissima opera da lui scritta e divulgata (Il mistero e la clessidra, EdiLet, 2009). Le sue liriche sono raccolte in Tutte le poesie, Anemone Purpurea 2005. Fra i saggi critici, spicca Dante e l’omosessualità, in cui Onorati rivede l’atteggiamento della critica riguardo il giudizio dell’Alighieri sugli omosessuali; inoltre, Il crepuscolo del Novecento, I cinque pilastri della stoltezza (Armando 2003), Dante, Petrarca, Boccaccio e Boiardo ed Ariosto e molti altri. Importante è la supervisione e il saggio critico di post-fazione che Onorati ha fatto al libro di Louis La Favia sulla scoperta di un inedito di Dante: «Chanzona ddante» (Longo, Ravenna 2012). La sua autorità di dantista lo porta a commentare il sommo Poeta in Italia e all’estero. Di recente, la Presidenza Centrale della Società Dante Alighieri gli ha conferito, al Vittoriano di Roma, il diploma di benemerenza con medaglia d’oro «Per la profonda conoscenza dell’Opera dantesca, al punto di diventare testimone nel mondo della Divina Commedia». È in via di pubblicazione con la stessa Società un’ampia sinossi critica dei 34 canti dell’Inferno. Le sue opere di poesia e di narrativa sono state tradotte in 16 lingue, fra cui Coreano, Esperanto, Francese, Inglese, Spagnolo, Portoghese, Romeno, Tedesco, Russo (la silloge Domande assurde è apparsa prima a Mosca, tradotta e prefata da Evghenij Solonovich, e poi in Italia), Cinese, Polacco etc. Ha diretto una collana di ecologia da Armando, scrivendo alcuni libri di successo per le scuole. Attualmente collabora a “Pagine della Dante” e a “Leggere:tutti”.

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Rafael Alberti (1902-1999) – POESIE SCELTE. Un poeta tra amore e politica. Una vita segnata dall’impegno e dall’esilio. “Non mi pento, non sarò mai un ex comunista”. Traduzione di Paolo Statuti

 

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Dal sito La Repubblica.it – “Cultura & Scienze”, nel giorno della morte di Rafael Alberti:

Cadix (Spagna). Un arresto cardiaco ha fermato per sempre “quel sagittario irrequieto e vagabondo”, come lui stesso amava definirsi, nella sua casa del sud della Spagna a El Puerto De Santa Maria. Rafael Alberti, poeta, scrittore, pittore esiliato dal regime franchista, aveva 96 anni ed era l’ultimo rappresentante della “Generazione 27”, il movimento cui appartenevano Garcia Lorca e Vicente Aleixandre. Nato il 16 dicembre 1902, lascia giovane l’Andalusia per Madrid, ma rimane attaccatissimo alla sua patria. Si fa strada presto nel mondo dei versi e del surrealismo. Sono del 1929 le dolorose liriche “Sugli angeli” (“Sobre los angeles”). Quegli anni li passa con Federico Garcia Lorca, Salvator Dalì, Pablo Picasso, amici e compagni di strada. Il primo premio importante lo riceve nel 1925 con la raccolta “Marinero en tierra”, un canto d’amore per il mare con cui riceve il premio nazionale della letteratura. Degli anni ’60 sono i suoi “Poemi d’amore”, i versi per “Roma, pericolo per i viandanti”, “Gli otto nomi di Picasso”. Le più recenti rime “Amore in bilico” sono dedicate all’erotismo e alla donna, alla sua nuova e giovane compagna. Ma è l’impegno politico a prendere il sopravvento e a stravolgere tutta la sua vita. Fin dai primi anni Trenta diventa un militante del Partito comunista spagnolo. Studia teatro nell’Unione Sovietica e dirige con la moglie Maria Teresa Leon – scomparsa nell’88 – la rivista rivoluzionaria Octubre. Dal ‘36 al ’39 partecipa alla guerra civile nelle file repubblicane. Dopo la vittoria di Francisco Franco, viene costretto all’esilio prima in Francia, poi in Messico, Argentina e Italia. E ogni volta che qualcuno parla di sofferenza risponde: “Non mi pento di niente. Non sarò mai un ex comunista”. In Spagna torna soltanto nel 1977, nella sua città, dove nel 1990 si era risposato con Maria Asuncion Mateo, 44 anni più giovane di lui, e dove oggi il suo cuore si è fermato. Le sue ceneri saranno sparse nella baia di El Puerto De Santa Maria.

(28 ottobre 1999)

Alcune poesie di Rafael Alberti nella versione di Paolo Statuti

Ballata di ciò che disse il vento

L’eternità potrebbe essere benissimo
solamente un fiume
essere un cavallo dimenticato
e il tubare
di una colomba smarrita.

Quando l’uomo si allontana
dagli uomini, viene il vento
che subito gli dice altre cose,
aprendogli le orecchie
e gli occhi ad altre cose.

Oggi mi sono allontanato dagli uomini,
e solo, in questo baratro,
a lungo guardavo il fiume
e ho visto soltanto un cavallo
e ho udito solamente
il tubare
di una colomba smarrita.

E il vento allora si è avvicinato,
come di sfuggita,
e mi ha detto:

L’eternità potrebbe essere benissimo
solamente un fiume,
essere un cavallo dimenticato
e il tubare
di una colomba smarrita.

Ritorno dell’amore recentemente apparso

Quando tu sei apparsa, io soffrivo nell’interno più fondo
di una caverna senza aria e senza uscita.
Mi agitavo nell’oscurità, agonizzando,
udendo un rantolo come battito di ali
di un uccello invisibile.
Hai sparso su di me i tuoi capelli
e io mi sollevai fino al sole e vidi che erano l’aurora
che sul mare aperto a primavera si distende.
Fu come se fossi giunto nel più bel
porto di mezzogiorno. Annegavano in te
i paesaggi più splendenti:
chiare, aguzze vette con rosate
corone di neve, fonti nascoste
nelle ricciute ombre dei boschi.
Ho imparato a riposare sui crinali
e a scendere lungo fiumi e pendii,
a intrecciarmi nei rami tesi
e a fare del sonno la mia morte più dolce.
Mi hai aperto il bosco e i miei floridi anni
di recente venuti alla luce, giacevano
sotto la carezza della tua spessa ombra,
lasciando il cuore al libero vento
e accordandolo al verde suono del tuo.
Già andavo a dormire, e a svegliarmi sapendo
che non penavo in una caverna oscura,
agitandomi senza aria e senza uscita.
Perché tu finalmente sei apparsa.

Ritorno dell’amore nei vividi paesaggi

Crediamo, amore mio, che quei paesaggi
si sono addormentati o sono morti con noi
nel tempo, nel giorno in cui vi abitavamo;
che gli alberi perdono la memoria
e le notti se ne vanno, lasciando all’oblio
ciò che le hanno rese belle e forse immortali.

Ma basta il più lieve palpito di una foglia,
una stella cancellata che respira all’improvviso,
per vederci ugualmente lieti di occupare
i luoghi che ci tennero uniti.
Ed ecco ti svegli oggi, amore mio, al mio fianco,
tra i frutici di ribes e le fragole nascoste
al riparo del forte cuore dei boschi.
Là c’è l’umida carezza della rugiada,
le polveri delicate che rinfrescano il tuo giaciglio,
gli elfi felici di ornare le tue lunghe chiome
e i misteriosi alti scoiattoli che versano
sul tuo sonno il minuto verde dei rami.

Sii felice, foglia, sempre: che tu non abbia mai l’autunno,
foglia che mi hai portato
col tuo lieve tremito
l’aroma di tanta cieca età luminosa.
E tu, stellina smarrita, che mi apri
le intime finestre delle mie notti più giovani,
non cessare mai la tua luce
sopra le tante alcove che all’alba ci addormentavano,
e su quella biblioteca con la luna
e quei libri dolcemente caduti,
e sui vigili boschi che destati cantavano per noi.

Tra il garofano e la spada

(Guerra alla guerra per la guerra.) Vieni qui.
Volgi le spalle. Il mare. Apri la bocca.
Una sirena urta contro una mina
e un arcangelo annega, indifferente.

Tempo di fuoco. Addio. Urgentemente.
Chiudi gli occhi. E’ il monte. Tocca.
Saltano le cime frantumando la roccia
e si uccide un bosco, inutilmente.

C’è anche sulla luna la dinamite? Andiamo.
Morte alla morte per la morte: guerra.
In verità, pensa il toro, il mondo è bello.

Già i rami bruciano.
Apri la bocca. (Il mare. Il monte.) Chiudi
gli occhi e sciogliti i capelli.

La colomba

Si sbagliò la colomba,
si sbagliava.
Per andare al nord, si trovò al sud,
pensò che il grano fosse l’acqua,
si sbagliava.

Pensò che il mare fosse il cielo,
che la notte fosse l’alba,
si sbagliava,
si sbagliava.

Che le stelle – la rugiada,
che il calore – la neve,
si sbagliava,
si sbagliava.

Che la tua gonna fosse la tua blusa,
che il tuo cuore – la sua casa,
si sbagliava,
si sbagliava.

Lei si addormentò sulla riva,
tu sulla cima di un ramo.

Pensò che il mare fosse il cielo,
che la notte fosse l’alba,
si sbagliava,
si sbagliava.

Che le stelle – la rugiada,
che il calore – la neve,
si sbagliava,
si sbagliava.

Che la tua gonna fosse la tua blusa,
che il tuo cuore – la sua casa,
si sbagliava,
si sbagliava.

Ritorni di Chopin attraverso le mani già andate

A mia madre che tutti noi univa
nella musica del suo vecchio piano.

Dapprima era nella sala da pranzo, era nella dolce
sala da pranzo dei sei: Agustin e Maria,
Milagritos, Vicente, Rafael e Josefa.
Da lì mi vengono ora, d’inverno, distanti,
già quasi persi, cancellati dalla memoria i miei,
i fratelli che non sapevo elevare alla mia altezza;
da lì adesso mi giunge questo accordo di acqua,
da lì anche, adesso,
questo notturno ramo di bosco con moto,
questa riva di mare, questo amore, questa pena
che oggi, con un velo di lacrime, mi uniscono a voi,
attraverso le mani felici che furono.

Poi nell’angolo in penombra di una stanza,
lontano dalla sala da pranzo dei sei,
quando di nuovo vicino a voi, perduto,
quasi infinitamente perduto mi sentivo,
molto tardi, già molto tardi,
quando di nuovo arrivava il sonno,
un accordo di acqua, un ramo notturno,
una riva, un amore, una pena a voi
dolcemente mi univano,
attraverso le mani stanche che furono.

E adesso, distante,
più infinitamente di allora, espulso prima
dalla sala da pranzo, più tardi dall’angolo
in penombra della stanza,
tremante,

con il cuore trafitto dall’inverno, Maria,
Vicente, Milagritos, Agustin e Josefa,
uno, il sesto, Rafael, di nuovo si unisce a voi,
con il ramo, l’amore, con il mare e la pena,
attraverso le mani rimpiante che furono.

Ritorno dell’amore sulle sabbie

Stamane, amore, abbiamo vent’anni.
Vanno volutamente piano, intrecciandosi,
le nostre ombre scalze per la strada tra i giardini,
che oppongono agli azzurri del mare i loro verdi.
Tu sei sempre un’apparizione,
sei la luce giunta una buia sera,
quando il giovane senza meta dalla città ritarda,
pensoso, di proposito il suo ritorno a casa.
Tu sei sempre quella che al mio fianco
va cercando il segreto declivio delle dune,
il recondito pendio della sabbia, il celato
canneto che crea
cortine agli occhi marini del vento.
Là sei, là sono davanti a te, controllando
l’alta temperatura delle onde felici,
il cuore del mare ciecamente sorto,
morendo in frammenti di dolce sale e di spume.
Poi, tutto ci guarda allegro, sulle rive.
I castelli in rovina sollevano i loro merli,
le alghe ci offrono corone e le vele,
preso il volo, vogliono cantare al di sopra delle torri.

Stamane, amore, abbiamo vent’anni.

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Durs Grünbein, “Della neve ovvero Cartesio in Germania”: Durs Grünbein e il poema epico nella post-storia. (Traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, 2005). Commento di Letizia Leone

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Durs Grünbein nasce a Dresda nel 1962 e vive a Roma dal 2013. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra quali il premio della città di Marburg (1992), il premio Büchner (1995), il Premio Pasolini (2006). Membro dell’Accademia Tedesca per la Lingua e la Poesia (1995) e dell’Accademia delle Arti di Berlino-Brandeburgo (1999), è autore di numerosi volumi di poesia e saggistica: A metà partita: poesie 1988-1999, traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 1999; Il primo anno. Appunti berlinesi, traduzione di Franco Stelzer, Einaudi, Torino 2004; Della neve ovvero Cartesio in Germania, traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 2005; Infanzia in diorama, traduzione di Silvia Ruzzenenti, in “Comunicare – Letterature Lingue” N. 7, 2007, Il Mulino, Bologna, pp. 241-249; Strofe per dopodomani e altre poesie, a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 2011; Il consiglio dei gamberi e altre passeggiate sott’acqua, traduzione di Silvia Ruzzenenti, in “Prosa saggistica di area tedesca”, a cura di G. Cantarutti e W. Adam, Il Mulino, Collana “Scorciatoie”, Bologna 2011, pp. 17-50; La strada per Bornholm (racconto presente in “La notte in cui cadde il muro”, a cura di Renatus Deckert, traduzione di Valentina Freschi, Scritturapura Editore, Collana Paprika, Asti 2009).

Commento di Letizia Leone

“Le forme letterarie possiedono un determinato indice di resistenza che assicura loro il passaggio attraverso tutta una serie di epoche; nello stesso tempo, la forma letteraria si trova a dover affrontare l’influenza di compiti diversificati, e il nuovo si accumula sul vecchio in maniera qualitativa…”: queste considerazioni di Šklovskij sull’assimilazione e trasformazione stilistica dei generi introducono adeguatamente l’operazione poetica di Durs Grünbein (uno dei maggiori poeti della Germania post-unificazione) il quale, in duemila versi suddivisi in quarantadue canti di dieci strofe ognuno, rivitalizza la tradizione inerte della narrazione lirica in esametri. Risonanze e memoria dei classici ma anche recupero di ritmi e metri della poesia barocca come l’illustre alessandrino (verso canonico del teatro tedesco del XVII sec.), reso sapientemente nella traduzione di Anna Maria Carpi con un recitativo “che tolti alcuni isolati endecasillabi, nasce a seconda della necessità, da aggregazioni diverse di settenari, endecasillabi, quinari”.

Viene da chiedersi: è possibile che la parola epica abbia ancora la capacità di cogliere lo Zeitgeist contemporaneo? E soprattutto ha ancora senso parlare di unità del genere a fronte della dissoluzione postmodernista che avvalora la contaminazione e il riciclo caotico dei materiali, quando lo stesso paradigma critico di genere rischia di risultare obsoleto? Già Hegel, in base alle categorie di “totalità” e “assolutezza dei valori” propri dell’epica classica, dichiarava impossibile un’epica moderna, e Lukàcs supportando la linea hegeliana vedeva nel romanzo (epopea moderna dell’eroe borghese) la filiazione manchevole dell’epos, cosicché nell’ambito di una riflessione critico-stilistica “a rappresentare con purezza il tipo epico risultava esserci sempre e solo l’epos di un Omero e questo tipo omerico sparisce per così dire all’inizio della storia della letteratura” (M. Wehrli). Eppure non mancano esempi di sperimentalismi e riformulazioni che hanno apportato nuova linfa al genere: da Whitman ai classici del modernismo come I Cantos o La terra desolata (opera questa che nel giudizio di I. A. Richards conterrebbe in sé una dozzina di volumi dell’Enciclopedia Britannica) oppure la nuova epica postcoloniale dell’Omeros di Derek Walcott. Opere polifoniche, stratificate, portatrici di un’ampia esegesi.

In “Della neve” la riproposizione del canone epico viene esibita in una architettura compositiva di grande rigore metrico. Grünbein ha adottato brillantemente l’ambizione enciclopedica del genere ai suoi scopi, e se ad uno sguardo retrospettivo l’epica ha funzionato come deposito della memoria collettiva con la narrazione di imprese mitiche e storiche, qui le gesta eroiche da cantare sono quelle del pensiero, e l’eroe è l’homo theoreticus, il filosofo francese René Descartes. Cartesio è il “più frainteso dei filosofi della modernità” e il primo a fraintenderlo è stato proprio il suo contemporaneo Leibniz “che inizia ciò che l’idealismo portò a termine: e cioè congelare Cartesio come il momento pre-dialettico, freddamente razionalistico del pensiero”. Nell’intento di “riscongelare un filosofo esiliato dall’idealismo tedesco”, Grünbein apre la scena in medias res con lo studioso ripiegato nel proprio isolamento interiore ed esistenziale in un “luogo sperduto vicino ad Ulm”, cittadina della Baviera immersa nel gelo straordinario dell’inverno del 1619, come testimonia Cartesio stesso: “Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre ancora in corso; e tornando verso l’esercito dopo l’incoronazione dell’imperatore, l’inizio dell’inverno mi colse in una località dove, non trovando compagnia che mi distraesse, e non avendo d’altra parte, per mia fortuna, preoccupazioni o passioni che mi turbassero, restavo tutto il giorno solo, chiuso in una stanza accanto alla stufa, e qui avevo tutto l’agio di occuparmi dei miei pensieri.”(dal “Discorso sul metodo”)

cartesio

Cartesio

Nella descrizione poetica dell’interno domestico, illuminato da una luce caravaggesca, cose e dettagli vengono colti con un’assoluta freddezza di sguardo:

Un mozzicone arde. La griglia nella stufa
dopo il banchetto è lustra come gabbia toracica d’un manzo
fatto arrosto. Ma il freddo si raccoglie nella veste del dotto,
dentro le scarpe a fibbia, nel bavero di pizzo
e dipinge arabeschi alle finestre, entro i tondi piombati.
E gelo e buio marcano i contorni, più aguzzi sono i nasi
e i menti, e blu le labbra la mattina.
D’inverno l’uomo è come il suo cadavere.
Disteso e duro come sulla bara – sul sarcofago-letto.
Un brivido lo desta. Nevica. Un nuovo giorno.

La citazione di Keplero ut pictura, ita visio all’inizio del canto ventiseiesimo, dal quale è tratta la strofa, conferma e ribadisce una modalità di stile all’insegna della figuratività e visibilità. Grünbein sembra adottare la stessa tecnica del chiaroscuro dei pittori olandesi e fiamminghi del XVII secolo nel calcolare l’effetto “luminoso” del freddo sui corpi, gelo e buio marcano i contorni del volto facendo vibrare il ritratto inedito del dotto e sotto la pallida luce dell’alba gelida il dormiente nel letto, disteso e duro come sulla bara, trasfigura quasi nell’icona di un Cristo deposto. L’azione del poema è condensata intorno ad un momento topico del pensiero occidentale, la nascita del razionalismo cartesiano sullo sfondo del paesaggio nordico invernale, o per meglio dire sotto il “diluvio grande di neve” (come annotò il padovano Nicolò De Rossi) della piccola glaciazione che investì l’Europa del 1600. Condizioni estreme, adatte al filosofare. Il poema vuole essere anche elogio dei filosofi, dello stile di vita teoretico, dell’osservazione disinteressata, dell’ascesi nell’epochè, sotto gli imperativi dell’isolamento e della concentrazione che denotano una modalità dell’esistenza filosofica, e ci rammentano i ritiri di Heidegger nella famosa Hütte, la baita di Todtnauberg: “Quando nel profondo della notte invernale, una violenta tempesta di neve avvolge la baita, copre e vela tutto, allora è il tempo della filosofia.” L’immagine-simbolo della neve che apre e chiude il poema svettando nel titolo, è richiamo e correlativo del metodo analitico del matematico Cartesio, inventore della geometria delle coordinate. “Il cristallo di neve, perfetto, esagonale, è il modello della ragione geometrica”, afferma Grünbein, “e l’inverno è la stagione più propizia alle intuizioni della filosofia: ci mostra la natura nel rigore delle sue leggi. Io credo però che Cartesio, costretto per forza maggiore nella prigionia di quel paesaggio gelato, cercasse di apportarvi dinamismo e calore”.

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Freddo, neve, inverno: isotopie meteorologiche che avviano la sequenza delle metafore ma anche allegoria della condizione dell’uomo moderno. La suggestione plastica della landa innevata è condicio sine qua non della concentrazione, visione che astrae dalle contingenze, impulso al cogito del filosofo che comincia a pensare il mondo come astrazione geometrica dalla sua torretta di osservazione, la stanzetta mal riscaldata da una stufa. E il poeta sa rendere perfettamente la situazione emotiva di isolamento ed esilio in cui prende forma il cogito ergo sum bilanciando la narrazione nella compenetrazione dialettica tra l’esterno, la bianca magnificenza del tappeto nevoso che copre le simmetrie del paesaggio naturale e depotenzia i clamori della Storia (la guerra dei trent’anni), e lo spazio interno della coscienza che tende a realizzare il vuoto dei mistici, la sospensione spazio-temporale, il congelamento di affetti e affanni. Inoltre nel gioco testuale di allusioni, rifrazioni, parallelismi figurativi, la neve è speculare all’immagine del foglio bianco, tabula rasa e punto focale su cui si concentrano le fatiche dell’intelletto, il foglio ondulato sudario, torbido specchio, comunque materiale tangibile, res extensa, carta soltanto carta sulla quale vergare il Discorso sul metodo:

Il polverino manca. Mezzo foglio è sconciato.
Stanza stretta e aria secca – Moccio, acqua che schizzano
Sul foglio, se tossisce. E come gratta questa penna d’oca,
Pare un ronzio di mosca. Chi decifra
Tutti gli scarabocchi? Nemmeno il loro autore.
La scrittura va insieme, fanno smorfie i paragrafi.
Ogni frase è una tenia. E questa è un n o un u?
È come nella vita, dopo il 5 romano viene il 4.
“Discours de la méthode” – l’io dà del tu a se stesso.
Chi è io? Non farmi ridere. – Carta, soltanto carta.

Tra riflessione intellettuale e paesaggio il racconto mette in scena la grandezza epica del pensare, ma le questioni fondamentali esposte nel “Discorso” emergono nel bel mezzo della conversazione quotidiana tra il filosofo e il suo unico interlocutore, il fedele Gillot, servo e discepolo, controparte dell’uomo pratico armato di buon senso. Così accade che durante una chiacchierata estemporanea, resa con un parlato espressivo ricco di locuzioni fàtiche, si può discutere dei massimi sistemi e ricollocare le teorie cartesiane dentro uno “stato d’animo” che è poi la Stimmung di un’epoca intera lacerata da guerre, dubbi e insicurezze. Basti qui il breve esempio su come il Dubbio metodico, quale procedimento critico di vaglio e analisi di tutta la realtà, irrompe tra le chiacchiere:

“Io parlavo del dubbio…
Il dubbio nel pensiero è la traccia rovente
che indica la via. È il buco stretto
in cui cacci la testa per passare…”
“Nei casi dubbi, sono le vacche tutte grigie.
Dove niente è più certo, le parole non quadrano,
devo, signore – affidarmi al mio fiuto?”
“Nei casi dubbi – tienti al dubbio, che ti dà
E ti toglie, ti toglie e dà da sé sostegno.
Dimenticati Euclide. Ad Archimede tienti,
al suo punto di leva, da cui anche un infante
col pollice potrebbe scardinare fin il globo terrestre”.
“Voi intendete nei casi dubbi…” “Hai già capito:
uno solo ti aiuta – il figlio di tua madre”.

“È di me che parlate?” “te ne stavi un po’ curvo,
e adesso balzi indietro, ergo lo senti che di te si tratta”.
“Sono i dubbi, signore. Mi si girano dentro…”

Sempre sulla linea di congiunzione immaginale neve-bianco-letto il poema si conclude a Stoccolma alla corte della regina Cristina trent’anni più tardi con il moribondo Cartesio nel suo giaciglio di sofferenza, con un “blocchetto di ghiaccio / premuto sulla fronte”. Il letto dove aveva trascorso metà della vita, dato che era solito alzarsi a mezzogiorno, e dove in una gelida giornata del 1649 muore di polmonite. Dato per scaduto il tempo dell’Epica quale forma rappresentativa di una visione unitaria del mondo (tanto che un personaggio del Dottor Živago esclama che “perfino nel Faust c’è qualcosa di mortalmente insopportabile e artificioso… L’uomo d’oggi… quando è assalito dagli interrogativi dell’universo, si immerge nella fisica, e non negli esametri di Esiodo”), sembra utile riconsiderare le osservazioni di Šklovskij sulla ri-funzionalizzazione dei modelli letterari.

SKLOWSKIJ VIKTOR

Viktor Sklovskij

Oggi un modello di poema epico risponde in parte a quella “nostalgia per la cultura mondiale” individuata da Brodskij, e la poesia, “essenza della cultura del mondo”, è vocata ad essere Cantiere dell’Utopia come quello della Basilica di San Francesco in Assisi dove sono stati archiviati e assemblati 300.000 frammenti della volta di Giotto dopo il terremoto del 1997. Non solo conservazione, custodia e salvaguardia della civiltà umanistica, ma anche attività esegetica, ripensamento mito-poietico dei dati inerti della tradizione con il recupero dei frammenti storici alla grande visione, come quella ad esempio di un Cartesio razionalista, matematico e filosofo e insieme poeta e uomo che sogna. E, nel rivalutare l’importanza delle visioni e dei sogni nella genesi del suo pensiero, vivificarne la figura liberandola dalla rigidità museale della Storia. Inoltre, come Grünbein dichiarò tempo fa in un’intervista, è ora che la poesia si riposizioni al punto di congiunzione di filosofia e scienza superando il suo fondamentalismo antiscientifico. È ora per la poesia di ripartire dalla grande lezione di Lucrezio e di Dante.

della neve

Der Schnee von heute

Monsieur, wacht auf. Es hat geschneit die ganze Nacht.
Soweit das Auge reicht auf einer weißen Fläche,
Schmückt sich das Land mit weißen Kegeln. Es sind Bäume,
Die mit der Winterhand der große Arrangeur
Veredelt hat. Man sagt, Ihr schätzt ihn, seinen Spieltrieb,
Der Türmen Hauben aufsetzt und die Dächer deckt
Mit kalten Daunen. Sein Kristallenes Flanell,
Gewebt aus Flocken, polstert faltenlos die Fluren aus,
Bis alle Welt verzaubert ist und tief verschneit –
Ein Foliant mit weißen Seiten, die nur er beschreibt.

Seht Ihr, es tagt. Spurlose Frühe, geometrisch klar.
Kühl wie am Morgen nach der Schöpfung, formenstreng,
Zeigt sich die Erde nun, berechenbar. Was möglich ist,
Nicht wa durch Sintflut, Ackerbau und Kleinstaatkrieg
Verheerend wirklich wurde, liegt nun ausgebreitet.
Besänftigt lädt, was irgend denkbar ist, zum Studium ein.
Schnee hat den Bann gebrochen. Das Diktat der Zeit –
Habt Ihr bemerkt, ist aufgehoben. Unter frischen Wehen
Kroch eine Gleichung in die Hügel. Rein als Raum,
Dreht sich die Landschaft auf den Rücken wie im Traum.

Wacht auf, Monsieur. Auch wenn es scheint, ein Federbett
Sei wie die Wunderwelt dort draußen – nur im Kleinen.
Zum Greifen nah, leicht überschaubar. Eine Projektion
Im Maßstab Eins zu Tausend, nimmt man die Region,
In der Euch Winter traf und einspann wie die Raupe.
Heraus aus dem Kokon! Kommt, werft die Decken ab,
Wenn auch ihr Faltenwurf an Berg und Tal erinnert –
Dazwischen Gänsepfade, überm Knie ein ferner Hügel…
Was früh den Blick trübt, nachts ihn bricht, ist kein Gestirn.
Ein Futteral ists, weich gepolstert, für das müde Hirn.

Es hat geschneit. Seht, vor dem Haus, die weiße Pracht.
Bringt Euern Leib, das feine Instrument, in Position.
Haltet den Atem an ein Weilchen. Adjustiert genau,
Was zum Verorten so geschaffen ist wie kein Sextant –
Dies Sehwerkzeug mit seinen Linsen. Merkt Ihr was?
Auch das Gerät, das uns zur Orientierung dient im Raum,
Ist nur ein Körper, für den Euklids Regeln gelten.
Aus Protein gemacht, doch nach der Art von Glas –
Nichts was zerbricht, und doch im Sog der Erdenschwere,
Folgt es, verletzbar, wenn auch Ding, der Brechungslehre.

Lacht nicht, Monsieur. Ihr kennt so gut als jeder Physicus
Die beiden Wunderkugeln. Wetten, mit Sezierbesteck
Habt Ihr die Äpfelchen zerteilt, die feinen Nervenstränge,
Verzweigt im Eiweiß rings wie vor dem Fenster draußen
Das Wurzelwerk der Bäume unterm frischen Schnee.
Weit mehr gewußt habt Ihr als jeder schnöde Anatom
Von Iris und Pupille, Meister Metaphysicus.
Kein Augenarzt – ein Philosoph betrat das dünne Eis
Zuerst mit der vertrackten Frage: Was heißt Sehn?
Que sais-je? Vielleicht hilft Schnee ja, Perzeption verstehn.

Schnee abstrahiert. Nehmt an, er hat das Bett gemacht
Für die Vernunft. Er hat die Wege eingeschläfert,
Auf denen der Gedankengang sich sonst verirrte.
Die Landschaft gleicht der Schiefertafel, blankgewischt,
Gekippt um neunzig Grad. Im Winterlicht erstrahlt
Die reinste Kammer lucida. Durchs Guckloch geht
Der Sehstrahl scharf zum Horizont und kommt zurück.
Kein Hindernis, kein Zickzackpfad, nur Perspektiven.
Vom Frost geputzt der Zeichentisch – ein idealer Boden
Für den Discours, Monsieur. Allez! Für die Methode.

Nun steht schon auf. Die Sonne wartet nicht auf Euch.
Erhebt Euch aus zerwühlten Laken, eh die Herrlichkeit
Zerschmilzt und Dreck die Sicht Euch trübt wie immer.
Neuschnee ist kostbar wie die großen Diamanten,
Für die man Kriege führt und tauscht Provinzen.
Ein Juwelier, der Schnee. Er modelliert, wohin er fällt.
Er rundet auf und ab und übersetzt in schöne Kurven,
Wofür Physik dann, schwalbenflink, die Formel findet.
Monsieur, bedenkt, was Euch entgeht, verliert Ihr Zeit.
Für Euch hat es, für Euch, die ganze Nacht geschneit.

La neve di oggi

Destatevi, Monsieur. Tutta notte che nevica.
Fin dove arriva l’occhio è bianca la pianura,
è tutta un cono bianco. Sono gli alberi
che il grande arrangiatore con invernale mano ha ingentilito.
Voi apprezzate, dicono, lui e il suo umore ludico
che incappuccia le torri, che gelidi piumini
adagia sopra i tetti. Flanella di cristallo,
una liscia imbottita sopra i campi,
finché la neve è alta e il mondo un incantesimo –
pagine di un in-folio su cui lui solo scrive.

Guardate, si fa giorno. Un intatto mattino. Geometrie.
Algida come all’alba del creato, e severa
di forme è ora la terra, calcolabile, e accedi
a quel che lei sarebbe senza devastazioni,
guerre fra staterelli, diluvi e agricoltura.
Placato ogni pensiero, un invito a studiare.
Infranto l’anatema, anche il diktat del tempo
con la neve è sospeso. Sotto nuove dune
nei colli si è insinuata un’equazione. Il paesaggio
si è girato sul dorso, come in sogno.

Destatevi, Monsieur. Non è un letto di piume
Pari al prodigio fuori, o solo in piccolo.
A portata di mano e dello sguardo,
in scala uno a mille, si prende la regione
dove state incastrato come un bruco d’inverno.
Su, fuori da quel bozzolo! Buttate le coperte,
che fanno pieghe come monti e valli,
fra sentieri per oche, e il ginocchio è un colle…
Vi offuscano il mattino, acciecano la notte
non stelle ma un astuccio, molle di dentro, per cervelli stanchi.

Neve davanti a casa. Bianca magnificenza.
Portate in posizione lo strumento finissimo del corpo.
Trattenete il respiro per un po’. Regolatelo,
per fare il punto è meglio di un sestante –
strumento per vedere con le lenti. Lo notate?
L’attrezzo che ci orienta nello spazio
è anch’esso un corpo e sottostà ad Euclide.
Fatto di proteine ma pur simile al vetro –
Non lo spezza risucchio di gravità terrestre,
vulnerabile cosa, segue però le leggi della rifrazione.

Non ridete, Monsieur. Voi come tanti fisici
Conoscete, scommetto, i due stupendi globi.
Nelle meluzze avete messo il bisturi,
in rami e nervature dell’albume, simili alle radici
degli alberi là fuori, sotto la neve fresca.
Più d’ogni sciocco anatomo sapete cos’è l’iride
e la pupilla, maestro metafisico.
Sul ghiaccio fragile s’avventurò il filosofo –
Non l’oculista. Irta domanda: e vedere cos’è?
Que sais-je? Forse la neve aiuta- a capire cos’è la percezione.

La neve astrae. Come se avesse fatto alla ragione il letto
e addormentato tutte quelle strade
su cui il pensiero prima si smarriva.
Lavagna ripulita è il paesaggio,
inclinata di 90 gradi. Nella luce d’inverno ecco risplende
la camera purissima, la lucida. Per il foro arriva
il raggio della vista all’orizzonte e torna senz’ intralcio,
non a zigzag, soltanto prospettive.
Tavolo da disegno spolverato dal gelo – un terreno ideale
Per il Discours, Monsieur. Allez! Avanti il metodo.

Ora alzatevi dunque. Il sole non vi aspetta.
Uscite dal groviglio dei lenzuoli prima che lo splendore
si squagli e sporco offuschi, come fa sempre, l’occhio.
La neve fresca vale quanto i grossi diamanti
Per cui si fanno guerre, si scambiano province.
La neve è un gioielliere. Dove cade modella.
Qua e là arrotonda, traduce in belle curve
Per cui l’agile fisica trova a volo le formule.
Monsieur, cosa vi sfugge se state a perder tempo.
Per voi, per voi tutta la notte ha nevicato

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale (2004); Carte Sanitarie (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi, a cura di Lidia Ravera (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo “Le invisibili” (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie, tra le quali Rosso da camera. Versi erotici delle poetesse italiane (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

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Sabino Caronia – LA MORTE E LA STELLA. “Il Gattopardo” tra inediti e nuove proposte

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Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Le visite del Principe di Salina a Ferdinando II offrono un interessante campo di osservazione a chi si occupi di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Da esse può prendere avvio una più vasta indagine sugli aspetti linguistici di un’opera in non insignificante misura mentalmente tradotta dalla lingua di un poliglotta che è abituato a leggere moltissimo e a scrivere pochissimo e che per giunta è siciliano, con una patina fonetica, lessicale, sintattica e inoltre con una più premeditata e consapevole invenzione linguistica. E poi c’è il problema delle varianti. Nella stesura dattiloscritta (e nell’edizione del 1958 curata da Bassani) si legge ad esempio: «Gran bella cosa è la scienza, quando non si mette in testa di attaccare la religione», mentre in quella manoscritta (e nell’edizione del 1990, conforme al manoscritto) si legge: «quando non le passa p’ a capa». Ma, rinunciando in questa sede ad un’analisi puntuale, ci limitiamo a ricordare le parole di congedo di Ferdinando II a proposito di Tancredi: «digli ch’a si guardasse o cuollo». Sono le stesse parole di congedo che, nel lasciare Napoli, Francesco II rivolge al suo infedele ministro Liborio Romano, così come le riporta Raffaele De Cesare in La fine di un regno (Longanesi, 1963, p. 919). È un tipico esempio di anacronismo lampedusiano, di quel “senno di poi” che tanto dispiaceva a Vittorini. Che Lampedusa conoscesse De Cesare si poteva del resto desumere dal bollettino borbonico richiamato, con modifiche di grafia e abbreviazioni finali, a conclusione della parte prima del Gattopardo. Sempre in De Cesare poi è, in appendice, la ritrattazione di Giulio Tomasi dopo la riconquista borbonica dell’isola nel 1849 che non poteva sfuggire all’autore del Gattopardo come non sfuggì a Leonardo Sciascia.

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Elio Vittorini

Abbiamo detto del “senno di poi”. Un’altra cosa che Vittorini non poteva soffrire era quella concezione della morte «così vecchia e scontata, così antiquatamente patetica, perfino con la bella donna che appare in ultimo come si è visto addirittura nel film sulla vita di Toulouse Lautrec». Certo le pagine della morte del principe sono state tra le più discusse. In proposito Alessandra di Lampedusa, rispondendo all’asserzione gratuita di Vittorini che vi vuole vedere un’influenza hollywoodiana, chiamava in causa il poeta russo Fet (letto da Lampedusa in traduzione tedesca): «Esiste fra i suoi versi una poesia in esametri che ha dato lo spunto all’immagine dell’autore. Là, la Morte, figlia della muta Notte, e sorella del Sogno, è rappresentata come una giovane donna, una dea della mitologia greca: “Prima del respiro della Notte, l’impassibile Morte / ha incoronato la fronte di un’immobile stella”. Il poeta è libero di servirsi di ogni immagine per dare vita alla sua idea, e Giuseppe di Lampedusa, invece di conservare alla morte l’aspetto esteriore di un simbolo con una stilizzazione mitologica, ha preferito farne una creatura viva, la creatura bramata da sempre, che veniva a prenderlo e gli apparve piú bella di come mai l‘avesse intravista negli spazi stellari. Il componimento richiamato dalla Principessa di Lampedusa è intitolato “Il sonno e la morte” (1858-1859) e si trova nella raccolta Fuochi serotini. Occorre tenere presente che il capitolo del ballo è l’ultimo scritto da Tomasi di Lampedusa e vi si nota, con il dispiegarsi di una cosmica pietà, quell’accostamento Venere-morte che appare più letterariamente sorvegliato di quello morte-bellezza femminile. Ad intendere questo svolgimento ci aiuta il riferimento alla poesia di Fet. Infatti in Il sonno e la morte è il motivo della morte incoronata di stelle, della morte-stella, quel cosmo impassibile tipico di Fet, come del resto il pessimismo sereno, quello scetticismo sereno, quel tuffarsi panico e allo stesso tempo quel capire e percepire la fine di tutto, che lo avvicina all’autore del Gattopardo. Si pensi in proposito alla pagina su Montaigne e Shakespeare riportata da Citati come utile spia per intendere la psicologia di Lampedusa: «In ambedue troviamo la stessa religiosità mista alla stessa commozione davanti le sensazioni religiose degli altri, la stessa compassione universale non disgiunta da una lieve tintura di disprezzo, lo stesso accanimento a smontare il meccanismo della psiche umana, lo stesso scetticismo sereno, quello, voglio dire, che non rigetta tutto con un no aprioristico, anzi accoglie tutte le opinioni con un sì ironicamente condiscendente» (P. Citati, Fabrizio Salina principe e gigante, «La Repubblica», 30 novembre 1995). Si può far riferimento anche ad un appunto inedito per una lezione di letteratura inglese: «Sogno di una notte di mezza estate. Shakespeare ci appare nel pieno possesso della sua meravigliosa capacità. Più che la bellezza dell’opera risalta ai nostri occhi l’ardimento possente, la facoltà dell’artista di muoversi dove egli voglia, e una insuperata fiaba in cui si oppongono la fantasia e la parodia, e bella passione e l’umanità. Quando vediamo gli amanti nel bosco che si attraggono e si fuggono e poi si desiderano ci accorgiamo di quanto perspicace l’analisi dell’amore sia in questa opera e solo nei sonetti Shakespeare ci illumina così sapientemente sul languore e sulla tenerezza. Tutto avviene in una nota di scetticismo religioso che Shakespeare ha sempre presente e mai vuole ostentare».

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Afanasi Afanasievich Fet

A un altro componimento di Fet, “Sul covone di fieno” (1857), sembra rimandare in Lighea la rievocazione «dell’incanto di certe notti estive in vista del golfo di Castellammare, quando le stelle si specchiano nel mare che dorme e lo spirito di chi è coricato riverso fra i lentischi si perde nel vortice del cielo mentre il corpo, teso e all’erta, teme l’avvicinarsi dei demoni», di quelle notti estive «passate sotto il roteare delle stelle» che tengono attorno al professore «come una incantazione» che lo predispone al «prodigio» preparandolo all‘incontro con la Sirena: «Sul covone di fieno nella notte estiva, / Disteso, guardavo le stelle, / Il coro splendeva vivo e amichevole, / Tutt’intorno sparso e tremolante. // La terra, muta come un sogno sfumato / In silenzio si allontanava da me, / Ed io, come il primo cittadino del paradiso, / L’unico, vidi la notte in faccia. // Sono io che navigavo verso gli spazi notturni, / O sono le stelle che si avvicinavano a me? / Mi sentivo come su un palmo grandioso, / Sospeso sopra l’abisso. // Nell’abbandono totale e nell’ebbrezza / Lo sguardo misurava l’immensità, / Nella quale, attimo dopo attimo, / Sprofondavo definitivamente». Questo vedere in faccia la notte equivale a vedere in faccia la morte: non come distruzione, annientamento, ma come perdersi definitivamente fra le stelle, con riferimento a quel sentimento oceanico di cui parla Freud in Il disagio della civiltà. Certo per colui che guarda alle «atarassiche regioni dominate dall‘astronomia», ai «sereni regni stellari» come ad una eletta medicina per i mali dell‘esistenza, l’astronomia è «il trionfo della ragione umana che si proiettava e prendeva parte alla sublime normalità dei cieli», è la musica delle sfere, la musica oracolare delle sirene che rende dolce il distacco del passo orfico e pitagorico della Repubblica (X, 617b), la «tranquilla armonia» che rimanda a quella forma sublimata di misticismo orfico costituita dalle dottrine pitagoriche, a partire dalla quale nel corso dei secoli «il sentimento oceanico della mistica era stato distillato in equazioni differenziali; il pensiero dell’anima mundi si rifletteva nell’arcobaleno dello spettroscopio, nelle spirali fantasmatiche delle galassie, nei disegni armoniosi della limatura di ferro attorno a una calamita» (A. Koestler, L’atto della creazione, Ubaldini, 1975, pp.248-252)., è la ricerca di una risposta al «problema vero» dell’esistenza che, come scrive Lampedusa nel Gattopardo, è quello di «poter continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più sublimati, più simili alla morte». Venere «sempre fedele» da cui attende l’appuntamento «nella propria regione di perenne certezza» è la Daimon di Parmenide, la Venere Urania di Lucrezio, modello di fidatezza, garanzia fin dai primissimi astronomi delle realtà dell’ordine invariabile dietro l’apparente confusione, come del resto la Sirena richiama il celebre passo della Repubblica di quel Platone per cui il tempo e la musica sono immagini mobili dell’eternità.

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A questa esigenza di ordine, che vuol dire soprattutto ragionata prevedibilità, ci si deve riferire come a una costante nell’opera di Lampedusa. In proposito Francesco Orlando ricorda anche il seguente passo del Gattopardo: «Per rassicurare la figlia si mise a spiegare l’inefficacia dei fucili dell’esercito regio; parlò della mancanza di rigatura delle canne di quegli enormi schioppi e di quanta scarsa forza di penetrazione fossero dotati i proiettili che da esse uscivano; spiegazioni tecniche, in malafede per giunta, che pochi capirono e dalle quali nessuno fu convinto, ma che consolarono tutti, Concetta compresa, perché erano riuscite a trasformare la guerra in un pulito diagramma di linee di forza da quel caos estremamente concreto e sudicio che essa in realtà è». Lampedusa e la guerra, la sua «apocalittica comicità», di cui scrive nel suo saggio su Paul Morand, l’impatto traumatico, la nevrosi con insonnia e incubi da cui solo la madre lo seppe guarire. Andrea Vitello per primo ha ricostruito quelle vicende belliche: il volontariato a Messina presso il 4° Artiglieria e poi ad Augusta con la Batteria di “Terre Vecchie” al comando di Enrico Cardile, che in seguito scriverà la lirica “Alba triste” dedicata «al ricordo caro del mio caporale Giuseppe Tomasi principe di Lampedusa sperduto presso Asiago», quindi, dopo il corso Allievi Ufficiali a Torino nel maggio 1917, la promozione a sottotenente nel 1° Reggimento Artiglieria pesante campale. Nella recente biografia per immagini curata da Gioacchino Lanza Tomasi c’è una foto che lo ritrae con il padre, anch’egli in Artiglieria come capitano della Riserva. Alla luce di questo tipo di servizio militare prestato in Artiglieria si intende meglio il significato del brano citato poco sopra del Gattopardo. Al nipote Giuseppe Biancheri, oltre al merito di aver ritrovato il dattiloscritto inedito di quel capitolo intitolato Il canzoniere di casa Salina che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto aggiungersi tra “Il ballo” e “La morte del principe”, si deve il mio ringraziamento per le pagine di memoria inedite che qui si pubblicano.

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Giuseppe Tomasi in divisa

Ne esce fuori un’immagine insolita. L’animazione, quasi l’entusiasmo della rievocazione, tanto diverso dal consueto distacco ironico, con cui sono rievocate le vicende del periodo bellico, la dicono lunga sul sentimento di Lampedusa nei riguardi di quegli anni così significativi, i primi e forse gli unici in vita sua in cui materialmente potesse dire di aver fatto qualcosa. Altri ricorderà in proposito il celebre sogno descritto nella lettera alla moglie del 9 novembre 1950. Qui si preferisce richiamare una lettera che nel 1916 la madre scriveva al figlio “volontario di un anno” ad Augusta: «Però desidero di sapere di maniera certa se anderai a punta Izzo». In Lighea, prima di narrare il suo incontro con la Sirena, La Ciura chiede a Corbera che è stato tre mesi da recluta ad Augusta se è mai andato «in quel golfetto interno, più in su di punta Izzo dietro la collina che sovrasta le saline». Così dunque, non a caso, l’indicazione di punta Izzo dalla lettera della madre ritorna come il luogo dell’incontro con la Sirena.

Sabino Caronia

sirena

Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi: L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000); ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo  (Edizioni Associate, 1995). Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000). Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore, 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio EdiLet, 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia, 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura, 2013).

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MARCO ONOFRIO – Dante e Roma. L’importanza della Città Eterna nella concezione politico-religiosa della “Commedia” (Parte II)

dante alighieri

Unico o duplice il soggiorno, sta di fatto che Roma è presente in Dante come esperienza ben più profonda di quanto potrebbe apparire dai ricordi singoli di cose, luoghi, episodi. Importa un’interpretazione globale del suo mondo: di un pensiero che si accende e si focalizza proprio dopo l’incontro con Roma. Nella Commedia non c’è reminiscenza di terra e di popoli che non sia comprensiva di rammarichi, rimbrotti, polemiche astiose. Un posto a sé ha invece Roma, la cui immagine eterna (più che storica) ricorre con la stessa intensità di Firenze: tuttavia, a differenza di quella, sempre positiva, gloriosa, degna di venerazione. Ne parla sempre con religioso turbamento, reverenza, amore, commozione. Eppure questo alto amore nasce da un’iniziale indifferenza, se non avversione. Lo ricorda nel secondo libro della Monarchia, il tempo in cui “vaneggiava”, meravigliandosi che il popolo romano avesse potuto trionfare ovunque senza incontrare sufficienti resistenze. E nel De vulgari eloquentia la grandezza antica di questo popolo viene addirittura derisa nella presente incarnazione di un rozzo popolaccio, che puzza e parla male: «pare che puzzino anche per pervertimento di costumi e atteggiamenti», dice Dante dei romani del Trecento. Quello che parlano è un “tristiloquium”: il più brutto di tutti i volgari italiani. I romani danno del tu, ma al contempo sono fastidiosamente presuntuosi per una gloria di cui non sono eredi.

romani coatti

romani “coatti” di fine ‘900 (dal film “Fratelli d’Italia”)

Questo fastidio per la plebe rozza e incivile, che Dante probabilmente avvertì durante il suo o i suoi soggiorni romani, non inficia assolutamente il rispetto sacrale per il significato altissimo della Città Eterna. Tuttavia è probabile anche che, prima di vederla con i propri occhi, non avesse egli inteso, di Roma, quello «spezial nascimento e spezial processo, da Dio pensato e ordinato», di cui ci parla nel quarto libro del Convivio. La storia di Roma, cioè, benché già ne conoscesse gli stupendi frutti letterari, non era ancora entrata pienamente dentro la sua vita, restando sostanzialmente estranea all’impegno di pace e giustizia della stagione politica fiorentina. Poi invece, galeotto anche lo spettacolo umano del Giubileo (dove, mire teocratiche a parte, si respirò un’autentica vibrazione religiosa), Dante scopre Roma nella sua grandezza storica ed ecumenica, e scorge, sotto le incrostazioni, la santità come suo volto più vero. Non ovviamente la Roma storica di Bonifacio VIII, centro di intrighi e di potere («là dove Cristo tutto dì si merca», scrive in Par. XVII, v. 51), ma la Roma della duplice universalità, eternamente cristiana ed imperiale, trasfigurata dalla sua reale condizione di decadenza. È questa la Roma che, come un termine ideale, gli si accende nella mente e dentro il cuore. Perché a un certo punto Dante, come in lampo di rivelazione, capisce che non c’è contrasto, se non storico, fra Impero e Chiesa, aquila e croce: che la Roma imperiale e la Roma cristiana sono perfettamente integrate in un unico disegno provvidenziale. È proprio la giustificazione provvidenziale della Storia a riscattare il passato alla luce della sapienza di Dio. Non la violenza e il sopruso hanno generato il potere romano, ma la ragione divina: Roma dalla mano stessa di Dio è stata condotta a dominare e quindi ordinare il mondo, onde venisse quell’«ottima predisposizione», cioè la pace propizia alla nascita del Cristo. Tutta la storia antica viene quindi recuperata alla luce di questa preparazione, di questa prefigurazione.

aquila romana

l’aquila di Roma

Si conciliano così i fatti della storia con le verità della fede: le ragioni della Roma pagana con quelle (più alte) della Roma cristiana. Ecco perché Dante sceglie Virgilio, il cantore delle origini di Roma e il profeta della nascita di Cristo (secondo l’interpretazione tardoantica e medievale della IV Egloga), come guida per il viaggio ultraterreno. Roma allora è città santa ed eletta: per la consacrazione del sangue dei martiri; per le memorie dell’alba della Chiesa; per le reliquie prestigiose che custodisce; perché è “apostolicum culmen”, sede del soglio pontificio; perché è Colei di cui Cristo ha confermato l’impero; perché tutto ciò che appartiene alla sua storia non è accaduto senza divina ispirazione. Leggiamo ad esempio nel IV libro del Convivio che Davide, capostipite della stirpe di Maria, nasce nell’esatto momento in cui Enea approda alle rive del Tevere. Roma è “alma”, cioè nutrice degli uomini, perché detiene e custodisce il senso delle più alte universalità morali del mondo; perché è nodo cardinale del tempo, nello scenario dei popoli e delle generazioni; perché è arca di civiltà, sintesi di tutto il passato e di tutto il futuro, nell’altezza millenaria del suo “imperium”; perché infine è la madre del diritto, nel suo umano e divino riconoscimento, al di fuori del quale non c’è che trionfo dell’anticristo, cioè anarchia, caos, brado scatenarsi della cupidigia, e il mondo non è altro che “aiuola feroce”. Ed eccolo allora rivendicare l’origine romana di Fiesole, poi tradita dai corrotti fiorentini; e raccogliere le anime del Purgatorio alla foce del Tevere, come a dire che Roma è la luce che brilla nell’abisso, il senso e il nome della salvazione; e affidare all’imperatore Giustiniano, il raccoglitore del “Corpus Iuris”, l’apologia di una storia che ricapitola, in una sintesi mirabile e fulminante, il sigillo solenne di un destino che trascende i confini della terra. Questa Roma ideale, attivata dall’esperienza toccante del Giubileo e nutrita dal dolore dell’esilio, diventa metafora e specchio della Gerusalemme celeste: Cristo ne è il primo cittadino.

14-09giustiniano

Giustiniano

Roma, dunque, è al centro della autobiografia politico-religiosa di Dante. La stessa Commedia è, per molti versi, proprio l’elogio e la rincorsa di Roma, della sua legge morale, della sua civiltà. L’esperienza dell’esilio, dicevamo, permette a Dante di allargare e approfondire gli orizzonti, da Firenze all’Italia al mondo intero. Sono ormai lontani gli anni del priorato e dell’ambasceria romana. Dante è cambiato: non è più il giovane animoso pronto a sfidare le ire del papa pur di restare coerente con se stesso, quale strenuo difensore delle libertà comunali. La sua concezione politica evolve. Bersaglio resta la corruzione in cui versa la Chiesa: solo che prima veniva attaccata dalla parte dei diritti del Comune fiorentino (per la gelosa difesa della sua autonomia), ora – con sguardo più ampio – dalla parte dei diritti dell’Impero. L’esule ha rotto con la «compagnia malvagia e scempia» dei fuoriusciti guelfi e, pur facendo «parte per se stesso», si è avvicinato agli ambienti ghibellini: nutre infatti ammirazione per l’istituzione imperiale e speranza nella sua restaurazione. Da qui il vivo interesse di Dante per alcuni personaggi della dinastia sveva, e la benevola commossa partecipazione nel descriverli: Manfredi, «biondo,bello e di gentile aspetto», che gli sorride dolcemente come un simbolo meraviglioso dell’età passata (Purg., III); Corradino di Svevia (Purg. XX); e Costanza d’Altavilla, madre di Federico II, trasfigurata in luce di santità nel III del Paradiso; da qui anche la suprema illusione per la discesa in Italia del nuovo imperatore Enrico VII di Lussemburgo, l’«alto Arrigo» cui Dante dedica la sua VII Epistola e dal quale spera, per qualche tempo, la possibilità di un ritorno in extremis a Firenze. Lo spettacolo delle città italiane lacerate da lotte civili, sopraffazioni e violenze, e il quadro di una Chiesa mondanizzata e corrotta, i cui membri, invece che pastori, sono “lupi rapaci”, lo inducono a ricercare la «cagion che il mondo ha fatto reo». Gli risponde Marco Lombardo alla metà del Purgatorio (XVI canto), quindi dell’intera Commedia: è colpa del libero arbitrio, giacché Dio aveva invece disposto che due potestà provvedessero a guidare gli uomini sulla retta via:

Soleva Roma, che ‘l buon mondo feo
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro inseme
per viva forza mal convien che vada.

La celebre teoria dei “due soli” va a ribaltare la metafora teocratica e ierocratica di Innocenzo III («così come la luna riceve la sua luce dal sole e per tale ragione è inferiore a lui, similmente il potere regio deriva dall’autorità papale lo splendore della propria dignità»), ma per converso anche le teorie di chi sosteneva derivare la potestà pontificia da quella, suprema, dell’imperatore. Il papa ha usurpato il potere temporale. I pastori della Chiesa puttaneggiano coi re della terra. La confusione dei due poteri ha prodotto danni infiniti e sanguinosi. La degenerazione risale addirittura al peccato originale, alla colpa di Adamo: da allora una certa “infirmitas” rende l’uomo esposto al continuo rischio di cadere. Per questo Dio ha fornito due rimedi di salvezza, che sono strumenti per sfuggire alla tentazione e appigli per mantenersi saldi: Impero e Chiesa. Il primo preposto alla felicità terrena, garantendo con l’esercizio legittimo del suo diritto la pace universale; il secondo preposto alla letizia celeste. Due soli: due poteri fondati in sfere perfette e autonome: capaci, quando necessario, di riequilibrarsi a vicenda, nel senso che se l’imperatore commetterà errori il papa lo consiglierà al retto governo, e viceversa.

Innocenzo III

Innocenzo III

La «cagion che il mondo ha fatto reo» va individuata non tanto nella vituperata (e poi dimostrata falsa) donazione di Costantino, il quale ebbe sì il torto di volgere «l’aquila contra il corso del cielo», cioè di trasferire l’impero da Roma a Bisanzio, ma fece la donazione «sotto buona intenzion» (Par., XX, v. 56), come dote che il papa riceveva non a titolo personale, bensì a vantaggio dei poveri; non tanto in questa, dunque, ma soprattutto nella latitanza di un imperatore in grado di porsi come “executor iustitiae”, supremo regolatore della vita civile, facendo rispettare le leggi ed obbligando così la Chiesa a tornare alla sua missione spirituale. Solo se è in pace e in concordia l’umanità può seguire la guida del papa e giungere alla salvezza. L’opera della Chiesa ha il suo presupposto indispensabile nell’azione efficace dell’imperatore. Ma il fine della Chiesa, in assoluto, è più alto di quello dell’Impero, così come il cielo sta più in alto della terra: l’imperatore deve al papa una certa naturale reverenza. Questo progetto di restaurazione politico-religiosa è grandioso ma in realtà anacronistico, ormai superato dal corso effettuale della storia, che aveva sancito la crisi irreversibile dei due poteri universali e il progressivo emergere dei poteri locali, l’aurora del concetto di nazione. La costruzione poetica della Commedia nasce proprio da questa magnifica utopia regressiva, conseguente al rifiuto di un presente caotico: da un’ansia profetica e visionaria di palingenesi, di universale rigenerazione. C’è una grande, messianica speranza: che il mondo tornerà purificato. Il Veltro scaccerà la lupa, cioè la cupidigia che tutto avvelena. E il poeta si autoproclama profeta della nuova età, attraverso il messaggio lanciato dal suo sacro poema. Potrà così finalmente realizzarsi il terzo tempo di quella Roma «onde Cristo è romano», e di cui Beatrice gli annuncia che sarà «sanza fine cive» (Purg. XXXII, vv. 101-102), dopo la premessa dell’Urbe antica, il completamento di quella cristiana, e il trionfale epilogo di una Roma equamente imperiale e papale.

                                                                           [fine]

roma eterna

Roma eterna

Marco Onofrio. Nato a Roma nel 1971, scrive poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria. Per la poesia ha pubblicato 10 volumi, tra cui: D’istruzioni (2006), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove (2013), Ai bordi di un quadrato senza lati (2015). Ha pubblicato inoltre monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni e Antonio Debenedetti. Site: www.marco-onofrio.it

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MARCO ONOFRIO – Dante e Roma. L’importanza della Città Eterna nella concezione politico-religiosa della “Commedia” (Parte I)

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dante

Analizzando il rapporto che lega Dante alla Città Eterna, occorre anzitutto distinguere fra il Dante reale, nella sua concreta esperienza biografica, e il Dante ideale, proiettato in esperienza di pensiero. Nel primo caso parleremo di “Dante a Roma”; nel secondo (che il primo racchiude) di “Dante e Roma”. E sì, perché Dante a Roma c’è stato, almeno una volta: un soggiorno che gli cambia la vita, in tutti i sensi, e lascia tracce indelebili nel corpo stesso della sua opera. Tracce così vive e precise che sembra difficile dubitare della visione diretta di ciò che nomina e descrive. Gli studiosi si sono da sempre sguinzagliati sulle orme del Dante visitatore, per raccogliere i suoi “souvenir” romani. Fra i quali ricordiamo i più celebri, probabilmente nati dall’esperienza del Giubileo del 1300: lo smistamento dei pellegrini in due colonne a doppio senso su Ponte S. Angelo:

Come i Roman per l’esercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto
che dall’un lato tutti hanno la fronte
verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro
dall’altra sponda vanno verso il monte

(Inf. XVIII, vv. 28-33);

la pina bronzea di S. Pietro cui viene paragonata la faccia “lunga e grossa” del gigante Nembrotte (Inf. XXXI, vv. 57-58); Montemario (Montemalo), messo dall’avo Cacciaguida in relazione con il colle Uccellatoio di Firenze (Par. XV, vv. 109-110); e la “Veronica nostra”, reliquia già famosissima, esposta per l’occasione a S. Pietro: era l’immagine di Cristo stampata nel panno che la leggendaria Veronica gli aveva offerto perché si asciugasse il viso, durante la salita al Calvario (Par. XXXI, vv. 103-111). Nel nome di Montemalo può riassumersi la suggestiva visione dall’alto che, della Città Eterna, si apriva a quanti arrivassero da nord.

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Panorama di Roma attuale, visto da Montemario

Uno sguardo che poteva allungarsi fino al mare, nelle distese del cielo infiammato dal sole quando «quel da Roma» (cioè colui che guarda da Roma) «il vede quando cade» (cioè lo vede tramontare) «tra Sardi e Corsi» (cioè tra Sardegna e Corsica, nel mar Tirreno): sono i vv. 79-81 del XVIII del Purgatorio, e Dante sta probabilmente rievocando l’esperienza di uno degli ineffabili, struggenti tramonti romani, visto da Montemario. Ma i cercatori di tracce spesso esagerano: come il Bassermann, che invocava l’esplorazione dell’interno del Colosseo per la concezione dantesca della struttura infernale. È anche da escludere la tradizione della locanda dell’Orso, che mai poté ospitare Dante poiché quattrocentesca.

colosseo

Che Roma vide Dante al suo arrivo? Come apparve ai suoi occhi? Rovinata, desolata, decaduta. Una campagna, intorno, arida e giallastra d’argilla e di secchi pascoli, sparsi di armenti e di greggi. Radi casali, circondati di orti e vigne. E un minaccioso sorgere, a sbarrare le strade irregolari, pietrose e sconnesse, di rozze torri e castelletti. Il centro della città era fortificato: non per comune difesa, ma per contrasto prepotente di famiglie (Savelli, Pierleoni, Orsini, Colonna, Frangipani, Annibaldi). Isolate, in mezzo alla campagna, le basiliche di S. Paolo e S. Lorenzo. La Roma medievale aveva soppiantato e in parte distrutto quella classica, ristrettasi a un quarto. Trentacinquemila abitanti contro i novantamila della florida Firenze. E, tuttavia, la presenza del papa garantisce Roma nella sua funzione di città-santuario, meta costante di pellegrinaggi (con buona pace dei romani che ci campano: bottegai, locandieri, artigiani, contadini, cambiavalute, etc.). Parleremo tra breve della grande occasione che, anche e specialmente in senso economico, rappresentò per tutti il Giubileo del 1300.

Ora però non è più possibile differire l’urgenza di un passo a ritroso, che consenta di illuminare lo scenario storico, italiano ed europeo, in cui ci stiamo muovendo. L’Italia è lacerata dal contrasto fra Guelfi e Ghibellini, sul modello originario della Germania (discendenti gli uni dal duca Welff, fondatore della casa di Baviera; gli altri dagli Hohenstaufen, duchi di Svevia e signori del castello di Weibling): i primi aperti verso il potere di Roma; i secondi rigidi difensori dell’indipendenza da ogni ingerenza pontificia. Papa e Imperatore, dunque: le massime autorità medievali.

Guelfi-ghibellini

È tuttavia un contrasto da adattare al “particulare” italiano, irto di faziosità localistiche, in coincidenza di certi interessi: contrassegnato dunque dal trasformismo, da un furbesco ondeggiare tra papato e impero a seconda delle circostanze. Perché, ad esempio, Firenze è guelfa? Perché i banchieri fiorentini (che prestano fiorini ai principi di tutta Europa) amministrano gli affari della Chiesa, riscuotendo in suo nome le “decime” in tutto l’orbe cattolico. I finanzieri del papa sono potentissimi giacché protetti da una garanzia metafisica: il papa può scomunicare i debitori insolventi. Così i fiorentini si infilano ovunque: Bonifacio VIII li definisce «quinto elemento del mondo». Getta così il suo occhio goloso sulla Toscana per farne un suo feudo. E com’è la Firenze guelfa di quegli anni? Una città in pieno sviluppo economico, dominata dal ceto borghese e imprenditoriale. Con gli “Ordinamenti di Giustizia” di Giano della Bella (1293), le leve del potere sono nelle mani dei mercanti. Gli aristocratici vengono esclusi dalle cariche pubbliche; poi, con i “Temperamenti” del 1295, possono accedervi purché iscritti ad una corporazione. Dopo la vittoria sui ghibellini di Arezzo a Campaldino, l’11 giugno 1289 – battaglia cui partecipa pure Dante, ventiquattrenne, tra i 150 feditori a cavallo – i guelfi fiorentini si dividono in due correnti, fieramente nemiche: guelfi bianchi, afferenti alla famiglia dei Cerchi (capitanata da Vieri dei Cerchi); e guelfi neri, afferenti alla famiglia dei Donati (capitanata da Corso). I neri sono filopontifici a oltranza: Bonifacio VIII ha assegnato agli Spini, di parte nera, il monopolio degli affari della Curia. Quindi – non illudiamoci – i bianchi sono contro Roma soprattutto per la delusione di essere esclusi da quegli affari. Ma Dante, iscrittosi all’Arte dei Medici e degli Speziali, scende nell’arengo politico per impegno etico e civile, non per accordi o compromissioni nelle anticamere dei guelfi. Imparentato coi Donati per mezzo della moglie Gemma (cugina secondaria di Corso), amico di Forese, è tuttavia dalla parte dei Bianchi, vicino loro per temperamento, ideali, simpatia. Dopo qualche incarico diplomatico (in qualità di ambasciatore di Firenze e mediatore politico), viene eletto priore, il 15 giugno 1300. È proprio al bimestre priorale che più tardi farà risalire la causa di tutte le sue sventure. Oltre che a Bonifacio VIII.

Bonifacio VIII

Bonifacio VIII

Chi è questo Benedetto Caetani di Anagni, papa Bonifacio VIII? Un uomo che, in forza e a dispetto del proprio ruolo, è pienamente implicato nelle vicende che insanguinano di fiera discordia la lotta tra le famiglie patrizie romane. Odia i Colonna per la loro tendenza ghibellina, ma anche perché appoggiano i francescani spirituali; i quali non riescono a consolarsi per la caduta del loro idolo (Celestino V), e considerano Bonifacio VIII un papa illegittimo, usurpatore, simoniaco, incarnazione stessa della chiesa temporale che condannano e che, annunciando il prossimo avvento del regno dello Spirito Santo, ambiscono riformare (ma anche perché Bonifacio VIII ha abrogato gli atti sottoscritti da Celestino a loro favore). Bonifacio odia i Colonna al punto di bandirgli contro addirittura una crociata, di cui naturalmente approfittano gli Orsini per annientare i loro avversari, e che porta all’assedio di Palestrina, roccaforte colonnese, di cui Bonifacio ordina la distruzione. Pontefice discutibile ma abilissimo uomo politico, Bonifacio costringe vescovi, arcivescovi e abati ad accettare prestiti forzosi, col tasso del 60%, dalla banca degli Spini di Firenze, cui è interessato il nipote Jacopo. Gli Spini lo riforniscono anche di pellicce e velluti. Veste con paludamenti orientaleggianti, più da satrapo che da pastore d’anime. Incede nei cortei con la spada in una mano, nell’altra la croce: preceduto da un araldo che lo proclama a pieni polmoni “sovrano universale”. Pieno di albagia e di fasto; iracondo, beffardo, privo di simpatia umana: «amato da pochi, odiato da moltissimi, temuto da tutti», scrive il Muratori. Autoritario, non tollera obiezioni. È ammalato di grandeur teocratica. Ed ecco il suo trionfale colpo di genio: il Giubileo. Già preannunciato nel Natale del 1299, viene promulgato ufficialmente con la bolla papale del 22 febbraio 1300: verrà concessa indulgenza plenaria a tutti i fedeli, purché giungano a Roma, entro l’anno, a pregare sulle tombe di S. Pietro e S. Paolo. Visita da prolungarsi per almeno 15 giorni, per i forestieri, e 30 giorni, per i residenti. Esclusi soltanto i “nemici della Chiesa”: gli odiati Colonna, re Federico d’Aragona e i cristiani trafficanti con i Saraceni.

I pellegrini del Giubileo del 1300 giungono a Roma

I pellegrini del Giubileo del 1300 giungono a Roma

L’affluenza è senza precedenti: Roma diventa una Babele di lingue e costumi. A decine di migliaia, da tutta Europa, ci si fa romei. Dall’alto dei colli, così, si può godere la scena grandiosa: uno spettacolo di moltitudini affluenti da tutti i punti cardinali: a piedi, a cavallo, sui carri, carichi di bagagli: anziani sulle spalle dei giovani, come Anchise su Enea. Arrivati in vista della Città Eterna, come naufraghi che scorgono la terra, i pellegrini cantano: «O Roma nobilis… : O Roma nobile, regina del mondo, la più eccellente di tutte le città, rossa per il rosso sangue dei martiri, candida per i bianchi gigli delle vergini, noi ti salutiamo e ti benediciamo per tutti i secoli: salve». Nella calca, più d’uno muore schiacciato. I romani si organizzano per l’accoglienza. Vettovaglie abbondanti e a buon mercato, ma alberghi piuttosto costosi. In tutta Roma è grande il commercio di reliquie, immagini sacre e reperti antichi. I pellegrini si fanno anche turisti: si soffermano estatici a contemplare le rovine, col libro dei Mirabilia in mano. Un sentimento di stupore che provò anche Dante, «veggendo Roma e l’ardua sua opra», se lo utilizza nel XXXI del Paradiso per dipingere quello, tanto maggiore, che lo pervade dinanzi alla mistica rosa dei beati. Bonifacio può assaporare in pieno il senso della propria autorità.

E poi, che non guastava affatto, furono floridi i conti dell’Anno Santo: sulle tombe dei due apostoli, dall’alba al tramonto, monete di tutte le nazioni venivano rastrellate da due instancabili chierici: «rastellantes pecuniam infinitam», scrive un cronista dell’epoca. Nella concezione bonifaciana, coerentemente espressa in decreti e bolle (di cui il vertice è rappresentato dalla Unam Sanctam del 1303), la sfera del potere ecclesiastico è dilatata al punto di assorbire e sottomettere quello temporale. La potestà papale non conosce praticamente più limiti: è “plenitudo potestatis”, di origine divina: ogni umana creatura deve essere perciò interamente sottomessa al papa. Ma Bonifacio si dimostra miope nell’avvertire i limiti della sua autorità. E forse alza i toni nella misura in cui sente che il terreno comincia a mancargli sotto i piedi. Anche lo strumento della scomunica, a forza di usarlo, ha perso di efficacia. Gli imperatori di Germania (come Adolfo di Nassau o Alberto d’Austria) si disinteressano dell’Italia, il «giardin de lo ‘mperio», ma la Chiesa sembra incapace di riempire il vuoto di potere, legando a sé le genti e realizzando il principio guelfo: «i rematori che guidano la navicella di Pietro sonnecchiano», scrive Dante nella VI Epistola.

A Firenze, frattanto, le ostilità fra Bianchi e Neri si aggravano: ormai è guerra aperta. Bonifacio ha nominato Matteo d’Acquasparta legato papale per la Toscana: dovrebbe in teoria pacificare le opposte fazioni, in realtà si adopera segretamente a rafforzare i Neri. Ma poi, subìto un attentato da un popolano, abbandona la città. Bonifacio chiama allora il conte Carlo di Valois, fratello di Filippo IV il Bello. Gli chiede di assoggettare i ghibellini italiani. Lo alletta con grandi promesse: il titolo di senatore e la mano di Caterina di Courtenay. Il Valois, truppe mercenarie al seguito, si reca direttamente ad Anagni. Presi gli accordi necessari, Bonifacio – il 3 settembre 1301 – lo nomina capitano generale dello Stato della Chiesa, e gli affida il compito di riportare la pace in Toscana. Il papa è certo di poterlo utilizzare per i suoi fini egemonici: lo manda alla “fonte dell’oro”. Carlo di Valois muove da Anagni prima del 20 settembre e alla metà di ottobre è a Siena. Dante è fra i più accesi nel subodorare l’imminenza del pericolo; fra i più tenaci nel capeggiare una minoranza oltranzista filo-popolare, di irriducibile opposizione alle mire del papa. Viene decisa un’estrema e tardiva mossa: inviare un’ambasceria presso Bonifacio. Uomini fiorentini – fra cui Dante – e forse anche messi di Bologna, partono ai primi di ottobre: troppo tardi.

«Giunti li ambasciatori in Roma, il Papa gli ebbe soli in camera, e disse loro in segreto: Perché siete voi così ostinati? Umiliatevi a me: e io vi dico in verità, che io non ho altra intenzione che di vostra pace. Tornate indietro due di voi; e abiano la mia benedizione, se procurano che sia ubbidita la mia volontà». (Cronache del Compagni).

Tra i due mandati indietro, sicuramente non c’è Dante (personaggio ormai molto in vista). Resta invece a Roma, in attesa di nuove istruzioni: almeno fino ai primi di novembre, quando gli giunge notizia (ma forse a Siena, sulla via del ritorno) che a Firenze la situazione è precipitata, e quindi avverte la vanità del suo incarico. I Bianchi sono caduti, messi in fuga dal nuovo governo nero. È il caos: violenze, repressioni, distruzioni, incendi e saccheggi di case (compresa quella di Dante).

Hieronymus Bosch

Hieronymus Bosch

Torna pure Matteo d’Acquasparta. Dante, condannato in contumacia prima a un’ammenda di 5000 fiorini, poi alla pena di morte, non metterà più piede a Firenze. Glielo preannuncia l’avo Cacciaguida in Paradiso:

Qual si partì Ippolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca
tal di Fiorenza partir ti conviene.

Sull’ambasceria romana sono state sollevate varie ipotesi: se ad esempio sia stata ricevuta da Bonifacio nel palazzo di Anagni o a Roma in Vaticano; se dunque Dante si sia spinto fino alla città natale del Caetani, dove questi era solito trattenersi fino all’autunno inoltrato. Ovvero (altra ipotesi): il Compagni, scrivendo che Dante «era anbasciatore in Roma», potrebbe riferirsi a una precedente ambasceria fiorentina (11 novembre 1300). In tal caso Dante a Roma ci sarebbe stato una volta sola: come romeo e, al tempo stesso, come ambasciatore. Un unico soggiorno, nell’autunno dell’Anno Santo. Risulterebbe peraltro strana, e provocatoria verso la terrificante suscettibilità di Bonifacio, la partecipazione all’ambasceria da parte di un uomo che, nel corso del 1301, come mai prima di allora, aveva potentemente tuonato contro le ingerenze pontificie.

Marco Onofrio. Nato a Roma nel 1971, scrive poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria. Per la poesia ha pubblicato 10 volumi, tra cui: D’istruzioni (2006), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove (2013), Ai bordi di un quadrato senza lati (2015). Ha pubblicato inoltre monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni e Antonio Debenedetti. Site: www.marco-onofrio.it

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Marco Onofrio sul mito di Orfeo – II

domus%20del%20chirurgo%2011  Secondo Charles Segal (che ad Orfeo ha dedicato un ampio e suggestivo saggio) gli elementi fondamentali di questo mito configurano un triangolo costituito da “arte”, “amore” e “morte”. Il significato del mito cambia a seconda di quali diversi elementi si pongano alla base del triangolo: amore-morte, amore-arte, arte-morte. Per un verso Orfeo incarna la capacità dell’arte, della poesia, del linguaggio – “retorica e musica” – di trionfare sulla morte; il potere creativo Continua a leggere

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