Birgitta Trotzig POESIE SCELTE da Nel fiume di luce – Poesie 1954-2008 Mondadori, 2008 Stralcio della prefazione di Daniela Marcheschi – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – Il cerimoniale ossessivo nella Poesia diBirgitta Trotzig


Birgitta Trotzig Nel fiume di luce – Poesie 1954-2008 Milano Mondadori, 2008 pp. 250 € 13,00

Di come i volti si disciolgano.

Di una vita con l’angoscia.

Dello zero.

Un quadro

Gli alberi hanno foglie scure, che producono un’ombra chiara, umida. Nel cuore del giardino riposa una donna, il suo corpo è caldo e nudo e roseo. Le mammelle le profumano di miele. Il cielo è blu come smalto; le sue unghie sono bianche e fragili, paiono schegge di porcellana.

Classico

I capelli gli gocciano d’acqua; il corpo riluce d’umidità. Il volto è giovane e rude, le labbra chiuse. Il sonno gli s’infila di nascosto, perfido, nel sangue che è chiaro come quello di un pesce, e gli opprime le palpebre sottili, bianche.

Nel sonno un serpente si avvolge intorno alle sue membra umide, lui diventa blu scuro e maleodorante. Il vento di mare gli sfiora le guance con un profumo caldo di miele e sale e issopo.

La morte del re

Nella giungla si muove silenziosa una tigre. La città che dorme con i suoi fuochi è sprofondata nella notte degli alberi, le loro dolci brucianti esalazioni contro i blocchi del muro.

È mezzanotte, il soldato cammina lungo il bastione. L’odore di acqua e sorbetto della notte gli posa come un telo sul volto e le membra: le stelle tremolano giù in fondo nel fiume.

Più in alto di tutto nel castello reale giace il re nel suo letto, le membra gli si contorcono in teli fradici di febbre: Il suo volto dorato è spento: fiaccole ne illuminano il corpo morente. La bocca si apre, il petto è sollevato da pesanti respiri. Le ombre vagano nelle grandi sale.

Le costellazioni avanzano lente attraverso la notte. Le membra del soldato sono trafitte da un freddo di morte. Sente passargli accanto il profumo di albero e acqua e febbre. Il re è morto: il suo volto si spegne ed è cancellato adagio dal mondo.

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al di sopra dell’orizzonte il cielo dai lamenti dei disintegrati: gerusalemme, gerusalemme

Portano un gigante morente, l’enorme creatura marcisce: barcollando lungo le vie e piazze cade in cenere man mano che l’orizzonte si appesantisce si spegne fa silenzio – tace, tace. E ogni occhio vuoto. Tutto ciò che è esteriore è finito in cenere e divenuto notte, ora è tutto interiore senza orizzonte senza spazio.

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La città buia sorge illuminata come per un’esplosione. Lui cade, vortica. È vivo.

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Gridavano in cantina, ovattati, chiusi. C’era tanto silenzio. La gente passava. Io compravo arance, detersivo. Urlavano nelle loro cantine. Giorno e notte non si sentiva niente. L’eco incessante dei rumori dei passanti. Poi niente.

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vedo dentro il verde, superficie all’infinito, sussurrante infinito, corpo dei sussurri, lingue, il verde è lingue e occhi, riflessi e mobilità, umidità, scintille di luce – in che modo ne sono separata, io non ne sono separata, io sono in un occhio, tutto è miraggi e sussurri, luce in uno specchio oscuro erra sempre più lontana dentro il bosco riflesso.

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nella cella, nella tenebra dell’albero

il fiore rosso sul muro, un’oscura bocca che diventa più grande: un sesso, un occhio che ingoia, profondo, serio

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Ci sono volti – non ci sono.

Ciò nel volto che è – non è.

Ciò che non è – è ciò che è.

Gif Moda

Nel crepuscolo caldo-umido

Nel crepuscolo caldo-umido grigio-umido la bellezza del volatile, del danzatore negli spazi di sogno multicolori.

Le tracce della bellezza, quali profezie? Il finto sistema dell’universo si è rotto, frammenti di movimento spuntano e spariscono, nero cristallo, strani profondi colori, nuovo caos bolle sotto la bella superficie fragile che diventa bellezza per il suo andare in pezzi.

Grigia città gigante, verso est. Al di sopra della città fluttua il velo protettore, Pokrov, invisibile, nero ed enorme.

(Pokrov – l’icona di Vlacerny, Ekelöf, John Tavener). Lei ha avvolto il suo velo sopra i perseguitati e li ha nascosti nella sua invisibilità.

Un uomo solo va errando cupo nel paesaggio infinitamente splendente, il suo volto è miele (Maestro di Siena – il paesaggio fluttuante sopra il regno dei morti).

(da Nel fiume di luce. Poesie 1954-2008, Mondadori – Traduzione di Daniela Marcheschi)

(soglia, confine, differenza, fuori, dentro)

(Soglia, confine, differenza, fuori, dentro)

Qual è ora la relazione fra l’arte e la natura? dove inizia lo spazio         immaginario che non è né l’una né l’altra?

Di ciò che chiamano l’io si può far a meno.

Il confine, il segreto della soglia. Che cos’è fuori, che cos’è  dentro,              che   cos’è fuori di me, che cos’è dentro di me?

Sulla soglia. Non da questa parte, non dall’altra.

Proprio nel movimento al di sopra della soglia. Si rompe la membrana d’apparenza, la contraffatta visione “io”. Allora è nudo il mondo. Luci parlano, pietre respirano. L’occhio diventa un pianeta nero, il mondo è ora capace di vedere. Alberi sollevano le radici fuori della terra, le alzano fuori del terriccio di alberi morti. Il fango e l’orma umana sono la visione della cecità, le mani e la sensibilità delle tenebre. Le costellazioni disegnano nelle profondità della notte ciò che è concluso e ciò che non è concluso.

Il Sagittario scaglia la sua freccia, è mortale.

Tutto parla a tutto. Nella luce dello spazio, nella luce delle tenebre. Il messaggio si rivela.

(da Nel fiume di luce. Poesie 1954-2008, Mondadori – Traduzione di Daniela Marcheschi)
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Lettere alfabetiche

C’è un silenzio in ogni cosa fitto come un’esplosione, moltiplicato anni luce in un unico movimento raccolto – nell’erba, nella vipera sulla pietra, nelle frasche di prugnolo, nei gabbiani, nelle conchiglie bolle l’immensa coppa di luce solare sopra lo specchio marino, luce da luce, silenzio-luce-movimento – il nocciolo d’immobilità nell’antico silenzio in esplosione del sole.

L’immenso silenzio greve delle cose un turbine che si schianta, il ballerino derviscio in mezzo al nocciolo di pietra, l’istante che permane, la mutevolezza-danza-dell’istante, la schiuma-chiarore di lampo vecchio milioni di anni dell’istante che danza vista come immobilità, formula-vertigine, segno di lettera alfabetica.

(da Anima, 1982 – Traduzione di Daniela Marcheschi)

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

«È tardi. Il mondo va verso la sua fine»

L’opera della svedese Birgitta Trotzig è una costellazione di poesie e prose comunicanti che si susseguono dall’inizio alla fine. Oltre mezzo secolo di poesia. Un invalicabile muro divisorio. Un corpo compatto, una superficie densa come lo schisto e spessa come il feldspato, tagliente come l’ossidiana, composta di stratificazioni tettoniche successive che si richiamano ed echeggiano a distanza di anni e di decenni. Le immagini procedono per parallelismi e per verticalità: abbondano chiasmi, anafore e ripetizioni che danno l’effetto di un martellamento rafforzativo dell’indizio fondamentale delle composizioni. È un  procedimento che ha qualcosa in comune con la poesia della tradizione svedese del secondo novecento. È l’area della tradizione modernista del secondo novecento. In questo universo di progenitori comuni c’è anche la tedesca Nelly Sachs da lei tradotta, che ha vissuto lungamente in Svezia. Le immagini ricorrenti nella poesia della Trotzig richiamano l’idea di una superficie dura, impenetrabile («L’invisibile è duro e impenetrabile come vetro»), che rammenta, per anamnesi e contiguità, la simbologia degli uomini: i loro volti che si sciolgono e scompaiono («Di come i volti si disciolgano. / Di una vita con l’Angoscia. / Dello zero»); il loro corpo «predestinato alla decomposizione». un universo predestinato, predeterminato alla decomposizione in un «incubo senza fondo». Ci si trova in un luogo non-luogo, in un posto privo di segnaletica, non indicato da carte geografiche o nautiche, senza indirizzo. Ci si immagina di trovarsi in una città, ma non c’è nulla che faccia pensare alla città. In realtà, il luogo o i luoghi dove si svolgono, o meglio, accadono certi fatti (una lenta, progressiva e inarrestabile decomposizione) è una città della nostra civiltà occidentale (a volte si trovano delle indicazioni, generalissime, come «Piazza del Duomo», ma il più delle volte, anzi quasi sempre, le indicazioni toponomastiche sono generiche, indistinte e indistinguibili, potrebbero essere di una città come di un’altra, di una nazione come di un’altra).

Il pensiero estremo ha a che fare con l’estremità del pensiero, è affine all’abisso del quale il pensiero non può non provare nostalgia. Tutto ciò  ha  a che fare solo con situazioni estreme dell’esistenza, il pensiero poetico non può che sostare ai bordi linguistici di queste esperienze estreme. Avvertiamo qualcosa di simile quotidianamente, come quando ci accorgiamo che ciò che diciamo non corrisponde esattamente a ciò che pensiamo, e ciò che pensiamo non corrisponde esattamente a ciò che avvertiamo e  notiamo uno scarto tra significato e significante e ascoltiamo il richiamo che

proviene dalle crepe che si aprono nel muro dell’ovvietà, a questo punto avvertiamo oscuramente lo spaesamento, il divario che si apre tra noi e noi stessi, nel nostro stesso pensiero pensato avvertiamo un inconciliato, un inconciliabile. E veniamo gettati nell’angoscia. Qui, in questo punto risiede il fascino sinistro che l’abisso esercita su di noi, che ci rende evidente, all’improvviso, che quelle crepe nascondono in realtà un abisso.

L’angoscia è la percezione della nullità del nostro Ego, quel «solido nulla», per dirla con Leopardi, che costituisce la nostra soggettività, quella forza nullificante che annienta il mondo sotto forma di volontà di potenza, ma che può anche vivificarlo, renderlo significativo.

In realtà, il luogo dove si svolge, o meglio, accade questa assurda vicenda che è l’esistenza dell’uomo è un luogo che sta in «basso», null’altro di più preciso ci viene detto; nella poesia della Trotzig non c’è nulla che possa far pensare all’«alto». L’alto c’è, lo si intuisce, ma quello che si percepisce nettamente è un luogo che sta in «basso»

jannis kounellis

«È tanto basso qui. Il sangue gorgoglia. Niente altro che l’assordante rumore insensato di lui stesso. O silenzio. O l’incubo ermeticamente sigillato…».

Siamo nell’occhio di un imbuto «senza fondo», in un «incubo senza fondo», dove «L’argento che corrode è nell’oscurità». In questo luogo privo di spazio, senza altezza, senza profondità, senza tempo, di preparazione alla morte, non vi può essere alcun «viaggio»; già questa parola lascia presagire qualcosa di immondo e di corrivo, di impronunciabile

 «Il viaggio fuori da un’asfissia, la nascita che riduce in pezzi sotto e sopra. Urlo, grido, sillabe… Nel buio, attraverso il buio, grido senza voce, parola rivolta senza labbra…».

 L’uomo ha cessato di essere qualcosa di sessuato, e quindi di differenziato, appartenente alla natura e alla storia, è diventato un ente indifferenziato, né maschio né femmina, un neutro:

 «Le sue mani sono di “donna”, il suo sesso di “uomo”».

 Giunti a questo punto, possiamo capire come il paradigma simbolico negativo dell’uomo occidentale sia «Giuda»: «il primogenito è nudo», «Il traditore guarda l’uomo che gli lava i piedi»; ma perché Giuda tradisce? La Trotzig non lo dice, non lo spiega ma getta lì una parola quasi per caso: perché «la sua bocca è muta». Adesso sappiamo con certezza qual è la malattia segreta che ha colpito il cuore della civiltà occidentale, la malattia inguaribile che disgrega le fondamenta, le parole sono diventate parole-macchine: abbiamo perduto la potenza della parola significativa. Ed è questo lo stigma della nostra epoca, non più idonea alla trasmissione e alla ricezione del messaggio poetico. Ecco come viene descritto «Il pazzo del villaggio»: «Siede sul muro e mastica fiori, poi li risputa. Dalla gola gli escono suoni soffocati, gorgoglianti: una lingua che nessun altro vivente parla. È solo al mondo, le mosche gli sfiorano il viso. Il sole ardente è piazzato sulle palpebre…».

 Chi è il pazzo del villaggio? È la «caricatura» estraniata del poeta che può produrre soltanto «suoni soffocati, gorgoglianti». E pensare che queste composizioni risalgono nientemeno che al 1954, l’anno di pubblicazione della raccolta che ha il titolo Immagini. Ecco un esempio straordinario di paesaggio nella poesia intitolata appunto, «Un paesaggio»: «Sopra il mare e il bosco posa il cielo come una gemma scura»; in un’altra composizione intitolata «Città» troviamo: «La città è piena di volti, la via, le case, gli scantinati ne brulicano…». Dunque, ci sono solo volti, enigmatici e inespressivi. Non accadono mai azioni in questa poesia. Tutto è immobile, in assenza di destino. Un mondo a-storico. Ecco come viene descritto il «sole»: «Il sole, una piccola palla dura come un sasso inghirlandata di bianche fiamme taglienti, rotola sul cielo», un piccolo capolavoro di sintesi espressionista.

 È il sistema simbolico di questa poesia che si irraggia dal centro di un bradisisma lentissimo ma inarrestabile: l’immagine del morente, del bambino morente, è analoga, per la semantica e la cinetica dell’inconscio, a quella del gigante morente o dell’uomo morente.

L’immutabilità dello stile e delle tematiche dell’opera della Trotzig non è altro che fedeltà alla problematica del «principiale» della coscienza alienata. La «domanda» che l’opera nel suo complesso pone è sempre la stessa che si ripete e si riproduce con cerimonialità ossessiva. Ciò significa che dinanzi alla superproduzione delle merci l’opera si pone come un «sempre uguale», un «immutato» che sfrigola e frigge dinanzi al volgere della mutevolezza e della mutazione. Così, dirimpetto all’ideologia dominante della produzione di «stili», l’opera della Trotzig si pone come negazione dell’alterità e ripetizione del «sempre uguale» nella temporalità alienata della Storia.

L’opera della Trotzig vuole essere un polittico della civiltà occidentale vista dal punto di vista del suo buco nero: la critica radicale al Progresso e alla Storia. In una civiltà, come quella del Moderno, priva di progresso e di storia, è ancora possibile scrivere poesia? Ciò che rimane è soltanto una involontaria caricatura della poesia? La Trotzig scrive una poesia che è qualcosa di inconciliabile con l’idea di poesia. Ecco la vera ragione, credo, della scrittura in prosa della Trotzig. Il diniego assoluto di scrivere in versi per la Trotzig proviene dalla presa d’atto del suo progetto negativo.

Nel primo degli inediti inseriti nel volume ci viene finalmente concesso il filo di Arianna che ci condurrà al centro dell’immane gorgo che porrà fine alla storia, non degli uomini ma dell’universo: la «Luce»:

«Luce che trasmuta – verso-il grido, verso-il canto. Dalla concentrazione di luce scaturisce il compatto, dal flusso mobile della luce scaturisce la memoria, si ferma l’attimo […] Sono tutti morti. Sono pesanti ma leggeri. Ora monumenti alla memoria, cenotafi del buio abbandonato. // Rivoli scorrono verso il mare. Alberi crescono verso la morte. Il tempo scorre verso il silenzio. Il silenzio è un sole, gigantesco e splendente. Le labbra del sole sono vacue, silenziose. Il tempo del sole è la memoria di luce».

Siamo giunti alla fine dell’universo, una gigantesca apocatastasi di fuoco mentre la luce trasmuta nel grido e non ha più senso continuare a ragionare con le categorie umane perché ormai siamo tutti morti.

Direi che ciò che colpisce il lettore italiano è la completa estraneità di questa poesia ai paradigmi o  canoni della poesia italiana. Un discorso poetico che si inserisce nel tragitto della poesia svedese del Novecento con grande originalità. Un doveroso complimento a Daniela Marcheschi che ha tradotto le poesie ed ha curato il volume con una esauriente introduzione.

Dalla Prefazione di Daniela Marcheschi

Quella volta nel buio, la solitudine con il volto aperto al vento umido del porto, luce di fanale, il tremulo buio ondeggiante: un’estasi, l’inaudito che sgorga come un canto o una zampillante acqua cupa, una forza naturale in ogni caso, fuori dal fondo dell’anima e fuori da tutte le membra, la sensazione che venga fin dalla punta delle dita, dei piedi, dalle radici del cuore, non c’è fibra che non sia partecipe – per quale miracolo sono ancora in piedi? Io sto come una corrente scrosciante – buio, buio, qualcosa di me vuole davvero e con ogni fibra annientamento, con miliardi di radici mi risucchia l’universo verso di sé, il vento, i fanali, l’acqua che scorre scintillando laggiù nel buio; io sto in una corrente, come sto ancora in piedi? vai diritto nel buio, sino alla fine, per tutta l’eternità, là non c’è fondo.

«la parola ha creato il mondo, la legge della parola ha tracciato il confine fra essere e non-essere, così si vive ora al confine

La legge rende visibile la realtà. Senza legge un abbaglio un formicolio,    multicolore accumulazione cruenta di neutrali pelli corpi, con noncuranza sano e putrefatto uno sopra l’altro, qualsiasi cosa si può mangiare

La legge fa la realtà

La legge separa, maltratta, scolpisce – diventa una pietosa condizione da urlo, ora la realtà è là, il volto del Messia appare nella sua oscurità mortale (Il volto del Messia ucciso, l’interna ombra non riconosciuta, l’immagine d’angoscia che perseguita, fantasma di quanto è negato)»

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Nella costruzione che fa perno su una specie di principio di durata testuale, nel senso di forma della successione di ogni momento o “punto” della lingua e dei suoi significati, il lavoro della Trotzig presenta una certa affinità con quello di una più giovane collega, non per nulla dedicataria di una poesia di “Sammanhang material” (Contesto materiali): la danese Inger Christensen, nata nel 1933, le cui poesie in Italia sono state antologizzate solo nel 2003, nel numero 22 della rivista «Kamen’», grazie all’ottimo Bruno Berni. Nell’opera di questa poetessa dalle vertiginose capacità formali, nelle sue «variabilità», è infatti un’analoga modalità di attenzione al mondo del possibile, delle piccole percezioni in tutta la serie dell’infinitesimo e delle possibilità di ripartire la grammatica della lingua in parole, sillabe ecc., ossia in “punti” generativi di significato. Rispetto alla Trotzig, però, la Christensen lavora in una direzione più astratta e formalistica  – ad esempio sul modello delle sequenze matematiche del Fibonacci -, e secondo criteri più pertinenti a una concettualità scientifica, obiettiva e naturalistica. Possibilità di realtà, la poesia della danese sembra configurarsi piuttosto come un viaggio concettuale attraverso la parola e la lingua e i loro fondamenti fonico-lessicali. I significati scaturiscono spesso non solo dalla tradizionale lettura del singolo testo in verticale (dall’alto del primo verso all’ultimo), ma anche dalla lettura in successione progressiva e lineare dei vari componimenti, che costituiscono le serie testuali, appunto come potrebbe accadere con le parti di un poema. Singolare è però che – a costruire nuove ed intricate geometrie di testi e significati – una simile possibilità di lettura in successione progressiva e orizzontale si estenda, con ulteriori ripartizioni lineari, persino alle strofe o ai versi che a loro volta compongono le poesie della Christensen. Da tale lettura in successione lineare – ad esempio di tutti i primi versi (ma ciò vale anche per gli altri) delle varie poesie che formano una sezione o un’opera intera – scaturiscono così nuove, volute, serie o possibilità testuali che moltiplicano le opportunità di senso e le rifrangono di continuo in un gioco prismatico, in grado di rimandare alla multiforme mobilità produttiva, in esperienza e conoscenza, della stessa esistenza umana (senza peraltro ignorarne gli scacchi).

Al contrario, tutto è corporeo e sensibile nella Trotzig, niente è dentro o fuori, bensì «fuori e dentro» allo stesso tempo, poiché, al modo di Husserl, l’io e il mondo si incontrano, e l’essere reale si costituisce dentro di noi secondo le leggi della natura esterna. Anche per siffatte ragioni l’occhio della Trotzig non è mai quello di uno spettatore immobile; e alcune sue concatenazioni poematiche o seriali sono proprio il frutto del dinamismo prospettico delle sue immagini. Nell’intreccio delle forze inconciliabili quest’ultimo deriva da una soggettività  pronta a collocarsi sempre dentro il farsi stesso delle cose. Non ci stancheremo pertanto di ripetere come l’etica – in quanto fondamento del segno e del linguaggio, dunque anche di modi della conoscenza – sia uno degli assi portanti dell’esperienza letteraria della Trotzig. L’autrice sa mirare il volto del dolore e della disperazione con fermezza e dignità quasi leopardiana, si interroga senza tregua sul bene e sul male, sulla giustizia e l’ingiustizia, reagendovi. Lontana da contenuti ideologici pregiudiziali, l’urgenza etica della Trotzig è sempre in tensione con l’estetica, giacché l’atto del conferire significati autentici alle cose compete solamente alla nostra soggettività, alla nostra coscienza che, nello slancio verso l’assoluto e la verità, si pone in attrito con il mondo e la società: sedi, queste, di realizzazioni necessariamente parziali del destino dell’essere umano. Dedicando a Simone Weil, nel 1954, un saggio incluso nella raccolta “Porträtt” (Ritratti), la Trotzig ha significativamente messo in rilievo come il risultato più alto della pensatrice francese sia non tanto la produzione filosofico-letteraria, quanto piuttosto, globalmente, la sua vita, tutta intessuta dell’ardore di «realtà» e di un’opera in grado di riflettere proprio l’esperienza della realtà medesima. Ecco perché la Trotzig vuole guardare alla sostanza dura e inesorabile di quest’ultima senza cercare consolazioni, perché posa il suo sguardo su chi è sceso fino al fondo della sventura: il «pazzo del villaggio», la «vecchia», gli «annientati» e così via. Solo là dove si conosce la solitudine, l’umiliazione, l’angoscia mortale, dove ci si deve svuotare del proprio io, può infatti accadere d’incontrare la grazia, anche quella liberatrice della morte, come leggiamo nel componimento “La povera di Bilder” (Immagini):

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«C’era una pastorella in alta montagna; i suoi calcagni erano ruvidi e polverosi.

Il silenzio vicino alla neve in alta montagna era più antico del sole.

Le sue labbra erano secche di polvere; in bocca aveva un sapore di polvere e timo. Un giorno le parlò qualcuno nel silenzio.

Il sole non smetteva di bruciare, il vento di soffiare; lei sentì come neve contro le labbra. Le sue unghie erano mangiate irregolarmente, pertanto serrò le dita e le nascose dentro le mani.

Per il suo petto fluiva fuoco; la sua pelle respirava fuoco. L’erba rinsecchita profumava. In una capanna di zolle stava in tenebre e silenzio. La morte la attraversò come una nube luminosa di notte».

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Birgitta Trotzig non indulge né al nichilismo caratteristico della mimesi naturalistica né ad una esasperata dilatazione dell’io individuale; del resto la singolarità della sua posizione nella letteratura svedese del proprio tempo è dovuta  ad una precisa presa di distanza da simili poetiche assai più seguite. La sua tensione metafisica, la sua percezione del nulla e della morte, sono radicate sempre nella concreta, reale e inscindibile unione con la materia e con i suoi cicli e statuti. Ciò la differenzia anche da certi esiti della cultura filosofica di Blanchot, Lévinas o Derrida, e della poesia francese contemporanea – ad esempio di Edmond Jabès (di cui è un «ritratto» in “Porträtt”) -, che la Trotzig ha conosciuto a fondo. Inoltre, se certe visioni cosmiche ricordano risultati della poesia di Rainer Maria Rilke, a cui pure la Trotzig ha dedicato un saggio di “Porträtt”, nelle immagini da lei create restano sempre un pondus rappresentativo, un’oggettività e una forza “di cosa” o un senso tangibile del limite, che trascendono ogni esercizio di sia pur alta e rifinita letteratura, a cui Rilke non era invece estraneo. Ecco, quindi, perché la Trotzig può scrivere una poesia come la seguente, tratta ancora una volta da “Sammanhang material” (Contesto materiali):

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«(Soglia, confine, differenza, fuori, dentro)

Qual è ora la relazione fra l’arte e la natura? dove inizia lo spazio         immaginario che non è né l’una né altra?

Di ciò che chiamano l’io si può far a meno.

Il confine, il segreto della soglia. Che cos’è fuori, che cos’è  dentro,              che   cos’è fuori di me, che cos’è dentro di me?

Sulla soglia. Non da questa parte, non dall’altra.

Proprio nel movimento al di sopra della soglia. Si rompe la membrana d’apparenza, la contraffatta visione “io”. Allora è nudo il mondo. Luci parlano, pietre respirano. L’occhio diventa un pianeta nero, il mondo è ora capace di vedere. Alberi sollevano le radici fuori della terra, le alzano fuori del terriccio di alberi morti. Il fango e l’orma umana sono la visione della cecità, le mani e la sensibilità delle tenebre. Le costellazioni disegnano nelle profondità della notte ciò che è concluso e ciò che non è concluso.

Il Sagittario scaglia la sua freccia, è mortale.

Tutto parla a tutto. Nella luce dello spazio, nella luce delle tenebre. Il messaggio si rivela».

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«Il punto di energia generativa, rappresentata nella scrittura della Trotzig dalla parola e dai suoi significati, è una «soglia» o un «confine». La parola – genesi di forme possibili, che seguono la propria «legge» – ha  nascita nell’anima stessa, che compartecipa della sostanza universale: non a caso, “Anima” è il titolo di una raccolta dell’autrice scandinava. Ĕ proprio a partire da quel punto del possibile progettuale che si può infatti trascendere verso le cose. Si tratta di un punto limite, se vogliano restare nell’ambito della logica di Wittgenstein, oppure di un punto “mistico” secondo certa cultura filosofica tedesca. Si pensi in particolare al pensiero contemplativo e mistico del domenicano Meister Eckhart, secondo cui Dio è inconoscibile e la fede è il tentativo di ritrovare l’unità con il divino («Trascendi te stesso» è una sua celebre esortazione); oppure alla sua analogia fra Dio e le creature che ne sono considerate lo specchio, perché ne ricevono come immagine l’essere assoluto, ma non possono possederlo. Nel saggio del 1967 dedicato al pensatore medioevale, raccolto in “Porträtt” (Ritratti), la Trotzig ne ha sottolineato la tensione razionale, l’opposizione fra l’esperienza di Dio come trascendente, Dio in sé – e completamente Altro -, e l’esperienza di Dio come immanente, intrinseco alla creazione. Ha inoltre messo in risalto i paradossi  della filosofia di Meister Eckhart e il fatto che il cristianesimo è l’unità dell’inconciliabile. Ĕ probabilmente anche dalla suggestione della lettura del teologo medioevale che derivano certe forme di ripetizione lessicale e l’insistenza dell’autrice scandinava su termini come «specchio», «si specchiava», «rispecchiano» ecc., nonché uno stile ricco di vocaboli composti e di prefissi, che non agevola certo il compito dei traduttori, e fu già un uso caratteristico della scrittura eckhartiana. Secondo Eckhart, l’anima ha due volti, l’uno rivolto verso il corpo e il mondo, l’altro verso Dio o la trascendenza; e la raccolta “Anima” della Trotzig è non a caso attraversata da un sentimento di partecipazione “naturale” dell’essere umano al mistero del divino, del sacro, cioè al limite di sé e alla speranza. La conoscenza della mistica tedesca – si pensi pure a Silesius e al suo rapporto di necessità conoscitiva e psicologica con Dio – si unisce a quella della mistica ebraica: in particolare, ma non solo, del Zohar o “Libro della luce”. Ciò significa per la Trotzig anche un ulteriore punto di incontro e di ripercussioni interiori con un’esperienza contemporanea per molti versi esemplare: quella della poetessa tedesca, Premio Nobel nel 1966, Nelly Sachs, rifugiatasi com’è noto in Svezia per scampare alle persecuzioni razziali. Nel volume saggistico “Jaget och världen” (L’io e il mondo), edito a Stoccolma nel 1978 da Författarförlaget, la Trotzig si è dichiarata «indissolubilmente» legata alla Sachs. Ambedue hanno del resto una analoga visione della «metamorfosi» del mondo, del valore statutario del dolore e della parola, segno di un scrittura attinente nei suoi fondamenti alla realtà stessa del cosmo. Immagini pregnanti ed esemplari come quelle del «sudario», della «farfalla» (nella bella poesia sull’Atlante), delle «lingue», dell’«oscurità» o della «polvere» non si incontrano certo per pura combinazione nei componimenti della Trotzig. Questa autrice, che condivide con Dostoevskij – per alcuni tratti – una certa qual ossessione del male, ha comunque una attenzione palpabile e genuina anche per gli aspetti sociali e storici dell’ingiustizia e della sofferenza. D’altra parte la Trotzig ha una personalità sfaccettata e duttile,  e ha collaborato a lungo a riviste e giornali come «Aftonbladet», occupandosi non solo di letteratura o di arti figurative ma, per un certo periodo, anche di politica. Si legga, a titolo di esempio di quanto osservato in precedenza, il componimento seguente incluso in “Ordgränser” (Confini della parola) ed ispirato a un episodio accaduto in Francia:

«Masse in fuga si schiacciano nelle vie buie. Polizia dappertutto, mitragliatrici, la lenta catena che s’infittisce furgoni cellulari con le canne fuori dai finestrini. La debole, confusa impotenza delle masse di gente, il sudore, il brusio. S’immettono in un specie di viadotto, un posto di cambio del metrò sopra un vuoto, ampio, dappertutto sorvegliato incrocio con alberi malati, i ramoscelli nudi brillano come oleosi nella luce della strada, non è pioggia, è qualcosa d’altro, splendente, stillante. Due linee ferroviarie da là si tuffano direttamente sottoterra: una penetrante, beffarda voce d’altoparlante (piena di interferenze, resa quasi incomprensibile, per la metà rotta in un grido graffiante, morto) commenta come per un cinegiornale le fiamme si vedono lontano sopra i tetti delle case, fuori delle porte nastri trasportatori d’acciaio flessibile, fuochi strepitano laggiù in fondo. La massa di gente ora come sognante impotenza irrigidita – come greggi molto malate è spinta a colpi di calcio delle armi verso i cancelli, i cancelli del cimitero insudiciati su in alto nella via. Tutte le strade trasversali sono bloccate ora. Gli anditi delle porte chiusi, poco profondi. Sangue sulle scale. Dagli alberi scarniti gocciola e stilla. Uno dopo l’altro cadono in terra uomo, donna, bambino come foglie accecate».

Quanto alla Sachs, non si tratta quindi solo di un’ammirazione e un affetto grandi nutriti per lei dall’autrice svedese, ma anche, e soprattutto, di una profonda consonanza spirituale e poetica, di un condiviso sentimento religioso. Birgitta Trotzig è credente e si è anzi convertita molto giovane, nel 1955, alla fede cattolica, che vive con autenticità e con slanci che ricordano alcuni aspetti della spiritualità di Simone Weil. Una volta, in una lunga intervista rilasciata il 20 dicembre 1998 a Maciej Zaremba, per il quotidiano «Dagens Nyheter», la Trotzig ha infatti dichiarato che la fede non è «qualcosa che è bene avere nella vita. Ĕ la vita», e che la fede è l’amore: ovvero l’esperienza della ragione, della corporeità tutta, illuminata dall’amore nella relazione con l’altro, come aveva già annotato nel suo diario “Ett landskap” (Un paesaggio), edito a Stoccolma, presso Albert Bonniers Förlag, nel 1959. Per tali ragioni nei componimenti o nei romanzi dell’autrice svedese non vi è mai cedimento a compiacimenti di sorta o a tentazioni estetizzanti. In “Bilder” (Immagini), nella III sezione intitolata pietà, la figura del Cristo – resa precisamente per «immagini» negli ultimi giorni della sua vita terrena – appare sempre al culmine della sofferenza fisica, del dolore angoscioso e nella «fitta solitudine» del suo destino di passione e morte. L’intera opera della Trotzig è però folta di riferimenti espliciti ed impliciti ai mistici (ad esempio Juan de la Cruz), al Vecchio e al Nuovo Testamento – si pensi, da “Bilder” (Immagini) in poi, appunto a testi come Giuda, Getsemani ecc. – per non dire ai Padri della Chiesa. Quando la Trotzig scrive, in “Sammanhang material” (Contesto materiali), che il Messia «viene attraverso fili di luce, crepe di luce, movimenti, inquietudine», non si può ad esempio non sentirvi l’eco di Sant’Agostino. Allo stesso modo, l’efficacia visionaria di certe «immagini» di agonia e morte o di vita femminile materna richiama l’opera di Santa Birgitta, su cui la Trotzig ha non per nulla scritto. Si tratta di «immagini», in una vigorosa valenza espressiva e conoscitiva, di metamorfosi fra vita e morte, e viceversa, o di un femminile potente – quello connesso al parto, quindi alla «figura profetica» di Maria -, ricco di suggestioni significative, come ad esempio nel componimento “La gravida”:

«La pelle le respira come attraverso una tenue rugiada. La fronte è alta e sottile. Lo sguardo fragile è velato, il mondo è avvolto in membrane: pesante e tremando alita contro la sua membrana incolore. Il petto le respira pesantemente e profondamente, lo spavento le scorre come un liquido caldo nel petto lucente.

Fremiti di vita passano per il corpo arrotolato in tenebra e acqua. La testa è sprofondata in un sogno pesante, un sogno su acqua e sangue».

La frequenza delle similitudini, figure di valenza semantica e razionalistica, delle ripetizioni anaforiche o dei parallelismi nel dettato della Trotzig corrisponde anche a una grammatica poetica d’ascendenza biblica, cara di nuovo alla Sachs, ma pure a tutta una serie di grandi lirici svedesi del Novecento, come Pär Lagerkvist, Karin Boye o Edith Södergran: altra autrice, questa, molto amata dalla Trotzig, tanto da essere oggetto di un suo lungo saggio del 1978, pure raccolto in Porträtt (Ritratti). Ĕ facile immaginare quanta suggestione abbiano potuto esercitare anche sulla Trotzig elementi fondamentali per la Södergran come il prepotente senso della corporeità e della vita in ogni suo aspetto, l’urgenza della poesia, la visionarietà e l’arditezza delle immagini, certo uso del ritmo libero, delle spezzature, la presenza della frase nominale e di una sintassi sussultoria piena di tensioni e allentamenti improvvisi, la cultura cosmopolita, l’attenzione alla pittura. In uno spirito di larga apertura religiosa, non mancano tuttavia nella Trotzig riferimenti alla Kabbala o alle leggende e ai miti, che sono da lei considerati un prezioso patrimonio millenario della cultura umana: qualcosa che non si può ignorare – come ha dichiarato in una conversazione con Agneta Pleijel, edita in «Ord & Bild», nel 1982 -,  pena la caduta in balia di un empirismo fine a se stesso e di un infecondo cumulo di informazioni e cognizioni che non si traducono in autentica conoscenza. Ad esempio, nel testo “un morto” della silloge “Anima” è evidente il fruttuoso riferimento al mito di Osiride, collegato al motivo della resurrezione entro una visione ciclica della vita, in specie vegetativa. In una coerente attenzione alla dimensione cosmica, non mancano neanche richiami al sufismo fondato dal poeta persiano Rûmî: basti pensare, in “lettere alfabetiche” della raccolta “Anima”, al riferimento al «ballerino derviscio» e, soprattutto, alla citazione di un verso del poeta mistico in “Ordgränser” (Confini della parola):

«Il viaggio fuori da un’asfissia, la nascita che riduce in pezzi sotto e sopra. Urlo, grido, sillabe. Più nessuna pretesa, nessuna esigenza sopravvissuta, non si dichiara niente su alcunché – si invoca, si rivolge la parola, si elemosina, si prega, si incomoda, si scongiura, fastidio, prima nell’invocazione ‘io’, prima nell’invocazione ‘vivo’.

Parola, riti, cattedrali, spezzati, infranti, esplosi, sudici. Nel buio, attraverso il buio, grido senza voce, parola rivolta senza labbra. Tutto il tempo “fa ruotare la terra con il suo peso di vivi e morti”».

Dunque ancora un’immagine spietata di nascita e di morte, di confluenza fra gli opposti, di dualità fra bene e male e di trasformazione nell’incessante movimento del cosmo: moto “rotatorio”, appunto, perché tutto si contrappone e si differenzia e tutto di nuovo, con perfetta circolarità, si ricollega ed incontra in un medesimo o analogo destino dell’essere. Ĕ con la realtà di dolore delle creature, con questo principio e questa fine – tutti immersi nella carnalità, nella corporeità dell’esperienza dell’essere umano che è mondo -, che la parola deve misurarsi e trovare la propria necessità espressiva. E con la sua capacità di sentire il mondo, di essere radicata nel vivo della sua contraddittoria essenza, la Trotzig ne perfora per così dire la scorza cogliendone i moti più profondi; e la pietas, l’acuto sentimento del male e del bene, la simpatia per l’umanità reietta e sofferente che conosce la disperazione, si traducono in una poesia ricca di echi e fremiti, in grado di suscitare forti turbamenti e inattesi moti di tenerezza, come solo la vera, grande poesia classica riesce a fare».

 

11 commenti

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11 risposte a “Birgitta Trotzig POESIE SCELTE da Nel fiume di luce – Poesie 1954-2008 Mondadori, 2008 Stralcio della prefazione di Daniela Marcheschi – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – Il cerimoniale ossessivo nella Poesia diBirgitta Trotzig

  1. Questa metamorfosi ci pervade.
    La folla inseguita sempre per le vie della trascendenza
    come infervora le masse. Adesso Poesia
    finalmente taci.Assassinata.
    Il volto assente nelle mani prensili.
    Vecchia la Signora delle nubi spazza versi
    sopra gli ombrelli
    aperti e spenti.

    Grazie, Ombra.

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  2. -aperitivo con fontana-

    poesie elettroniche ci fanno abitanti del vuoto
    Occhi chini e incurabili . Quasi è notte. La fontana
    Ha un getto intermittente. Sopraelevato. Al centro
    Di un recinto tracciato di scarpe. In cento metri di vetro
    Le ombre si danno anima e corpo nel liquido circolare.
    Proprio sotto i grattacieli. Con i led bui e a sfioro del
    Minuto più latente. Un signore siede al bar dell’angolo.
    In barba alle case che gli crescono dietro le spalle. Ai
    cartelli pubblicitari di ferro. Nella forma cilindrica
    Dell’aperitivo stretto dal respiro alle labbra invernali.

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  3. Carlo Livia

    La frattura insanabile con il pensiero catafatico, assertivo,idelogico, la decomposizione e trasfigurazione rigenerativa di codici e stilemi della logica e prosodia tradizionale, afferiscono e scaturiscono da una visione mistica o inconscia che, come negli antichi profeti, produce architetture iconiche, simboliche e mitologiche che tentano di forzare la prigione-mistificazione della logica-ontologia dogmatica, proiettando il linguaggio al di là dei propri confini, in un’inesausta parafrasi del silenzio, della vertigine di senso che promana dall’inafferenza all’essere, dall’eclisse del sacro, rappresentabile solo atrraverso ideologie e teologie apofatiche : “questo solo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo ciò che non vogliamo” .

    Vorrei accostare alla straordinaria visione della Trotzich quella di una poetessa italiana contemporanea, Mariasole Ariot, in cui ho trovato un’analoga, vibrante tensione di epifanie verbali, cosmologie e immersioni nel purificante lavacro dell’inconscio, come auspicio di riscatto dal dolore e dalla tenebra.

    ESSENDO IL DENTRO UN FUORI INFINITO

    Faheem nuota nel corridoio da millenni.
    Alle tre di notte mi sveglia, rovista tra i capelli, danza con le mani appese al collo, prende le mie,
    le stupisce di una notte scavata nella notte : è maggio.
    Alle quattro ridiamo sulle parti superiori del viso : abbiamo dieci occhi per sopravvivere agli eventi,
    ci avventiamo sulle ombre.

    Nel tunnel i dormienti hanno camici bianchi e pantaloni verdi, si scostano per il sonno,
    dicono : andate.

    Ma di quanta acqua
    c’è bisogno per fare un deserto? Di quanto – di quanta acqua, di quanto deserto

    Faheem non può ascoltare : l’interno musicale gli ha strappato la testa : Faheem
    può cantare, può fumare la lingua fermando la lingua degli altri, Faheem può mancare, Faheem
    ha i piedi scalzi e i pantaloni di chi non gli ha contato le ore. La materia si è spalancata in un abisso.
    Faheem piscia sui muri, alza le braccia e prega, Faheem attraversa in volo
    il volo del mondo che non ci fa mondo, Faheem scappa dal reticolo e dice vieni.

    Binary code 0010001111001001
    There was a boy in the Santa Clara Park. He was there because of –

    La voce cade : la follia è questa verità che s’incompleta, questa folla di macchinari e corporei,
    queste bare che scavano tombe sui muri, che fanno dell’immortale un escremento odorato da millenni : quel fetore che dalle narici s’incolla al corpo e non raccoglie che briciole, e non fa muta la vita, e non muta e dice secoli e dice: tutta questa vergogna come un cumulo di cadaveri che restano fissi al muro. Con gli occhi pieni di pupille Faheem appoggia la sua testa alla mia sostanza chiara, entra nella stanza, danza
    l’aria con le braccia. Lo allontanano : Non è questo il posto, qui non c’è posto.

    Faheem legge Gramsci nella lingua di Shakespeare, Faheem nasce
    con un bacio senza lingua.

    Poi arrivano gli aerei di famiglia a medicargli i piedi, portano un libro da Londra, lui dorme e continua
    a dormire. Parlano del grande freddo di una madre che ha visto i morti camminarle sui piedi, le mosche
    attaccarsi alla pelle, i violenti che chiedevano tacere.

    Faheem ha l’acqua nel cuore, gli aprono la carcassa per infilargli i tubicini, prelevano il veleno
    antico dalla fonte. L’infermiere dice : tu non
    ridere. Tu giagi dove noi non abbiamo distillati, tu porti la fame dei fratelli.

    Il piccolo affonda tutte le pieghe nelle ruga del mondo, mi chiama con cento nomi diversi. E’ una crepa,
    un’infinita distesa orizzontale in cui entro piano come nelle case di campagna : Faheem ha una città vuota
    e un quadrato al posto del cielo: lo senti l’odore delle sigarette bagnate? Lo senti questo tanfo?

    I ricordi restano piccoli oggetti posati sulla soglia. Le porte sono chiuse, la luce rossa
    indica il proibito. Parla della sua terra, confonde le regioni, le sette lingue che non conosce, il padre
    che copre la testa con un shāshiyya.

    Madre, io non ho mai
    avuto un padre che costruisse un copricapo : la mia testa è una bolla d’acqua, i pesci nuotano, mangiano
    il concime seminato dalle donne.

    Tutto è umido. Un idioma cade sulla rete.

    Nella sera più lunga mi sanguina le parole, ci stacchiamo la fronte per diventare labbra : le circostanze buone di questo non esitare mai.
    Faheem, la lettera è un bacio che non conosce grida. Ci separano. Sparandoci annunciano : ai vostri posti, piccole canaglie.

    Esiste – madre -un luogo adatto al desiderio, esiste
    un contatto tra le foglie, esiste
    dove c’è
    un conato – un nodo
    che non esiste?

    All’ora dei galli tagliamo una corda.
    Faheem senza confini, Faheem senza bordi. La ricompensa è questo camminarci sulle radici, tirare
    fino a che non troviamo : niente. Eppure : tirare, eppure
    ancora : tirare.

    Ora il padre ha un distesa di campi e di prati, la madre porta un velo, lui nasconde Gramsci sotto la nebbia.

    DMT : una notte di Trento. I cani cadono sulle brutali : è il lucido di questo sfrigolare. Cade
    Faheem, cadono
    le voci, cadono i tempi, cade la noce che rigiravi tra le dita , cade
    una musica dall’alto. L’elettricità del canto traccia i sogni delle uova che non abbiamo covato:

    Something for the rag and bone man
    Over my dead body
    Something big is gonna happen
    Over my dead body
    Someone saw someone’s daughter
    Over my dead body
    This is how I ended up sucked in
    Over my dead body
    I’m gonna go to sleep
    And let this wash all over me
    We don’t really want a monster taking over
    Tip toeing, tying down
    We don’t want the loonies takin’ over
    Tip toeing, tying down our arms
    May pretty horses
    Come to you as you sleep
    I’m not gonna to sleep
    And let this wash over me

    Radiohead, Go to Sleep

    ***

    I farmaci ti addormentano, indicano la via delle sillabe, la bava sul cuscino è una guida che ancora non fa terra. Mi arrivano le tue lettere, la tua scrittura trema. Ho una foto della tua vecchiaia : avevi ventidue anni e vivevi sotto il livello del mare : dove ammucchi le tue pietre, Faheem? Dove nascondi un vuoto che non sia vuoto?
    Dove, Faheem, quando
    si è spalancato il vento?

    Firmandoti rispondi : yours, the Orange man.

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    • guglielmo aprile

      Faheem è la personificazione della creatura spaventosa e bellissima che abita l’Inconscio: archetipo innominabile, formatosi nelle fasi più ancestrali della genesi psichica; Egli è signore di una dimensione equorea, risale le falde freatiche di quel fiume ipogeo che generò tutti i miti e gli dei, e che di tanto in tanto affiora tra le pieghe del nostro mondo addomesticato, nei risvegli inaspettati a metà nottata, per rivelarci che esiste qualcosa di più oscuro di quanto il nostro occhio è abituato a riconoscere buio e insondabile; ogni comunicazione con lui è sospesa, ogni logica sovvertita, perché la sua lingua viene prima delle nostre; la sua apparizione mette in moto la corsa a perdifiato delle visioni, l’odissea furibonda nell’immaginario; il suo annunciarsi può pietrificare o guarire, e affidarsi alla sua corrente può smarrire e insieme salvare: una sorta di non riconosciuto signore del mondo, che occhieggia tra i nomi delle stazioni su un tabellone elettrico e un frasario da dissociati (fa pensare un po’ all’Anima Mundi del sufismo, di Guenon e di Yeats)

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  4. A proposito della poesia della Trodzig,concordo pienamente col parere di Linguaglossa,quando ne sottolinea la “completa estraneità ai paradigmi e ai canoni della poesia italiana”.Siamo comunque grati a Danieda Marcheschi ,ce l’ha fatta conoscere.Il nostro sole abbacinante sembra uno schermo potente contro l’assalto delle tenebre,ma non è così; il “male di vivere”può raggiungerci ovunque,anche sotto l’ombrellone delle nostre innumerevoli spiagge.

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  5. “Dunque, ci sono solo volti, enigmatici e inespressivi. Non accadono mai azioni in questa poesia. Tutto è immobile, in assenza di destino”. 

    Questa riflessione va a sostegno della mia impressione, che al di là della lunga e spesso sorprendente sequenza di immagini, ci troviamo a leggere qualcosa che fa pensare al surrealismo. Ad esempio in questi versi:

    Nel crepuscolo caldo-umido grigio-umido la bellezza del volatile, del danzatore negli spazi di sogno multicolori.

    Lei ha avvolto il suo velo sopra i perseguitati e li ha nascosti nella sua invisibilità.

    Il resto è prosa. Prosa che altri, suoi famosi conterranei, avrebbero forse scritto in forma più concisa e “poetica”. Lo spiega Giorgio Linguaglossa:

    “La Trotzig scrive una poesia che è qualcosa di inconciliabile con l’idea di poesia. Ecco la vera ragione, credo, della scrittura in prosa della Trotzig. Il diniego assoluto di scrivere in versi per la Trotzig proviene dalla presa d’atto del suo progetto negativo”.

    Non sto dicendo che il debito surrealista abbia grande importanza. Però trovo interessante lo svecchiamento del surrealismo, grazie alla prosa e a visioni terrene ben congegniate.
    Inoltre fa largo uso del “come”, sebbene non sempre per tentare una metafora.
    Non manca una certa tendenza alla predicazione. In questo senso, perché non ne ha, trovo migliori alcune cose che ho letto della nostra Edith Dzieduszycka.

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  6. Carlo Livia

    L’ESTASI DELL’ENIGMA

    In fondo al viale dei flauti di sonno vedo aprirsi il portale delle ombre che sorridono.
    Tigli ammainano nuvole…per farsi ammirare.
    Il sole ferito e la giraffa in fiamme.
    L’eclisse esce dalla stanza e lascia cadere il suo sesso nel vento sorto dalla musica.
    Treni supini si perdono in congetture.

    “ Ditele che sono morto per lei!
    Datele un oblio più implacabile
    di qualunque amore,
    che diventi invisibile, celeste e folle
    come questo cielo! “

    Il cielo si divide: a destra l’amplesso implacabile, a sinistra l’ira dei defunti nel sogno che dilegua.
    L’amore è pietra e nuvola, ma si uccide in un silenzio di garofani.
    Un crepuscolo di tuniche e turiboli tormenta la dolce prigione.
    Il respiro della Dea o la morte che fugge sul binario di carezze turchine.

    “ Ditele che l’eterno è questo interstizio
    dove Dio è un fruscio d’ali spezzate,
    copritela di nuovi misteri
    che non tremi al ricordo!
    Ditele che la nostalgia è vera,
    che vedo il suo sguardo, che i violini non muoiono,
    che l’eclissi mente, ve lo giuro, mente! “

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  7. guglielmo aprile

    L’anelito eickhertiano si è rovesciato in tuffo nell’indeterminato: ogni nostra congettura e convenzione, ogni appiglio di verità tradizionale è ostaggio di quella zona franca, di quella provincia nella quale ci si può esprimere solo per via di negazioni, di quella penombra ostinata in cui non si può più dire dov’è che inizi il lago e dove finisca la terraferma, e in cui tutti gli oggetti tralucono in una fantasmagoria labile eppure icastica; mi pare che quelle atmosfere oniriche alludano al boicottaggio del senso comune nella sua accezione occidentale, e a una immagine del mondo come sfilata di manichini, che perpetuano la loro finzione consapevoli della sua nascosta filigrana nichilistica, simili a sacerdoti che ripetano una stanca liturgia in onore di una religione alla quale hanno smesso loro stessi di credere da molto prima di chiunque altro.

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    • guglielmo aprile

      ; e se il poeta è l’uomo che ha raggiunto la consapevolezza, egli non sarà più il savio ma il ‘pazzo del villaggio’: perché la consapevolezza ha, per una ossimorica coincidentia oppositorum, il suo culmine nella follia, e sceglie di manifestarsi solo per mezzo degli emblemi grotteschi, allucinati, stranianti, di cui il Subcosciente la traveste.

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