Archivi del giorno: 14 gennaio 2016

Durs Grünbein, “Della neve ovvero Cartesio in Germania”: Durs Grünbein e il poema epico nella post-storia. (Traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, 2005). Commento di Letizia Leone

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Durs Grünbein nasce a Dresda nel 1962 e vive a Roma dal 2013. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra quali il premio della città di Marburg (1992), il premio Büchner (1995), il Premio Pasolini (2006). Membro dell’Accademia Tedesca per la Lingua e la Poesia (1995) e dell’Accademia delle Arti di Berlino-Brandeburgo (1999), è autore di numerosi volumi di poesia e saggistica: A metà partita: poesie 1988-1999, traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 1999; Il primo anno. Appunti berlinesi, traduzione di Franco Stelzer, Einaudi, Torino 2004; Della neve ovvero Cartesio in Germania, traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 2005; Infanzia in diorama, traduzione di Silvia Ruzzenenti, in “Comunicare – Letterature Lingue” N. 7, 2007, Il Mulino, Bologna, pp. 241-249; Strofe per dopodomani e altre poesie, a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 2011; Il consiglio dei gamberi e altre passeggiate sott’acqua, traduzione di Silvia Ruzzenenti, in “Prosa saggistica di area tedesca”, a cura di G. Cantarutti e W. Adam, Il Mulino, Collana “Scorciatoie”, Bologna 2011, pp. 17-50; La strada per Bornholm (racconto presente in “La notte in cui cadde il muro”, a cura di Renatus Deckert, traduzione di Valentina Freschi, Scritturapura Editore, Collana Paprika, Asti 2009).

Commento di Letizia Leone

“Le forme letterarie possiedono un determinato indice di resistenza che assicura loro il passaggio attraverso tutta una serie di epoche; nello stesso tempo, la forma letteraria si trova a dover affrontare l’influenza di compiti diversificati, e il nuovo si accumula sul vecchio in maniera qualitativa…”: queste considerazioni di Šklovskij sull’assimilazione e trasformazione stilistica dei generi introducono adeguatamente l’operazione poetica di Durs Grünbein (uno dei maggiori poeti della Germania post-unificazione) il quale, in duemila versi suddivisi in quarantadue canti di dieci strofe ognuno, rivitalizza la tradizione inerte della narrazione lirica in esametri. Risonanze e memoria dei classici ma anche recupero di ritmi e metri della poesia barocca come l’illustre alessandrino (verso canonico del teatro tedesco del XVII sec.), reso sapientemente nella traduzione di Anna Maria Carpi con un recitativo “che tolti alcuni isolati endecasillabi, nasce a seconda della necessità, da aggregazioni diverse di settenari, endecasillabi, quinari”.

Viene da chiedersi: è possibile che la parola epica abbia ancora la capacità di cogliere lo Zeitgeist contemporaneo? E soprattutto ha ancora senso parlare di unità del genere a fronte della dissoluzione postmodernista che avvalora la contaminazione e il riciclo caotico dei materiali, quando lo stesso paradigma critico di genere rischia di risultare obsoleto? Già Hegel, in base alle categorie di “totalità” e “assolutezza dei valori” propri dell’epica classica, dichiarava impossibile un’epica moderna, e Lukàcs supportando la linea hegeliana vedeva nel romanzo (epopea moderna dell’eroe borghese) la filiazione manchevole dell’epos, cosicché nell’ambito di una riflessione critico-stilistica “a rappresentare con purezza il tipo epico risultava esserci sempre e solo l’epos di un Omero e questo tipo omerico sparisce per così dire all’inizio della storia della letteratura” (M. Wehrli). Eppure non mancano esempi di sperimentalismi e riformulazioni che hanno apportato nuova linfa al genere: da Whitman ai classici del modernismo come I Cantos o La terra desolata (opera questa che nel giudizio di I. A. Richards conterrebbe in sé una dozzina di volumi dell’Enciclopedia Britannica) oppure la nuova epica postcoloniale dell’Omeros di Derek Walcott. Opere polifoniche, stratificate, portatrici di un’ampia esegesi.

In “Della neve” la riproposizione del canone epico viene esibita in una architettura compositiva di grande rigore metrico. Grünbein ha adottato brillantemente l’ambizione enciclopedica del genere ai suoi scopi, e se ad uno sguardo retrospettivo l’epica ha funzionato come deposito della memoria collettiva con la narrazione di imprese mitiche e storiche, qui le gesta eroiche da cantare sono quelle del pensiero, e l’eroe è l’homo theoreticus, il filosofo francese René Descartes. Cartesio è il “più frainteso dei filosofi della modernità” e il primo a fraintenderlo è stato proprio il suo contemporaneo Leibniz “che inizia ciò che l’idealismo portò a termine: e cioè congelare Cartesio come il momento pre-dialettico, freddamente razionalistico del pensiero”. Nell’intento di “riscongelare un filosofo esiliato dall’idealismo tedesco”, Grünbein apre la scena in medias res con lo studioso ripiegato nel proprio isolamento interiore ed esistenziale in un “luogo sperduto vicino ad Ulm”, cittadina della Baviera immersa nel gelo straordinario dell’inverno del 1619, come testimonia Cartesio stesso: “Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre ancora in corso; e tornando verso l’esercito dopo l’incoronazione dell’imperatore, l’inizio dell’inverno mi colse in una località dove, non trovando compagnia che mi distraesse, e non avendo d’altra parte, per mia fortuna, preoccupazioni o passioni che mi turbassero, restavo tutto il giorno solo, chiuso in una stanza accanto alla stufa, e qui avevo tutto l’agio di occuparmi dei miei pensieri.”(dal “Discorso sul metodo”)

cartesio

Cartesio

Nella descrizione poetica dell’interno domestico, illuminato da una luce caravaggesca, cose e dettagli vengono colti con un’assoluta freddezza di sguardo:

Un mozzicone arde. La griglia nella stufa
dopo il banchetto è lustra come gabbia toracica d’un manzo
fatto arrosto. Ma il freddo si raccoglie nella veste del dotto,
dentro le scarpe a fibbia, nel bavero di pizzo
e dipinge arabeschi alle finestre, entro i tondi piombati.
E gelo e buio marcano i contorni, più aguzzi sono i nasi
e i menti, e blu le labbra la mattina.
D’inverno l’uomo è come il suo cadavere.
Disteso e duro come sulla bara – sul sarcofago-letto.
Un brivido lo desta. Nevica. Un nuovo giorno.

La citazione di Keplero ut pictura, ita visio all’inizio del canto ventiseiesimo, dal quale è tratta la strofa, conferma e ribadisce una modalità di stile all’insegna della figuratività e visibilità. Grünbein sembra adottare la stessa tecnica del chiaroscuro dei pittori olandesi e fiamminghi del XVII secolo nel calcolare l’effetto “luminoso” del freddo sui corpi, gelo e buio marcano i contorni del volto facendo vibrare il ritratto inedito del dotto e sotto la pallida luce dell’alba gelida il dormiente nel letto, disteso e duro come sulla bara, trasfigura quasi nell’icona di un Cristo deposto. L’azione del poema è condensata intorno ad un momento topico del pensiero occidentale, la nascita del razionalismo cartesiano sullo sfondo del paesaggio nordico invernale, o per meglio dire sotto il “diluvio grande di neve” (come annotò il padovano Nicolò De Rossi) della piccola glaciazione che investì l’Europa del 1600. Condizioni estreme, adatte al filosofare. Il poema vuole essere anche elogio dei filosofi, dello stile di vita teoretico, dell’osservazione disinteressata, dell’ascesi nell’epochè, sotto gli imperativi dell’isolamento e della concentrazione che denotano una modalità dell’esistenza filosofica, e ci rammentano i ritiri di Heidegger nella famosa Hütte, la baita di Todtnauberg: “Quando nel profondo della notte invernale, una violenta tempesta di neve avvolge la baita, copre e vela tutto, allora è il tempo della filosofia.” L’immagine-simbolo della neve che apre e chiude il poema svettando nel titolo, è richiamo e correlativo del metodo analitico del matematico Cartesio, inventore della geometria delle coordinate. “Il cristallo di neve, perfetto, esagonale, è il modello della ragione geometrica”, afferma Grünbein, “e l’inverno è la stagione più propizia alle intuizioni della filosofia: ci mostra la natura nel rigore delle sue leggi. Io credo però che Cartesio, costretto per forza maggiore nella prigionia di quel paesaggio gelato, cercasse di apportarvi dinamismo e calore”.

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Freddo, neve, inverno: isotopie meteorologiche che avviano la sequenza delle metafore ma anche allegoria della condizione dell’uomo moderno. La suggestione plastica della landa innevata è condicio sine qua non della concentrazione, visione che astrae dalle contingenze, impulso al cogito del filosofo che comincia a pensare il mondo come astrazione geometrica dalla sua torretta di osservazione, la stanzetta mal riscaldata da una stufa. E il poeta sa rendere perfettamente la situazione emotiva di isolamento ed esilio in cui prende forma il cogito ergo sum bilanciando la narrazione nella compenetrazione dialettica tra l’esterno, la bianca magnificenza del tappeto nevoso che copre le simmetrie del paesaggio naturale e depotenzia i clamori della Storia (la guerra dei trent’anni), e lo spazio interno della coscienza che tende a realizzare il vuoto dei mistici, la sospensione spazio-temporale, il congelamento di affetti e affanni. Inoltre nel gioco testuale di allusioni, rifrazioni, parallelismi figurativi, la neve è speculare all’immagine del foglio bianco, tabula rasa e punto focale su cui si concentrano le fatiche dell’intelletto, il foglio ondulato sudario, torbido specchio, comunque materiale tangibile, res extensa, carta soltanto carta sulla quale vergare il Discorso sul metodo:

Il polverino manca. Mezzo foglio è sconciato.
Stanza stretta e aria secca – Moccio, acqua che schizzano
Sul foglio, se tossisce. E come gratta questa penna d’oca,
Pare un ronzio di mosca. Chi decifra
Tutti gli scarabocchi? Nemmeno il loro autore.
La scrittura va insieme, fanno smorfie i paragrafi.
Ogni frase è una tenia. E questa è un n o un u?
È come nella vita, dopo il 5 romano viene il 4.
“Discours de la méthode” – l’io dà del tu a se stesso.
Chi è io? Non farmi ridere. – Carta, soltanto carta.

Tra riflessione intellettuale e paesaggio il racconto mette in scena la grandezza epica del pensare, ma le questioni fondamentali esposte nel “Discorso” emergono nel bel mezzo della conversazione quotidiana tra il filosofo e il suo unico interlocutore, il fedele Gillot, servo e discepolo, controparte dell’uomo pratico armato di buon senso. Così accade che durante una chiacchierata estemporanea, resa con un parlato espressivo ricco di locuzioni fàtiche, si può discutere dei massimi sistemi e ricollocare le teorie cartesiane dentro uno “stato d’animo” che è poi la Stimmung di un’epoca intera lacerata da guerre, dubbi e insicurezze. Basti qui il breve esempio su come il Dubbio metodico, quale procedimento critico di vaglio e analisi di tutta la realtà, irrompe tra le chiacchiere:

“Io parlavo del dubbio…
Il dubbio nel pensiero è la traccia rovente
che indica la via. È il buco stretto
in cui cacci la testa per passare…”
“Nei casi dubbi, sono le vacche tutte grigie.
Dove niente è più certo, le parole non quadrano,
devo, signore – affidarmi al mio fiuto?”
“Nei casi dubbi – tienti al dubbio, che ti dà
E ti toglie, ti toglie e dà da sé sostegno.
Dimenticati Euclide. Ad Archimede tienti,
al suo punto di leva, da cui anche un infante
col pollice potrebbe scardinare fin il globo terrestre”.
“Voi intendete nei casi dubbi…” “Hai già capito:
uno solo ti aiuta – il figlio di tua madre”.

“È di me che parlate?” “te ne stavi un po’ curvo,
e adesso balzi indietro, ergo lo senti che di te si tratta”.
“Sono i dubbi, signore. Mi si girano dentro…”

Sempre sulla linea di congiunzione immaginale neve-bianco-letto il poema si conclude a Stoccolma alla corte della regina Cristina trent’anni più tardi con il moribondo Cartesio nel suo giaciglio di sofferenza, con un “blocchetto di ghiaccio / premuto sulla fronte”. Il letto dove aveva trascorso metà della vita, dato che era solito alzarsi a mezzogiorno, e dove in una gelida giornata del 1649 muore di polmonite. Dato per scaduto il tempo dell’Epica quale forma rappresentativa di una visione unitaria del mondo (tanto che un personaggio del Dottor Živago esclama che “perfino nel Faust c’è qualcosa di mortalmente insopportabile e artificioso… L’uomo d’oggi… quando è assalito dagli interrogativi dell’universo, si immerge nella fisica, e non negli esametri di Esiodo”), sembra utile riconsiderare le osservazioni di Šklovskij sulla ri-funzionalizzazione dei modelli letterari.

SKLOWSKIJ VIKTOR

Viktor Sklovskij

Oggi un modello di poema epico risponde in parte a quella “nostalgia per la cultura mondiale” individuata da Brodskij, e la poesia, “essenza della cultura del mondo”, è vocata ad essere Cantiere dell’Utopia come quello della Basilica di San Francesco in Assisi dove sono stati archiviati e assemblati 300.000 frammenti della volta di Giotto dopo il terremoto del 1997. Non solo conservazione, custodia e salvaguardia della civiltà umanistica, ma anche attività esegetica, ripensamento mito-poietico dei dati inerti della tradizione con il recupero dei frammenti storici alla grande visione, come quella ad esempio di un Cartesio razionalista, matematico e filosofo e insieme poeta e uomo che sogna. E, nel rivalutare l’importanza delle visioni e dei sogni nella genesi del suo pensiero, vivificarne la figura liberandola dalla rigidità museale della Storia. Inoltre, come Grünbein dichiarò tempo fa in un’intervista, è ora che la poesia si riposizioni al punto di congiunzione di filosofia e scienza superando il suo fondamentalismo antiscientifico. È ora per la poesia di ripartire dalla grande lezione di Lucrezio e di Dante.

della neve

Der Schnee von heute

Monsieur, wacht auf. Es hat geschneit die ganze Nacht.
Soweit das Auge reicht auf einer weißen Fläche,
Schmückt sich das Land mit weißen Kegeln. Es sind Bäume,
Die mit der Winterhand der große Arrangeur
Veredelt hat. Man sagt, Ihr schätzt ihn, seinen Spieltrieb,
Der Türmen Hauben aufsetzt und die Dächer deckt
Mit kalten Daunen. Sein Kristallenes Flanell,
Gewebt aus Flocken, polstert faltenlos die Fluren aus,
Bis alle Welt verzaubert ist und tief verschneit –
Ein Foliant mit weißen Seiten, die nur er beschreibt.

Seht Ihr, es tagt. Spurlose Frühe, geometrisch klar.
Kühl wie am Morgen nach der Schöpfung, formenstreng,
Zeigt sich die Erde nun, berechenbar. Was möglich ist,
Nicht wa durch Sintflut, Ackerbau und Kleinstaatkrieg
Verheerend wirklich wurde, liegt nun ausgebreitet.
Besänftigt lädt, was irgend denkbar ist, zum Studium ein.
Schnee hat den Bann gebrochen. Das Diktat der Zeit –
Habt Ihr bemerkt, ist aufgehoben. Unter frischen Wehen
Kroch eine Gleichung in die Hügel. Rein als Raum,
Dreht sich die Landschaft auf den Rücken wie im Traum.

Wacht auf, Monsieur. Auch wenn es scheint, ein Federbett
Sei wie die Wunderwelt dort draußen – nur im Kleinen.
Zum Greifen nah, leicht überschaubar. Eine Projektion
Im Maßstab Eins zu Tausend, nimmt man die Region,
In der Euch Winter traf und einspann wie die Raupe.
Heraus aus dem Kokon! Kommt, werft die Decken ab,
Wenn auch ihr Faltenwurf an Berg und Tal erinnert –
Dazwischen Gänsepfade, überm Knie ein ferner Hügel…
Was früh den Blick trübt, nachts ihn bricht, ist kein Gestirn.
Ein Futteral ists, weich gepolstert, für das müde Hirn.

Es hat geschneit. Seht, vor dem Haus, die weiße Pracht.
Bringt Euern Leib, das feine Instrument, in Position.
Haltet den Atem an ein Weilchen. Adjustiert genau,
Was zum Verorten so geschaffen ist wie kein Sextant –
Dies Sehwerkzeug mit seinen Linsen. Merkt Ihr was?
Auch das Gerät, das uns zur Orientierung dient im Raum,
Ist nur ein Körper, für den Euklids Regeln gelten.
Aus Protein gemacht, doch nach der Art von Glas –
Nichts was zerbricht, und doch im Sog der Erdenschwere,
Folgt es, verletzbar, wenn auch Ding, der Brechungslehre.

Lacht nicht, Monsieur. Ihr kennt so gut als jeder Physicus
Die beiden Wunderkugeln. Wetten, mit Sezierbesteck
Habt Ihr die Äpfelchen zerteilt, die feinen Nervenstränge,
Verzweigt im Eiweiß rings wie vor dem Fenster draußen
Das Wurzelwerk der Bäume unterm frischen Schnee.
Weit mehr gewußt habt Ihr als jeder schnöde Anatom
Von Iris und Pupille, Meister Metaphysicus.
Kein Augenarzt – ein Philosoph betrat das dünne Eis
Zuerst mit der vertrackten Frage: Was heißt Sehn?
Que sais-je? Vielleicht hilft Schnee ja, Perzeption verstehn.

Schnee abstrahiert. Nehmt an, er hat das Bett gemacht
Für die Vernunft. Er hat die Wege eingeschläfert,
Auf denen der Gedankengang sich sonst verirrte.
Die Landschaft gleicht der Schiefertafel, blankgewischt,
Gekippt um neunzig Grad. Im Winterlicht erstrahlt
Die reinste Kammer lucida. Durchs Guckloch geht
Der Sehstrahl scharf zum Horizont und kommt zurück.
Kein Hindernis, kein Zickzackpfad, nur Perspektiven.
Vom Frost geputzt der Zeichentisch – ein idealer Boden
Für den Discours, Monsieur. Allez! Für die Methode.

Nun steht schon auf. Die Sonne wartet nicht auf Euch.
Erhebt Euch aus zerwühlten Laken, eh die Herrlichkeit
Zerschmilzt und Dreck die Sicht Euch trübt wie immer.
Neuschnee ist kostbar wie die großen Diamanten,
Für die man Kriege führt und tauscht Provinzen.
Ein Juwelier, der Schnee. Er modelliert, wohin er fällt.
Er rundet auf und ab und übersetzt in schöne Kurven,
Wofür Physik dann, schwalbenflink, die Formel findet.
Monsieur, bedenkt, was Euch entgeht, verliert Ihr Zeit.
Für Euch hat es, für Euch, die ganze Nacht geschneit.

La neve di oggi

Destatevi, Monsieur. Tutta notte che nevica.
Fin dove arriva l’occhio è bianca la pianura,
è tutta un cono bianco. Sono gli alberi
che il grande arrangiatore con invernale mano ha ingentilito.
Voi apprezzate, dicono, lui e il suo umore ludico
che incappuccia le torri, che gelidi piumini
adagia sopra i tetti. Flanella di cristallo,
una liscia imbottita sopra i campi,
finché la neve è alta e il mondo un incantesimo –
pagine di un in-folio su cui lui solo scrive.

Guardate, si fa giorno. Un intatto mattino. Geometrie.
Algida come all’alba del creato, e severa
di forme è ora la terra, calcolabile, e accedi
a quel che lei sarebbe senza devastazioni,
guerre fra staterelli, diluvi e agricoltura.
Placato ogni pensiero, un invito a studiare.
Infranto l’anatema, anche il diktat del tempo
con la neve è sospeso. Sotto nuove dune
nei colli si è insinuata un’equazione. Il paesaggio
si è girato sul dorso, come in sogno.

Destatevi, Monsieur. Non è un letto di piume
Pari al prodigio fuori, o solo in piccolo.
A portata di mano e dello sguardo,
in scala uno a mille, si prende la regione
dove state incastrato come un bruco d’inverno.
Su, fuori da quel bozzolo! Buttate le coperte,
che fanno pieghe come monti e valli,
fra sentieri per oche, e il ginocchio è un colle…
Vi offuscano il mattino, acciecano la notte
non stelle ma un astuccio, molle di dentro, per cervelli stanchi.

Neve davanti a casa. Bianca magnificenza.
Portate in posizione lo strumento finissimo del corpo.
Trattenete il respiro per un po’. Regolatelo,
per fare il punto è meglio di un sestante –
strumento per vedere con le lenti. Lo notate?
L’attrezzo che ci orienta nello spazio
è anch’esso un corpo e sottostà ad Euclide.
Fatto di proteine ma pur simile al vetro –
Non lo spezza risucchio di gravità terrestre,
vulnerabile cosa, segue però le leggi della rifrazione.

Non ridete, Monsieur. Voi come tanti fisici
Conoscete, scommetto, i due stupendi globi.
Nelle meluzze avete messo il bisturi,
in rami e nervature dell’albume, simili alle radici
degli alberi là fuori, sotto la neve fresca.
Più d’ogni sciocco anatomo sapete cos’è l’iride
e la pupilla, maestro metafisico.
Sul ghiaccio fragile s’avventurò il filosofo –
Non l’oculista. Irta domanda: e vedere cos’è?
Que sais-je? Forse la neve aiuta- a capire cos’è la percezione.

La neve astrae. Come se avesse fatto alla ragione il letto
e addormentato tutte quelle strade
su cui il pensiero prima si smarriva.
Lavagna ripulita è il paesaggio,
inclinata di 90 gradi. Nella luce d’inverno ecco risplende
la camera purissima, la lucida. Per il foro arriva
il raggio della vista all’orizzonte e torna senz’ intralcio,
non a zigzag, soltanto prospettive.
Tavolo da disegno spolverato dal gelo – un terreno ideale
Per il Discours, Monsieur. Allez! Avanti il metodo.

Ora alzatevi dunque. Il sole non vi aspetta.
Uscite dal groviglio dei lenzuoli prima che lo splendore
si squagli e sporco offuschi, come fa sempre, l’occhio.
La neve fresca vale quanto i grossi diamanti
Per cui si fanno guerre, si scambiano province.
La neve è un gioielliere. Dove cade modella.
Qua e là arrotonda, traduce in belle curve
Per cui l’agile fisica trova a volo le formule.
Monsieur, cosa vi sfugge se state a perder tempo.
Per voi, per voi tutta la notte ha nevicato

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale (2004); Carte Sanitarie (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi, a cura di Lidia Ravera (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo “Le invisibili” (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie, tra le quali Rosso da camera. Versi erotici delle poetesse italiane (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

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