Nel gennaio 1913 il Pound, presentando ai lettori di “Poetry” l’imagismo, riteneva opportuno precisare che “appartenere a una scuola non significa affatto scrivere versi conformi a una teoria. Uno scrive versi quando, dove, perché e come si sente in vena di scriverli. Una scuola sorge quando due o tre giovani convengono in linea di massima nel definire buone certe cose; quando, delle loro poesie, preferiscono quelle che hanno determinate qualità a quelle invece che ne sono prive”.
1 Queste parole chiariscono come sotto la comune etichetta di “imagismo” si possano trovare poeti mossi da esigenze e aspirazioni profondamente diverse, quali H. D. (Hilda Doolittle), Ezra Pound, Richard Aldington, D. H. Lawrence, James Joyce, Allen Upward, Amy Lowell, J. G. Fletcher, W. C. Williams, F. S. Flint, Hueffer (Ford Madox Ford) e persino W. B. Yeats e Emily Dickinson: quest’ultima più di una volta considerata la più genuina anticipazione del nuovo movimento.
Come fu possibile che personalità poetiche tanto diverse potessero riunirsi e dare vita a un movimento, a una scuola? Di solito, quando sotto un programma poetico comune si rintracciano tendenze a aspirazioni tanto diverse, il rischio è quello di definire dei confini labili e generici. Di veramente rivoluzionario il movimento non ebbe alcunché; ma allora perché il significato e l’importanza della nuova corrente assume oggi un così marcato rilievo? Di fatto, scorrendo il calendario, l’imagismo è posteriore agli imagisti; la scuola sorse dopo le idee, e gli imagisti si conquistarono il diritto ad esser chiamati tali perché decisero per motivi puramente contingenti, di costituirsi in gruppo. Ma anche senza quell’etichetta, anche senza la costituzione in gruppo l’imagismo sarebbe egualmente esistito. La costituzione ufficiale dell’imagismo favorì piuttosto ed accelerò la diffusione del nuovo “cenacolo”, contribuì a compattare in una posizione comuni idee e aspirazioni diverse e contrastanti. Oltre alla Dickinson, gli imagisti si rifacevano a Villon, Catullo, Saffo, Coleridge, Shekespeare etc.
Yeats iniziò a collaborare a “Poetry” nell’aprile 1913 con “The Grey Rock”, cui seguirono nell’ottobre 1913 e nell’aprile 1914 alcuni dei suoi componimenti più noti, quali “Beggar to Beggar Cried”, “The Magi”, “When Helen Lived”, etc. La collaborazione del poeta irlandese alla rivista d’avanguardia si protrae per molti anni, le sue poesie vengono discusse e approfondite, tanto che nel 1914 Pound scrive: “Yeats è un imagista? No, Yeats è un simbolista, ma ha scritto des images come hanno fatto molti grandi poeti prima di lui”, il Pound sottolineava poi la maggior “hardness” dell’ultima maniera yeatsiana, parlando anche di una “quality of hard light” presente in certi versi del poeta irlandese. Pound insomma riconosceva in Yeats una presenza imagista in una poesia sostanzialmente simbolista, una sensibilità almeno parzialmente imagista.
Nel gennaio 1914 Yeats invia a Pound una lettera in cui rinuncia a un premio conferitogli dalla rivista in favore del poeta americano per le seguenti ragioni: “Faccio il suo nome perché, pur non provando davvero una grande simpatia per gli esperimenti metrici da lui fatti per voi, ritengo che codesti esperimenti rivelino un vigoroso spirito fantastico. Pound ha certo una singolare personalità creativa (…) I suoi esperimenti sono forse errori; ma è sempre meglio premiare errori vigorosi che un’ortodossia non ispirata”. 2
L’amicizia e la stima tra i due poeti ne uscì fortificata; il giudizio positivo di Yeats conferito a Pound, valse a conferirgli, in America, un’aura e un prestigio destinati a riflettersi anche sul nuovo movimento d’avanguardia. Certo, l’imagismo si presenta anche con tratti “conservatori”, ritorna a un certo tipo di classicismo in opposizione a certa maniera di romanticismo esasperato in auge negli States. La poesia della Doolittle, quella del primo Aldington e aparte della poesia del Fletcher è ancora contagiata dalla sensibilità romantica, ma il programma del nuovo movimento, così come viene enunciato, è tendenzialmente classicistico. In quegli anni Flint, Pound, H. D., Aldington e Fletcher vivevano a Londra e l’abitazione di T. E. Hulme divenne un salotto letterario e una fucina culturale. Le aspirazioni ancora vaghe degli imagisti trovarono nel filosofo inglese una enunciazione chiara, logica e coerente; Hulme tradusse le loro aspirazioni in un pensiero filosofico, in una vera e propria estetica.
Analoghe considerazioni si possono fare a proposito dei rapporti intercorsi tra Pound (e gli altri imagisti) e Fenollosa: la dottrina fenollosiana fu accolta perché attraverso di essa le idee del Pound potessero trovare uno “zoccolo” filologico e filosofico di primissimo piano. Il Fenollosa anticipava certe conclusioni cui era giunto Pound per proprio conto in un momento in cui quest’ultimo era interessato alla poesia bengali e a Rabindranath Tagore, alla dottrina dell’immagine e alla moderna poesia simbolista francese. Il Fenollosa gli aprì le porte della poesia cinese consentendogli di passare dall’imagismo all’ideogramma. Pound accolse e sviluppò i principi del Fenollosa proprio perché ad essi l’avevano condotto (o lo avrebbero condotto di lì a poco) i suoi esperimenti. Pound fu l’unico, tra gli imagisti, a capire fino in fondo la portata rivoluzionaria delle ricerche dell’orientalista di Boston, nonostante i presunti studi orientalisti del Fletcher, della Lowell e di altri imagisti; essi compresero solo superficialmente la teoria dell’immagine (da loro intesa semplicisticamente come “pittura visiva), così come non compresero affatto l’ideogramma e le acute intuizione del Fenollosa. Dall’imagisme poundiano era derivato l’amygism lowelliano. Dopo il 1914, questa inconciliabilità di posizioni sfociò in una rottura. La Lowell subentrò al Pound, il quale si trasse in disparte con lo Upward, il Williams e altri; Fletcher e Lawrence aderirono al partito lowelliano. H. D. e Richard Aldington non presero una netta posizione, assorti a restituirci una mitica Ellade. Dapprima, gli imagisti, grazie ai versi pubblicati da H. D. e Richard Aldington nei primi numeri di “Poetry”, furono considerati degli “ellenisti”. In seguito, con l’intervista del Flint e i Few Dont’s poundiani, ci si avvide che l’ellenismo era solo un aspetto, non l’essenziale, della nuova avanguardia.
Il legame degli imagisti con il mondo ellenico illumina il sostanziale classicismo e tradizionalismo del nuovo movimento. L’imagismo non solo non aspira ad alcuna novità, il suo obiettivo è una rivoluzione conservatrice, reagire contro certe degenerazioni romantiche che avevano condotto ad un vacuo accademismo. Sotto questo aspetto, la differenza tra l’imagismo e altre avanguardie dell’epoca come il futurismo, il vorticismo e il post-simbolismo, divenne sempre più netta e marcata, ribadita e chiarita più volte dagli stessi imagisti.
Nel manifesto imagista del 1915, in aperta polemica con il manifesto dei futuristi, troviamo: “Non è buona arte scrivere malamente sugli aeroplani e sulle automobili; né è necessariamente arte cattiva scrivere bene sul passato. Noi crediamo appassionatamente nel valore artistico della vita moderna, ma vogliamo far notare come nulla ispiri di meno e sia più sorpassato d’un aeroplano del 1911”. L’imagismo non ostenta alcun culto del modernismo, non condivide la nuova retorica degli aeroplani da combattimento e delle automobili da corsa, è alieno da ogni impegno diretto nel politico e nel sociale, ma si attiene rigorosamente al campo specifico delle arti e della poesia in particolare.
Thomas Ernest Hulme e la “nuova poesia”
Personalità eclettica, dotato di una inesauribile curiosità intellettuale, gentleman, scapigliato, conservatore con la fama di dongiovanni, fu definito “poliziotto intellettuale” e “philosophic amateur”, discuteva di filosofia senza professarne alcuna, gran parlatore, conosceva il valore inimitabile della conversazione: sceglieva un argomento e poi lasciava agli altri il compito di discuterlo, salvo intervenire al momento opportuno. La sua morte prematura durante la prima guerra mondiale contribuì a rafforzare il mito hulmiano. Nella premessa a Speculations – raccolta dei saggi hulmiani a cura di J. Epstein (Londra, 1958) – il curatore scrive: “Non teneva in alcun conto la fama o la notorietà personale, e pensava che la sua opera appartenesse tutta al futuro (…) Con un gruppo di imagisti compose alcune brevi poesie con le quali se avesse seguitato per quella via, avrebbe ottenuto un cosiddetto successo letterario. Ma ciò gli pareva troppo facile. Come Socrate e Platone, attirò intorno a sé i giovani intellettuali del suo tempo. Non c’è nessuno che sia proprio come lui, oggi, in Inghilterra.”
“Io profetizzo che un periodo di poesia asciutta, dura, classica ( dry, hard, classical verse) si sta affermando.” La “nuova poesia” non deve essere vaga né mirare a un irraggiungibile infinito; bensì asciutta, dura, difficile, precisa, “terrena” e “quotidiana”. Attributi come “hard”, “dry“, “definite“, “accurate” (e altri ancora, come “solid”, “phisical”, “concrete”) sono ripetuti da Hulme in contesti diversi e più volte anche nello stesso saggio. In particolare Hulme insiste sulla “hardness” come uno dei caratteri essenziali della poesia classica in opposizione alla “smoothness” della poesia romantica. Per Hulme la “difficoltà di interpretazione” della poesia moderna, la rende solo in apparenza ostile alla lettura, cioè difficile da penetrare. “Hard” è quindi sinonimo di forte nel senso che la sua concentrazione, la sua “intensità” la rende inidonea alla utenza di massa. La nuova poesia deve, per Hulme, essere anche “dry” (il cui opposto, riferito alla poesia romantica è “damp“), non nel senso di aridità del componimento, nel senso di una sua freddezza o sterilità o di una funzione raggelante sul lettore ma per sottolineare il carattere “oggettivo” e “distaccato” del prodotto poetico, che non deve essere inficiato o intorbidito dal sentimentalismo del poeta o dalla sua ispirazione al cosmico o al panico. “Dry” è qui sinonimo di “detached” e “objective”, in altri contesti allude invece a ciò che è “essenziale” e “distillato”, una poesia che non ha posto per le cose superflue, per gli abbellimenti inutili e gli ornamenti di stile.
In Romanticism and Classicism Hulme mette a punto alcune questioni teorico-pratiche che risulteranno straordinariamente importanti per la “nuova poesia”:
“Facciamo un esempio concreto. Se camminate per strada dietro a una donna, notate il modo curioso come la gonna le rimbalza sui tacchi. Se questo particolare movimento diventa per voi interessante al punto che vi spremete le meningi finché non trovate la parola esatta che lo possa descrivere, ecco che avete un’emozione propriamente estetica.” 2
In Notes on Language and Style parlando dell’ “immaginazione plastica”, Hulme presenta un problema analogo: “Le due prostitute che camminano in punta di piedi a Piccadilly e vanno a casa col cappello sulla nuca. Tormentarsi fino a poter trovare l’analogia esatta e ideale capace di riprodurre l’effetto straordinario che esse suscitano.”3
Il progresso, dal primo al secondo esempio, è evidente. Se il primo esempio rimane nell’orbita del problema di una “rappresentazione esatta”, in secondo fa un passo avanti verso la ricerca dell’analogia fisica, cioè dell’immagine. In Romanticism and Classicism Hulme scrive: “La grande meta è la descrizione precisa, accurata e definita. Occorre anzitutto riconoscerne la difficoltà, giacché non si tratta soltanto di attenzione: occorre usare il linguaggio, e il linguaggio è per natura una cosa comune, cioè non esprime mai la cosa esatta, ma un compromesso: ciò che è comune a voi, a me, a tutti. Ogni uomo però vede le cose in maniera lievemente diversa e, per descrivere esattamente e chiaramente ciò che egli vede, deve sostenere una lotta tremenda col linguaggio, si tratti di parole o della tecnica di altre arti. Il linguaggio ha la sua natura speciale, le sue convenzioni e i suoi luoghi comuni. E’ soltanto con uno sforzo mentale concentrato che potete tenerlo fisso al vostro intento (…) Voi sapete che cosa io intenda per curve architettoniche: pezzi di legno piatto con ogni tipo di curvature. Tramite un’adeguata selezione è possibile tracciare approssimativamente la curva voluta. Io definisco “artista” l’uomo che non può tollerare l’idea di quell'”approssimativamente”. Egli coglierà la curva esatta di quanto vede, si tratti di un oggetto o di un’idea (…) Supponete ora che invece dei pezzi di legno ricurvi voi abbiate un pezzo elastico di acciaio con gli stessi tipi di curvatura del legno. Bene, lo stato di tensione e di concentrazione mentale (del poeta) può essere rappresentato da un uomo che usi tutte le sue dita per modificare, piegandola, la curva di quel pezzo d’acciaio, fino a dargli esattamente la curva voluta (…) Ci sono pertanto due elementi da distinguere. In primo luogo la particolare capacità mentale di cogliere le cose come realmente sono, al di fuori degli schemi convenzionali in cui si è abituati a vederle (…) in secondo luogo lo stato mentale di concentrazione, l’intima tensione necessaria per l’espressione effettiva di quel che si vede.”4
Il concetto chiave del saggio lo si incontra quando si affronta il problema dell’emozione estetica come “stato di eccitazione prodotto dalla comunicazione diretta” tra poeta e lettore. Ma per attingere questa “directness” l’opera poetica deve possedere i caratteri essenziali della poesia classica, significa intendere la poesia come presentazione e non come descrizione. “L’idea, separata dall’analogia o dalla metafora che l’ammanta, non esiste affatto”. L’immagine forma un tutto unico con l’idea che presenta, e sola può incarnare quel complesso fisico-emotivo-razionale che il poeta aspira a creare.
Il linguaggio poetico per Hulme è intelaiatura di immagini. Di qui l’importanza fondamentale dell’immagine, unico elemento capace di elevare il linguaggio al livello della poesia, strappandolo dal piano della prosa; proprio per questo il linguaggio poetico mantiene concretezza e costruisce la sua solidità. Hulme definisce la metafora un’associazione trasposta dal livello mentale al livello semantico, cioè un’analogia colta istantaneamente tra due immagini e riprodotta in termini di linguaggio: “Il pensiero è anteriore al linguaggio e consiste nel presentarsi simultaneo alla mente di due immagini diverse. Il linguaggio è solo un modo più o meno debole di fare la stessa cosa (…) Pensare è unire insieme nuove analogie, sicché l’ispirazione è soltanto un’analogia colta per caso o una somiglianza non cercata… (La letteratura) consiste nello scegliere e nell’elaborare volutamente le analogie (…) Non è sufficiente trovare analogie. Occorre trovare quelle che aggiungono qualcosa a ciascun termine e provocano una reazione di stupore, dando l’impressione di essere unite in un altro mondo mistico.” 5
Hulme ritorna più volte sul punto che gli sta a cuore: l’attività creativa consiste nella capacità di creare metafore, non nella capacità di percepire visioni. L’artista è tale solo perché, mediante la metafora (immagine), prolunga indefinitamente la visione, nella misura in cui riesce a trasformare un punto in una linea, permettendo al lettore di sostare senza limiti di tempo in questo punto linea: “Sostare in un punto in poesia. La principale funzione dell’analogia in poesia è quella di mettere in grado di dimorare e sostare in un punto di eccitazione. raggiungere l’impossibile e trasformare un punto in una linea (…) La poesia è l’arte di dimorare in un punto (the art of dwelling on a point).” 10
Per Hulme e per gli imagisti il componimento poetico dev’essere incentrato su un’immagine (o metafora) fondamentale, che funga in fondo da “correlativo oggettivo” della visione che l’artista vuole comunicare. Ci si avvia alla definizione data da Pound dell’immagine: “un complesso intellettuale ed emotivo presentato in un istante di tempo”. Gli imagisti – diceva Flint – avevano anche una certa dottrina dell’immagine che non avevano affidato ad alcuno scritto: dicevano che non riguardava il pubblico e che avrebbe provocato inutili discussioni. In verità gli imagisti non erano dei teorici e alla teoria preferivano la produzione di poesia. Ma, al di là delle definizioni che gli imagisti davano dell’immagine, che non brillavano per profondità ed esatta calibratura filosofica (per Flint “l’immagine è il centro di risonanza di un momento squisito”, dove si nota l’influsso dell’arte orientale e delle stampe cinesi), l’imagismo si profila come una delle scuole della “nuova poesia” erede del disfacimento del simbolismo. E in questa funzione la sua importanza, sul piano della cultura e delle forme artistiche mondiali, risulta fondamentale.
Da questi brevi cenni possiamo verificare il ruolo dell’influsso esercitato dalle idee di Hulme su alcuni poeti destinati a dar vita alla scuola imagista. La parte svolta da Hulme nella formulazione della poetica dell’immagine è senza dubbio, dopo quella di Pound, della massima importanza. Già nel primo manifesto imagista si possono rintracciare gli elementi fondamentali delle teorie di Hulme: dalla dottrina dell’immagine alla legittimazione del verso libero, dalla poesia come prodotto “hard, clear and definite” all’ammonimento alla concretezza e alla “directness”, alla diffidenza per la poesia “cosmica”, al ripudio del sentimentalismo e dello sperimentalismo proprio di altre coeve avanguardie e l’adozione della tecnica del frammento.
Des imagistes, la prima antologia curata da Pound, apparve nel marzo 1914. Pubblicata tre mesi prima del primo numero di “Blast”, tre mesi dopo il primo numero di “Egoist”, a un anno esatto di distanza da Imagisme del Flint e dai Few Dont’s poundiani, essa voleva costituire il primo grande trampolino di lancio del nuovo movimento e offrire opere significative di molti poeti allora sconosciuti che ad esso avevano aderito. Ma la mancanza d’un qualsiasi manifesto introduttivo rendeva difficile al profano dedurre da quella raccolta di componimenti, privi in apparenza d’un carattere comune, i principi cui la nuova scuola s’ispirava. C’era, è vero, una strana composizione in appendice dedicata a T.E. Hulme che ricollegava implicitamente i poeti dell’antologia alla “dimenticata scuola delle immagini” di cui Pound parlava in appendice a Ripostes, e c’erano altresì alcuni versi greci premessi al volume che avevano un chiaro valore emblematico. Ma Hulme era pressoché ignoto al lettore medio americano, la “scuola delle immagini” era conosciuta soltanto a una ristretta cerchia di iniziati, e quanto al distico greco esso pareva semmai avvalorare il primo giudizio di Harriet Monroe, secondo cui gli imagisti erano in fondo degli “ardenti ellenisti”; affermazione peraltro che pareva chiaramente contraddetta da certi componimenti inclusi nella raccolta, soprattutto dalle poesie di chiara derivazione cinogiapponese del Pound e di Allen Upward. L’unica via d’uscita che restava al lettore era consultare i documenti imagisti e i riferimenti al nuovo movimento contenuti nei primi numeri di “Poetry”. Ma anche questo non era un compito agevole, giacché “Poetry” era sorta da poco e non aveva ancora raggiunto la notorietà e la diffusione cui in seguito sarebbe pervenuta. Ed era ancor più difficile, se non addirittura impossibile, che i lettori avessero potuto consultare le lettere indirizzate da Pound alla Lowell e soprattutto alla Monroe, nelle quali il poeta americano aveva ampiamente illustrato il carattere del nuovo movimento così com’egli lo intendeva. Era quindi del tutto improbabile che il profano potesse cogliere nei versi greci citati in apertura un richiamo implicito a due dei principi più cari al primo imagismo: il rispetto della tradizione e l’ideale di una poesia che (come quella dei melici greci) fosse chiara e limpida.
Si spiega quindi come i poeti del secondo imagismo ritenessero necessario premettere al secondo volume una lunga prefazione che includeva tra l’altro un importante manifesto. Nella prefazione affiorava in forma larvata l’eco dei contrasti e delle polemiche seguite alla pubblicazione dell’antologia poundiana. La prefazione di Some Imagist Poets, dopo aver asserito la non novità dei principi imagisti, precisando in qual senso fosse giusto parlare di una “scuola” imagista, ricollegava i canoni del nuovo movimento alla tradizione della grande poesia, affrontava la questione del vers libre ed enunciava infine i sei punti programmatici del secondo imagismo:
1) Usare il linguaggio del discorso comune, ma adoperare sempre la parola esatta, non quella quasi esatta né quella puramente decorativa.
2) Creare nuovi ritmi, come espressioni di nuovi stati d’animo e non imitare ritmi vecchi che si limitano a riecheggiare vecchi stati d’animo. Noi non insistiamo sul “verso libero” come unico sistema di scrivere poesia. Noi lottiamo a suo favore, in quanto è un principio di libertà. Crediamo che l’individualità d’un poeta può spesso esprimersi meglio nel verso libero, che non nelle forme convenzionali. In poesia, una nuova cadenza significa una nuova idea.
3) Consentire un’assoluta libertà nella scelta del soggetto. Non è buona arte scrivere malamente sugli aeroplanie le automobili; né è necessariamente arte cattiva scrivere bene su cose passate. Noi crediamo appassionatamente nel valore artistico della vita moderna, ma vorremmo far notare come non vi sia nulla di più impoetico e fuori moda d’un aeroplano del 1911.
4) Presentare un’immagine (donde il nome: “imagisti”). Noi non siamo una scuola di pittori, ma crediamo che la poesia debba rendere i particolari con esattezza e non trattare cose vaghe e generiche, per quanto sonore e roboanti esse possano essere. Per questo motivo ci opponiamo al poeta cosmico che ci sembra rifugga dalle genuine difficoltà della sua arte.
5) Produrre poesia che sia dura, difficile e chiara, mai offuscata né indefinita.
6) Infine, molti di noi sostengono che la concentrazione è l’essenza stessa della poesia.
Il manifesto insiste su due punti ben delineati: adozione di un linguaggio quotidiano e ricerca della parola esatta. Se il Pound difendendo il discorso comune (“common speech”) si poneva in cosciente contrasto con ogni forma di convenzione e artificiosità poetica in nome di una lingua attuale e concreta, per la Lowell esso diventa molto più semplicisticamente un linguaggio che ripudia inversioni e frasi fatte. “Originalità” e “naturalezza” subentrano così ai canoni poundiani della concretezza linguistica e della necessaria convenienza della forma al contenuto. In apparenza le tesi esposte sembrano accordarsi con le tesi di Pound, il quale aveva sostenuto che la struttura metrico-ritmica del componimento doveva sempre “convenire” al soggetto: un’affermazione che a sua volta pare concordare con il concetto secondo cui in poesia una nuova cadenza significa una nuova idea. Per la Lowell “nuovi ritmi” e “nuove cadenze” sono concetti svuotati di contenuto. Pound non faceva tanto distinzione tra ritmi vecchi e ritmi nuovi, quanto tra ritmi adatti e inadatti, efficaci e inefficaci. Il ritmo era per lui ben più che una semplice questione di sillabe o di lunghezza di versi o di successione di strofe ma era qualcosa di intimo e strutturale derivante dal suono stesso delle parole e determinato dalla successione stessa da queste seguita. Per Pound ogni parola, sillaba, lettera, suono hanno un valore e una loro funzione precisa nella costituzione del ritmo.
Anche riguardo al terzo punto, l’accenno al carattere “impoetico e fuori moda” d’un aeroplano del 1911, il secondo imagismo finiva per svilire il concetto poundiano dell’attualità della nuova poesia. Il concetto hulmiano e poundiano di “presentazione” di un oggetto mediante una immagine era, dalla seconda antologia, completamente disatteso; anche la questione del vers libre veniva risolta nell’accettazione della unrhymed cadence e della prosa polifonica; altro concetto completamente disatteso del Pound era quello della concretezza e della poesia come “craftmanship“, del carattere artigianale, manuale, tecnico dell’artista, il quale è l’artefice del linguaggio, il fabbro delle parole.
Ma nonostante gli equivoci concettuali e gli indebolimenti teorici del secondo imagismo, resta il fatto indubitabile che l’imagismo americano fornisce l’esempio di un alto e severo magistero di poesia scaturito dalla dissoluzione del simbolismo.
1 in “Poetry”, Chicago, I, 4, genn. 1913
2″Romanticism and classicism” in Speculations Chicago, 1958
3 “Notes on Language and Style” in Speculations Chicago, 1958
4 “Romanticism and Classicism” in Speculations Chicago, 1958
5Further speculations in Speculations Chicago, 1958
I sei punti programmatici del secondo imagismo insistono su due elementi ben delineati, così rappresentabili in estrema sintesi:
a- adozione di un linguaggio quotidiano;
b- ricerca della parola esatta.
Sulla ricerca della ‘parola esatta’ alla metapoetica, vale a dire una poesia che parli della poesia, il passo può essere breve. ..
Esemplari possono essere questi tre esempi soprattutto nei riguardi della ricerca in poesia della ‘parola esatta’.
1 – Giorgio Caproni
Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte, ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili
Anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.
2 – Elio Pecora
Rifrazioni
C’era una volta un giardino ai piedi di una collina,
dietro un muro di pietra. Una rete verde di ferro
lo circondava. Vi fiorivano d’estate dalie
gialle e cremisi. Ibiscus bianchi e azzurri,
un loto, un’acacia, un melo verde, un fico
spandevano sul terreno morbido la loro ombra leggera.
Il vento recava i rintocchi di campanili lontani,
abbaii, cinguettii come musiche accordate.
In quel giardino, d’estate, tornava un uomo
che da sempre, il suo sempre, cercava parole esatte
contro il rumore, e là s’illudeva di trovarle
e ne godeva come il dono inatteso di un paradiso.
Poi venivano i giorni delle piogge e delle parole vuote
3 – Gino Rago
Nel giardino della parola esatta
[a Elio Pecora, per la laurea ad honorem]
” Inviare poesie a Elio è come recare civette ad Atene
o come spingere nel bosco rovi, alberi, spine.
Un tabarro ci vuole. Un mantello a riparo
di quei grandi freddi del passato
e rami di quercia o di leccio al focolare.
Già lo dissero in epigrafe a Montale,
anche per Elio Pecora
[radici e foglie i versi d’una stessa pianta]
il meglio d’una seppia rimane
ancora l’osso,
il resto è materia per i cuochi.
La luna sul muro di pietre, il sole sul melo,
il giardino della tua parola esatta.
Che mai scenda sul poeta
la pioggia delle parole vuote,
ma Elio lo sa,
a volte le nuvole possono anche stancarsi del cielo”
Gino Rago
Il tonosimbolismo nella metapoetica post-postmodernista di Roberto Bertoldo
Roberto Bertoldo
Vogliamo una poesia…
Vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati
come le note d’un pianoforte bizzarro,
vogliamo che gli uomini amino la bestemmia
perché abbiamo sorvolato le piogge che sgretolano le nubi,
perché abbiamo portato dentro le età delle bestie
e le sconfitte e i rimorsi. Ma c’è sangue
anche nelle bifore, dove il bene e il male
hanno sguardi doppi e vogliamo una donna
che non abbia il volto di questo dio mediocre
che ha costruito poesie infelici.
Non ci sono strade più arcuate di questa
che ci trapassa d’amore e ci ha visti impropri
perché la spada si piega quando ha in punta
il peso della morte.
————————————————
gr
ODORE DI SEPPIA
Del fine danno
equiparato a festa
escogitato appena
e di soppiatto esploso
sovviene pure, al fine sai
l’allegria sommessa
la messa sazia,
di uno scolapasta arreso.
lo vedi pudico, un elmo
riverso, steso,
sulla dimessa riva (cucina)
sconfitto a conca.
Tralasciato ha la limacciosa riva
riverbero assolo di uno spaghetto al sugo
che all’odor di Seppia,
l’amido! affogato ha pure
l’amico, il poeta insigne
che l’osso torvo ridusse a canto,
che spolpi vivo,
che a fuoco lento assapori spento.
E svenne pure all’estasiato encomio
il rigo, il salmo, il tripudiare esploso.
Generale incerto della poesia implosa
nella macchia oscura di una assurda ode.
Grazie OMBRA.
Al respiro.
«Signore,
aiutami a scrivere, con questa mano
da destra a sinistra: Isola dei morti.
Due, Paradiso. Tre, Al cielo le braci!»
«Soprattutto quest’ultimo»
«Le unghie, i capelli. Il piatto che passa
di mano in mano. Il tempo, l’orizzonte…»
«Tiziano Vecellio guarda la gente uscire di casa.
Gli è pittoresca. “Conto fino a cinque, poi disegno”.
“Nell’aria, trattenendo il respiro»
Ma scrive “In un metro di mare”. Due sostantivi
che suonano ovattati; perché trasformati in bolle
e bollicine che salgono veloci – …etro re.
Nemmeno sillabe.
– Mayoor lug18
Una poesia di Donatella Costantina Giancaspero scritta con il mio contributo mentre ci trovavamo nel mare di Poros (Grecia, davanti ad Atene, insieme a Steven Grieco Rathgeb e Chiara Catapano):
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/07/08/ezra-pound-limagismo-americano-thomas-ernest-hulme-e-la-nuova-poesia-richard-aldington-d-h-lawrence-james-joyce-allen-upward-amy-lowell-j-g-fletcher-w-c-williams/comment-page-1/#comment-36529
Un vaso. Le belle di notte.
Il treno attraversa la città.
Il punto bianco sul cerchio ritornerà
dove siamo già stati. Al di là.
Si tratta di una tipica poesia fatta con gli stracci della poesia. Innanzitutto, la rima in “a”, la più corriva e facile; e poi la ripetizione baciata della rima, la più scontata e triviale. Una poesia di immagini immobili (nulla di più semplice e scontato). I punti scandiscono le cesure spazio-temporali, come consiglia la poesia della nuova ontologia estetica. Nulla di nuovo, cose che il critico inglese Hulmes scriveva più di cento anni fa. Davvero, la poesia italiana ha perso più di cento anni per ritrovare il quoziente di cose che il critico inglese suggeriva e caldeggiava prima della prima guerra mondiale.
E poi c’è da dire che la poesia è e resta un Enigma. Che sia compresa non ha nessuna importanza, meglio se non è capita affatto, la sua solitudine sarà un buon passaporto. L’enigma ci parla, ci parla in una Lingua misteriosa ed estranea. Noi ascoltiamo e non possiamo, non potremo mai capire cosa quelle parole ci vogliono dire. Ma è essenziale? È davvero essenziale comprendere quel che l’Enigma ci vuole dire? – Se lo comprendessimo svanirebbe tutto il suo mistero, svanirebbe la bellezza di quei pronunciamenti.
L’enigma è stato pronunciato. La poesia è stata scritta. E noi non capiamo assolutamente nulla. L’Enigma è ciò che resiste con tutte le sue forze alla ermeneutica. L’enigma rifugge ogni ermeneutica. In qualità di “critico” quindi non ho nulla da dire su di esso, tranne che tutti i suoi materiali sono triviali, scarti, stracci… una poesia fatta di stracci.
Anche questa è una caratteristica della NOE.
Rifessioni di Gino Rago su Antologia poeti italiani contemporanei della meditazione attiva.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/07/08/ezra-pound-limagismo-americano-thomas-ernest-hulme-e-la-nuova-poesia-richard-aldington-d-h-lawrence-james-joyce-allen-upward-amy-lowell-j-g-fletcher-w-c-williams/comment-page-1/#comment-36530
Tutto è partito da questi versi de La lugubre gondola (1996) di Tomas Tranströmer [come incessantemente ha segnalato e ribadito L’Ombra delle Parole attraverso l’opera martellante del fondatore e coordinatore Giorgio Linguaglossa e dalla Redazione della stessa Rivista Letteratura Internazionale]:
“Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero. ”
Dice la Chiesa Isnardi nel saggio su La lugubre gondola tranströmeriana:
«[…] Nella poesia di Tomas Tranströmer niente è fuori posto o in più, ogni parola ha un peso simbolico all’interno di testi che si avvicinano alla perfezione…» E poi, continuando nel suo saggio, la Chiesa Isnardi usa la parola-chiave, quella che in noi ha fatto scattare il guizzo dell’accostamento persuaso al nuovo corso della poesia italiana lanciato da Giorgio Linguaglossa, proprio con Tomas Tranströmer come modello di paradigma poetico cui indirizzarci adottando il nuovo corso poetico ormai noto come Nuova Ontologia Estetica:
«[…] La poesia così diventa “meditazione attiva” in grado di destare impulsi, offrire una visione diversa, barlumi di verità. Una poesia dinamica e aperta, dove è centrale l’elemento sensoriale; una poesia in cui la lingua è spinta al limite estremo, alla ricerca della parola perfetta nel silenzio gonfio di messaggi a cui il chiacchiericcio del mondo ci ha disabituato».
Una poesia della «meditazione attiva» da intendere come poesia che non si dà mai una volta per tutte, ma che continua a suscitare dubbi e incertezze, come una finestra costantemente aperta sull’ignoto, e nella quale il lettore è chiamato a svolgere un ruolo di compartecipazione con il poeta, sia sul piano fisico-emotivo-interpretativo del testo poetico, sia su quello della sua comprensione perché interpretare un testo non sempre significa comprenderlo.
In alcuni poeti prevale, in un canto elegiaco sull’autunno della vita, la meditazione sul tramonto delle «cose»[il mistero dell’esistenza si cela e si svela nel dettaglio di quell’oggetto che credevamo di conoscere e che davamo per scontato… ]
Il mistero si presenta nella forma del frammento; anche il frammento si dà nella veste del dettaglio. Quello che ci si presenta all’improvviso è un mistero che fa ingresso nel nostro quotidiano, che so, un ricordo che non volevamo ricordare, un lapsus, un errore di dizione, un refuso di una parola che non volevamo scrivere, in una parola, il mistero delle cose semplici che si rivelano in un attimo è l’Altro per l’altro, uno scambio di «persone», di «cose», una metonimia, una sineddoche, «maschere» di un «teatro degli Artigianelli» dove si recita sempre la solita «scena», il solito canovaccio dello stupore e della meraviglia di fronte al mistero dell’esistenza.
I poeti antologizzati, il cui dire è fondamentalmente un discorso metafisico-esistenziale sul mondo e non più sugli stati d’animo del piccolo «io», proclamano la «polivocità» della parola concentrando i concetti in immagini e le immagini in icone per giungere a nuove basi ontologiche e a nuovi paradigmi estetici [molteplicità di interpretazione, abbandono dei referenti della metafora tradizionale, immagini in movimento, pluralità del tempo e degli spazi, metafore cinetiche, pluralità del senso, oggettività, intemporalità, de-soggettivazione].
Alcuni poeti, infine, si misurano apertamente con il nuovo genere della «poesia in prosa», consapevoli sia della funzione sociale, ideologica e soprattutto estetica di questo genere [borderline con la prosa, disse T. S Eliot], sia del suo potenziale di sovversione in grado di ribaltare la rigidità di tutta la tradizionale prosodia che, forse dal neoclassicismo ottocentesco eminentemente francese, ha influenzato un intero ciclo poetico italiano. In questo nuovo genere i poeti non hanno difficoltà a inserire nei loro testi il linguaggio della prosa non letteraria, vale a dire il linguaggio della strada e della vita reale perché la poesia in prosa spunta da un bisogno di rivolta e dalla necessità di trovare un nuovo percorso per esprimere la disarmonia, la disperazione, la parcellizzazione e la nuova sensibilità dell’uomo moderno, con una scrittura capace di andare contro la narrativa convenzionale, superando l’inadeguatezza non soltanto estetica di tutta la prosa descrittiva e contemplativa.
La «poesia in prosa» [che per esempio in Ewa Lipska confina con la «prosa poetica»] è un genere “contro”, un genere ibrido, un genere di rivolta e di libertà. E’ molto più che un semplice tentativo di rinnovare la forma poetica: è la Weltanshauung stessa dei poeti giacché è una rivendicazione dello spirito, un aspetto della lotta incessante dell’uomo contro il suo destino, e in questi poeti antologizzati il tessuto poetico è percepito come l’ unico gesto estetico possibile nel vuoto, in una oscillazione permanente fra buio e silenzio, fra suono e senso.
[Tutti i poeti antologizzati sono stati presentati su L’Ombra delle Parole da Giorgio Linguaglossa, ma non tutti i poeti presentati da Giorgio Linguaglossa su L’Ombra d. P. sono stati inseriti nella Antologia]
(Gino Rago)
Ecco un breve pensiero ispirato all’immagine di Ezra Pound all’inizio di questo post.
il volto devastato di Ezra Pound
nell’estrema fotografia in bianco e nero
è assai prossimo a quello di Nicodemo
nella Pietà Bandini di Santa Maria del Fiore
che Michelangelo scolpì per la propria tomba,
ispirandosi proprio a quel volto
che sarebbe, dopo secoli, apparso.
Ed ecco il link a un’immagine della scultura:

Gentili Signori mi consentano di dire il mio pensiero modestissimo.
Ho sempre saputo che fra IMMAGINISMO e IMAGISMO le differenze siano sottili, e che in fin dei conti forse siano la stessa medaglia – non sono un esperto in materia – ma ritengo che quei Poeti su menzionati nella presentazione abbiano molto giocato giocandoci. Non credevano essi stessi a cosa scrivevano ed erano in fondo dei salottieri…
Confrontandoli con Keats, Scelley p.e. appaiono dei vecchi gufi.
Giovanni Ragno
L’ha ribloggato su Alessandria today.