Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017

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Laboratorio di poesia del 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà, Roma

 

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Testata politticoSalvatore Martino

Eros e il Mito, i viaggi i labirinti

Quando alcuni giorni fa Linguaglossa mi ha raggiunto telefonicamente invitandomi a parlare nel Laboratorio di poesia de l’Ombra delle Parole intorno alla mia poesia sono stato preso da una sorta di smarrimento.
In quasi sessanta anni di dedizione al discorso poetico mai mi sono trovato a parlare in prima persona del mio mondo raccontato in versi.
Ma non ho avuto scampo ed eccomi qua a camminare con voi questo lungo viadotto, intriso di scorie e trabocchetti, abissi e cancellazioni a volte persino di felicità.
Sono nato nel cuore più segreto della Sicilia, la terra degli avi di mio padre, a mezza strada tra Palermo e Agrigento. Adolescente ho vissuto in Toscana la terra degli avi di mia madre, e credo che queste coordinate abbiano contribuito a plasmare il mio carattere,a dare una dimensione alla mia creatività. Due avvenimenti hanno avuto una influenza decisiva nella costruzione dell’edificio dove sono andato ad abitare: lo studio della medicina all’Università per cinque anni, e il suo abbandono letteralmente rapito dal teatro.
Nel 1963 a Palermo per il servizio militare di leva. E qui un’altra svolta importante. Avevo già prodotto un certo numero di testi poetici, ma in questo lembo del mio sud compresi e per sempre che una cosa è scrivere versi, altra cosa essere poeta, voler essere poeta, vivere da poeta.

Adolescente sono stato un lettore disperatamente onnivoro, sotto la guida di Luciano Bianciardi allora direttore della Biblioteca Chelliana ubicata al piano terra del mio liceo classico a Grosseto.
Più che i poeti erano i romanzieri ad affascinarmi: i grandi russi, gli inglesi Conrad e Wilde su tutti, i francesi dell”800 e Proust, e naturalmente gli adorati Melville e Poe. Buzzati, Gadda, Berto e Pavese fra gli italiani. Quando la poesia mi invase totalmente i miei innamoramenti andarono ai poeti di lingua spagnola, anche perché potevo leggerli nel testo originale, come del resto i francesi.
Jimenez e Machado, Lorca, Guillen, Aleixandre, Darìo, e naturalmente Baudelaire e Rimbaud, per citare solo quelli più volte visitati. Degli italiani del novecento non molto, qualche cosa di Ungaretti, il primo Montale, Cattafi, Dino Campana. Naturalmente i maestri dei maestri Cavalcanti, Dante, Petrarca, Leopardi.
Sono di quel periodo Venti pezzi facili e Ricordi da Palermo dove tentavo di trasfigurare in musica esperienze di vita, il colloquio con la mia terra, l’eros che avrebbe accompagnato tutta la stesura del viaggio poetico.

Nei primi anni sessanta feci parte dell’Avanguardia storica romana che in teatro tentava di dare un nuovo indirizzo alle vicende del palcoscenico. Fu Giordano Falzoni che mi fece conoscere i poeti del Gruppo 63. Devo confessare che non mi interessarono affatto, solo Sanguineti in qualche modo, al quale riconoscevo una straordinaria intelligenza, e una ricchezza linguistica assoluta.
In quegli anni conobbi Bianca Garufi, da poco tempo psicanalista junghiana. Era stata la donna di Cesare Pavese col quale aveva scritto a quattro mani il romanzo Fuoco Grande. Con lei mi addentrai nello studio della psicologia analitica, cardine fondamentale per la mia scrittura, e conobbi il grande Bernard, che mi iniziò ai misteri del profondo.
Nel 1966 conobbi Corrado Cagli che mi introdusse nel pantheon della scena romana: Afro, Mirko, Guttuso, De Chirico, Vespignani, ma anche letterati come Emilio Villa e Pier Paolo Pasolini. Frequentazioni intense di amicizia che segnarono spiritualmente e intellellualmente la mia formazione. E poi due grandi personaggi Giorgio Amendola e Antonello Trombadori, che rafforzarono la mia fede nel comunismo, e mi introdussero alla vita pratica del partito. Sul palcoscenico ho dato più volte il mio contributo nelle Feste dell’Unità. 
A metà degli anni sessanta come in un prezioso ritrovamento altri due incontri decisivi: Ezra Pound e T.S.Eliot. Cambiò totalmente il mio modo di fare poesia. Si materializzarono due poemi: Attraverso l’Assiria e La fondazione di Ninive. Il primo nasceva di getto in un’estate di delirio, nella quale non facevo che ascoltare ossessivamente Tristan und Isolde. Ninive ebbe invece una lunghissima gestazione, undici ani, dilatandosi ed essiccandosi alternativamente. Sottoponevo molto spesso i miei risultati di revisione a Ruggero Jacobbi e a Libero de Libero, ricevendone stroncature o incoraggiamenti. Lo stesso Jacobbi nella introduzione al volume avrebbe scritto: …..Martino ha percorso questo itinerario rischioso, talora spaventoso, per giungere a un riscatto che egli stesso ha propiziato in anni e anni di adulta e coscientissima ricerca di linguaggio, in modi di verso e di prosa che non somigliano a niente di oggi……

Laboratorio 30 marzo Rago Sagredo Martino

Laboratorio di poesia del 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà, Roma da sx Salvatore Martino, Antonio Sagredo e Gino Rago

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Ispirazione e immaginazione sentimento e magma, filo rosso col mondo più sotterraneo, una scrittura talvolta quasi automatica alla aniera dei surrealisti, queste credo furono le vie che intrapresi. Al vers libre preferii la cadenza non ritmata. Cercavo sempre anche in un ipermetro una certa musica , che verificavo con la lettura ad alta voce. Devo ammettere che già allora non avevo interesse per la poesia che si andava materializzando in Italia. Leggevo, conoscevo, ma nella totale indifferenza. In questi due libri cominciarono a delinearsi le tematiche,che mi avrebbero accompagnato nell’arco di oltre cinquanta anni : il rapporto dell’Io con se stesso, la maschera (persona) , l’archetipo dello specchio, il colloquio con l’Altro, il viaggio reale e quello sognato, l’ambiguità dell’essere e delle parole, Eros nella sua duplice natura, principio di relazione proprio alla vita, o progenie della notte, fratello della morte, incapace di salvarci da essa, e i sogni (oneiroi), che sia Omero che la mitologia orfica collocano nel regno di Ade. Tutto sotto la freccia apollinea, l’ebbrezza dionisiaca, il fuoco della conoscenza, il freddo del bisturi nell’indagine razionale. 

E nel guscio più ripido il dissidio mai sanato di essere a un tempo viandante e cavaliere e contadino legato al mio segno di terra, dentro una sorta di misticismo non trascendente , che anela al superamento dell’effimero, della fragilità. Certamente mi hanno aiutato, forse condizionato le mie frequentazioni: Bianca garufi, Bernard, J. Hilmann, le letture appasionate di Jung e di Kerenji.
Ricordo una sera a casa di Bianca appunto…c’erano alcuni mebri dell’AIPA Aldo Carotenuto e Paola Donfrancesco tra gli altri, ospite d’eccezione James Hilmann. Si parlò ovviamente di anima, di sogni, di mito, ma soprattutto di arte e della sua importanza nella psicologia del profondo. A un certo punto Hilmann quasi concludendo apoditticamente : ma a che serve l’arte, la poesia se non dà emozione.

Fu a metà degli anni ’80 che incontrai più volte Ghiannis Ritsos nella sua casa al 39 di Michail Koraca ad Atene. Avevo portato sulla scena per la prima volta in Europa il suo Oreste, anni dopo avrei recitato all’Eliseo un testo da me composto sulle sue poesie: Uomini e paesaggi. Furono davvero incontri incancellabili, forse i più emozionanti della mia vita. Parlavamo di tutto, in francese, del suo confino e dei colonnelli, degli antichi eroi e filosofi, della sua poesia, che mai lo aveva abbandonato. Potrei restare qui a discorrere con voi in un tempo dilatato tanti erano gli avvenimenti, i pensieri che scorrevano nei lunghi pomeriggi e talvolta anche al mattino. Mi mostrò alcune foto che lo ritraevano a bordo di una automobile scoperta, mentre attraversava le strade di Atene in mezzo ad una folla entusiasta che cercava di toccarlo mentre passava: erano i festeggiamenti del suo settantacinquesimo compleanno.Nel nostro ultimo incontro salutandomi mi consegnò tre sassi levigati dal mare sopra ai quali egli stesso aveva disegnato con inchiostro di china facce di antichi dei ed eroi. Li ho conservati quasi religiose reliquie. Lasciandoci sull’uscio faticavo a trattenere le lacrime, e mi accorsi che anche lui piangeva, e ci trovammo stretti in un indimenticabile abbraccio.

Nel ventennio dall’80 alla fine del secolo scorso si delinea nella mia scrittura una pentalogia miticometafisica, come la definisce Donato di Stasi, la terza fase del mio cammino.

Commemorazione dei vivi- Avanzare di ritorno- La tredicesima fatica- Il guardiano dei cobra- Le città possedute dalla luna.
Qui il mito diventa decisamente più ctonio, infarcito di Ybris: Odisseo e i suoi viaggi nel mondo supero e in quello infero, Eracle e Deianira, Giobbe e ol suo confronto con Jahvé , Ermes e le sue molteplici facce, il Minotauro nel suo labirinto metropolitano, Edipo cieco ad Eleusi come nelle nostre città. Il reperto mitologico come modello del quotidiano , del dettato storico. A proposito della storia in questi cinque volumi compaiono personaggi che la storia stessa hanno segnato. E la vicenda personale tende, almeno nelle mie intenzioni, a divenire cammino anche per gli altri.
Così l’individuo mitico-metafisico sceglie il salto nel vuoto, il rischio esistenziale, il dèmone della poesia. Viaggi verso culture lontane alimentano non solo paesaggi sconvolgenti, ma anche il contatto con civiltà in apparenza lontane, chiamate a descrivere le loro mitologie, le loro vicende di lotta e di sopravvivenza.
Dopo i primi moduli espressionistici, dal delirio linguistico poundiano , iperletterario e
intellettualistico, dagli accenti epici e dagli erratici momenti in versi e in prosa, si entra nell’ultima fase del mio cammino poetico: la trilogia del Nichilismo Libro della cancellazione- Nella prigione azzurra del sonetto- La metamorfosi del buio. Non so quanto abbia influito la lettura di Nietzche, segnatamente Il crepuscolo degli idoli de Al di là del bene e del male.

In Libro della cancellazione l’incontro con Ade , colui che è presente ma non c’è perché polvere, diventa pressante. Fino ad allora avevo in qualche modo pensato che la memoria fosse il solo esercizio da seguire, qui invece diventa chiaro che l’unica operazione consentita è l’oblio.
Paradosssalmente, lo stile è sempre più scivolato verso la chiarezza, le azioni, le persone, i paesaggi, gli stessi sentimenti più limpidamente oscuri. C’è un ritorno più concreto verso l’autoritratto alla maniera dei pittori del quattro-cinquecento, e c’è a partire da questa stagione un coraggio abissale di guardare in faccia il Nulla con una violenta volontà iconoclastica, contro le strutture di una società, che mi appare estranea. La corporeità diventa protagonista in questi tre libri, volutamente narrativi, dove ho cercato di trasferire tutto il mio pathos, che in parte mi deriva dalla poiesis greca corale e monodica.

Avevo scritto alcuni sonetti alla fine del secolo scorso e successivamente in Cancellazione, e nei primi anni Duemila sono caduto in una folle impresa alla don Chisciotte, folle e apparentemente senza uscita. 122 sonetti rimati tutti alla stessa maniera ABBA ABBA CDE EDC. Declinavo all’inizio de La prigione azzurra i nomi dei maestri ai quali ero debitore : Cavalcanti e Petrarca, Shakespeare e Borges. Non so io stesso come mi sia avventurato in questo labirinto di perfetta geometria. Certo il labirinto è stata una costante nella mia scrittura, anche se spesso ho pensato che abbiamo smarrito filo e Arianna e vittime e spada, forse abbiamo smarrito il labirinto stesso. Lungo tutti gli anni di gestazione, soprattutto passeggiando col mio Totò nel locus amoenus dove ancora vivo, ho pensato, parlato a voce alta in endecasillabi rimati, come sorgessero già confezionati nel mio mondo infero, in un colloquio con quegli dei che conoscevo quasi che essi trasmettessero in forma non cifrata , messaggi al mio dàimon. Certo il labor limae poi era spietato, perché in una simile struttura chiusa si corre il rischio di usare terminologie desuete, o di cadere nel ciarpame passatistico. Fu come raccontare ad uno sconosciuto la mia vita in versi, ma anche una feroce scommessa contro tutto quello che viene prodotto in Italia, cercando di mostrare come si possa scrivere in una forma vecchia di sette secoli con parole di oggi, con tematiche di sempre, da una Meditatio mortis a una Meditatio erotiké.

Dopo la reclusione azzurra maturata nell’endecasillabo discesi ancora di più nell’abisso, condotto per mano dagli oscuri disegni delle malattie, che mi trascinarono lungo il filo che delimitava il baratro. Ma sono risalito anche da quelle voragini.
Forse il segno più vibrante de “ La metamorfosi del buio”si avvolge intorno alla solitudine, alla ricerca di custodirla e di sconfiggerla. Ma non volli risparmiare niente, tutti i movimenti tematici ritornano con una luce ancora più ctonia, perché la discesa agli inferi non è soltanto quella individuale, ma quella nell’inconsco collettivo. Ma forse dietro al suo scenario di solitudine, c’è qualcosa di più angosciante dell’angoscia stessa. Anche stilisticamente si passa da una forma liricheggiante, a quella epica, a quella narrativa, il viaggio e i viaggi hanno una connotazione più grigia, l’eros è soltanto ricordo ma non rimpianto, il pensiero filosofico si insinua nella disputa scacchistica tra il Nulla e il suo Doppio.

Ai Maestri , ai compagni di teatro, agli amici ho dedicato l’ultimo mio libro edito: Incontri Ricordi Confessioni. Voci, volti, corpi, pensieri incontrati sul mio cammino e che hanno profondamente inciso nella mia vita.
Dopo la pubblicazione di Cinquantanni di poesia (2014) pensavo di aver esaurito il mio compito, di non dover scrivere più: il dàimon è stato di avviso diverso e mi ha imposto di continuare la mia avventura poetica.
Come work in progress sta vivendo tra le mie mani Manoscritto trovato nella sabbia un viaggio sempre più nell’Ade, nascosto nella sua invisibile pienezza, con Eros e Thanatos, al mio fianco, sulla barca del fiume azzurro che avanza verso Anubi.

Salvatore Martino

Autoantologia

Da La fondazione di Ninive 1965-1976

Questa notte mi hanno visitato le formiche
Hanno preso le mani
imbavagliati i piedi
stretto d’assedio il letto
Che sia solo la stanza a respirare?
Il resto giace Inerte
tenuto insieme da robusti negri
il lago infame e la memoria
Estraneo alla vicenda
il viaggiatore ride
acquattato nell’angolo
E aspetta
Che tutto si cancelli?!
Divorato nel sangue
Una brezza invadente increspa l’aria
Ci sono stati morbidi passi nella scala
parole sussurrate incantamenti e riti
una musica dolce sulla soglia
Il viaggiatore infìdo arriva dritto dall’Ade
Ma non ci paralizza l’ignoto grido
o l’avvicinarsi del branco
né il richiamo ingannevole col nome
L’occhio dentro l’occhio
avvitato dalla morsa che sai e non conosci
e decifri il mandante l’involucro lo scopo
Mi hanno visitato questa notte
gente partita da lontano emersa in superficie
attraverso i rigori dell’inverno
e navigando cristalline montagne
prati innevati e case crocefissi e paludi
adesso è qui
Olio sopra la fronte l’orecchio e il labbro

Da Il guardiano dei Cobra 1986-1992

Mi trovavo nel sogno in una barca con il mio fratello
e Guardiano C’erano anche dei compagni e un marinaio
Doveva essere un braccio di mare grigio e calmissimo del
nord simile a un lago senza sponde Io chiedevo notizie
sulla rotta ai compagni e al giovane nocchiero e il motivo
della fuga perché di fuga si trattava Ma non ottenevo
risposta Erano tutti morti E non provavo angoscia né
dolore solo un acuto senso di vertigine e vergogna per
loro che non avevano avuto la disperazione di resistere
Il mare cominciava a farsi denso Al posto dell’acqua mi
sembrava ci fosse un liquido vischioso una specie di olio
In preda a una violenta eccitazione presi a scuotere il
Guardiano sdraiato al mio fianco perché temevo che
quest’altro incidente potesse rallentare il precario avanzare
della barca Una caligine lattescente era caduta senza
bussola sarebbe stato impossibile orientarsi Ma quello
non rispose girò mostruosamente sul fianco rotolandomi
addosso all’infinito La sua faccia penentrava la mia
le braccia le cosce il suo sorriso m’invadevano il corpo in
una indescrivibile euforia e incominciai a cantare a voce
altissima a ridere a sognare e non ci fu più fuga né barca
né compagni soltanto e sconfinata una distesa bianca

Da Le città possedute dalla luna 1992-1998

El mundo perdido La foresta le pietre
nell’orizzonte fermo di Tikál

I
La morte interamente ti possiede
incantata dalle tue parole
dal fiore bianchissimo dei corpi
Si sono rintanati nella selva i miei serpenti
indistinto brusio la loro voce
le scimmie urlatrici invocano la pioggia
a lavare la febbre i desideri
Nel perimetro verde
in dolce precipizio a primavera
nel dominio uniforme delle piante
e per timone una barra di velluto
un colloquio strisciante di formiche
per vela un sentiero diroccato
un possibile agguato
da te dagli altri teso
dai minuscoli eventi che c’illudono
e inseguire dovunque
l’introvabile volo del quetzάl
l’uccello incredibile di piume
promesse ai sacerdoti
e accetta la morte non la cattività

II
Orfani senza voce
messaggeri del verbo
che lacera la morte
indagatori traditi dell’Oscuro
sopra la piattaforma
del Gran Tempio Piramide
di nuvole forse diviniamo
del domestico rito
costruzione perfetta dell’inutile
Guidarono i Poeti questa terra
testimoniando gli inferi e la luce
la freccia scoccata nel delirio
verso l’addome e il cuore
centro del movimento verso il labbro
perché immortali fossero i responsi
iniziatico dono nella veglia
Verde ancora la selva
gli alberi spalancano le braccia
tessono fili di saliva dove gli insetti
annegano e i rettili possono tremare
Un sacro terrore
su queste grigie pietre si respira
tracce visibili
quegli uomini stamparono
un ispirato codice di astri
I poeti osservano la morte
ne contano i sussurri gli abbandoni
i rami incoerenti della vita
le vertebre corrose dal nemico
testardo passeggero
antico testimone di battaglie
che ci dorme accanto
vigilando nel cavo del torace
lo sgomento la pena
I corpi bruceranno
interamente i fiati nell’attesa
tutte le formiche della terra
diventeranno un vuoto agglomerato
l’equilibrio invocato
tra il Nonessere e il Tempo
coinvolgerà fuggitivi e soldati
saremo
tutti
sacerdoti votati allo sterminio
Avranno occhi perforati
il coyote e l’iguana
gli uccelli tutti e sono migratori
e invadono gli stagni
prima di soggiacere all’acqua
lasceranno un sospetto
del loro transitare?
Avremo occhi perforati
un ghigno per sorriso
costretti ad inseguire
come insonne Giaguaro la sua preda
scivolato Serpente tra le dita
lasceremo un sospetto
del nostro transitare?
Presagi ingannevoli
in questo autunno della vita
si concretizza limpido il bersaglio
fiore bianchissimo sul corpo
invocata carezza
interamente tutti ci possiede

Da Libro della cancellazione 1996-2004

Il giardino dei sentieri che si biforcano

Mi ritirai nel giardino
a scrivere poesia
per consegnare agli altri un labirinto
una mappa divorata dal tempo
che conducesse in un secondo altrove
Un giardino pensato all’italiana
un gioco di armonia
immagine speculare della vita
Mi ritirai a scrivere a poesia
ritornando bambino
in un sogno da un altro già sognato
Perché la fine del viaggio è ritornare
al punto esatto da dove sei partito
e saranno le rughe del tuo volto
la carta del disegno iniziale
a segnalare il punto dell’arrivo
la fanciulla che attende sulla porta

E tu sai come incidere la sabbia

Tornato da una riva
più desolata di un colloquio
che a nulla rassomiglia
non al sesso spietato
né all’amore
una felicità c’invade
dolente come il mare
quell’abissale liquido materno
dove tutti invochiamo di restare

La memoria e l’oblio

Aveva sempre pensato
che fosse la memoria
il solo esercizio da seguire
ma svegliandosi una mattina
quasi prima dell’alba
comprese
e per sempre
che l’unico esercizio consentito
era l’oblio

Inno a Hermes

Non si apriranno strade
non correremo verso la paura
non ci saranno vele per l’approdo
Incontreremo Hermes
aggrappato ad una finta stele
nella mano una coppa avvelenata
per transitare il fiume
Signore degli inganni
ladro al banchetto degli dei
fanciullo tessitore di astuti giochi
infantili nequizie
reggitore di fiaccole
che accendono il cammino
delle anime in fuga
spiana le rughe dalla fronte
scendi ad evocare
la gioia mai dimenticata
pronuncialo il nome
che non mi corrisponde
aiutami ad accettare la mia sorte
in attesa di averti come guida
nel viaggio che faremo
quello senza ritorno
ma non per questo freddo
ostile
forse più temuto

Le candele della notte si sono consumate

Sopra le balze di tufo
Machu Picchu domestico
che forse mi appartiene
il verde dilaga a primavera
il raffinato canto degli uccelli
Qui persino il vento
assume un andamento circolare
In questo paradiso ricercato
come un lontano appuntamento
dovrebbe sorridermi la vita
l’ansia distendersi sul volto
Incubi invece i miei pensieri
s’insinuano tra i muri
come morti giganti
Si fermano talvolta sulle soglie
sugli stipiti sbattono la fronte
agitando le chiavi
Dormono al mio fianco
affondano la testa sui cuscini
respirando a bocca spalancata
Usano il bagno schiuma
le mie saponette profumate
si radono la barba nello specchio
sussurrano parole
alitano vendette sulle spalle
s’infilano persino le mie scarpe
Attraccati alla sedia
guardano con sospetto
la macchina da scrivere
e questa d’improvviso
incomincia a battere da sola
Frugano la dispensa
negli armadi
senza testa né piedi
i vestiti passeggiano da soli
come svuotati di pensieri
Invece sono là questi nemici
spiaccicati negli angoli
aspettano pazienti
un passo falso
un alibi una resa
come tentacoli di seta
protendono le braccia
e la domanda accesa
dentro l’occhio cavo
mi arriva dentro l’occhio
sempre la stessa
e non avrà risposta
Sono divenuti familiari
complici di scalate nell’abisso
L’orologio commenta questo imbuto
dove qualche volta c’infiliamo
per addestrarci a non sentire
il rumore ostinato del silenzio
Li vedo sparire nella doccia
ma l’acqua non bagna i loro corpi
non raggiunge la bocca
non diviene fontana
sembra che trascini i loro piedi
come un fiume infernale senza uscita
simile a quelli nella piana di Olimpia
un’estate lontana
nel clamore di un’assurda vittoria
purificammo il corpo nell’Alfeo
prima di naufragare nel profondo

Libro della cancellazione

Mi chiedo a volte
quando dal fiume salgono i vapori
e il paesaggio assume
i colori tonali del risveglio
mi chiedo a volte
dove si disperde il sentiero fissato
se il carcere ossessivo
del piacere dell’armonia del bello
possa esorcizzare
quest’aggrumo di segni
quest’abitare dentro la ferita
Chi siamo mi domando?
Quale fato ci guida?
Diventano risposte le domande
senza mai esserlo
che importa?
Forse siamo quel fuoco immaginario
la montagna coperta di ghiacciai
la scala dimenticata contro l’albero
la tormenta e la luna
Siamo i depositari dell’assurdo
il viandante emerso dalle crete
il vuoto di un addio
la sabbia che purifica i peccati
il faro intravisto di lontano
Siamo l’acqua del fiume dei dannati
la cronaca infinita delle lotte
l’arbitrio e la dimenticanza
siamo l’isola ormai disabitata
siamo la strada alata
la cancellazione

Da Nella prigione azzurra del sonetto (2002-2009)

VI
Scivola inerte il piombo nella sera
sopra la carta incisa dalla voce
se la sentenza è solamente atroce
il colloquio di un uomo che dispera
se sfuggire non è che una chimera
la condanna diventa più feroce
l’inganno fu scoperta assai precoce
apparsa sullo schermo veritiera
Quest’inverno incantato che declina
e una scala sull’albero appoggiata
un tradimento intriso di carezze
vanamente una strada d’incertezze
è corenice dal tempo scardinata
nel mare di papaveri in rovina

LIV
Un gabbiano trovai sopra il suo mare
poche miglia distante dalla riva
un ferro l’incagliava e lui soffriva
a un pontile per farsi medicare
I marinai lo sentono tremare
dalla sua bocca il sangue fuoriusciva
nella febbre violenta che saliva
sulla pietra si lascia abbandonare
Ma tornò d’improvviso nel suo cielo
l’oceano era approdo senza fine
nell’illusione d’essere immortale
Non sa che niente al mondo può restare
soltano l’acqua è terra al suo confine
che tramontiamo liberi davvero

XCI
Il tempo che a noi due fu destinato
di viverla morendo una passione
è stato solamente una finzione
un attimo di pietra immortalato
Incontro al tuo delirio ho respirato
ricercando nel nome un’iscrizione
che fermasse un istante l’emozione
la musica fuggita dal tuo fiato
E’ stato così lieve il nostro andare
e così atroce la dimenticanza
la stagione crudele del ricordo
Nella musica suona un solo accordo
l’incanto ha demolito la speranza
nel letto che ha paura di tremare

Da La metamorfosi del buio 2006-2012

L’ospedale non chiude a mezzanotte

Se arrivo a dominare il mio pensiero
da questo letto di monitor e di tubi
mentre numeri verdi segnalano
la pressione arteriosa i battiti del cuore
Dal braccio e dalla mano
ti nutrono e dissanguano
il pentagramma delle medicine
normalizza il ritmo impazzito
fibrillazione atriale coronarie ostruite
Percorreva stanotte l’ambulanza
il Grande Raccordo che assedia la città
la sirena barattava la corsa per un arrivo
quasi era l’alba sopra l’ospedale
circondato dal vuoto
e dalla invincibile speranza
nel criminale giogo dell’attesa
Le macchine indagano
la tua sopravvivenza
stillano responsi
che non puoi contraddire
pronunciano sentenze
la rivincita dell’inorganico
e azzurra e accecante
non abbandona la stanza
persino nella notte
sorveglia il sonno che non viene
a trascinare il corpo dentro i sogni
Ti affascina il contagio col margine
da dove contemplare l’abisso
e ti vedi aggrappato
e dita e braccia e piedi e cervello
a chiodi e rampini fissati alle pareti
magari nel ghiaccio piuttosto che la pietra
È un descensus oppure una scalata?
E disperi sia un liquido
un vortice che affascina e sconvolge
Voce del mio dominio disegnami
nel famelico antro della porta
il casale in collina di querce e di roseti
e gli olmi che s’attardano di uccelli
e il giallo e il rosso il bianco
il violetto dei fiori
e da questo balcone circolare
l’occhio si contamina dei colori del bosco
e in cerchio descrive l’orizzonte
Voce del mio dominio lasciami
volver a mi perro a mi casa a mi jardin
al ragazzo di Tangeri che aspetta
quasi tu potessi più facilmente
decifrare la mia preghiera
nell’idioma spagnolo
che a volte più mi corrisponde

Notturno dell’inquietudine

Questa sera
che l’abbandono corrisponde al tempo
si consultano i segni di un cammino
bruciato tra sospetti e finzione
questa sera
disceso al ventre dell’inutile
nel giogo effimero della rinuncia
in questo sogno di nonesistenza
un’ambigua follia
affascina il giardino
intonano gli uccelli
un mistico richiamo
le creature del giorno
hanno ceduto al soffio della notte
agli artigli dell’oscurità
Perché non divulgare le tenebre
e cancellare dalla mente il sole?
………………………… e la vita?

Nella lucidità intollerabile dell’insonnia

Il grido inconsolabile di un uccello
lo riportò nel fango dell’irrealtà
era un’alba livida e sorridente
in quella sospensione che precede la luce
Comprese di essersi addormentato
in un cerchio senza rispondenze
un labirinto ottagonale
di sabbia e di parole
una metafora della coscienza
comprese e per la prima volta
che sarebbe stato uno dei tanti
segnalato da un numero
accecato dall’indifferenza
e il sogno non avrebbe avuto fine
Fu allora che in un accesso d’ansia
decise di porre fine a questo sogno
perché non ci fosse alcuno
che potesse sognarlo
perché non restasse traccia
d’ogni suo sguardo d’ogni sua paura
sicuro di essere non soltanto per gli altri
un simulacro
uno spietato ossimoro del nulla
Credo che tutto questo accadde
nella intollerabile lucidità dell’insonnia

44 commenti

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44 risposte a “Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017

  1. “Siamo…la scala dimenticata contro l’albero”,come mi piace, questa immagine! Potrebbe ispirare innumerevoli storie, tutte ruotanti intorno al mistero delle occasioni perdute,degli accomodamenti rinunciatari.Eppure resta, quell’anelito a salire, l’illusione che si possa anche osare, se la scala è robusta, e l’albero è paziente.

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    • Salvatore Martino

      Che bella sintesi metaforica sulla scala hai inventato carissima Anna…chissà forse ci sarà dato salire senza sapere dove né quando. Il mio augurio poetico ti accompagni nella lunga giornata.

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  2. Claudio Borghi

    Leggendo questi testi pulsanti e vivi mi viene immediata un’osservazione: non c’è una questione di parola che contenga l’essere o il non essere, che riesca o meno a esprimere il vuoto in cui navigano le anime alla deriva, incapaci di trattenere un senso: la poesia è sintesi di essere e non essere, è divenire, dolore e gioia in un solo respiro. Nell’immediato farsi e darsi di una pulsazione autentica ogni anima la percepisce potente e vera, in quanto trascende ogni teoria. La musica ne è la sublimazione che ogni volta si rinnova, non uno stanco retaggio del passato.

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    • Salvatore Martino

      L’essere e ol non essere, come la luce e la tenebra, il cielo e l’abisso ci appartengono attorcigliati alle parole che emanano dalla nostra caverna più profonda. Sì trascendiamo ogni teoria e sublimiamoci con la cadenza della musica. Che grande mistero la poesia!

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      • Mariella Colonna

        Davvero…che gran mistero è la poesia! Mai avrei creduto che si potesse scrivere versi intensamente mussicali e genuinamente poetici parlando di malattia e di angoscia…credo sia la cosa più difficile: ma ecco Salvatore Martino:
        “…Percorreva stanotte l’ambulanza
        il Grande Raccordo che assedia la città
        la sirena barattava la corsa per un arrivo
        quasi era l’alba sopra l’ospedale
        circondato dal vuoto
        e dalla invincibile speranza
        nel criminale giogo dell’attesa
        Le macchine indagano
        la tua sopravvivenza
        stillano responsi
        che non puoi contraddire
        pronunciano sentenze
        la rivincita dell’inorganico
        e azzurra e accecante
        non abbandona la stanza
        persino nella notte
        sorveglia il sonno che non viene
        a trascinare il corpo dentro i sogni
        Ti affascina il contagio col margine
        da dove contemplare l’abisso
        e ti vedi aggrappato
        e dita e braccia e piedi e cervello
        a chiodi e rampini fissati alle pareti
        magari nel ghiaccio piuttosto che la pietra
        È un descensus oppure una scalata?
        E disperi sia un liquido
        un vortice che affascina e sconvolge
        Voce del mio dominio disegnami
        nel famelico antro della porta
        il casale in collina di querce e di roseti
        e gli olmi che s’attardano di uccelli
        e il giallo e il rosso il bianco
        il violetto dei fiori
        e da questo balcone circolare
        l’occhio si contamina dei colori del bosco
        e in cerchio descrive l’orizzonte…”

        Ho vissuto questi versi intensamente e rivissuto momenti, frammenti di vita, attese in un tempo immobile e strisciante o improvvisamente rapido e pieno di vortici. Poesia e malattia sembrerebbero inconciliabili se non avessimo letto Leopardi e Martino, sia pure con voci e stili così diversi. Grande poeta è colui che canta il dolore…per poi far apparire di fronte agli occhi meravigliati di chi legge “il casale in collina di querce e di roseti e gli olmi che s’attardano d’uccelli”. Grazie, Salvatore Martino. E scriva ancora…versi di dolore e bellezza, scriva ancora!

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  3. Caro Salvatore, la tua è una poesia “completa”, ricca, fruttuosa, in cui tanti sono gli echi, i richiami, le sfumature semantiche e musicali. Si capisce la ricerca, il percorso di una vita, l’autenticità. Chi non conosce bene il panorama italiano della poesia contemporanea pensa che non ci siano veri poeti, solo perché non arrivano alle case editrici più note, e invece non è così. Tu e alcuni altri che Giorgio (lui compreso) ospita su questo blog, ne siete un esempio.

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    • Salvatore Martino

      Carissima Francesca il tuo attestato, la tua affermazione di poesia completa mi inorgogliscono perché arrivano da un’anima, una mente che amano e conoscono al profondo la poesia.

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  4. In altri tempi avrei scritto molto volentieri sulla poesia di Salvatore Martino.
    Ora non più.

    Giorgina Busca Gernetti

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  5. IL 900 POETICO È DA RISCRIVERE?

    Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017


    Nel mio libro Critica della ragione sufficiente che sto per mandare alle stampe con Progetto Cultura di Roma, ho tentato una storicizzazione della poesia di Salvatore Martino, quello che dovrebbe fare un vero critico, in questi termini. Ho scritto:

    La fondazione di Ninive riunisce poesie scritte dalla metà degli anni Sessanta fino all’anno precedente l’assassinio di Moro, il 1977; è paradossale che delle tematiche e delle problematiche degli anni Sessanta-Settanta questi testi di Salvatore Martino non recano traccia alcuna, è una scrittura che soffre di aperta discronia stilistica e spirituale rispetto alla poesia del suo tempo. Questo è un dato di fatto dal quale io partirei per avvicinarmi alla poesia di Martino. Che la sua poesia non fosse in linea di consonanza con il suo tempo credo che fosse chiaro anche all’autore all’epoca della stesura delle poesie.

    Questa discronia costituirà la caratteristica invariante di Salvatore Martino. È quello che è accaduto al secondo libro di Salvatore Martino, che si situava in un suo spazio proprio, anche linguisticamente, isolato e isolazionista, se pensiamo al taglio squisitamente retorico, di alta retorica, del lessico e della sintassi martiniane, per quel suo desiderio di rendersi non riconoscibile, di ritrarsi in un mondo oscuro e nella
    penombra di una parola che era e sembrava elusiva ed allusiva, enigmatica e che puntava su tali quintessenze auratiche. Il testo diventa il lettore di se stesso. I suoi testi rischiavano di apparire «squisiti»,
    «effabili», «elitari» in un momento in cui la parola d’ordine l’avevano pronunciata Giovanni Giudici con La vita in versi (1965) e Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), per una poesia di taglio colloquiale, civile, lessico basso, con tematiche industriali e urbane, dove la chiarezza denominativa e l’abbassamento dei registri stilistici erano ritenuti elementi assolutamente prioritari. Insomma, Martino privilegiava la via della oscurità del tragitto esistenziale e stilistico, l’esperienza erotica e dionisiaca, l’accentuazione di certo orfismo, quando i tempi invece si orientavano verso la chiarezza del nesso referenziale, l’abbassamento del lessico, l’ambientazione urbana. Martino puntava sulla analogia e sulla simbolizzazione, in una parola, sulla connotazione, in un periodo nel quale l’uditorio letterario preferiva la denotazione e la letteralizzazione. a rileggerlo oggi quel libro ci appare fuori delle aspettative dell’epoca, fuori del suo orizzonte degli eventi.
    oggi, paradossalmente,La fondazione di Ninive, ci appare più in sintonia con le esigenze della ricerca poetica odierna. E pensare che sono trascorsi cinquanta anni dalla stesura di quei testi, ma il fatto è spiegabile perché in poesia ciò che si pone come contemporaneo invecchia presto, mentre spesso ciò che si sottrae al contemporaneo, alla lunga, si rivela di maggiore durata rispetto alle opere un tempo considerate di punta. Con il suo secondo libro il giovane Martino coglieva nel segno di un’opera nata sotto l’egida di uno smaccato anacronismo e di uno scandaloso elitarismo. E venne subito archiviato. Forse, oggi si può cogliere con maggiore distacco e serenità la sensuosità di certi passaggi-paesaggi della poesia martiniana, forse di gusto un po’ floreale e «appassionato»…

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    • Salvatore Martino

      A parte il floreale caro Giorgio ritrovo nelle tue parole quello che ho tentato di fare nel mio “Ninive”. Mi gratifica molto il fatto che tu lo riiteni non invecchiato ma anzi di maggior durata.Sono stato sempre altero rispetto a quanto in poesia si andava edificando in Italia. Ho seguito una mia strada , non so con quale successo o raggiungimento, se mai può esservene uno, cercando di rispondere solo a quanto dal profondo mi nasceva, e spero con sufficiente onestà intellettuale

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  6. IL 900 POETICO E LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

    Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017


    Nel complimentarmi con Salvatore Martino per i 50 anni di poesia, vorrei approfittarne per conoscere il suo pensiero in merito alla poesia attoriale, se così si può dire, quella poesia che si sente anche leggendo è stata scritta per essere detta a voce; perché mi pare di capire, anche dalle poesie qui pubblicate, che vi sia una sofferta ricerca di autenticità, un volersi togliere la maschera senza però rinunciare a ritmo e musicalità che sono propri, oltre che della tradizione letteraria, anche della presenza scenica dell’autore-attore. La particolarità della sorgente mi incuriosisce: il modo di concepire la poesia, il vaglio a cui sono state sottoposte le parole, non solo quando allineate nella metrica ma anche nel verso libero che, lo si sente, deve tenter conto della continuità tra pieno e vuoto; se si tratti di canto o di recitazione ha poca importanza. Vien da pensare che via la maschera, dell’autore restino solo le interiora, e per questo non si possa dire altro del mondo ( ragione di critica sottolineata da Linguaglossa).
    Si sarebbe in buona compagnia: ci sono anche poeti-pittori ( che avrebbero particolare inclinazione nel trattare le immagini), poeti-musicisti, poeti-scienziati, dentisti, ciabattini… Mi incuriosisce la ricerca di autenticità nel via-la-maschera; ma trattenendo la voce, se la si possa ottenere, o se rimanga comunque, per via della forma, un costume di nudità.
    Come si può restare nell’autenticità se vi sono versi la cui bellezza vien garantita dalla forma che si è scelta? Ah, mi sembra un’operazione difficile. Mi chiedo se non convenga strappare maschera e voce, e rendersi pericolosi al pubblico. Pericolosi perché inattesi ad ogni svolta, ad ogni a capo. Ma questo sarebbe un ragionare da NOE.

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    • Salvatore Martino

      Caro Lucio hai perfettamente ragione quando dici “che vi sia una sofferta ricerca di autenticità, un volersi togliere la maschera senza però rinunciare a ritmo e musicalità che sono propri, oltre che della tradizione letteraria, anche della presenza scenica dell’autore-attore”. Certo tutto ciò mi deriva dall’essere io stesso attore , in partenza contemporanea all’essere poeta. In ogni caso sono convinto di due cose fondamentalmente:1) la cadenza, la musica sono essenziali nel dettato poetico, anche usando il verso libero o un ipermetro, 2) L’oralità può essere guardata anche come cartina di tornasole: diceva Borges che la poesia non è tale se non regge all’oralità, che in fondo si ricollega alla nascita stessa della poesia.

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  7. Giuseppe Talìa

    UN AUTORE RIMOSSO DEL 900 POETICO

    Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017


    Felice di leggere su queste pagine l’amico Salvatore Martino con una autoantologia panoramica della sua brillante produzione poetica. Riporto alcuni stralci di una nota di lettura che scritto a proposito di “La Fondazione di Ninive”.
    Appare chiaro che la voce poetica di Salvatore Martino in ben più di mezzo secolo di poesia ha saputo costruire un dialogo costante con il mondo, soffrendo forse una certa lateralizzazione rispetto al discorso maggioritario della poesia italiana contemporanea, per il fatto di essersi sempre collocata in una ricerca assoluta, in percorsi di recupero e attualizzazione dei miti e degli archetipi (…)

    (…) la poesia di Salvatore Martino entra, attraverso la correlazione spazio – tempo (tempo interno e tempo esterno che vedremo meglio successivamente nell’analisi di qualche verso) nel frammento (Storia) e nell’ontologia estetica (civiltà umanistica). Ed anche l’aggettivo “nuova” rientra pienamente in gioco se proviamo ad inquadrare il periodo storico-letterario in cui “La Fondazione di Ninive” ha visto la luce.

    E’ un libro di sperimentazione, di ricerca, di grumi di vita e di pensieri filosofici che nel tessuto della narrazione fa ricorso alla tecnica del flusso di coscienza superando, però, il monologo interiore per una più ampia estensione verso l’esterno, il canto, e la stessa percezione reale delle cose viene rielaborata attraverso il magma della paratassi, i nessi semantici che interessano diversi valori informativi, la punteggiatura che diviene elemento straniante e che sparisce quasi del tutto, sostituita dalle maiuscole all’interno dello stesso corpus (…)

    Un tipico esempio di narrazione nevrotica, di letteralizzazione della nevrosi, una variegata tassonomia di isterismi, di cortocircuiti del sistema nervoso in generale, in cui il tempo interno (E poi starsene a ragionare… Se sapessi quanto fu lungo…) e il tempo esterno (Quando/piove strade…) si accavallano, si avvicendano l’uno all’altro come il lampo e il tuono.

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    • Salvatore Martino

      Una lettura come tuo solito sapiente nel descrivere quello che è stato il mio viaggio nell’antica capitale Assira…quel lungo poema di tanti anni fa che cadeva straniero nel panorama della poesia italiana del tempo.

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  8. gino rago

    Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017


    Meditiamo insieme su questi versi di Salvatore Martino:

    “(…) e saranno le rughe del tuo volto
    la carta del disegno iniziale
    a segnalare il punto del tuo arrivo…”

    In sintesi, sgretolando l’ipertrofia narcisistica presente in tanti poeti degli anni Settanta del secolo scorso, ivi compreso Pier Paolo Pasolini,
    Salvatore Martino adagia il capo e il viso sulla nuda realtà e verità della condizione umana e delle cose;
    ma lo fa virilmente, da eroe greco, pronto ad andare incontro alla
    filigrana di quel Borges che seppe dirci:
    “Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo… Poco prima di
    morire scopre che quel paziente labirinto (altra parola-chiave di Martino)
    di linee traccia l’immagine del suo volto…”
    Del resto, cosa fa nella sua vasta produzione poetica Salvatore Martino se non, trascorrendo gli anni, come l’uomo paradigmatico di Jorge Luis Borges, popolare il suo spazio immaginativo di baie, di porti, di strumenti, di barche, di gabbiani… di fiumi ( “quando da questi salgono i vapori”),
    in un fitto intreccio di versi e biografia?
    Gino Rago

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  9. Steven Grieco-Rathgeb

    RISCRIVIAMO LA STORIA DEL 900 POETICO

    Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017


    Sì, trovo anch’io che in alcune di queste poesie di Salvatore Martino, ci sia tutta l’eco di Borges: che però il poeta fa sua, ne assimila e interiorizza la lezione delicatamente, magistralmente, con lucida e creativa intelligenza, fino a rarefarla e renderla al lettore come inedita lettura, in questo modo perpetuando quella nobilissima tradizione novecentesca, il fantastico borgesiano.
    Il brano da Il guardiano dei Cobra 1986-1992 è davvero splendido. Non possiamo non inchinarci e meditare sulle sorte della vera poesia in un cinquantennio di tanti versi mediocri.
    Da lì poi passiamo allo stile più sobrio e asciutto de La Metamorfosi del buio. Poesie molto più stringate, sempre lucidissime, ispirate.
    Mi lasciano più in dubbio i sonetti. O meglio: mentre la forma generica del sonetto è sicuramente ancora praticabile, rima e endecasillabo insieme difficilmente convincono il lettore oggi. Ma questo è un mio parere soggettivo. E’ proprio una questione di musicalità. Oggi musicalità in poesia significa, io penso, un’altra cosa. Ripeto, come spesso ho fatto qui, che una musica molto diversa ha dominato il Novecento dell’Occidente, e non possiamo noi in poesia non tenerne conto. Infatti Salvatore Martino ne tiene pienamente conto altrove nella sua poesia, che è virile, modernissima. Guarda caso, le altre poesie che figurano qui hanno uno stile essenziale, seppure anch’esse legate ad una metrica precisa, ma sempre forte, anche potente, con la retorica ridotta ai minimi termini, e così anche ogni tentazione ad adagiarsi nel decorativismo letterario.
    Nel complesso, una lettura eccellente. Vado subito a ordinare una copia del suo libro su Internet! Grazie, Salvatore Martino. E a presto!

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    • Salvatore Martino

      Carissimo Grieco la tua analisi come sempre lucida e chiarissima mi trova perfettamente concorde. Ovviamente dissento sulla tua diciamo così mezza condanna del sonetto, ma rispetto il tuo parere difendendo la musica e la rima dell’endecasillabo e penso di aver fatto una operazione tutt’altro che passatista. ma ovviamente potrei sbagliarmi.

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  10. UN CANTO SELVAGGIO E COLTO PER UNA MUSICA SELVATICA ENOBILE

    Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017


    Mentre il mondo rumoreggia e geme, un canto attraversa 50 anni e lo fa come eco lanciata da profondità inaudite, da lontananze siderali. Eppure il canto è caldo, metamorfico. Risuona nonostante il clangore intorno.
    Qui ci troviamo innanzi un colosso alto mezzo secolo, sprofondato in abissi marini, che ci parla come fossimo i compagni di viaggio di Ulisse, come fossimo vivi allora.
    Signori, ecco un poeta! Poi possiamo discutere di destino della poesia italiana, di istanze e di ogni spiraglio da cui intravedere una via (o più vie) per liberare la lingua da servitù e vassallaggi; ma prima abbracciamo questa poesia che ha attraversato metà del secolo scorso per giungere a noi portatrice di un vivo messaggio.
    Così l’uomo e i suoi versi, in accordi intessuti, hanno attraversato il cerchio infuocato dell’esistenza.
    Questo conta, in poesia. E grazie a Salvatore Martino.

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    • Salvatore Martino

      Le tue parole arrivano carissima Chiara come lance acuminate in un costato delirante. Quasi quasi alzo la cresta gonfio di retorico orgoglio…e siccome ti stimo tantissimo come poeta e come “critico” non posso che danzare al ritmo di giga leggendo e rileggendo quello che hai scritto su di me e sulla mia poesia.

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  11. antonio sagredo

    Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017


    ….quando Salvatore Martino recita i suoi versi mi viene in mente come leggevano i propri versi i grandi poeti antichi e tanti moderni, come p.e. Pasternàk o Garcia Lorca…
    tanto e tale il trasporto che tu non puoi distinguere il Poeta dalla Poesia, ed è questa una unicità che mi commuove…
    io invece non so leggere i miei versi (la mia è soltanto una lettura tutta interiore) e devo delegare un attore…

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    • Salvatore Martino

      Vedi caro Antonio io sono vecchio, certamente antico e quindi uso questo apparente svantaggio nel ritrovare l’insegnamento della oralità:la poesia lo sai bene non nasce scritta ma affidata alla voce, e questo mi ha sempre guidato nella stesura dei miei versi, senza mai tradire la cadenza o la musica, e la vibrazione della parola…a questo aggiungi i quasi sessanta anni dedicati al teatro. Se vuoi talvolta usarmi per leggere i tuoi versi, che amo, lo farò molto volentieri

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  12. Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017


    Comporre con la voce o per la voce crea monologhi o poesia dialogica, che immette senso a dismisura di fronte al vuoto che aspetta, ben visibile o comunque percepito. Un salto in avanti, nel vuoto, e (pensi) non sapresti più che dire. NOE tenta quel passo, e trova frammenti. Ma questo lo si può fare anche con la voce, anzi, nella voce ci sarebbero anche più pause; ma pause poco adatte alla rappresentazione perché prive di tempo scenico.
    Qui io vedo differenza tra poeti NOE e poeti come Salvatore Martino e, per altri versi, Claudio Borghi: poeti incantati dal vuoto ma indecisi tra fisicità e mistero. La distanza è data da un salto incompiuto ( perché di un salto si tratta, non di una lenta trasformazione). Quindi non resta che il caro saluto.

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    • Claudio Borghi

      Nel vuoto non si trova che il vuoto, Lucio, non frammenti. Il coraggio o l’indecisione non c’entrano. Non credo abbia senso concepire né una poesia che tenti di esprimere il nulla né che si illuda di poter contenere la pienezza dell’essere. L’uno e l’altro ci sono preclusi, in quanto siamo creature immerse nel divenire, non siamo né essere né nulla, ma una inafferrabile loro sintesi, in ogni istante in cui respiriamo o pensiamo: l’ha scritto Gabriele in un intervento recente, e sono qui a testimoniare la mia consonanza col suo pensiero. La lacerazione, del suono come della forma o della parola, è senza ritorno. Dopo la distruzione, che in miriadi di opere, musicali pittoriche scultoree letterarie, ha trovato molteplice testimonianza nel novecento, ci può essere o la morte definitiva o una rinascita dell’arte in nuove forme. Io non mi sento incantato dal vuoto o indeciso tra fisicità e mistero, io mi sento nel mistero, in sintonia con quello che esprime, nell’emozione di ogni verso, la poesia di Salvatore. Il salto nel vuoto che, scrivi, genera frammenti, è stato sperimentato da Nietzsche (e ripreso in forme diverse da tanti poeti del novecento) come tentativo, patetico quanto eroico, di trascendere l’umano e fondare il superuomo. La poesia nata dalle rovine dello spirito, testimone dell’annientamento di ogni certezza e di ogni valore è, inevitabilmente, un retaggio del recente passato, bruciato nell’esperienza intellettuale ed esistenziale della filosofia e dell’arte degli ultimi 150 anni. Credo di poter dire anche a nome di Salvatore che quando si parla, metaforicamente o concretamente, di musica si debba intendere la possibilità di una nuova sintesi dialettica, non di passatismi elegiaci o estetizzanti. Il fatto che la musica contemporanea, intendo quella colta, non certo quella popolare, abbia annientato l’armonia non significa che l’armonia sia il retaggio obsoleto di uno spirito passato e quindi morto. L’esperienza si arricchisce, non si ripete mai identica: questo è il senso del tempo della vita.

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      • Giuseppe Talìa

        A Borghiiii! Si beva uno stravecchio e rompa lo specchio.
        Esca fuori dalla sinossi delle brame armoniose dalle sfere
        (già Pomodoro le rompeva ). La smetta di pensare e scrivere
        bischerate: “La poesia nata dalle rovine dello spirito” (?)
        Legga bene almeno UNA delle poesia del poeta Martino
        E ci illumini. Ma Lei l’ha mai mangiato un vero “arancino” (?)

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        • Claudio Borghi

          La poesia nata dalle rovine dello spirito non è riferita a Salvatore Martino, Talia, ma a chi scrive pensando di riflettere il vuoto. Stavo rispondendo a Tosi. In ogni caso, quanto alle bischerate e all’arancino, provvederò a seguire i suoi consigli.

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      • Salvatore Martino

        io mi sento nel mistero, in sintonia con quello che esprime, nell’emozione di ogni verso, la poesia di Salvatore. Certamente apprezzamenti simili enfatizzano il mio pericolante narcisismo. Per quanto riguarda la musica sia in poesia che quella fatta di note e mi riferisco al tuo accenno a quella contemporanea sono perfettamente d’accordo

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      • In una goccia prelevata dall’oceano vi sono tutte le componenti dell’oceano stesso. Certo, se la goccia potesse pensare, vedendo l’immensità dell’oceano si sentirebbe piccola (e commossa). Ma proviamo a rimetterla nell’oceano: che ne sarà di quella goccia?
        Al divenire, dovuto a osservazione, si preferisce l’accadimento.

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    • Salvatore Martino

      Carissimo Lucio penso, ma forse sono in errore, di non aver bisogno di ulteriori salti, li lascio al NOE. Ho già attraversato L’Acheronte e lo Stige, il Flegetonte e il Lete e il Cocito, sia immergendomi nudo dentro le acque dell’Alfeo lungo la piana di Olimpia, sia curando maniacalmente il mio giardino al piedi del mitico Soratte. Rispetto tutti coloro che professano un credo diverso per quanto attiene la poetica, io resto attaccato alle mie convinzioni, che in questi decenni mi hanno consentito di affrontare la poesia con formulazioni stilistiche molto diverse tra i vari miei libri.Con l’ossessiva fedeltà al legame profondo con l’abisso di dentro, e all’esercizio costante di labor limae, e come da sempre vado ripetendo, ricercando il ritmo, la usica, la cadenza. Quello che mi appare in molti poeti di oggi è l’assenza della parola kommos nei loro versi. Ne parlai spesso con Ghiannis Rtsos ( Chiamato da Louis Aragon surrealista il più grande poeta di questo tempo che è il nostro) e anch’egli era colpito da questa mancanza, quasi che la poesia volgesse verso un cantone algido, frammentario e intellettualistico, come a me sembra accada ai poeti scandinavi, e ad alcuni recenti poeti cechi, tanto osannati in questo blog. Ovviamente kommos non vuol dire sentimentalismo, e si citavano Borges in molteplici poesie, per esempio quella straordinaria:”Delia Elena San Marco” : “Un fiume di veicoli e di gente correva tra noi; erano le cinque di un pomeriggio qualunque; come avrei potuto sapere che quel fiume era il triste Acheronte, l’invalicabile”. E io gli ricordai alcune parole del suo poemetto L’Elena, quando verso la fine ella dice :” Se ne sono andati tutti i vecchi amici, più rara anche la corrispondenza, solo in occasione di qualche festa , di qualche compleanno una cartolina, e mai una risposta, forse il destinatario era morto nel frattempo, non ne sapevamo di più”.Ecco io sono rimasto a codeste lezioni di poetica, forse sono un uomo del passato che fa della poesia anacronistica, che rifiuta la novità, che non vuole progredire. Certamente quasi alla fine della mia vita non credo di poeter invertire la mia rotta, e annegare nell’oceano di filosofie teoriche , che mi appaiono come una sospetta religione. Quindi non resta che il caro saluto.

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      • Caro Salvatore, forse nella NOE si tenta semplicemente una lirica diversa, con melodia aperta, polifonica, densa di senso non finito, apodittico ma come perennemente incompiuto. Non è poesia affettiva in senso stretto, ma può esserlo, così come può avere struttura – pensa alle sestine di Talia – Nulla viene escluso, tranne l’assoluto delle parti. Ma non è questo che vorrei dire, perché è già stato detto e assai meglio di quanto posso fare io, il fatto è che si resta nello stesso giardino, chiamiamolo così nonostante tutto, ma gli si dà una sistemata e si aprono i cancelli ( per altro già abbattuti nel novecento). Quando mi capiterà di leggere nuovi sonetti penserò: eh, ma quelli di Salvatore Martino… Con stima e gratitudine.

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  13. letizia leone

    LE 1000 PAGINE DI POESIA DI SALVATORE MARTINO

    Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017


    Ho avuto il piacere di leggere e meditare la poesia di Salvatore Martino, questo suo canto che irradia in mille direzioni e, tra meditazione attiva e illuminazioni, ci offre il senso del tipo speciale di arte che è la poesia. Ho avuto anche il piacere di scriverne su alcuni aspetti, in particolare quello del mito, che riveste un ruolo primario nell’organizzazione “poiètica” della sua opera in versi, come testimonia cronologicamente la summa dei “Cinquant’anni di poesia 1962- 2013” (Edizioni Progetto Cultura, 2013). Molti suoi testi, ai quali l’autore stesso riconosce la peculiarità di “Ritrovare col mito l’avventura nel quotidiano”, corrispondono ad una qualità dello sguardo: la capacità di intravedere vita vissuta e quotidianità “al di fuori di qualsiasi relazione temporale”, sotto la lente dell’ eternità, direbbe Spinoza.
    Definendo così mito quale categoria estetica ad alta refrattarietà temporale, elemento stabile e non consumabile, né effimero o caduco. Riporto qui alcune mie considerazioni in merito: “La profonda interrogazione poetica di Salvatore Martino, questo suo “Sedersi a decifrare il tempo” come recita il primo verso di un suo testo, si avvale dello specchio del mito greco, mythos: «qualcosa che si è raccontato un tempo, ma che per la sua stessa essenza è senza tempo, eterno!» (W. F. Otto)
    E, non a caso, i miti che in questi testi mantengono intatta la loro incandescenza di esperienza originaria, si rivelano frammenti di un dramma assolutamente contemporaneo. Il mito reso presente irradia le sue energie, liberato dalla connotazione di exempla, rende percepibili attimi ed eventi di un tempo altro, trascendente la successione temporale irreversibile.
    Segmenti di classicità che in una sorta di “presentificazione” mitologica creano spaesamento:

    Ora tra i mandorli cantano cicale
    a sera il muggito delle vacche
    flauti e cori il passo nella danza
    l’urlo selvaggio della Pizia
    Il dio non torna…

    Il tempo, pura illusione sensibile? Seguendo il ragionamento del fisico Carlo Rovelli “ogni percorso nello spazio, si porta il suo tempo. Non c’è un tempo, ci sono tanti tempi. Come faccio a tener conto del tempo tessuto da tutti questi percorsi tessuti che passano attraverso lo spazio? La soluzione, che è quella che i fisici usano oggi, è pensare che tutti questi percorsi tessano una superficie che si chiama lo spaziotempo…”
    Proprio il mito ci avvisa di questo tempo particolare e dislocato. Tempo fondante della poesia sia che appartenga all’interiorità o all’immobilità dell’eterno, sia esso mondo interno archetipico, struttura profonda della psiche o esperienza storica e contingente.
    E forse proprio perché “il linguaggio è sempre d’indole successiva; non è capace di ragionare l’eterno, l’intemporale” come ci avvisa Borges nella “Confutazione del tempo”, allora non è strano pensare che possa soccorrerci il mito con la sua verità extratemporale.
    Perché il mito ci suggerisce che non c’è un solo tempo ma ci sono tanti tempi. C’è l’attimo che ritorna, identico e necessario, come l’Ulisse di “Avanzare di ritorno” della potente evocazione poetica di questi testi.
    Si potrebbe affermare che il mito in Salvatore Martino è lo spaziotempo originario condiviso: la stessa rupe dove arrivò Laio, l’isola di Ulisse e lo stesso portico, il giardino, la stessa ora. Fatti omogenei dislocati sull’asse temporale.
    Dalla presenza millenaria di motivi psichici alla hybris tragica che affonda nell’oscurità dionisiaca dell’inconscio collettivo, l’immaginario mitopoietico di Salvatore Martino scaturisce da un intenso patire e irrompe nella sacralità di una dimensione rituale: lo spazio tempo teatrale, il palcoscenico, “l’arena simbolica di scontri metafisici” nella bella definizione del nobel Soyinka per il quale il teatro è un’arena, una delle prime che noi conosciamo, in cui l’uomo ha tentato di fare i conti con il fenomeno spaziale del suo proprio essere.
    Ulisse, Re Lear o Laio sono i protagonisti archetipici che hanno calcato le scene dei teatri del mondo insieme al poeta.
    Non sono proiezioni visionarie ma incarnazioni che abitano l’io, penetrano la dimensione quotidiana dell’artista in modo concreto.
    Vere incarnazioni “mitiche” trascendenti e immanenti, come dichiarano ad ogni verso queste poesie che sembrano appartenere ai processi catartici delle grandi tragedie.

    Sedersi a decifrare il tempo
    in questo luogo di voci
    per monti della piena luce
    Sedersi in quest’ora di attesa
    al misterico luogo
    col sole declinato oltre la valle
    e il mare verso Itèa
    Qui venne Laio

    Ora tra i mandorli cantano cicale
    a sera il muggito delle vacche
    flauti e cori il passo nella danza
    l’urlo selvaggio della Pizia
    Il dio non torna
    Parole incise che la notte richiama
    si aspetta il vento prima del grido
    per l’auriga che vince

    I passi ricadono
    brume si fondono al cielo
    il viaggio sale
    l’urto di nuvole spezzate
    Non c’è risposta
    Sopra il quieto procedere dell’anno
    i pini cadono

    Qui non si vince più…

    Un affettuoso saluto a Salvatore Martino

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    • Salvatore Martino

      Che dirti dolcissima Leonessa? Di fronte al tuo lucidissimo,infaticabile tracciato sulla mia poesia rimango quasi attonito, e imparo, molte cose di me che mi erano ignote. Tu scrivi critica con la passione e l’anima del poeta, con la conoscenza diretta del dettato poetico, e questo ti permette di cogliere anche criticamente e profondamente quanto sottoponi alla tua lettura. Non ti ringrazio perché sarebbe cosa troppo banale…ma penso che rileggerò spesso quanto di me hai scritto, cercando di vincere i miei dubbi e di riconoscermi poeta finalmente

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  14. Salvatore Martino

    Non posso che ringraziare tutti questi commenti che i poeti dell’Ombra hanno voluto dedicare alla mia poesia. Certamente contribuiscono a dare a me stesso una maggiore comprensione del cammino poetico intrapreso tanti anni fa. Ho avuto un moto di commozione nel leggere le parole di Chiara Catapano, che conosco appena , anche se ho inteso una immediata sintonia con la sua persona. Che dire poi del lungo, dettagliato commento di Letizia Leoni, una divagazione profonda sul mito e sulla sua incidenza nella mia poesia e nella vita degli uomini. Ma tutti, tutti ripeto hanno portato differenti messaggi che hanno amplificato ai miei occhi la stessa visione che posso avere di quanto ho seminato.Ovviamente la gratitudine speciale va a Giorgio Linglaglossa magister di questa Rivista Internazionale: nonostante le divergenze sulla poetica che ci separano a volte mi ha dato sempre grande spazio sia sul blog che nel Laboratorio. So di essere in apparenza lontano dal corso intrapreso dai poeti che fanno vivere questa Rivista,ma andando indietro nel mio tempo ritrovo almeno in due miei poemi delle vicinanze con le strutture dell’ontologia così intesa e del frammento. Comunque credo che la poesia se è tale prescinde da catalogazioni troppo restrittive. Un saluto affettuoso Salvatore Martino

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  15. donato di stasi

    Meditare. Ecco la parola giusta. Leggere e rileggere a stordimento come in un antico chiostro monacale, quando risuonavano nella mente le parole necessarie delle divinae litterae. Meditare equivale a dilatare lo spazio interiore, lasciando che sia pervaso e squassato da significati taglienti, dolorosi, troppo umani e non umani. In altre epoche la Metafisica, oggi la Poesia, ma con l’identica disposizione a mettersi sulle tracce della Bestia Divina, a sdrucciolare rovinosamente sui sentieri del labirinto, inghiottiti mille volte dall’Orco e rinati alla svolta di ogni pagina.
    Il monaco Salvatore Martino è seduto da una sessantina d’anni nel suo scriptorium in lotta con il demone della scrittura: lo fa per sé (è il suo modo di stare al mondo), lo fa per noi (è il suo modo di aprire il guscio del mondo, aprendoci gli occhi, disaccecandoci).
    Devoto, ossessionato, maniacale, grida nel nostro deserto e ci riporta in ogni testo alle urgenze della Storia, pur avendo scelto l’apparente anacronismo del Mito, consapevole come pochi ( lo era Ritsos, per esempio) che la massima distanza dall’attualità è il modo migliore per lacerarne i veli e rivelarne le vere trame, oggi tragicamente rivolte a processi di disumanizzazione.
    Come le Cronache dell’Anno Mille di Rodolfo il Glabro anche le mitocronache di Salvatore Martino sono destinate a durare: la punta della penna d’oca incide la cera della carta-pecora e lascia tracce indelebili di inchiostro. Non importa che i contemporanei le scoprano o le ignorino, conta che una sola di esse sappia sfuggire alla bocca insanguinata del Tempo.

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    • Salvatore Martino

      Tu di Stasi conosci e frequenti la mia poesia da lungo tempo, conosci e frequenti anche la mia figura di uomo che consiste precariamente in questo dissanguato pianeta, così hai costruito, con la saggezza degli antichi critici-poeti, in un stile così raro nei climi d’Italia un ritratto di me che mi raffronta a quelli di Antonello da Messina, con l’apparente realtà e verità dell’immagine , e l’abisso maniacale che dal profondo affiora attraverso gli occhi. Mi ritrovo nelle vesti di monaco che si affanna a cercare, quasi alchemicamente , una risposta a domande improponibili, forse perché risposte non possono avere.Con l’occhio impietrito a guardare la realtà usando il batiscafo, un sottomarino che cavalchi le acque dell’oceano più profondo, e che non ha bisogno di tornare in superficie, per comprendere quello che sta accadendo.. Mi soccorrono in questa mia ventura , e mi confortano come tu asserisci i miti, gli archetipi che da quel mondo ellenico ,fondamento della nostra cultura, ci parlano, ci guidano, ci confortano, ci minacciano, in un andamento del quotidiano che simula l’eterno. Spero che il tuo più che augurio di incidere con la penna d’oca la cera della carta-pecora e lasciare tracce indelebili di inchiostro possa raggiungere davvero il mio “avanzare di ritorno”, e che possa sfuggire alla bocca insanguinata del tempo…e qui con le tue parole seppure in prosa siamo realmente nella poesia.

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  16. ALLA RICERCA DI UNA LINGUA: TOMAS TRANSTROMER

    Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017

    Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori
    e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi

    *

    Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato.

    *

    Che cosa sono io? Talvolta molto tempo fa
    per qualche secondo mi sono veramente avvicinato
    a quello che IO sono, quello che IO sono.

    Ma non appena sono riuscito a vedere IO
    IO è scomparso e si è aperto un varco
    e io ci sono cascato dentro come Alice

    *

    Lasciare l’abito / dell’io su questa spiaggia, / dove l’onda batte e si ritira, batte // e si ritira.

    *

    Una fessura / attraverso la quale i morti / passano clandestinamente il confine

    *

    Ho fatto un giro attorno alla vita e sono ritornato al punto di partenza: una stanza vuota

    *

    … una mattina di giugno quando è troppo presto per svegliarsi e troppo tardi per riaddormentarsi…

    *
    … e dopo di ciò scrivo una lunga lettera ai morti
    su una macchina che non ha nastro solo una linea
    d’orizzonte
    sicché la parole battono invano e non resta nulla
    *
    Io sono attraversato dalla luce
    e uno scritto si fa visibile
    dentro di me
    parole con inchiostro invisibile
    che appaiono
    quando il foglio è tenuto sopra il fuoco!

    *
    Leggevo in libri di vetro…

    *
    Stanco di tutti quelli che si presentano con parole,
    parole ma nessuna lingua
    sono andato sull’isola coperta di neve
    […]
    La natura non ha parole.
    Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni!

    *
    …la baia si è fatta strana – oggi per la prima volta da anni pullulano le meduse, avanzano respirando quiete e delicate… vanno alla deriva come fiori dopo un funerale sul mare, se le si tirano fuori dall’acqua scompare in loro ogni forma, come quando una verità indescrivibile viene fatta uscire dal silenzio e formulata in morta gelatina, sì sono intraducibili, devono restare nel loro elemento

    Sono versi di Tranströmer… il problema è che il «vuoto» c’è, e chi non lo hai mai intravisto non lo metterà mai nella propria arte… il problema è percepirlo e saperlo mettere sulla pagina bianca. Il «vuoto» della civiltà moderna non lo ha inventato la NOE, c’era già prima della NOE.

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  17. SU ALCUNE QUESTIONI INTORNO ALL’ESSERE E AL NULLA, LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

    Gino Rago – Arte dello scrivere: due frammentisti  vociani a confronto: Clemente Rebora, Aldo Palazzeschi e Pier Paolo Pasolini. Un contributo alla rilettura del Novecento poetico italiano e un Commento alla poesia inedita di Giorgio Linguaglossa Preghiera per un’ombra – Relazione tenuta al Laboratorio di Poesia, Roma, 30 Marzo 2017 Libreria L’Altracittà

    Vorrei tornare ai miei spunti e appunti spersi su questa Rivista intorno alla questione del Nulla, del Vuoto e dell’Essere ai fini di una corretta impostazione metodologica della N.O.E. – Il tratto caratteristico e per me fondante, il tratto di distinguibilità io lo rinvengo nella percezione del Nulla, del concetto filosofico e scientifico che il termine Nulla ha. La N.O.E. recepisce questa gigantesca problematica di oggi, comune anche alla filosofia recentissima.

    La questione del Nulla non è stata inventata dai redattori dell’Ombra, ma è da più di un secolo che la filosofia e la scienza pensano questa “Cosa”.

    Si dice comunemente che «Il Nulla non è» e che «l’Essere è», ponendo il Nulla come originario e fondante l’essere; ebbene, questa impostazione ha il sapore di vecchia scolastica, oggi noi ipotizziamo l’indistinguibilità del Nulla e dell’Essere come dato di fatto filosoficamente inconcusso. Il Nulla significa e, in quanto positivamente significa è equiparabile alla significazione vuota del non-essere, il suo darsi è «vera e indeterminatissima negazione dell’essere»1] – È paradossale che la negatività assoluta, il Nulla, significhi anche qualcosa, proprio come l’Essere il quale significa anch’esso qualcosa. Ovvero, il positivo significare e il negativo significare sono su un piano di assoluta parità ontologica, nessuno dei due riveste un ruolo di priorità ontologica: «la positività del significato ‘albero’, non è assolutamente più originaria di quella predicabile dal nulla».2] Ovviamente, parlando di positività del nulla noi intendiamo la sua assoluta indeterminazione che non assume alcun ruolo prioritario nella individuazione di un qualunque essere dal punto di vista ontologico.

    Questo «è» consiste nella SUA assoluta mancanza di determinazione e dunque costitutivamente connaturato con il Nulla. Così, Prima dell’Inizio, il nulla che è e l’essere che non è, si danno simultaneamente la mano.

    Con le parole di Severino: «pensare “quando l’essere non è“, pensare cioè il tempo del suo non essere significa pensare il tempo in cui l’essere è il nulla, il tempo in cui si celebra la tresca notturna dell’essere e del nulla».3]

    Lo stesso Severino afferma che il principium firmissimum riesce a strutturarsi «solo in relazione con il negativo, e l’incontrovertibilità può esser posta solo in quanto originariamente implicante una relazione con il nulla». Il Nulla di cui il filosofo italiano parla «non è il non-essere determinato ma il nulla in quanto «nihil absolutum», l’assolutamente altro dall’essere».

    Ciò significa che anche l’Originario è auto contraddittorio, esso si dà quando non si dà, cioè quando non è Principio di alcunché: di qui la natura intimamente antinomica e paradossale dell’Originario. L’Originario non è un ente che si costituisce in ente ma è qualcosa connaturata al suo non-essere e, quindi alla sua stessa inconsistenza dal punto di vista dell’ente…

    Da quanto precede, è ovvio che leggere la mia poesia Preghiera per un’ombra, presuppone il porsi nella dimensione esistenziale di accoglimento del Nulla e del non-essere (e quindi del tempo) sullo stesso piano ontologico di parità indistinta. La Nuova Ontologia Estetica non poteva sorgere che in questo nuovo orizzonte di pensiero filosofico. Questo mi sembra incontrovertibile.

    Il problema in ambito estetico è percepire il nulla aleggiare nelle «cose» e intorno alle «cose», percepire il vibrare del nulla all’interno di una composizione poetica così piena di «cose» e di significati… per scoprire che tutte quelle «cose» e quei «significati» altro non erano che il riverbero del «nulla», il solido nulla del nostro nichilismo…

    La positività del nulla è la sua stessa nullità, la sua nullificazione. Credo che questo sia chiaro a chi legga la poesia con la mente sgombra, facendo vuoto sul prima della poesia, leggerla come si respira o si guarda uno scricciolo che trilla, come un semplice accadimento che accade sull’orlo di qualcosa che noi non sappiamo… Ascoltare la progressiva nullificazione del vuoto che avanza e tutto sommerge nella sua progressiva forza nientificante. È questo appunto di cui tratta la Nuova Ontologia Estetica, prima ancora di parlare di metro, di parola e di musica… e quant’altro…

    1]Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Milano-Udine 2008 p. 183
    2] Ivi, p.199
    3] Emanuele Severino “Ritornare a Parmenide”, in Essenza del nichilismo, Milano 1982, p.22
    4] Emanuele Severino, La struttura originaria, Milano 1981, pp.181-182 e p. 209

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  22. Francesca Dono

    caro Signor Martino , i miei complimenti.

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