Archivi categoria: Poesia tedesca del Novecento

Ingeborg Bachmann, Poesie da Non conosco mondo migliore, con una Nota del traduttore, Silvia Bortoli, con Appunti critici di Steven Grieco Rathgeb e Giorgio Linguaglossa

paul celan ingeborg bachmann

Ingeborg Bachmann e Paul Celan, anni sessanta

Nota del traduttore

I testi della Bachmann* raccolti in questo volume sono prevalentemente abbozzi e frammenti in origine non destinati alla pubblicazione e che non sono passati al vaglio di una cura critica. La loro natura di appunti sparsi, spesso vergati frettolosamente a mano, a volte oscuri, crea non poche difficoltà di lettura, ma ha il grande merito di mostrare la poesia nel suo farsi, nel suo andare a tentoni, trasportando un’immagine o una parola da un testo all’altro, alla ricerca di una destinazione che spesso sarà altrove, in un’altra opera più compiuta e significativa, ma che ha inizio qui, nell’abbozzo e nel tentativo: Questi testi, spesso interrotti, spesso raggrumati in parole dalle quali balugina un senso che resta nascosto e che traspare altrove in modo ancora incompiuto, sono tuttavia di grande interesse perché ci mostrano il laboratorio della poesia di una grande figura della nostra modernità.

Traducendoli ho scelto di seguire il testo senza chiuderne il senso lì dove un’interpretazione troppo esplicita lo avrebbe forzato in modo arbitrario, cercando di offrire una traduzione compiuta ovunque fosse compiuto o largamente plausibile, e accettandone invece la precarietà e la frammentarietà dov’era precario e frammentario, accompagnandolo nella sua incompiutezza anche quando poteva risultare stridente.
Non ho voluto caricare la traduzione di note che per essere esaustive avrebbero dovuto essere moltissime; chiunque conosca un poco la lingua tedesca potrà verificare sul testo originale difficoltà, incongruenze e il modo in cui ho cercato di risolverle.

Tradurre un testo la cui trascrizione è in molti punti ancora incerta e provvisoria non può che essere una proposta, un primo tentativo. In questo primo tentativo mi è stata di grandissimo aiuto Rita Svandrlik, che mi ha confortata nei miei infiniti dubbi con la sua profonda conoscenza della poesia della Bachmann: a lei va tutta la mia profonda gratitudine. Se nonostante il suo aiuto puntuale e generoso vi sono degli errori, la responsabilità è solo mia.

[ndr. Queste poesie sono state scritte a Zurigo, Berlino e Roma, le ultime tappe della vita della Bachmann, nel periodo tra il 1962 e il 1964, alcune anche più tardi]

(Silvia Bortoli)

da Ich Weiss keine bessere Welt, Non conosco mondo migliore, Guanda, 2004 trad. di Silvia Bortoli

Steven Grieco-Rathgeb

21 luglio 2016

 “La realtà acquista un linguaggio nuovo solo tramite uno scatto morale… si ha linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto. Se ci si limita a manipolare la lingua per darle una patina di modernità, ben presto essa si vendica e mette a nudo le intenzioni dei suoi manipolatori.”

Forse noi non useremmo più la parola “morale” in questo contesto. Ma invece la parola è perfetta nel suo senso di “misura”. La parola subito successiva è “conoscitivo”. E qui sta tutto il senso di quello che la poetessa vuole significare: “immorale” giocare con la lingua, “morale” cercare nella lingua una via di uscita dall’atroce e irrisolvibile dilemma del crimine nazista (che in verità solo un lunghissimo tempo può sanare).
Ricordiamo che questa poetessa ha sofferto la storia e il Nazismo quasi quanto Celan.
E Anna Ventura ha un po’ ragione, la poesia di Bachmann è stranamente fredda, talvolta potente, altre volte quasi incapace di risuscitare dal distacco quasi ossessivo da se stessa, dal rifiuto di ogni scrittura che infine diventa scrittura.
E c’è anche in lei un forte rifiuto dell’immagine come evocazione, come spinta per raggiungere una sponda salvifica, un luogo che purifica l’animo. In questo lei appartiene alla schiera di poeti quali Rozewicz, per cui valeva il famoso dictum di Adorno sulla poesia dopo Auschwitz.
Rozewicz ce l’ha fatta, con il suo tenace istinto di sopravvivenza, a superare i terribili anni 1945-1980. La Bachmann no.
Sicuramente lei, austriaca e di lingua e cultura tedesca, ha pagato con la vita l’essere nata fra quel popolo.

Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

Scrive la Bachmann:

«Ho smesso di scrivere poesie quando m’è venuto il sospetto di ‘esserne capace’ anche quando non c’era la necessità di scriverne. E non ci saranno più mie poesie, almeno fino a che non sarò convinta che debbano essercene di nuovo, e allora saranno solo poesie talmente nuove da corrispondere veramente a tutto quel che sarà stato esperito fino a quel punto.»[1]

Per la Bachmann la scrittura poetica si configura come esperienza esistenziale, ricerca di parole autentiche. La poesia è un modo di essere, un fare, una praticaun aprire la soggettività alla irruzione di pulsioni, ritmi, parole che implicano e significano la distruzione del linguaggio poetico convenzionale e la creazione di una nuova soggettività in grado di aprirsi al nuovo linguaggio poetico.

La pratica della scrittura poetica è questa assillante fedeltà al farsi e disfarsi dei versi, lavoro minuzioso e diuturno  alle correzioni, alle frasi tronche, lavoro sugli incipit che si ripetono e si riprendono lungo il farsi del linguaggio, è questo lo stadio aurorale del nuovo linguaggio, un linguaggio più aderente alle necessità espressive della ricerca esistenziale. «La loro natura di appunti sparsi […] ha il grande merito di mostrare la poesia nel suo farsi, nel suo andare a tentoni […]. Questi testi, spesso interrotti, a volte raggrumati in parole dalle quali balugina un senso che resta nascosto e che traspare altrove in modo ancora incompiuto,  […] ci mostrano il laboratorio della poesia di una grande figura della nostra modernità.»[2]

Sono scomparse le mie poesie. / Le cerco in tutti gli angoli della stanza./ Per il dolore non so come si scriva / un dolore, non so in assoluto più nulla.// So che non si può cianciare così,/ dev’essere più piccante, una pepata metafora. / dovrebbe venire in mente. Ma con il coltello nella schiena […]// Adieu, belle parole, con le vostre promesse.

In questi versi della Bachmann si profila chiaramente la crisi del linguaggio poetico convenzionale. Cercare le parole senza prima aver aperto la soggettività ad una nuova dimensione spirituale ed esistenziale significa perdere contatto con il linguaggio. Per la Bachmann il linguaggio poetico o lo si ha o non lo si ha, lo si può acquisire soltanto tramite un lungo viaggio di ricerca esistenziale.

[1]  Ingeborg Bachmann, In cerca di frasi vere, Colloqui e interviste a cura di Christine Koschel e Inge von Weidenbaum, tr. it. di Cinzia Romani, Laterza, Bari 1989, p. 57.

[2]  V. Nota del traduttore in Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, cit., p. 4 (corsivo mio).

Ingeborg Bachmann Hans Werner Henze 1952

Ingeborg Bachmann Hans Werner Henze 1952

Poesie di Ingeborg Bachmann da Non conosco mondo migliore (poesie scritte tra il 1964 e il 1967)

La tortura

Chi mangia col mio cucchiaio
chi dorme nel mio letto
chi spende il mio denaro
Ama, chi si gode
il mio sole? E dov’è questo sole?
È lontano.
Infatti io
sono dove
non posso essere.
Ah, lo permette chi
per un breve attimo di anni
non mi ha
amata, lo permette,
non vedete amici
non lo vedete
che dappertutto
incomincio a scavare la mia
mia tomba,
anche in questa carta in-
cido il mio nome e
penso che non vorrei riposare
ancora, che non risposerò
mai, che
persiste, questo ferro
nel corpo, questo pugno sul
cranio, questa frusta
sulla schiena, che fa
scoppiare il Kurfurstendamm
in una risata stridula,
da mille réclame
grida, che il caffè bollente
mi viene versato sulla
mano, che mi tolgono
la pelle, che mi
tagliano la carne,
mi spezzano le ossa,
e mi murano viva,
allora un piccolo squalo sega
allora salto in acqua,
mi divora, mi
divora uno squalo più grande
un pesce predatore che
si chiama dolore.
E io dondolo la testa
senza capirlo. Laggiù
una nave, passa,
la vedo, voi la vedete amici?

*

Ich trete aus mir
hervor, aus meinen Augen
Handen, Mund, ich
trete hervor aus
mir, Gute und Göttlichem
die diese Teufeleien
gut machen Muss,
die geschehen sind

*

Esco fuori da me,
dai miei occhi
mani, bocca,
esco fuori da
me, una schiera
di bontà e divino
che deve rimediare
alle malvagità
accadute

Gloriastrasse

Per sorella Ammeli

In un letto
in cui sono morti molti
senza odori, in camicia bianca
curati, come una
conversazione infinita,
in una casa in cui
si mangia puntualmente, in cui
la padrona di casa
si chiama morte e molti di più
soffrono ancora. E in molte migliaia
hanno versato il deposito

Nell’estasi della morfina
tra i dolori che
non richiedono nessuna ferita,
nessun inchino, nessun
autografo, nessuna umanità
nessun trionfo, un folle spettacolo che grida vendetta [ – – ]
Tra visite
visite, ma
visitatemi
voi che gridate vendetta

Nel vuoto, quando il
telefono non squilla mai, quando
la conversazione sterilizzata
somministra dosi, supposte, fasciature,
gocce, dosi, dolore che
però non ha dose,
Quando c’è un’unica parola
che a volte un poco
una fessura dell’inferno
ha aperto, sorella, e sorella,
E un viso
ha che ti da
da bere,
e tu ti chini
sulla sua
mano e non
osi dire
quale opera buona
tra le infime
è la più grande,

Gloriastrasse

La grazia morfina, ma non l’opera buona di una lettera.
Domande, massime a fin di bene di amici e sconosciuti.
Arrivano fiori via Fleurop. Un interminabile
telegramma richiede presenza, lontano, chissà perché

Visitatori siedono, condannati, sulla sedia dei visitatori, raccontano
guardando intensamente l’orologio davanti alla sputacchiera e alla vernice chiara,
sputano fuori la buona volontà e una vecchia battuta.

È uscito un nuovo studio sui cacciatori di teste.
Averlo sottomano e già le mani prudono.
La visita importante, introdotta dal camice bianco. dalla notte
è in piedi nella stanza, sola e solleva il bisturi, sempre la notte.

Nel tale e tale anno di questo letto ortopedico, nell’anno della fama
delle vie piramidali e delle eredità dei due sistemi nervosi.
del liquor uno e trino, con cui vengono nutrite le colombe dell’odio,
nel midollo, che resterà,
nel liquor uno e trino e nel midollo, che resterà,
e cosa fonderà la mia fama, e cosa la fama, cosa la fonderà,
qui dove mi alzo in piedi e dico alle mie province, mie
province, voi aspettate, e aspettate dove?
Nel midollo che mi resterà, nel tremore
di questa mano, io lo eseguo, io uccido, io
estraggo il mio cuore da me, lo spedisco
più lontano, è un muscolo selvaggio, dicono,
batte e sbatte le porte e
batte
dove non sono, mi trovano
nella pozzanghera in cui nuotano riso e sapienza.

e cercano un cuore, nelle piccole sfere,
nei tubi di vetro, in una melma di
sangue e una vomitata a fatica una
rigurgitata tra aghi e
bottiglie e bende,
cercano
cercano, il camice bianco cerca,
visita, e io gli regalo
vuoi? voglio
regalarti il tuo cuore.

Tessiner Greuel

Ich hatte da ein schönes Haus.
Dann wurde der Zugang gesperrt.
Die Kleider habe ich aus dem Staub
habe ich aufgehoben, einem armeren geschenkt,
die Bloss Kleider brauchen.
(Steht mir nicht, kein Zynismus.)

Enteignet, Zugug gesperrt.
Baustellen, keine Einfahrt.
Kleider nachgeworfen, ein
Teller dazu, danke gesagt,
obwohl wegen harter Erdberuhng
alles zerbrochen.

Bluhender Bezirk, auf
der Durchreise ein totes Kind,
rash beerdigt, wegen Sommergasten.
In den prachtigen Obstgarten
haben die Freunde sich rechtzeitig
zu Ruhe gesetz.

Orrore ticinese

Avevo una bella casa.
Poi è stato vietato l’accesso.
Dalla polvere ho raccolto i vestiti
raccolti, regalati a uno più povero,
di quelli che hanno bisogno solo di vestiti
(Non mi dona, niente cinismo.)

Espropriata, accesso bloccato.
Lavori in corso, vietato l’ingresso.
Lanciati dietro i vestiti, un
piatto in aggiunta, detto grazie,
benché per il duro impatto sia andato
tutto in frantumi.

Quartiere fiorito, durante il
passaggio un bambino morto,
sepolto in fretta, causa ospiti estivi.
Nei frutteti magnifici
gli amici sono andati in pensione
per tempo.

*

Ich bin ganz wild von
Tod, von dem Taft –
rauschen, von
den Wasserruschen,
ich trag ihn schon
angezogen, das kleine
Kraglein, damit das
Beil weiss, wo mein
Kopf vom Körper
zu trennen ist. Hab ich
das noch, Kopf und
Körper, oh nein,
so tausch ich del Tod,
ich habe meinen Kopf
verschenkt, hingegeben
an die Meute, aber
meinen Körper hat
niemand gehabt, der
wurde am Eingang zuruck-
gewiesen. Ein Herr sagte
mir, sagte nicht einmal, das

*

Vado davvero pazza per la
morte, il fruscio
del taffetà, le
ruches dell’acqua,
l’ho già indosso,
il piccolo colletto,
perché
la scure sappia
dove va staccata
la mia testa dal corpo. Li ho
ancora, testa e
corpo? oh no,
così inganno la morte,
ho regalato
la mia testa, l’ho gettata
al branco, ma il mio corpo
non l’ha avuto nessuno,
all’ingresso l’hanno
respinto. Un signore mi ha detto,
non ha detto neppure, questo

Ingeborg Bachmann cover

Veder nero

Arriva il giorno in cui si vede nero
si fa colazione coi morti
dalla finestra sale la nebbia
tu [ – – ] la chiave perduta

Giorno in cui si vede nero
la colazione con il lezzo scialbo favorisce pensieri di morte
dalla finestra sale la nebbia.
la mattina è spezzata da chiamate
intercontinentali e pensi tremando
al lavoro (Ma quale?)
Fai qualche commissione e corri a perdifiato
per la città. Mezzogiorno [ – – ] dolori
e stanchezza, pranzo per noia
e a minuti il sole. Vorresti
amare qualcuno ma nessuno di «loro»,

 

Anni di lutto

Gli anni non passano, c’è sale
nel caffè e sul pane imburrato,
dev’essere questa la ragione.
I miei vicini malati, neppure a loro
si può portare aiuto,
suonano, non posso aprire,
aspetto qualcun altro.

 

Addio

La carne, ben invecchiata con me,
la mano di pergamena che teneva fresca la mia
deve poggiare sulla coscia bianca,
la carne ringiovanire, a tratti,
perché più rapido si faccia qui il declino.
Sono arrivate in fretta le linee, un po’ infossate,
già tutte sulla muscolatura soda.

Non essere amati. Il dolore
potrebbe essere più grande, sta bene colui la cui porta si chiude.
Ma la carne, con la linea di sfondamento sul ginocchio,
le mani grinzose, tutto accaduto nella notte,
la scapola disfatta su cui non cresce un filo d’erba,
Una volta ha tenuto nascosto il viso.

Invecchiata di cent’anni in un giorno.
Sotto la scudisciata l’animale fidente
ha perduto
l’armonia prestabilita.

 

Memoriale

Gli oggetti
il cestino del pane
l’abbiccì del mattino
e le due tazze
conosci ancora l’abbiccì
del mattino
chi ti porge la mano
oltre il tavolo
dov’è tenuto in serbo?

Nelle mie notti insonni
disinfesto la casa
coi chierichetti
do sempre le mance
e tengo
lontane le tempeste
il temporale si scatena ancora
solo nei miei ricordi
arriva la nettezza urbana
e lava un vicolo
che porta in alto
ma le tue mani sul mio
collo e la terra dei fiori
sul mio viso,
qualcuno chiama la polizia
io invoco il cielo
perché si allentino le mani
che soffocano le mie grida

Cos’è successo al mio
giardino, chi ha
strappato i miei fiori,
quelli azzurri soprattutto, che
stavano per fiorire,
e forse i miei bambini
li avrebbero visti.

Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann (1926-1973) nasce in Carinzia, nel cui capoluogo, Klagenfurt, trascorre l’infanzia e l’adolescenza. Dopo i primi studi, negli anni del dopoguerra frequenta le università di Innsbruck, Graz e Vienna dedicandosi agli studi di giurisprudenza e successivamente in germanistica, che conclude discutendo una tesi su Martin Heidegger, dal titolo “La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger”. Il suo maestro e’  il filosofo e teoretico della scienza Victor Kraft (1890-1975), ultimo superstite del Circolo di Vienna. Al tempo degli studi ha modo di intrattenere contatti diretti con Paul Celan, Ilse Aichinger e Klaus Demus. Diviene redattrice radiofonica presso l’emittente viennese “Rot-Weiss-Rot” (Rosso-Bianco-Rosso), per la quale compone la sua prima opera radiofonica, Un negozio di sogni (Ein Geschäft mit Träumen, 1952). È tuttavia in occasione di una lettura presso il Gruppo 47 che si ha il debutto letterario. Già nel 1953 riceve il premio letterario del Gruppo 47 per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato (Die gestundete Zeit). In collaborazione con il compositore Hans Werner Henze produce il radiodramma Le cicale (Die Zikaden, 1955), il libretto per la pantomima danzata L’idiota (Der Idiot, 1955) e nel 1960 il libretto per l’opera Il Principe di Homburg (Der Prinz von Homburg). Nel 1956 vede la pubblicazione invece la raccolta di poesie Invocazione all’Orsa Maggiore (Anrufung des Großen Bären), conseguendo il Premio Letterario della Città di Brema (Bremer Literaturpreis) e iniziando un percorso di drammaturgia per la televisione bavarese. Dal 1958 al 1963 Ingeborg Bachmann intrattiene una relazione con lo scrittore Max Frisch. Nel 1958 appare Il Buon Dio di Manhattan (Der Gute Gott von Manhattan), insignito l’anno successivo del Premio Audio dei Ciechi di Guerra (Hörspielpreis der Kriegsblinden). Nel 1961 vede la luce la raccolta di racconti Il trentesimo anno (Das dreißigste Jahr), contenente numerosi elementi autobiografici e a sua volta insignito dal Premio per la Critica della Città di Berlino (Berliner Kritikerpreis). Nel 1964 le viene consegnato il premio Georg Büchner (Georg-Büchner-Preis), un anno prima della pubblicazione del saggio La città divisa (Die geteilte Stadt, 1964), ed e’ la stessa repubblica austriaca a onorarne il valore intellettuale e creativo conferendole nel 1968 il Premio nazionale austriaco per la Letteratura (Großer Österreichischer Staatspreis für Literatur). La produzione di Ingeborg Bachmann prosegue con la pubblicazione nel 1971 del romanzo Malina (Malina), prima parte di una trilogia concepita sotto il nome di “Cause di morte” (Todesarten) e trasposta nell’opera cinematografica di Werner Schroeter interpretata da Isabelle Huppert, Mathieu Carrière e Can Togay nel 1991. Solo in forma di frammenti rimangono tuttavia la seconda e la terza parte, Il caso Franza (Der Fall Franza) e Requiem per Fanny Goldmann (Requiem für Fanny Goldmann). Dopo che ancora nel 1972 viene data alle stampe la raccolta di racconti Simultan (Simultan), a cui viene attribuito il Premio Anton Wildgans (Anton-Wildgans-Preis), un incendio avvenuto durante il soggiorno nell’appartamento romano nella notte tra il 25 ed il 26 settembre 1973 la porta alla morte, che avviene il 17 ottobre. Ingeborg Bachmann e’ sepolta dal 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. A lei è dedicato oggi il concorso letterario che annualmente si tiene nella città natale in coincidenza della ricorrenza della nascita.

 

11 commenti

Archiviato in Poesia tedesca del Novecento, Senza categoria

ERNST MEISTER  POESIE SCELTE (1911–1979) a cura di Paola Palestro Dall’introduzione alla mia tesi di laurea La poesia di Ernst Meister – La minima lyrica delle ultime opere -, Università degli Studi di Genova, Anno accademico 1992/’93

Parlare di Ernst Meister non è certo cosa facile. La facilità d’altronde non faceva parte del suo essere, né come uomo né tanto meno come poeta. Non ha mai tenuto ad essere compreso da tutti, non è sceso a compromessi, non ha mai seguito mode letterarie. Ha seguito solo se stesso, la sua poesia, le cose in cui credeva. Che non comprendevano né partiti né ideologie. Ernst Meister non ha mai fatto parte di un partito, non è stato un autore “impegnato”, non ha mai scritto poesie che riguardassero problemi sociali o avvenimenti storici. Per questo è stato definito un Außenseiter, un “élitario”, ma soprattutto un “ermetico”, troppo lontano, in quanto tale, da un’effettiva comunicazione con un pubblico che non fosse “eletto”. La sua poesia era per lo più considerata difficile, incomprensibile, inaccessibile al lettore comune; un’arte per adepti, per iniziati, nella migliore tradizione dell’ermetismo, appunto. Una poesia “pura”, “assoluta”, fuori dalle regole non solo in senso formale, ma anche nei contenuti, nei temi, che non erano certo attuali o vicini ai tempi. Meister, al contrario, non si è mai considerato “difficile”, ermetico o élitario. Non pensava che la sua poesia fosse complicata, incomunicabile; per questo amava dire che le sue poesie “si comprendevano da sé”, senza che vi fosse un reale bisogno di interpretazioni ardue o di chiarimenti. Non era propenso alle spiegazioni, le riteneva in certo qual modo superflue, inutili, non necessarie ai fini di una vera comprensione; poteva anche arrabbiarsi se non si sentiva corrisposto in questa sua visione. A Meister non importava di scrivere poesie che “piacessero” necessariamente a tutti; la sua poesia non si limitava a “parlare” di qualcosa: “diceva” cose, semplicemente, con la lapidari età e la purezza con cui si dicono le cose più difficili, le cose più importanti dell’esistenza di ognuno. Ma il detestare le spiegazioni non significava, da parte sua, un rifiuto di comunicazione con i suoi lettori, un “rinchiudersi “ nella torre d’avorio” del letterato che scrive esclusivamente per se stesso: per Meister era essenziale la comunicazione, il rapporto con l’altro, il non sapersi solo nell’avventura che è l’esistenza umana. E la poesia è lo strumento privilegiato di questa comunicazione, una comunicazione muta, che usa parole sovente inconsuete, non comuni; parole che costruiscono e vogliono essere un legame con l’altro, con chi legge: “Mein Gedicht sagt Dir/was ich weiß,/es fragt Dich,/was Du weißt.”

(Pitture di Mario Gabriele)

La sua poesia usa termini non comuni, come abbiamo detto. Parole che non fanno parte del linguaggio quotidiano, ordinario. Parole che si oppongono al “chiacchiericcio”, al rumore, all’affollamento di suoni. Il linguaggio doveva salvarsi dall’assurdo, dal non-senso, dal vuoto che si nasconde dietro il chiasso, dietro la bellezza apparente di complicati arabeschi linguistici privi di sostanza; doveva tornare ad essere un vero mezzo di comunicazione, doveva essere riportato alla sua integrità, alla sua funzione originaria. Per questo andava riscoperto il valore semantico della parola, la sua origine, il suo significato al di fuori dell’uso comune: come scrive Helmut Arntzen, “Il compito che la lirica di Ernst Meister richiede alla critica è quello di intendere queste poesie come un invito a superare la deficienza del nostro linguaggio comune, la sua tendenziale assenza di lingua, la sua violenza latente, e di iniziare a pensare linguisticamente, cioè a pensare, soprattutto”.
Nella poesia di Meister la parola si fa assoluta, pura; ricondotta al suo valore primario, è re-inventata, ricreata nello spazio della poesia; così liberata, essa viene enfatizzata e sottolineata da una progressiva riduzione linguistica, dalla densità, dalla concisione. Una sola parola può costituire un verso, diventare pura forma, contorno che trascende il suo oggetto, linea precisa, geroglifico. Segno. La parola si fa cifra, enigma, e nella sua riscoperta il linguaggio riacquista tutto il suo valore, il suo vero significato, le sue radici. La lingua della poesia di Meister vuole porsi al di fuori di spazio e tempo, di ogni contingenza. Al pari della sua poesia, è atemporale, più che meta temporale: giunge a noi come una lingua perduta, come scrive Nicolas Born, una lingua remota, distante, e proprio per questo magica, evocativa. Da immense distanze arriva al nostro tempo, e nel presente, nello spazio della poesia, ripete l’incanto: crea la bellezza. Ci dona un bagliore di eterno, di immortalità: il canto puro, il canto che canta se stesso.

(Paola Palestro)

Poesie di Ernst Meister con le mie traduzioni tratte dalla tesi di laurea:

Da Zeichen um Zeichen

.
Nichts
dir so bekannt,
wie daß
auch Vernunft
sterblich sei.

Sie, des Traums
Seherin.

*

Niente
a te così noto,
che
anche la ragione
è mortale.

Lei, veggente
del sogno.

O Sonne, Hades!

Das Licht:
ein Augenblick.

*

O sole, ade!

La luce:
un attimo.

Wisse, der Buchstab
ist tödlich.

Der Leib hat gehabt
seine Zeile,
langsame Zeit
und Spur.

Seine Vernunft
endet
im Seufzen
der Augen.

*

Sappilo, la lettera
è mortale.

Il corpo ha avuto
la sua riga,
tempo lento
e traccia.

La sua ragione
finisce
nel sospiro
degli occhi.

Am Ende wird
zum Menschen der Mensch;
er vergißt,
verläßt, was er war –
frei in den Himmeln.

*

Alla fine
l’uomo diventa uomo;
egli dimentica,
abbandona ciò che era –
libero nei cieli.

Sich nicht
noch einmal
erfinden.

Eine Weile
noch gehen
zwischen blinder Luft.

Sein ist schrecklich
neben dem Augen
der Blume.

*

Ancora una volta
non
inventarsi.

Camminare ancora
un momento
tra aria cieca.

Essere è orribile
accanto all’occhio
del fiore.

.
Da Es kam die Nachricht

.

Lange vor
Christus geboren
und die Segel gesetzt
gegen Gott.

Deine Hand war
unglaublich wenig
an meiner Schulter,

Wind genug
an einem Tage
der Meere und des
Himmels.

*

Nati molto prima
di Cristo
e le vele issate
contro Dio.

La tua mano era
incredibilmente poco
sulla mia spalla,

abbastanza vento
in un giorno
dei mari e del
cielo.

Es kam die Nachricht
zu gehn an die See,
nördlich, und ich
wollte auch wissen
unterdes, was es
sei mit dem Anfang
der See, Ende oder
Mitte (die schwerste
Betrachtung).

Es erkannten einander,
die kamen
in gleicher Absicht.

Und es wurde
mit Gischt der Wogen
(schön und atmend das Wetter)
Lust gewebt zur Nacht.
Nicht gewußt, daß mir Liebe
geweissagt war
aus der Liebe.

*

Giunse la notizia
di andare al mare,
a nord, ed io
volli anche sapere
nel mentre, cosa
fosse dell’inizio
del mare, fine o
mezzo (la più difficile
riflessione),

Si riconobbero l’un l’altro,
venivano
nella medesima intenzione.

E
con la schiuma delle onde
(il tempo era bello e respirava)
il piacere fu tessuto nella notte.
Non ho saputo che l’amore
mi era predetto
dall’amore.

(Edward Hopper sulla spiaggia)

Das war der
Sand und der Rand,
zartes Verebben
der Wassertiefe,
Ende und Anfang des Meers.

Du sagtest,
meinen Blick lenkend
gegen die hohe Sehe:
Wohin auch man sieht,
alle die Schiffe kentern.

So fabeltest du.

*

Era la
sabbia e la riva,
tenero morire
delle acque profonde,
fine e inizio del mare.

Tu dicevi,
guidando il mio sguardo
verso il mare aperto:
Ovunque si guardi,
ogni nave si rovescia.

Così narravi fiabe.

Das Denken,
die Rose,
tödlich blühend,
weilt es.

Und es ist
Traum
in den Stacheln,
und es
liebt dich.

*

Il pensare,
la rosa,
fiorendo mortale
si ferma.

Ed è
sogno
nelle spine,
e
ti ama.

Sinnwind entriegelt,
ein Gewitter wirft
funkelnde Schlüssel
ins Zimmer.

Das ist
der Augenblick.

*

Liberato il vento del senso,
un temporale getta
chiavi scintillanti
nella stanza.

Questo è
l’attimo.


Da Sage vom Ganzen den Satz

Viele
haben keine Sprache.

Wär ich nicht selbst
satt von Elend, ich

bewegte
die Zunge nicht.

*

Molti
non hanno linguaggio.

Se io stesso non fossi
sazio di miseria, io

non muoverei
la lingua.

Da keineswegs
bei dir
das Meer das letzte Wort hat

(sondern von nun
das Trockene
dir zum Trank dient),

so müßt ich
deinen Namen tilgen
am Grund des Sees.

Das aber
kann ich nicht…

Ich bleibe
dort beim Grund
mit deinen Augen,

gesunkenem Gebein
und Zeug
der Oberwelt.

*

Poiché in alcun modo
in te
il mare ha l’ultima parola

(bensì da ora
l’aridità
ti serve da bevanda),

io dovrei
cancellare il tuo nome
in fondo al lago.

Questo però
non posso farlo…

Io rimango
là sul fondo
con i tuoi occhi,

scheletro affondato
e testimone
del mondo emerso.

Sage vom Ganzen
den Satz, den Bruch,
das geteilte Geschrei, den
trägen Ton, der Tage
Licht.

Mühsam
im gestimmten Raum
die Zeit in den Körpern,
leidiges Geheimnis, langsam.
Tod immer.

(Und ich wollt doch
das Auge nicht missen
entlang den Geschlechtern nach uns.)

Sage: DIES ist kein anderes.
Sage: So fiel, in gemeiner Verwirrung,
der Fall. Sage auch immer:
Die Erfindung war groß.

Du darfst nur nicht
Liebe verraten.

*

Del tutto
dì la frase, la frazione,
l’urlo diviso, il
monotono suono, la luce
dei giorni.

Faticoso
nello spazio accordato
il tempo nei corpi,
triste segreto, lento.
Morte sempre.

(E pure non volevo
esser privo di occhi
lungo le generazioni dopo noi.)

Dì: QUESTO non è altro.
Dì: Così accadde, in comune smarrimento,
il caso. Dì anche sempre:
L’invenzione era grande.

Solo non devi
tradire l’amore.

(Ernst Meister)

Da Im Zeitspalt

Und was
will diese Sonne
uns, was

springt
aus enger Pforte
jener großen Glut?

Ich weiß
nichts Dunkleres
denn das Licht.

*

E perché
questo sole vuole
noi, cosa

sgorga
dalla stretta porta
di quel grande calore?

Io non conosco
niente di più buio
della luce.

Im Zeitspalt
ein Gedanke gewesen,
bis der Ewigkeitsschrecken
ihn umwarf.

Was folgt,
ist nicht Schlaf,
sondern Skelett.

Das wissen
die Verständigen aber.

*

Nella fessura del tempo
è stato un pensiero,
fino a che il terrore dell’eternità
lo travolse.

Quello che segue
non è sonno,
ma scheletro.

Questo però
lo sanno i ragionevoli.

.
Da Wandloser Raum

.

Wir leben
von den Entfernungen.

Der Tod
kommt uns vor
so weit wie der höchste
Stern.

Ein Geschäftiges der Natur
setzt Maße in uns.

*

Noi viviamo
delle distanze.

La morte
ci sembra
lontana come la più alta
stella.

Una faccenda della natura
pone misura in noi.

Wie es einer
gedacht hat,
Sterben:

Sich drehn
von der Seite der
Erfahrung auf die

der Leere, un-
geängstet, ein
Wechseln der Wange,

nichts weiter.

*

Come uno
ha pensato
il morire:

Voltarsi
dalla parte
dell’esperienza a quella

del vuoto, senza
paura, un
cambio della guancia,

nient’altro.

Weder Tag noch Nacht,
weder Stein noch Stern…

Das Außerste und
das Schwerste ist,

Nicht-da-sein
denken zu müssen.

Wie soll ein Bewußtsein
zu sterben lernen,

sich schicken in seinen
Gegensatz?

*

Né giorno né notte,
né pietra né stella…

La cosa estrema e
la più dura è

dover pensare
non-essere-qui.

Ma come può imparare a morire
una coscienza,

rassegnarsi al suo
opposto?

Spät in der Zeit
wirst du sagen,
du seist

ein Mensch gewesen.

Du sagst es nicht,
kannst es nicht sagen –
du sagst es jetzt.

*

Tardi nel tempo
tu dirai
che sei

stato un uomo.

Tu non lo dici,
non puoi dirlo –
tu lo dici ora.

Paola Palestro nasce il 14 luglio 1967 a Genova, città in cui tuttora vive. Dopo il diploma al Civico Liceo Linguistico Grazia Deledda si iscrive alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne (allora parte della Facoltà di Lettere e Filosofia) dell’Università di Genova, dove studia Storia della Letteratura Francese e Storia della Letteratura Tedesca, completando il suo percorso di studi con Storia della Letteratura Italiana, Glottologia, Storia dell’Arte Medievale e Moderna, Storia della Critica d’Arte, Storia dell’Arte Orientale, Storia del Teatro e dello Spettacolo, Storia del Cinema e altri corsi. Parallelamente continua a frequentare i corsi di lingua tedesca al Goethe-Institut di Genova conseguendo il diploma GDS nel 1990. Nel novembre 1993 compie un breve viaggio a Münster per partecipare all’Ernst Meister Kolloquium, invitata da Else Meister, vedova del poeta su cui sta scrivendo la sua tesi, e dove incontra il figlio Reinhard e amici del poeta, accademici, ricercatori, letterati e non, esperienza bellissima e importante per il lavoro su Meister. Si laurea con lode nel dicembre 1993 con la tesi La poesia di Ernst Meister – La minima lyrica delle ultime opere, in appendice una traduzione della penultima raccolta di poesie Im Zeitspalt.
Prima di laurearsi da lezioni private di lingue e lavora come traduttrice per varie agenzie, e per una casa editrice genovese, traducendo un saggio del regista e sceneggiatore tedesco Hans-Jürgen Syberberg, Die freudlose Gesellschaft. Sfortunatamente il saggio non verrà pubblicato, e l’esperienza con l’editoria non sarà delle migliori. Dal 1993 al 2008 membro dell’AITI (Associazione Italiana Traduttori e Interpreti), dopo la laurea continua con le traduzioni, lavora come interprete di trattativa in brevi viaggi in Germania, e come bibliotecaria per un progetto di recupero testi con archivio informatizzato presso la Sezione di Germanistica della Facoltà di Lingue, Università di Genova. Nel giugno 1995 traduce poesie di giovani poeti tedeschi – fra i quali Henry-Martin Klemt, Steffen Mensching, Annerose Kirchner e Anne Kretschmar – in occasione del Festival Internazionale di Poesia Genovantacinque, esperienza tra le più belle. Impiegata dal luglio 1995 presso una società di navigazione, ha alcuni scritti incompiuti che vorrebbe ultimare, tra cui racconti, un romanzo appena iniziato, e poesie che negli anni ha tenuto per sé. L’unica data alle stampe fa parte di una piccola antologia, Poesie alla spina, pubblicata in occasione dell’omonimo Happening di Poesia tenutosi sulla Nave Italia all’Expo di Genova nell’agosto-settembre 1994. Nel 2006-2007 segue un corso di fotografia con Alberto Terrile, Dai Sali d’Argento ai Pixel, ed espone sue fotografie in occasione della mostra collettiva fotografica Percorsi magici, organizzata da Alberto Terrile a conclusione del corso. Dalla fotografia è passata poi al pianoforte, che ha iniziato a studiare solo pochi anni fa, e che caparbiamente cerca di portare avanti.

2 commenti

Archiviato in critica della poesia, Poesia tedesca del Novecento

Crisi della poesia italiana post-montaliana. Il «Grande Progetto». Crisi dello sperimentalismo. Crisi dei linguaggi poetici tardo novecenteschi. Rainer Maria Rilke poeta dell’invisibile – Cito da Paul Valéry: L’arte nel mercato universale è più ottusa e meno libera

Albrecht Durer The Fall of Man (Adam and Eve) 1504
Riprendo qui un mio commento all’articolo il 30 agosto postato su questa Rivista

Gentile Daniele Falcinelli,

io ho inteso tracciare sinteticamente un quadro concettuale sulla situazione di Crisi della poesia italiana e non intendevo riferirmi alla evoluzione stilistica del poeta Montale come personalità singola. Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. Oggi occorre capire perché la Crisi esplode in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini, per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca: Montale e Pasolini, hanno scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, hanno dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, anti poesia (chiamatela come vi pare) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire capisca. A quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e visione delle procedure artistiche.

"The Knight, the death and the devil", B 98. Engraving by Albrecht Dürer. Musée des Beaux-Art de la Ville de Paris..

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. Anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario soggettiva…»*

Quello che OGGI non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti linguistiche. Davanti a questa Rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.

Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi…

Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione». Ed io ho risposto: «Un Grande Progetto».

A Flavio Almerighi il quale mi chiede di che si tratta, dirò che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento». Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventato io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederlo probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione. Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.

.Albrecht Durer Apocalisse

Rilke alla fine dell’Ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.

Rainer Maria Rilke poeta dell’invisibile

Il momento più alto delle Neue Gedichte (1907) lo si trova nella poesia «Orfeo. Euridice. Ermete»; quando Rilke fa tentare a Ermete l’impossibile contatto tra il visibile (il vivente) e l’invisibile (il morto). Il tentativo fallirà. Euridice e Orfeo ormai appartengono a due sfere dell’Essere invincibilmente separate e incomunicanti. Euridice non riconosce più Orfeo, non sa chi egli sia, nemmeno il nome le dice nulla. Quando Ermete le annuncia che Orfeo si è voltato, lei chiede: «chi?». Nei Sonetti a Orfeo (1922) Rilke ritroverà Euridice nei panni della fanciulla Wera, la morta precoce, non nel regno dei morti ma dentro di sé, nella Parola che, come uno scrigno, viene custodita dal poeta.
Una delle strade della poesia metafisica europea è quella che passa per Rainer Maria Rilke. Heidegger lo porta a modello della sua riflessione sul carattere «eventuale» dell’opera d’arte e sul linguaggio poetico come pensiero dell’essere, dove i termini Dichten (poetare) e Denken (pensare) vengono anche messi in stretto rapporto etimologico. La poesia di Rilke parla, indirettamente, dell’impossibile ritorno al passato, che si traduce nel programma di una integrale progetto di trasformazione nell’invisibile del mondo delle cose visibili. In una lettera del 1932, Rilke parla del mutamento che si verifica nelle «cose»:

«Il mondo si restringe perché, da parte loro, anche le cose fanno lo stesso, in quanto spostano sempre più la loro esistenza nella vibrazione del danaro, sviluppandovi un genere di spiritualità che oltrepassa fin d’ora la loro realtà tangibile. Nell’epoca di cui mi occupo (il secolo XIV), il denaro era ancora oro, metallo, una cosa bella e la più maneggevole, la più intelligibile di tutte (…) La terra… non ha altro scampo che diventare invisibile: in noi che con una parte del nostro essere partecipiamo dell’invisibile, abbiamo (almeno) cedole di partecipazione ad esso e possiamo aumentare il nostro possesso di invisibilità durante la nostra dimora qui – in noi soltanto si può compiere questa intima e durevole metamorfosi del visibile nell’invisibile… L’angelo delle Elegie è quella creatura in cui appare già perfetta la trasformazione del visibile nell’invisibile che noi andiamo compiendo». Da questo punto di vista, l’angelo rilkiano è il simbolo del superamento nell’invisibile dell’oggetto mercificato, cioè la cifra di un rapporto con le cose che va al di là tanto del valore d’uso che di quello di scambio. Come tale, egli è la figura metafisica che succede al mercante, come dice una delle poesie tardive: «Quando dalle mani del mercante / la bilancia passa / all’Angelo che in cielo / la placa e pareggia con lo spazio…».

Cito da Paul Valéry, «L’arte nel mercato universale è più ottusa e meno libera»

«L’Arte, considerata come attività svolta nell’epoca attuale, si è dovuta sottomettere alle condizioni della vita sociale di questi nostri tempi. Ha preso posto nell’economia universale. La produzione e il consumo delle opere d’Arte non sono più indipendenti l’una dall’altro. Tendono ad organizzarsi. La carriera dell’artista ridiventa quella che fu all’epoca in cui egli era considerato un professionista: cioè un mestiere riconosciuto. Lo Stato, in molti Paesi, cerca di amministrare le arti; procura di conservarne le opere, le «sostiene» come può. Sotto certi regimi politici, tenta di associarle alla sua azione di persuasione, imitando quel che fu praticato in ogni tempo da ogni religione. L’Arte ha ricevuto dai legislatori uno statuto che definisce la proprietà delle opere e le condizioni di esercizio, e che consacra il paradosso di una durata limitata assegnata a un diritto ben più fondato di quelli che le leggi rendono eterni. L’Arte ha la sua stampa, la sua politica interna ed estera, le sue scuole, i suoi mercati e le sue borse-valori; ha persino le sue grandi banche, dove vengono progressivamente ad accumularsi gli enormi capitali che hanno prodotto, di secolo in secolo, gli sforzi della «sensibilità creatrice»: musei, biblioteche, eccetera…

L’Arte si pone così a lato dell’Industria. D’altra parte, le numerose e stupefacenti modifiche della tecnica, che rendono impossibile ogni ordine di previsione, devono necessariamente influire sull’Arte stessa, creando mezzi del tutto inediti di esercizio della sensibilità. Già le invenzioni della Fotografia e del Cinematografo trasformano la nostra nozione delle arti plastiche. Non è del tutto impossibile che l’analisi estremamente sottile delle sensazioni che certi modi di osservazione o di registrazione \ fanno prevedere conduca a immaginare dei procedimenti di azione sui sensi accanto ai quali la musica stessa, quella delle «onde», apparirà complicata nel suo meccanismo e superata nei suoi obiettivi. \. Diversi indizi, tuttavia, possono far temere che l’accrescimento di intensità e di precisione, così come lo stato di disordine permanente nelle percezioni e nelle riflessioni generate dalle grandi novità che hanno trasformato la vita dell’uomo, rendano la sua sensibilità sempre più ottusa e la sua intelligenza meno libera di quanto essa non sia stata.»

Continua a leggere

7 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana del novecento, Poesia tedesca del Novecento

Ingeborg Bachmann (1926-1973), nota anche come Ruth Keller (Klagenfurt, 25 giugno 1926 – Roma, 17 ottobre 1973) POESIE SCELTE traduzioni di Anna Maria Curci, Maria Teresa Mandalari, Silvia Bortoli

paul celan bachmann

paul celan ingeborg bachmann

http://www.letteratura.rai.it/articoli/ingeborg-bachmann-shakespeare-aveva-ragione/1014/default.aspx

In questo prezioso frammento televisivo, Ingeborg Bachmann legge una poesia dedicata a Praga e spiega chi sono per lei i boèmi. Sono degli “erranti”. La scrittrice racconta in italiano che quando conobbe Praga le venne in mente la frase di Shakespeare (contestata da Ben Johnson) “La Boemia è sul mare”, e di averne capito il senso.

Ingeborg Bachmann nasce nel 1926 in Carinzia, nel cui capoluogo, Klagenfurt, trascorre l’infanzia e l’adolescenza. Dopo i primi studi, negli anni del dopoguerra frequenta le università di Innsbruck, Graz e Vienna dedicandosi agli studi di giurisprudenza e successivamente in germanistica, che conclude discutendo una tesi su Martin Heidegger, dal titolo “La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger”. Il suo maestro e’  il filosofo e teoretico della scienza Victor Kraft (1890-1975), ultimo superstite del Circolo di Vienna. Al tempo degli studi ha modo di intrattenere contatti diretti con Paul Celan, Ilse Aichinger e Klaus Demus. Diviene redattrice radiofonica presso l’emittente viennese “Rot-Weiss-Rot” (Rosso-Bianco-Rosso), per la quale compone la sua prima opera radiofonica, Un negozio di sogni (Ein Geschäft mit Träumen, 1952). E’ tuttavia in occasione di una lettura presso il Gruppo 47 che si ha il debutto letterario. Già nel 1953 riceve il premio letterario del Gruppo 47 per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato (Die gestundete Zeit). In collaborazione con il compositore Hans Werner Henze produce il radiodramma Le cicale (Die Zikaden, 1955), il libretto per la pantomima danzata L’idiota (Der Idiot, 1955) e nel 1960 il libretto per l’opera Il Principe di Homburg (Der Prinz von Homburg). Nel 1956 vede la pubblicazione invece la raccolta di poesie Invocazione all’Orsa Maggiore (Anrufung des Großen Bären), conseguendo il Premio Letterario della Città di Brema (Bremer Literaturpreis) e iniziando un percorso di drammaturgia per la televisione bavarese. Dal 1958 al 1963 Ingeborg Bachmann intrattiene una relazione con l’autore Max Frisch. Nel 1958 appare Il Buon Dio di Manhattan (Der Gute Gott von Manhattan), insignito l’anno successivo del Premio Audio dei Ciechi di Guerra (Hörspielpreis der Kriegsblinden). Nel 1961 vede la luce la raccolta di racconti Il trentesimo anno (Das dreißigste Jahr), contenente numerosi elementi autobiografici e a sua volta insignito dal Premio per la Critica della Città di Berlino (Berliner Kritikerpreis). Nel 1964 le viene consegnato il premio Georg Büchner (Georg-Büchner-Preis), un anno prima della pubblicazione del saggio La città divisa (Die geteilte Stadt, 1964), ed e’ la stessa repubblica austriaca a onorarne il valore intellettuale e creativo conferendole nel 1968 il Premio nazionale austriaco per la Letteratura (Großer Österreichischer Staatspreis für Literatur). La produzione di Ingeborg Bachmann prosegue con la pubblicazione nel 1971 del romanzo Malina (Malina), prima parte di una trilogia concepita sotto il nome di “Cause di morte” (Todesarten) e trasposta nell’opera cinematografica di Werner Schroeter interpretata da Isabelle Huppert, Mathieu Carrière e Can Togay nel 1991. Solo in forma di frammenti rimangono tuttavia la seconda e la terza parte, Il caso Franza (Der Fall Franza) e Requiem per Fanny Goldmann (Requiem für Fanny Goldmann). Dopo che ancora nel 1972 viene data alle stampe la raccolta di racconti Simultan (Simultan), a cui viene attribuito il Premio Anton Wildgans (Anton-Wildgans-Preis), un incendio avvenuto durante il soggiorno nell’appartamento romano nella notte tra il 25 ed il 26 settembre 1973 la porta alla morte, che avviene il 17 ottobre. Ingeborg Bachmann e’ sepolta dal 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. A lei è dedicato oggi il concorso letterario che annualmente si tiene nella città natale in coincidenza della ricorrenza della nascita.

 

Ingeborg Bachmann Hans Werner Henze 1952

Ingeborg Bachmann Hans Werner Henze 1952

Figlia di Olga Haas e Mathias Bachmann, Ingeborg Bachmann nacque nel 1926 in Carinzia, nel cui capoluogo, Klagenfurt, trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Dopo i primi studi, negli anni del dopoguerra frequentò l’università di Innsbruck, Graz e Vienna dedicandosi agli studi di giurisprudenza e successivamente in germanistica, che concluse discutendo una tesi su – propriamente, contro Martin Heidegger – dal titolo “La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger“. Il suo maestro fu il filosofo e teoretico della scienza Victor Kraft (1890-1975), ultimo superstite del Circolo di Vienna, da cui i membri, in seguito all’omicidio d’uno di loro (Moritz Schilick) da parte di un fanatico nazista e dell’ostilità in seguito dimostratagli dal regime politico post Anschluss erano dovuti fuggire. Nell’epoca dello studio ebbe modo di intrattenere contatti diretti con Paul Celan, Ilse Aichinger e Klaus Demus.

Il rapporto collaborativo e sentimentale tra Paul Celan ed Ingeborg Bachmann è documentato da uno scambio epistolare pubblicato nel 2008.

Presto Bachmann divenne redattrice radiofonica presso l’emittente viennese “Rot-Weiss-Rot” (Rosso-Bianco-Rosso), per la quale compose la sua prima opera radiofonica, Un negozio di sogni (Ein Geschäft mit Träumen, 1952). Fu tuttavia in occasione di una lettura presso il Gruppo 47 che si ebbe il debutto letterario. Da allora in poi Ingeborg Bachmann fu una stella luminosa della letteratura in lingua tedessca. Già nel 1953, all’età di 27 anni, ricevette il premio letterario del Gruppo 47 per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato (Die gestundete Zeit).

In collaborazione con il compositore Hans Werner Henze produsse il radiodramma Le cicale (Die Zikaden,1955), il libretto per la pantomima danzata L’idiota (Der Idiot,1955) e nel 1960  il libretto per l’opera Il Principe di Homburg (Der Prinz von Homburg). Nel 1956  vide la pubblicazione invece la raccolta di poesie Invocazione all’Orsa Maggiore (Anrufung des Großen Bären), conseguendo il Premio Letterario della Città di Brema (Bremer Literaturpreis)..

Dal 1958 al 1963 Ingeborg Bachmann intrattenne una relazione con Max Frisch. Nel 1958  apparve Il Buon Dio di Manhattan (Der Gute Gott von Manhattan), insignito l’anno successivo del Premio Audio dei Ciechi di Guerra (Hörspielpreis der Kriegsblinden).

Nel 1961 vede la luce la raccolta di racconti Il trentesimo anno (Das dreißigste Jahr), contenente numerosi elementi autobiografici e a sua volta insignito dal Premio per la Critica della Città di Berlino (Berliner Kritikerpreis). Nel 1964 le fu consegnato invece il Georg-Büchner-Preis, un anno prima della pubblicazione del saggio La città divisa (Die geteilte Stadt,1964), e fu la stessa repubblica austriaca a onorarne il valore intellettuale e creativo conferendole nel 1968  il Premio nazionale austriaco per la Letteratura (Großer Österreichischer Staatspreis für Literatur). Nello stesso anno, tenne a Roma, presso l’Istituto tedesco di cultura, la conferenza intitolata “Il ruolo dello scrittore nella Germania divisa”. Passò poi la serata con il critico letterarioMarcel Reich-Ranicki, come lui stesso ricorda nelle sue memorie.

La produzione di Ingeborg Bachmann prosegue con la pubblicazione nel 1971  del romanzo Malina (Malina), prima parte di una trilogia concepita sotto il nome di “Tramandato” (Todesarten) e trasposta nell’opera cinematografica di Werner Schroeter interpretata da Isabelle Huppert, Mathieu Carrière e Can Togay nel 1991. Solo in forma di frammenti rimasero tuttavia la seconda e la terza parte, Il caso Franza (Der Fall Franza) e Requiem per Fanny Goldmann (Requiem für Fanny Goldmann). Dopo che ancora nel 1972  fu data alle stampe la raccolta di racconti Simultan (Simultan), a cui fu attribuito il Premio Anton Wildgans (Anton-Wildgans-Preis), uno sfortunato incendio domestico, avvenuto durante il soggiorno nell’appartamento romano nella notte tra il 25 ed il 26 settembre 1973, ebbe conseguenze fatali per l’autrice, che ne morì il 17 ottobre.

Ingeborg Bachmann è sepolta, dal 25 ottobre 1973, nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl.

*

«E io sono convinta che dove non vengono sollevate le eterne, sempre nuove domande che non risparmiano nessuno sul perché e sul fine ultimo delle cose, e le altre che a queste si legano, compresa, se volete, la questione della colpa, e dove nell’autore stesso non esiste il dubbio, il sospetto, e cioè la vera problematica, là, io credo, non può nascere nuova poesia. […] La realtà acquista un linguaggio nuovo solo tramite uno scatto morale… si ha linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto. Se ci si limita a manipolare la lingua per darle una patina di modernità, ben presto essa si vendica e mette a nudo le intenzioni dei suoi manipolatori.» *

Nel 1961 Ingeborg Bachmann dedica Ihr Worte a Nelly Sachs. Bachmann stessa riferisce in una intervista, a proposito di questa poesia: «Ho scritto Voi, parole, dopo che per cinque anni non mi ero più arrischiata a scrivere una poesia, non ne volevo scrivere più, avevo proibito a me stessa di creare una struttura del genere, quella creazione chiamata poesia […]. So ancora poco di poesie, ma tra le poche cose che so c’è il sospetto. Sospetta a sufficienza di te, sospetta delle parole, della lingua, mi sono detta spesso, approfondisci questo sospetto – perché un giorno, forse, possa nascere qualcosa di nuovo – oppure nulla debba nascere.» *
La traduzione, in questo caso, è davvero (Wahrlich, come recita il titolo di un’altra poesia di Ingeborg Bachmann, dedicata alle parole e a un’altra poetessa, Anna Achmatova) un varcare, che rischia di essere impudico e azzardato, “la soglia dell’altro”. Solo un dettaglio su una difficoltà traduttiva: nel finale, Ingeborg Bachmann gioca con due termini, anzi con uno, del quale conia un plurale estraneo alla lingua corrente. Il sostantivo Wort, parola, ha in tedesco due forme di plurale: Worte, che sta per parole (dette o scritte), qui le destinatarie dei versi, e Wörter, precisamente “vocaboli”. Il sostantivo composto “Sterbenswort”, che letteralmente significa “parola di morte” è usato correntemente con l’articolo negativo “kein” e sta a indicare “neanche una parola”, “neanche un fiato”. Kein Sterbenswort è la negazione della parola, è il silenzio, mentre la contaminazione “Sterbenswörter” è usata qui, a mio parere, con l’intenzione di far risaltare il potenziale distruttivo delle parole, di determinate parole. Anche qui il gioco è tra resa e ribellione. Questa è la mia personale “resa”.

*[Letteratura come utopia – Lezioni di Francoforte, Ingeborg Bachmann. Traduzione di Vanda Perretta]

Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann

Voi, parole

Per Nelly Sachs, l’amica, la poetessa, con venerazione
Voi, parole, su, seguitemi!,
e anche se siamo andati avanti,
troppo avanti, ancora una volta
si va oltre, si va senza fine.

Non sta schiarendo.

La parola si tirerà soltanto
altre parole dietro,
la frase un’altra frase.
Così vorrebbe il mondo,

definitivamente, farsi invadente,
esser già detto.
Non dite il mondo.
Parole, seguitemi,
che non divenga definitiva,
no, questa brama di parole
e botta e risposta!

Non fate, ora, per un po’,
parlar alcuno tra i sentimenti,
lasciate il muscolo cuore
allenarsi in altro modo.

Lasciate, dico, lasciate.

Al sommo orecchio nulla,
nulla, dico, in un sussurro,
per la morte nulla ti venga in mente,
lascia, e seguimi, non mite,
né aspra
non consolatoria
non sconsolatamente
significativa,
e così neanche senza segno –

E, bada, non questo: un’immagine
nella tela di polvere, vuoto ruzzolare
di sillabe, vocaboli di morte.

Neanche una parola,
voi, parole!

(traduzione di Anna Maria Curci)

Ihr Worte

Für Nelly Sachs, die Freundin, die Dichterin, in Verehrung
Ihr Worte, auf, mir nach!,
und sind wir auch schon weiter,
zu weit gegangen, geht’s noch einmal
weiter, zu keinem Ende geht’s.

Es hellt nicht auf.

Das Wort
wird doch nur
andre Worte nach sich ziehn,
Satz den Satz.
So möchte Welt,
endgültig,
sich aufdrängen,
schon gesagt sein.
Sagt sie nicht.

Worte, mir nach,
daß nicht endgültig wird
– nicht diese Wortbegier
und Spruch auf Widerspruch!

Laßt eine Weile jetzt
keins der Gefühle sprechen,
den Muskel Herz
sich anders üben.

Laßt, sag ich, laßt.

Ins höchste Ohr nicht,
nichts, sag ich, geflüstert,
zum Tod fall dir nichts ein,
laß, und mir nach, nicht mild
noch bitterlich,
nicht trostreich,
ohne Trost
bezeichnend nicht,
so auch nicht zeichenlos –

Und nur nicht dies: ein Bild
im Staubgespinst, leeres Geroll
von Silben, Sterbenswörter.

Kein Sterbenswort,
Ihr Worte!
*originale: «Ihr Worte habe ich geschrieben, nachdem ich mich fünf Jahre lang nicht mehr traute, ein Gedicht zu schreiben, keines mehr schreiben wollte, mir verboten habe, noch so ein Gebilde zu machen, das man Gedicht nennt. […] Ich weiß noch immer wenig über Gedichte, aber zu dem wenigen gehört der Verdacht. Verdächtige dich genug, verdächtige die Worte, die Sprache, das habe ich mir oft gesagt, vertiefe diesen Verdacht – damit eines Tags, vielleicht, etwas Neues entstehen kann – oder es soll nichts mehr entstehen.»

(traduzione di Anna Maria Curci)

Nulla verrà più
Nulla verrà più.
Non vi sarà più primavera.
Almanacchi millenari lo predicono a tutti.
Ma nemmeno estate e altre cose
che recano il bell’attributo estivo
nulla verrà più.
Non devi assolutamente piangere,
dice una musica.
Nessun altro dice qualcosa.

Invocazione all’Orsa Maggiore

Orsa Maggiore, scendi insita notte,
animale dal vello di nuvole
e gli occhi antichi,
occhi stellari;
sbucano dall’intrico scintillanti
le tue zampe e gli artigli,
artigli stellari;
vigili custodiamo le greggi,
pur ammaliati da te, e diffidiamo
dei tuoi lombi stanchi
e delle zampe aguzze per metà scoperte,
vecchia Orsa.

Una pigna, il vostro mondo.
Voi, le scaglie intorno.
Io lo spingo, lo rotolo,
dagli abeti in principio
agli abeti alla fine:
lo fiuto, lo tento col muso,
e con le zampe l’abbranco.

Abbiate o non abbiate timore:
versate l’obolo nella borsa sonante e date
una buona parola all’uomo cieco,
che l’Orsa trattenga al guinzaglio.
E insaporite bene gli agnelli.
Potrebbe, quest’Orsa, strappare i lacci,
non più minacciare ma dare
la caccia a tutte le pigne cadute
dagli abeti, i grandi abeti alati
precipitati dal paradiso.

da Poesie (Guanda, 2006), trad. it. M. T. Mandalari

Ancora la semina è lontana. Si vedono
terreni inzuppati di pioggia e stelle di marzo.
Nella formula di pensieri infecondi
si configura l’universo seguendo l’esempio
della luce, che non sfiora la neve.

Sotto la neve ci sarà anche polvere
e, non disfatto, il futuro nutrimento
della polvere. Oh il vento che si leva!
Altri aratri dirompono l’oscurità.
Le giornate tendono a farsi più lunghe.

Nelle lunghe giornate, non richiesti,
veniamo seminati entro quei solchi storti
e diritti, e si eclissano stelle. Nei campi
prosperiamo o ci corrompiamo a caso,
docili alla pioggia, e infine anche alla luce.

*

Dei calabroni non farò parola,
perché è facile riconoscerli.
E anche le rivoluzioni in corso
non sono pericolose.
La morte a seguito del frastuono
è ormai decisa da sempre.

Ma guardati dalle celebrità effimere
e dalle donne, dai cacciatori domenicali,
dai cosmetisti, dagli indecisi, dai bene intenzionati,
che nessun disprezzo riesce a scalfire.

Dai boschi recammo sterpi e tronchi,
e il sole a lungo tardò a sorgere per noi.
Inebriata da sequele cartacee
non riconosco più i rami,
né il muschio, che fermenta in cupi inchiostri,
né la parola, nelle cortecce incisa,
schietta e temeraria.

Logorìo di fogli, nastri registrati,
cartelloni neri… Giorno e notte
freme, dovunque sotto le stelle,
la macchina della fede. Ma nel legno,
fintanto ch’è verde, e con la bile,
fintanto ch’è amara, sono intenzionata
a scrivere quello che fu in principio!

Badate a mantenervi all’erta!

La traccia delle schegge volate è inseguita
dallo sciame dei calabroni
e intanto alla fontana
si ribella alla seduzione,
che un tempo ci ha fiaccati,
la chioma.

*

In una notte d’amore dopo una lunga notte
ho di nuovo imparato a parlare e piangevo
perché mi è uscita di bocca una parola.
Ho imparato di nuovo a camminare,
sono andata alla finestra e ho detto fame e luce
e notte mi stava bene per luce.

Dopo una notte troppo lunga,
ho dormito di nuovo bene,
confidando,

nel buio parlavo più facilmente,
continuavo a farlo di giorno.
Muovevo le dita sul mio viso,
non sono più morta.

Un cespuglio incendiato nella notte.
Il mio vendicatore si è fatto avanti e si chiamava vita.
Ho detto addirittura: lasciatemi morire e pensavo
senza timore alla morte più amata.

(Traduzione di Silvia Bortoli)

da “Non conosco mondo migliore”, Guanda, Parma, 2004

 

12 commenti

Archiviato in poesia tedesca, Poesia tedesca del Novecento, Senza categoria

Ernst Meister (1911-1979) – Poesie scelte – “Il rigor mortis delle parole” – Traduzione di Stefanie Golisch con un Commento laconico di Giorgio Linguaglossa

 

ligeti5

Partitura musicale di Gyorgy Ligeti

Il poeta Ernst Meister (1911-1979) nacque, visse e morì a Hagen, una città media in Vestfalia, volutamente al margine della vita letteraria mondana.
Negli anni ’30, Meister aveva studiato teologia, letteratura, storia dell’arte e filosofia prima di essere chiamato al fronte. Dopo la guerra cominciò ad elaborare le sue esperienze sotto forma di poesia e prosa. Dagli anni ’50 in poi, fino alla morte, si dedicò esclusivamente alla poesia. Togliere invece di aggiungere – questo fu il credo di Ernst Meister che nei suoi versi scarni allude alla condizione umana come una eterna domanda aperta.

eclissi sole 5

Gyorgy Ligeti Lux Aeterna (1965) Eclissi di sole

.

Commento laconico di Giorgio Linguaglossa

Nel 1978, interrogato sulla sua poesia, il poeta tedesco diede questa risposta: «La mia poesia dice quello che so, ti dice quello che sai», laconico come sempre e modesto come nessun’altro. Si avverte nella poesia di Meister l’irrigidimento delle parole, quel rigore che proviene dal rigor mortis delle parole che sono state irrogate dal «negativo», e il poeta non fa nulla per dissimulare questo stato comatoso delle parole e della comunicazione poetica. Si avverte una sfiducia totale nella retorica e nei tropi, una attenzione spasmodica alla letteralità di un discorso ridotto ai minimi lessemi, un rigore kantiano e luterano, il rigore di chi ha vissuto l’orrore della seconda guerra mondiale e ne è stato testimone. Collocandosi nella linea che va da Hölderlin a Celan, Meister si pone come erede e testimone esemplare di una poesia che medita sulla impossibilità di poter dire, sulla indicibilità della comunicazione dell’esperienza poetica nella nuova civiltà nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale. La prima raccolta, Monolog der Menschen, pubblicata quarant’anni prima, era appunto un monologo corale degli uomini, si avverte la consapevolezza o il timore che la voce singola non possa, non sia in grado di pronunciare il discorso poetico.
Credo, anzi, ne sono convinto, che pubblicare queste poesie nella traduzione di Stefanie Golisch, oggi in una Italia affetta dalla pratica di massa della poesia e dallo smarrimento filosofico e spirituale non può far altro che bene.
Dolorosamente colpito dal suicidio del suo amico Paul Celan nel 1970, Meister tenterà di seguire l’utopia di una dizione prossima all’enigma, scorticata e nuda, che rivela l’influenza delle letture, è stato detto, della teologia protestante e della filosofia di Heidegger, Schopenhauer e Nietzsche.

ernst-meister

ernst-meister

Ernst Meister Poesie scelte

.
JETZT
Jetzt.
Jetzt ist lange her.
Jetzt:
September −
nachmittags.

Geruch
warmer Asche.
So, als ob ich,
heute verbrannt,
selber die Asche wär.

Bin ich da?
Bin ich’s nicht?
Tellerrund
und von Äpfeln,
von Birnen schwer
ist das Licht.

Bin.
Bin mit den Blumen da.
Wimpern der Sonnen,
Kerne
in ihrem Pupillenkreis:
Augen,
meinen Augen ganz nah.

Bin nicht mehr?

Des Menschen Tag:
Im bronzenen Dunkel
ein Blitz.

Jetzt:
Ein September,
nachmittags.
JETZT
ist lange her.
 

ORA
Ora.
Ora è tanto tempo fa.
Ora:
settembre −
pomeriggio.

Odore
di calde ceneri.
Così come fosse io stesso,
bruciato oggi,
fossi le ceneri.

Sono qui?
Non sono io?
Rotondo come un piatto
e pesante di mele,
di pere
è la luce.

Sono.
Sono qui con i fiori.
Ciglia dei soli,
noccioli
nel cerchio delle pupille:
occhi,
vicini ai miei occhi.

Non sono più?
Il giorno dell’uomo:
nel buio di bronzo
un fulmine.

Ora:
un settembre,
pomeriggio.
ORA
è tanto tempo fa.

.
SEI DU MEIN SOHN
und zahl mir deine Schuldigkeit.
Ich, Leben, brauche den Tod,
ich, Zeit, die Ohnezeit.
Was plagst du dich,
da doch im Hellen steht
ein Liebesaug?
Du brauchst es nicht zu sehn.

SII TU MIO FIGLIO
e pagami la tua colpevolezza.
Io, vita, ho bisogno di morte.
io, tempo, del senzatempo.
Perché ti tormenti,
che nel chiarore c’è
un occhio d’amore?
Non occorre che tu lo veda.

.
DIE WORTE SIND FERTIG.
Umwunden von deinem Haar
ein jedes.
Dem ist
kein Räuber gewaltig,
wenn schon
die Sinne vergehen
beiden.
Nicht zu
vernichten ist
die Erscheinung.

LE PAROLE SONO FATTE.
Avvolte dai tuoi capelli
ciascuna.
Nessun ladro
può nulla
quando i due
perdono
i sensi.
Non può essere
distrutta
l’apparizione.

.
IM SCHLAF UND
in Schluchten des Schlafs,
wenn du der Einen begegnest,
die sich nach Lüsten
zu erkennen gibt
als die Tote
mit schlagendem Herzen,
als die Mittlere
des gemilchten Raums
voll Gelächter der Knie
und der Schenkel,
und dich wirft alsbald
ins Labyrinth
begreifbaren Traums.

NEL SONNO E
nelle gole del sonno
quando incontri Quella
che si svela
dopo il piacere come
la morta
con il cuore pulsante,
come quella in mezzo
alla stanza lattea
colma di risa delle ginocchia
e delle cosce,
e che ti getta presto
nel labirinto
del sogno comprensibile.

.

DER BLITZ
ist von eigener Hand
und entzündet
dein Haar.
Es komme
Feuersbrunst
Wo das Dach birst,
der Boden reißt.
Komm,
ein Frieren kommt,
das brennendste.

IL FULMINE
nasce nella propria mano
e accende
i tuoi capelli.
Che venga
un incendio
dove scoppia il tetto,
la terra si spezza.
Vieni,
viene un freddo,
il più scottante.

 

eclissi sole 2

eclissi di sole

.

WÜSST ICH, WOHER
Weinen kommt,
aus welchem
Himmelsblau…
Ich wills
Heimweh nennen
nach deinem
Herzschlag.

SAPESSI DA DOVE
viene il pianto
da quale
blu del cielo…
Voglio
chiamarlo nostalgia di casa
dei tuoi
battiti del cuore.

.

WELTLICHES, DAS WIR
lieben, welches
du liebst, war
mächtig genug.
Darum hast du uns
zu Fremdlingen gemacht
der Liebe. Das ist
noch im Tod
die Wunde.

COSE TERRENE CHE
amiamo, che
tu ami, furono
assai potenti.
Perciò ci hai reso
stranieri
dell’amore. Questo ancora
nella morte
è la ferita.

.

DICH MEINE ICH,
vorbei an der bloßen
Begierde, zu sein,
dich, vertauscht
an allen Gliedern.
Sind wir nicht
unseres Staubs
getröstet?
Ach, ich
gedenke an dich
in der Ewigkeitshöhle,
darin ja wohnt
jedermann.

INTENDO TE,
aldilà del mero
desiderio di essere,
te, scambiata
in tutte le membra.
Non è consolata
la nostra
polvere?
Ah,
ti ricordo
nella caverna eternità
dove
abita
ciascuno.

.

FERNER NACHHALL
der Liebe.
Anfang und Ende
wußt ich vermählt
im Nichts, dem Golde.
Nun aber
ist Ende allein.
Hundsmäßig
eß ich vom Troge,
den aufgestellt
im unteren Zwielicht
der lidlose Engel.

.
ECO LONTANO
dell’amore.
Sapevo
l’inizio e la fine
sposati
nel nulla, nell’oro.
Ma ora
è fine sola.
Come un cane
mangio dal trogolo
che l’angelo senza palpebre
posò
nel basso crepuscolo.

.

EIN KIND
blickt auf die Schale
voll Zeit,
sieht nippen
den grauen großmächtigen
Schmetterling,
ein Kind,
und geht,
schwarze Schafe zu hüten
im Finstern.

UN BAMBINO
guarda la ciotola
colmo di tempo,
vede sorseggiare
l’imponente farfalla
grigia,
un bambino
e va
a pascolare nere pecore
al buio.

*

Atemlos
so weit zu springen:
in die nächste
Nachbarschaft, die
allernächste zur
letzten
gesprochenen Silbe.

__

Senza respiro
saltare così lontano
nella prossima
vicinanza, la
più prossima,
verso l’ultima
sillaba pronunciata

Stefanie Golisch foto Diane Arbus

foto Diane Arbus

Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia.
Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014. Nel 2016 sono in corso di stampa nove poesie di Stefanie Golisch nella Antologia Poesia italiana contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa per le edizioni Progetto Cultura di Roma

29 commenti

Archiviato in poesia tedesca, Poesia tedesca del Novecento, Senza categoria

Durs Grünbein, “Della neve ovvero Cartesio in Germania”: Durs Grünbein e il poema epico nella post-storia. (Traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, 2005). Commento di Letizia Leone

durs-gruenbein-540x304

Durs Grünbein nasce a Dresda nel 1962 e vive a Roma dal 2013. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra quali il premio della città di Marburg (1992), il premio Büchner (1995), il Premio Pasolini (2006). Membro dell’Accademia Tedesca per la Lingua e la Poesia (1995) e dell’Accademia delle Arti di Berlino-Brandeburgo (1999), è autore di numerosi volumi di poesia e saggistica: A metà partita: poesie 1988-1999, traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 1999; Il primo anno. Appunti berlinesi, traduzione di Franco Stelzer, Einaudi, Torino 2004; Della neve ovvero Cartesio in Germania, traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 2005; Infanzia in diorama, traduzione di Silvia Ruzzenenti, in “Comunicare – Letterature Lingue” N. 7, 2007, Il Mulino, Bologna, pp. 241-249; Strofe per dopodomani e altre poesie, a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 2011; Il consiglio dei gamberi e altre passeggiate sott’acqua, traduzione di Silvia Ruzzenenti, in “Prosa saggistica di area tedesca”, a cura di G. Cantarutti e W. Adam, Il Mulino, Collana “Scorciatoie”, Bologna 2011, pp. 17-50; La strada per Bornholm (racconto presente in “La notte in cui cadde il muro”, a cura di Renatus Deckert, traduzione di Valentina Freschi, Scritturapura Editore, Collana Paprika, Asti 2009).

Commento di Letizia Leone

“Le forme letterarie possiedono un determinato indice di resistenza che assicura loro il passaggio attraverso tutta una serie di epoche; nello stesso tempo, la forma letteraria si trova a dover affrontare l’influenza di compiti diversificati, e il nuovo si accumula sul vecchio in maniera qualitativa…”: queste considerazioni di Šklovskij sull’assimilazione e trasformazione stilistica dei generi introducono adeguatamente l’operazione poetica di Durs Grünbein (uno dei maggiori poeti della Germania post-unificazione) il quale, in duemila versi suddivisi in quarantadue canti di dieci strofe ognuno, rivitalizza la tradizione inerte della narrazione lirica in esametri. Risonanze e memoria dei classici ma anche recupero di ritmi e metri della poesia barocca come l’illustre alessandrino (verso canonico del teatro tedesco del XVII sec.), reso sapientemente nella traduzione di Anna Maria Carpi con un recitativo “che tolti alcuni isolati endecasillabi, nasce a seconda della necessità, da aggregazioni diverse di settenari, endecasillabi, quinari”.

Viene da chiedersi: è possibile che la parola epica abbia ancora la capacità di cogliere lo Zeitgeist contemporaneo? E soprattutto ha ancora senso parlare di unità del genere a fronte della dissoluzione postmodernista che avvalora la contaminazione e il riciclo caotico dei materiali, quando lo stesso paradigma critico di genere rischia di risultare obsoleto? Già Hegel, in base alle categorie di “totalità” e “assolutezza dei valori” propri dell’epica classica, dichiarava impossibile un’epica moderna, e Lukàcs supportando la linea hegeliana vedeva nel romanzo (epopea moderna dell’eroe borghese) la filiazione manchevole dell’epos, cosicché nell’ambito di una riflessione critico-stilistica “a rappresentare con purezza il tipo epico risultava esserci sempre e solo l’epos di un Omero e questo tipo omerico sparisce per così dire all’inizio della storia della letteratura” (M. Wehrli). Eppure non mancano esempi di sperimentalismi e riformulazioni che hanno apportato nuova linfa al genere: da Whitman ai classici del modernismo come I Cantos o La terra desolata (opera questa che nel giudizio di I. A. Richards conterrebbe in sé una dozzina di volumi dell’Enciclopedia Britannica) oppure la nuova epica postcoloniale dell’Omeros di Derek Walcott. Opere polifoniche, stratificate, portatrici di un’ampia esegesi.

In “Della neve” la riproposizione del canone epico viene esibita in una architettura compositiva di grande rigore metrico. Grünbein ha adottato brillantemente l’ambizione enciclopedica del genere ai suoi scopi, e se ad uno sguardo retrospettivo l’epica ha funzionato come deposito della memoria collettiva con la narrazione di imprese mitiche e storiche, qui le gesta eroiche da cantare sono quelle del pensiero, e l’eroe è l’homo theoreticus, il filosofo francese René Descartes. Cartesio è il “più frainteso dei filosofi della modernità” e il primo a fraintenderlo è stato proprio il suo contemporaneo Leibniz “che inizia ciò che l’idealismo portò a termine: e cioè congelare Cartesio come il momento pre-dialettico, freddamente razionalistico del pensiero”. Nell’intento di “riscongelare un filosofo esiliato dall’idealismo tedesco”, Grünbein apre la scena in medias res con lo studioso ripiegato nel proprio isolamento interiore ed esistenziale in un “luogo sperduto vicino ad Ulm”, cittadina della Baviera immersa nel gelo straordinario dell’inverno del 1619, come testimonia Cartesio stesso: “Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre ancora in corso; e tornando verso l’esercito dopo l’incoronazione dell’imperatore, l’inizio dell’inverno mi colse in una località dove, non trovando compagnia che mi distraesse, e non avendo d’altra parte, per mia fortuna, preoccupazioni o passioni che mi turbassero, restavo tutto il giorno solo, chiuso in una stanza accanto alla stufa, e qui avevo tutto l’agio di occuparmi dei miei pensieri.”(dal “Discorso sul metodo”)

cartesio

Cartesio

Nella descrizione poetica dell’interno domestico, illuminato da una luce caravaggesca, cose e dettagli vengono colti con un’assoluta freddezza di sguardo:

Un mozzicone arde. La griglia nella stufa
dopo il banchetto è lustra come gabbia toracica d’un manzo
fatto arrosto. Ma il freddo si raccoglie nella veste del dotto,
dentro le scarpe a fibbia, nel bavero di pizzo
e dipinge arabeschi alle finestre, entro i tondi piombati.
E gelo e buio marcano i contorni, più aguzzi sono i nasi
e i menti, e blu le labbra la mattina.
D’inverno l’uomo è come il suo cadavere.
Disteso e duro come sulla bara – sul sarcofago-letto.
Un brivido lo desta. Nevica. Un nuovo giorno.

La citazione di Keplero ut pictura, ita visio all’inizio del canto ventiseiesimo, dal quale è tratta la strofa, conferma e ribadisce una modalità di stile all’insegna della figuratività e visibilità. Grünbein sembra adottare la stessa tecnica del chiaroscuro dei pittori olandesi e fiamminghi del XVII secolo nel calcolare l’effetto “luminoso” del freddo sui corpi, gelo e buio marcano i contorni del volto facendo vibrare il ritratto inedito del dotto e sotto la pallida luce dell’alba gelida il dormiente nel letto, disteso e duro come sulla bara, trasfigura quasi nell’icona di un Cristo deposto. L’azione del poema è condensata intorno ad un momento topico del pensiero occidentale, la nascita del razionalismo cartesiano sullo sfondo del paesaggio nordico invernale, o per meglio dire sotto il “diluvio grande di neve” (come annotò il padovano Nicolò De Rossi) della piccola glaciazione che investì l’Europa del 1600. Condizioni estreme, adatte al filosofare. Il poema vuole essere anche elogio dei filosofi, dello stile di vita teoretico, dell’osservazione disinteressata, dell’ascesi nell’epochè, sotto gli imperativi dell’isolamento e della concentrazione che denotano una modalità dell’esistenza filosofica, e ci rammentano i ritiri di Heidegger nella famosa Hütte, la baita di Todtnauberg: “Quando nel profondo della notte invernale, una violenta tempesta di neve avvolge la baita, copre e vela tutto, allora è il tempo della filosofia.” L’immagine-simbolo della neve che apre e chiude il poema svettando nel titolo, è richiamo e correlativo del metodo analitico del matematico Cartesio, inventore della geometria delle coordinate. “Il cristallo di neve, perfetto, esagonale, è il modello della ragione geometrica”, afferma Grünbein, “e l’inverno è la stagione più propizia alle intuizioni della filosofia: ci mostra la natura nel rigore delle sue leggi. Io credo però che Cartesio, costretto per forza maggiore nella prigionia di quel paesaggio gelato, cercasse di apportarvi dinamismo e calore”.

paesaggioneve

Freddo, neve, inverno: isotopie meteorologiche che avviano la sequenza delle metafore ma anche allegoria della condizione dell’uomo moderno. La suggestione plastica della landa innevata è condicio sine qua non della concentrazione, visione che astrae dalle contingenze, impulso al cogito del filosofo che comincia a pensare il mondo come astrazione geometrica dalla sua torretta di osservazione, la stanzetta mal riscaldata da una stufa. E il poeta sa rendere perfettamente la situazione emotiva di isolamento ed esilio in cui prende forma il cogito ergo sum bilanciando la narrazione nella compenetrazione dialettica tra l’esterno, la bianca magnificenza del tappeto nevoso che copre le simmetrie del paesaggio naturale e depotenzia i clamori della Storia (la guerra dei trent’anni), e lo spazio interno della coscienza che tende a realizzare il vuoto dei mistici, la sospensione spazio-temporale, il congelamento di affetti e affanni. Inoltre nel gioco testuale di allusioni, rifrazioni, parallelismi figurativi, la neve è speculare all’immagine del foglio bianco, tabula rasa e punto focale su cui si concentrano le fatiche dell’intelletto, il foglio ondulato sudario, torbido specchio, comunque materiale tangibile, res extensa, carta soltanto carta sulla quale vergare il Discorso sul metodo:

Il polverino manca. Mezzo foglio è sconciato.
Stanza stretta e aria secca – Moccio, acqua che schizzano
Sul foglio, se tossisce. E come gratta questa penna d’oca,
Pare un ronzio di mosca. Chi decifra
Tutti gli scarabocchi? Nemmeno il loro autore.
La scrittura va insieme, fanno smorfie i paragrafi.
Ogni frase è una tenia. E questa è un n o un u?
È come nella vita, dopo il 5 romano viene il 4.
“Discours de la méthode” – l’io dà del tu a se stesso.
Chi è io? Non farmi ridere. – Carta, soltanto carta.

Tra riflessione intellettuale e paesaggio il racconto mette in scena la grandezza epica del pensare, ma le questioni fondamentali esposte nel “Discorso” emergono nel bel mezzo della conversazione quotidiana tra il filosofo e il suo unico interlocutore, il fedele Gillot, servo e discepolo, controparte dell’uomo pratico armato di buon senso. Così accade che durante una chiacchierata estemporanea, resa con un parlato espressivo ricco di locuzioni fàtiche, si può discutere dei massimi sistemi e ricollocare le teorie cartesiane dentro uno “stato d’animo” che è poi la Stimmung di un’epoca intera lacerata da guerre, dubbi e insicurezze. Basti qui il breve esempio su come il Dubbio metodico, quale procedimento critico di vaglio e analisi di tutta la realtà, irrompe tra le chiacchiere:

“Io parlavo del dubbio…
Il dubbio nel pensiero è la traccia rovente
che indica la via. È il buco stretto
in cui cacci la testa per passare…”
“Nei casi dubbi, sono le vacche tutte grigie.
Dove niente è più certo, le parole non quadrano,
devo, signore – affidarmi al mio fiuto?”
“Nei casi dubbi – tienti al dubbio, che ti dà
E ti toglie, ti toglie e dà da sé sostegno.
Dimenticati Euclide. Ad Archimede tienti,
al suo punto di leva, da cui anche un infante
col pollice potrebbe scardinare fin il globo terrestre”.
“Voi intendete nei casi dubbi…” “Hai già capito:
uno solo ti aiuta – il figlio di tua madre”.

“È di me che parlate?” “te ne stavi un po’ curvo,
e adesso balzi indietro, ergo lo senti che di te si tratta”.
“Sono i dubbi, signore. Mi si girano dentro…”

Sempre sulla linea di congiunzione immaginale neve-bianco-letto il poema si conclude a Stoccolma alla corte della regina Cristina trent’anni più tardi con il moribondo Cartesio nel suo giaciglio di sofferenza, con un “blocchetto di ghiaccio / premuto sulla fronte”. Il letto dove aveva trascorso metà della vita, dato che era solito alzarsi a mezzogiorno, e dove in una gelida giornata del 1649 muore di polmonite. Dato per scaduto il tempo dell’Epica quale forma rappresentativa di una visione unitaria del mondo (tanto che un personaggio del Dottor Živago esclama che “perfino nel Faust c’è qualcosa di mortalmente insopportabile e artificioso… L’uomo d’oggi… quando è assalito dagli interrogativi dell’universo, si immerge nella fisica, e non negli esametri di Esiodo”), sembra utile riconsiderare le osservazioni di Šklovskij sulla ri-funzionalizzazione dei modelli letterari.

SKLOWSKIJ VIKTOR

Viktor Sklovskij

Oggi un modello di poema epico risponde in parte a quella “nostalgia per la cultura mondiale” individuata da Brodskij, e la poesia, “essenza della cultura del mondo”, è vocata ad essere Cantiere dell’Utopia come quello della Basilica di San Francesco in Assisi dove sono stati archiviati e assemblati 300.000 frammenti della volta di Giotto dopo il terremoto del 1997. Non solo conservazione, custodia e salvaguardia della civiltà umanistica, ma anche attività esegetica, ripensamento mito-poietico dei dati inerti della tradizione con il recupero dei frammenti storici alla grande visione, come quella ad esempio di un Cartesio razionalista, matematico e filosofo e insieme poeta e uomo che sogna. E, nel rivalutare l’importanza delle visioni e dei sogni nella genesi del suo pensiero, vivificarne la figura liberandola dalla rigidità museale della Storia. Inoltre, come Grünbein dichiarò tempo fa in un’intervista, è ora che la poesia si riposizioni al punto di congiunzione di filosofia e scienza superando il suo fondamentalismo antiscientifico. È ora per la poesia di ripartire dalla grande lezione di Lucrezio e di Dante.

della neve

Der Schnee von heute

Monsieur, wacht auf. Es hat geschneit die ganze Nacht.
Soweit das Auge reicht auf einer weißen Fläche,
Schmückt sich das Land mit weißen Kegeln. Es sind Bäume,
Die mit der Winterhand der große Arrangeur
Veredelt hat. Man sagt, Ihr schätzt ihn, seinen Spieltrieb,
Der Türmen Hauben aufsetzt und die Dächer deckt
Mit kalten Daunen. Sein Kristallenes Flanell,
Gewebt aus Flocken, polstert faltenlos die Fluren aus,
Bis alle Welt verzaubert ist und tief verschneit –
Ein Foliant mit weißen Seiten, die nur er beschreibt.

Seht Ihr, es tagt. Spurlose Frühe, geometrisch klar.
Kühl wie am Morgen nach der Schöpfung, formenstreng,
Zeigt sich die Erde nun, berechenbar. Was möglich ist,
Nicht wa durch Sintflut, Ackerbau und Kleinstaatkrieg
Verheerend wirklich wurde, liegt nun ausgebreitet.
Besänftigt lädt, was irgend denkbar ist, zum Studium ein.
Schnee hat den Bann gebrochen. Das Diktat der Zeit –
Habt Ihr bemerkt, ist aufgehoben. Unter frischen Wehen
Kroch eine Gleichung in die Hügel. Rein als Raum,
Dreht sich die Landschaft auf den Rücken wie im Traum.

Wacht auf, Monsieur. Auch wenn es scheint, ein Federbett
Sei wie die Wunderwelt dort draußen – nur im Kleinen.
Zum Greifen nah, leicht überschaubar. Eine Projektion
Im Maßstab Eins zu Tausend, nimmt man die Region,
In der Euch Winter traf und einspann wie die Raupe.
Heraus aus dem Kokon! Kommt, werft die Decken ab,
Wenn auch ihr Faltenwurf an Berg und Tal erinnert –
Dazwischen Gänsepfade, überm Knie ein ferner Hügel…
Was früh den Blick trübt, nachts ihn bricht, ist kein Gestirn.
Ein Futteral ists, weich gepolstert, für das müde Hirn.

Es hat geschneit. Seht, vor dem Haus, die weiße Pracht.
Bringt Euern Leib, das feine Instrument, in Position.
Haltet den Atem an ein Weilchen. Adjustiert genau,
Was zum Verorten so geschaffen ist wie kein Sextant –
Dies Sehwerkzeug mit seinen Linsen. Merkt Ihr was?
Auch das Gerät, das uns zur Orientierung dient im Raum,
Ist nur ein Körper, für den Euklids Regeln gelten.
Aus Protein gemacht, doch nach der Art von Glas –
Nichts was zerbricht, und doch im Sog der Erdenschwere,
Folgt es, verletzbar, wenn auch Ding, der Brechungslehre.

Lacht nicht, Monsieur. Ihr kennt so gut als jeder Physicus
Die beiden Wunderkugeln. Wetten, mit Sezierbesteck
Habt Ihr die Äpfelchen zerteilt, die feinen Nervenstränge,
Verzweigt im Eiweiß rings wie vor dem Fenster draußen
Das Wurzelwerk der Bäume unterm frischen Schnee.
Weit mehr gewußt habt Ihr als jeder schnöde Anatom
Von Iris und Pupille, Meister Metaphysicus.
Kein Augenarzt – ein Philosoph betrat das dünne Eis
Zuerst mit der vertrackten Frage: Was heißt Sehn?
Que sais-je? Vielleicht hilft Schnee ja, Perzeption verstehn.

Schnee abstrahiert. Nehmt an, er hat das Bett gemacht
Für die Vernunft. Er hat die Wege eingeschläfert,
Auf denen der Gedankengang sich sonst verirrte.
Die Landschaft gleicht der Schiefertafel, blankgewischt,
Gekippt um neunzig Grad. Im Winterlicht erstrahlt
Die reinste Kammer lucida. Durchs Guckloch geht
Der Sehstrahl scharf zum Horizont und kommt zurück.
Kein Hindernis, kein Zickzackpfad, nur Perspektiven.
Vom Frost geputzt der Zeichentisch – ein idealer Boden
Für den Discours, Monsieur. Allez! Für die Methode.

Nun steht schon auf. Die Sonne wartet nicht auf Euch.
Erhebt Euch aus zerwühlten Laken, eh die Herrlichkeit
Zerschmilzt und Dreck die Sicht Euch trübt wie immer.
Neuschnee ist kostbar wie die großen Diamanten,
Für die man Kriege führt und tauscht Provinzen.
Ein Juwelier, der Schnee. Er modelliert, wohin er fällt.
Er rundet auf und ab und übersetzt in schöne Kurven,
Wofür Physik dann, schwalbenflink, die Formel findet.
Monsieur, bedenkt, was Euch entgeht, verliert Ihr Zeit.
Für Euch hat es, für Euch, die ganze Nacht geschneit.

La neve di oggi

Destatevi, Monsieur. Tutta notte che nevica.
Fin dove arriva l’occhio è bianca la pianura,
è tutta un cono bianco. Sono gli alberi
che il grande arrangiatore con invernale mano ha ingentilito.
Voi apprezzate, dicono, lui e il suo umore ludico
che incappuccia le torri, che gelidi piumini
adagia sopra i tetti. Flanella di cristallo,
una liscia imbottita sopra i campi,
finché la neve è alta e il mondo un incantesimo –
pagine di un in-folio su cui lui solo scrive.

Guardate, si fa giorno. Un intatto mattino. Geometrie.
Algida come all’alba del creato, e severa
di forme è ora la terra, calcolabile, e accedi
a quel che lei sarebbe senza devastazioni,
guerre fra staterelli, diluvi e agricoltura.
Placato ogni pensiero, un invito a studiare.
Infranto l’anatema, anche il diktat del tempo
con la neve è sospeso. Sotto nuove dune
nei colli si è insinuata un’equazione. Il paesaggio
si è girato sul dorso, come in sogno.

Destatevi, Monsieur. Non è un letto di piume
Pari al prodigio fuori, o solo in piccolo.
A portata di mano e dello sguardo,
in scala uno a mille, si prende la regione
dove state incastrato come un bruco d’inverno.
Su, fuori da quel bozzolo! Buttate le coperte,
che fanno pieghe come monti e valli,
fra sentieri per oche, e il ginocchio è un colle…
Vi offuscano il mattino, acciecano la notte
non stelle ma un astuccio, molle di dentro, per cervelli stanchi.

Neve davanti a casa. Bianca magnificenza.
Portate in posizione lo strumento finissimo del corpo.
Trattenete il respiro per un po’. Regolatelo,
per fare il punto è meglio di un sestante –
strumento per vedere con le lenti. Lo notate?
L’attrezzo che ci orienta nello spazio
è anch’esso un corpo e sottostà ad Euclide.
Fatto di proteine ma pur simile al vetro –
Non lo spezza risucchio di gravità terrestre,
vulnerabile cosa, segue però le leggi della rifrazione.

Non ridete, Monsieur. Voi come tanti fisici
Conoscete, scommetto, i due stupendi globi.
Nelle meluzze avete messo il bisturi,
in rami e nervature dell’albume, simili alle radici
degli alberi là fuori, sotto la neve fresca.
Più d’ogni sciocco anatomo sapete cos’è l’iride
e la pupilla, maestro metafisico.
Sul ghiaccio fragile s’avventurò il filosofo –
Non l’oculista. Irta domanda: e vedere cos’è?
Que sais-je? Forse la neve aiuta- a capire cos’è la percezione.

La neve astrae. Come se avesse fatto alla ragione il letto
e addormentato tutte quelle strade
su cui il pensiero prima si smarriva.
Lavagna ripulita è il paesaggio,
inclinata di 90 gradi. Nella luce d’inverno ecco risplende
la camera purissima, la lucida. Per il foro arriva
il raggio della vista all’orizzonte e torna senz’ intralcio,
non a zigzag, soltanto prospettive.
Tavolo da disegno spolverato dal gelo – un terreno ideale
Per il Discours, Monsieur. Allez! Avanti il metodo.

Ora alzatevi dunque. Il sole non vi aspetta.
Uscite dal groviglio dei lenzuoli prima che lo splendore
si squagli e sporco offuschi, come fa sempre, l’occhio.
La neve fresca vale quanto i grossi diamanti
Per cui si fanno guerre, si scambiano province.
La neve è un gioielliere. Dove cade modella.
Qua e là arrotonda, traduce in belle curve
Per cui l’agile fisica trova a volo le formule.
Monsieur, cosa vi sfugge se state a perder tempo.
Per voi, per voi tutta la notte ha nevicato

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale (2004); Carte Sanitarie (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi, a cura di Lidia Ravera (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo “Le invisibili” (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie, tra le quali Rosso da camera. Versi erotici delle poetesse italiane (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

11 commenti

Archiviato in Poesia tedesca del Novecento, scrittura poetica, Senza categoria

POESIE SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO o DELL’IDENTITA’ (ovvero, il poeta allo specchio) – Poesie di Kikuo Takano (1927-1998) “Lo specchio”, “In me” – Poesie di Bertolt Brecht (1898-1956) “Scacciato per buone ragioni”, “A coloro che verranno”

hopkins Autoritratto

john hopkins Autoritratto

 (È esteso l’invito a tutti i lettori del blog ad inviare proprie poesie alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com sul tema dell’Autoritratto o del Poeta e lo specchio, ovvero, sul tema dell’Identità)

 È stato detto che l’autoritratto è il genere artistico egemone della nostra epoca, il più diffuso, ma anche il più problematico. Antonio Sagredo preferisce la dizione «Il poeta e lo specchio», ma lui intende lo specchio deformante, la figura che il poeta vede allo specchio è un Altro, ma è mediante l’immagine allo specchio che noi ci riconosciamo. Il problema dunque del «poeta e lo specchio» è quello della identità. Possiamo dire che una larghissima parte della attuale produzione letteraria del Novecento e contemporanea (romanzo e poesia) appartiene al genere dell’autoritratto, diretto o indiretto, consapevole o meno. È un genere per sua essenza altamente problematico perché ci pone in rapporto con l’Altro, perché nell’Autoritratto l’Io diventa l’Altro. Scrive Lévinas: «Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità».

Jacques Lacan afferma che lo scatto fotografico costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. Secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità.

L’autoritratto però non è l’equivalente di un’esperienza allo specchio, è molto di più, è un gesto che ci porta fuori di noi  stessi, che ci costringe a fare i conti con il «mondo» e con l’Altro.

Mediante l’autoritratto ci vediamo dall’esterno, ci poniamo dal punto di vista di uno spettatore che osserva il ritratto, solo che quello spettatore siamo noi stessi. Osserviamo l’autoritratto, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci. Ma si tratta di una pratica innocente e puerile, in realtà è proprio mediante l’autoritratto che non ci riconosciamo del tutto nella figura rappresentata. E ci chiediamo stupiti: «ma quello lì, sono proprio io?». Nella misura in cui non ci riconosciamo del tutto, il ritratto sarà più vero. Oggi, grazie alla  tecnologia digitale siamo in grado di farci uno scatto e di rivederci immediatamente, ma non si tratta di un vero e proprio autoritratto, il selfie è un gioco rassicurante che porta al nostro riconoscimento, alla pacificazione con noi stessi. Attraverso il selfie ci sentiamo pacificati e protetti. Qui parliamo di altro, di autoritratto come costruzione della nostra identità, che è sempre una identità sociale, storica, temporale, stilistica. L’autoritratto è il mezzo artistico che ci rappresenta meglio di altri tra la verità e la menzogna, che ci rivela il codice del destino. I migliori autoritratti, quelli più veri, ci parlano d’altro piuttosto che di noi stessi, parlano esplicitamente di ciò che sta fuori di noi e del nostro rapporto con il mondo. Quanto più ci parlano di altro tanto più l’autoritratto sarà genuino, vero.

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell'isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano

 Kikuo Takano nato a Sado nel 1927 muore nel 1998, laureato all’università di Utsunomiya. L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da Ryuichi Tamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo.

In me

In me c’è qualcosa di rotto.
Sono come l’orologio che si ferma
poco dopo averlo caricato,
come il piatto incrinato che non torna
nuovo se anche
lo incolli con cura.

In me c’è qualcosa di schiacciato.
Sono come il tubetto di dentifricio
quando nulla ne esce
se anche lo premi,
come la pallina da ping-pong ammaccata
che non può tenere più in gioco
nemmeno un buon giocatore.

Ci sono oggetti distrutti e schiacciati
dal principio, senza motivo, in me:
l’ombrello che non sta aperto, il violino
fuori uso e i sandali coi cinturini rotti,
il rubinetto intasato, il flauto
sfiatato, la lampada consumata.

Eppure non mi perdo d’animo,
l’ira non mi trascina, né mi tormento
come una volta, anzi mi auguro
di potermi riempire
di quelle cose inutili,
restando distrutto e schiacciato,
in questo trovando il mio orgoglio.

Lo specchio

Che oggetto triste
hanno inventato gli uomini!
Chiunque si specchia
sta di fronte a se stesso
e chi pone la domanda
è, al tempo stesso, l’interrogato.
Per entrare più a fondo
l’uomo deve fare il contrario,
allontanarsi.

(da L’infiammata assenza Edizioni del Leone, 2005 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore)

Bertolt Breht  LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

Bertolt Breht LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

Berthold Brecht (che poi semplificò il suo nome in Bertolt) nacque ad Augusta, in Baviera, nel 1898 da una famiglia discretamente agiata, della borghesia industriale.
Nel 1917 si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Monaco, ma poi passò a quella di medicina perché era più facile, per uno studente di quel corso, evitare il servizio militare. Proprio in quegli anni pubblicò poesie e opere teatrali. Nel 1922 riscosse un discreto successo con Tamburi nella notte e nello stesso anno si sposò con l’attrice Marianne Zoff. Nel 1924 si trasferì a Berlino e nel ’27, fallito il primo matrimonio, si sposò con un’altra attrice, Helen Weigel, da cui ebbe due figli. A Berlino si affermò come drammaturgo e fece amicizia e collaborò con molti musicisti del tempi come Kurt Weil e Paul Hindemith.
All’avvento del nazismo al potere, nel 1933, Brecht con la famiglia dalla Germania in volontario esilio: andò in Danimarca e vi rimase fino al 1939, manifestando idee comuniste, anche se non si iscrisse mai al partito. Alla vigilia della seconda guerra mondiale dalla Danimarca passò in Svezia e di qui in Finlandia e in Russia per approdare, infine, negli Stati Uniti d’America dove si stabilì in California, a Santa Monica, fino al 1946 vivendo quasi totalmente isolato. Sospettato di attività antiamericane, nel 1948 rientrò in Europa e si stabilì a Berlino Est dove, malgrado il suo professato comunismo, fu guardato con sospetto per le sue posizioni polemiche e per il suo individualismo. Tuttavia le sue opere erano rappresentate ovunque e proprio a Berlino egli organizzò la compagnia teatrale Deutsches Ensemble (1949) che divenne ampiamente famosa in tutta Europa. Brecht morì a Berlino nell’agosto 1956 per infarto cardiaco.

La Raccolta Steffin di Brecht comprende poesie composte fra il 1937 e il 1940).

 

Bertolt Brecht

 Scacciato per buone ragioni

Io son cresciuto figlio
di benestanti. I miei genitori mi hanno
messo un colletto ed educato
nelle abitudini di chi è servito
e istruito nell’arte di dare ordini. Però
quando fui adulto e mi guardai intorno
non mi piacque la gente della mia classe,
né dare ordini né esser servito.
E io lasciai la mia classe e feci lega
con la gente del basso ceto.

Così hanno allevato un traditore, istruito
nelle loro arti; e costui
li tradisce al nemico.

Sì, dico in giro i loro segreti. In mezzo al popolo
sto e spiego
come ingannano, quelli, e predico quel che verrà, perché io
sono introdotto nei loro piani.
Il latino dei loro preti venali
lo traduco parola per parola in lingua volgare, dove
si rivela un imbroglio. La bilancia della loro giustizia
la tiro giù e mostro
i falsi pesi. E le loro spie riferiscono
che siedo con i depredati quando
tramano la rivolta.

Essi m’han diffidato e m’hanno tolto
quel che col mio lavoro ho guadagnato. E quando non mi sono emendato
mi hanno dato la caccia; ma
ormai in casa mia
soltanto scritti c’erano, che svelavano
le loro trame contro il popolo. Così
m’han perseguito con un mandato di cattura
che mi imputa una mentalità degradata, cioè
la mentalità dei degradati.

Dove giungo, sono uno marcato a fuoco
per tutti i possidenti; ma i nullatenenti
leggono il mandato di cattura e
mi concedono un rifugio. Quelli, io sento
dire allora, per scacciarti avevano
buone ragioni.

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno ... (B. Brecht)

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno … (B. Brecht)

A coloro che verranno

Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha ancora ricevuta.

Quali tempi sono questi quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto
perché su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici
che sono nell’angoscia?

È vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che faccio m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri, sono perduto.)

“Mangia e bevi, – Mi dicono: – E sii contento di averne”
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
Eppure mangio e bevo.

Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tema trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!

II

Nelle città venni al tempo del disordine
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte
e mi ribellai insieme a loro.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me; o lo speravo.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

III

Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.

Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.

Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa la voce roca. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.

(1939)
(da Poesie di Svendborg (1939) Traduzione di Franco Fortini, Einaudi, 1976)

 

9 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, Il poeta e lo specchio, l'Identità in poesia, Poesia giapponese moderna, Poesia tedesca del Novecento