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 RICORDANDO UMBERTO ECO: Il Gruppo 63, quarant’anni dopo  [Prolusione tenuta a Bologna per il Quarantennale del Gruppo 63, 8.5..2003. 1 Eco Gruppo 63, 2003] da www.umbertoeco.it

umberto eco4

Crediamo che il miglior modo per onorare la personalità umana e intellettuale di Umberto Eco, scomparso il 19 febbraio 2016, sia quello di dargli la parola:

Riunirsi non vent’anni ma quarant’anni dopo può avere due funzioni, o profili. Una è la riunione dei nostalgici di una monarchia, che si ritrovano perché vorrebbero che il tempo tornasse indietro. L’altro è la riunione dei vecchi compagni della terza A, nel corso della quale è bello rievocare il tempo perduto proprio perché si sa che non ritornerà più: nessuno pensa che si voglia tornare indietro, semplicemente si sta recitando il proprio longtemps je me suis couché de bonne heure, e ciascuno assapora nei discorsi degli altri la propria madeleine inzuppata nell’infuso di tiglio.

Spero che questo nostro ritrovarci abbia più del simposio tra vecchi compagni di classe che del complotto di vandeani nostalgici, con un solo correttivo. Che ci si riunisce anche per riflettere su di un momento della cultura italiana, rileggendolo col senno di poi, per capire meglio che cosa sia avvenuto, e perché, e per aiutare i più giovani, che non c’erano, a comprenderlo meglio. Nella fattispecie, poiché non sapevo in anticipo chi avrei trovato in questa sala, ho pensato ad alcune annotazioni sull’ambiente culturale di quarant’anni fa, dirette principalmente a chi non c’era,e non a a tutti i sopravvissuti che ritrovo con grande piacere ma che, come era d’uso allora, mi contesteranno che tutto quanto avrò detto era sbagliato.

Riandiamo dunque alle origini, e poiché parliamo qui a Bologna, nel ricordo ancora indimenticabile di Luciano Anceschi, ricordiamo che in principio era il Verri.

Il verri

Mi ricordo benissimo di quel maggio 1956 in cui Anceschi mi ha telefonato. Lo conoscevo di fama. Che cosa poteva sapere lui di me? Che da meno di un anno e mezzo mi ero laureato a Torino in estetica, che vivevo ormai a Milano e stavo frequentando giovani poeti come Luciano Erba e Bartolo Cattafi, che vedevo Paci e Formaggio, che avevo pubblicato poche cose su riviste quasi clandestine? Mi ha dato appuntamento in un bar del centro. Voleva solo scambiare delle idee. Stava per iniziare una rivista e non stava cercando nomi famosi (li aveva già), cercava di mettere insieme dei giovani, non necessariamente suoi allievi, gente diversa, e voleva che parlassero tra loro. Gli avevano detto che c’era un giovanotto di ventiquattro anni con interessi che potevano incuriosire anche lui, e andava ad arruolarlo.

Rievocavo anni fa l’episodio, durante la celebrazione funebre di Anceschi, qui all’Archiginnasio, con Fausto Curi, e gli domandavo: “Ma uno di noi, oggi, con tutte le grane che ha già, gli dicono che c’è in città un giovane che si è laureato in un’altra università, andremmo a cercarlo per fargli fare qualcosa?” Curi mi aveva risposto: “Ma ci barricheremmo in casa staccando il telefono!” Forse non ci barrichiamo sempre, almeno spero. Ma certo Anceschi non si barricava mai.

Anceschi mi introdusse ai misteri del Blu Bar di Piazza Meda. Era un bar del centro, piuttosto anonimo, ma aveva una saletta nel retro, e tutti i sabati verso le sei arrivavano dei signori che si sedevano a chiacchierare di letteratura, prendendo un tè o un aperitivo: erano Montale, Gatto, Sereni, Ferrata, Dorfles, Paci, qualche scrittore di passaggio a Milano, e Carlo Bo dominava la scena coi suoi silenzi omerici. Certe sere quella saletta faceva pensare alle Giubbe Rosse. Contrabbandati da Anceschi, abbiamo iniziato ad arrivarvi noi giovanissimi. Ricordo quelle serate come occasioni epiche, e il dialogo generazionale non è stato infruttifero, almeno per noi. In un certo modo, però abbiamo contribuito a una lenta trasformazione di clima, ci passavamo le poesie dei futuri Novissimi, Glauco Cambon ci dava in lettura i dattiloscritti dei suoi primi saggi joyciani per Aut-Aut, Giuseppe Guglielmi ci leggeva i versi che poi avrebbe pubblicato sul primo Verri, dove rievocava una lei che recava su un piatto di Sèvres “anifructus brunito per la cena”. Il Verri stava per pubblicare una poesia che parlava di merda, sia pure con accenti arcaici.

Anceschi mi prendeva sottobraccio e mi diceva: “Eco, veda un poco che cosa si può fare per questo ragazzo, il Balestrini. Ha ingegno, ma è pigro. Bisogna spingerlo a qualche attività, magari in una casa editrice.” Alcuni anni dopo, scoppiata la gran cagnara del Gruppo 63, Anceschi mi prendeva sottobraccio e mi diceva: “Eco, veda un poco che cosa si può fare con il Balestrini. Forse bisognerebbe frenarlo un poco…” Ma si vedeva che godeva dei frutti della sua seminagione, e viaggiava sornione tra le generazioni.

Sto riguardandomi l’indice del primo numero del Verri, del 1956 (insieme alla filiforme e austera grafica di Michele Provinciali): poesie di Giuseppe Guglielmi e Luciano Erba, antologia di poeti americani tradotti da Rizzardi, saggi di Gorlier, Cambon, Giuliani, Barberi Squarotti, Pestalozza, e poi i giovanissimi come Barilli. I collaboratori si muovevano tra gli interessi di Linea Lombarda e quelli dei futuri Novissimi. I poeti che si recensivano erano Dylan Thomas, Pound, Montale (ma Sanguineti, estrema avanguardia post-poundiana, si occupava di Dante, Inferno I-III). Però, attenzione rispettosa alle Storie Ferraresi di Bassani, un omaggio di Anceschi a Gargiulo, uno scritto di Fausto Curi su Govoni…

Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo

umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

Il secondo numero ha un saggio di Montale su Gozzano, un René Wellek sul realismo (era appena uscita dal Mulino la traduzione di Teoria della letteratura di Wellek e Warren), un saggio di Cambon sul teatro di Wallace Stevens. Poesie di Cattafi e Giuliani, un racconto di Lalla Romano. Luciano Erba cura una antologia di nuovi poeti francesi, tra cui figura il giovane Yves Bonnefoy. Frattanto è uscito a Varese, per i tipi di un editore Magenta (o forse a Magenta per i tipi di Varese) il libro di un altro giovane, Laborintus, e ne dà notizia critica Giuliani. Squarotti recensisce e Leonetti e Zolla narratori, un giovane Melandri recensisce un libro di Borrello sull’estetica dell’esistenzialismo, Enzo Paci recensisce Perinetti, e io scopro di aver recensito il primo numero de Le surréalisme, même, diretto da Breton.

Nel numero 4, insieme a un saggio estetico di Holthusen, poesie di Sereni e di Balestrini (e dunque due generazioni accanto), un’antologia di nuovi (o quasi) poeti tedeschi, Paul Celan, Höllerer, Ingeborg Bachmann. Giuliani recensisce Luzi e Le Ceneri di Gramsci di Pasolini, Curi recensisce Bo e Bo recensisce Ranuccio Bianchi Bandinelli, l’occhio del cinema di Pietro Bianchi è presentato da un misterioso A.A. E, visto che la recensionicina inizia con un accenno alle teorie di quegli anni “cervellotiche e talvolta repellenti, per lo più finite male”, e termina in forma di elenco, assai snobistico, di registi definiti come “incantevoli predilezioni”, ebbene qui si sente la zampa dell’esordiente e ancora contenuto Arbasino Alberto.

Tra il 1958 e il 1959 appaiono antologizzati i giovani poeti russi e spagnoli, racconti di Pontiggia, Buzzi, Calvino, poesie di Vollaro, Risi, Cacciatore, Pasolini, Antonio Porta che si firma ancora Leo Paolazzi. La rivista della pressante neoavanguardia accoglie con rispetto il Gattopardo e Una vita violenta a opera di Barberi Squarotti, ma apre nel 1959 il discorso sul Nouveau Roman a opera di Barilli e con testi di Robbe-Grillet.

Accanto a questa girandola di scoperte e – questa volta è il caso di dirlo – di anticipazioni sul “nuovo che avanza”, il Verri lancia sguardi pacati alla storia, e non disegna di tenere un piede nell’accademia, con un saggio di Teodorico Moretti Costanzi su Plotino, nel numero 2, mentre il secondo numero del 1958 è dedicata al barocco (con saggi di Bottari, Getto, Raimondi – ma il tema è troppo vasto e verrà ripreso nel numero 6 del 1959). Anche i poeti, che appaiono come nuovissimi, si chiamano Théodore Agrippa d’Aubigné o Jean de Sponde, e le prose sono di Giordano Bruno.

Quindi, letture classiche sugli ultimi contemporanei e letture contemporanee sui classici, senza badar molto alle distinzioni di genere; uno sguardo equilibrato sia ai fremiti della nascente neoavanguardia, sia alle prove di scrittori già assestati; uno sguardo sulla cultura mondiale che rende fa del Verri, la cui linea lombarda si estende oltre le valli svizzere, una gaia econtinua gita a Chiasso di arbasiniana memoria. E, soprattutto in queste pagine i giovani recensivano i loro coetanei, e i più anziani recensivano i più giovani, o viceversa, alla sola insegna della curiosità, senza distinzioni di rango accademico – e questo era fenomeno importante per quei tempi.

La rilettura degli indici potrebbe continuare, ma mi arresterei al primo sintomatico numero 1 del 1960, un anno prima dell’apparizione, nella biblioteca de Il Verri, della antologia dei Novissimi. Anceschi nell’intervento d’apertura saluta il quarto anno, lascia capire che è venuto il momento di portare avanti la ricerca, e apre un dibattito di voci discordi. Ma ospita con ben altro rilievo un cahier de doléances di Barilli, in cui si regolano i conti con Cassola, Pasolini e Testori, un saggio di Gugliemi in cui naturalmente si apre a Gadda, si salva Calvino, ma si conclude che Moravia e Pratolini s’intestardiscono a fare gli uomini di qualità. E a contrassegnare la decisione, per il futuro, di evitare di mancar di rispetto, un saggio di Arbasino s’intitola “I nipotini dell’ingegnere e il Gatto di casa De Feo”.

SPETT.UMBERTO ECO A NAPOLI(SUD FOTO SERGIO SIANO)

Umberto Eco

Una nuova vis polemica batte alle porte. Il Verri accenna felicemente a squilibrarsi, Anceschi rompe i ponti, evidentemente disposto a pagare lo scotto. E consentitiemi una nota personale. Avevo cominciato da qualche numero a pubblicare sul Verri alcuni pastiches nella rubrica intitolata “Diario Minimo”, testi miei e altrui, alternati da piccole citazioni, brani curiosi. Nel primo numero del 1960 scopro che l’idea di un’isola posta sul 180° parallelo (poi diventata venticinque anni dopo il tema del mio terzo romanzo) già doveva ronzarmi per la testa, perché cito gli allora novissimi versi di una canzone di San Remo (“E’ mezzanotte, quasi per tutti…”) e intitolo: Fusi Orari. Quindi trascrivo due brani. Il primo è dalla Critica del giudizio di Kant: “Inoltre alla musica è propria quasi una mancanza di urbanità, specialmente per la proprietà, che hanno i suoi strumenti, di estendere la loro azione (sul vicinato) al di là di quel che si desidera… Il che non fanno le altre arti che parlano alla vista, bastando che si rivolgano gli occhi altrove, quando non si vuol dar adito alla loro impressione. E’ presso a poco come del piacere che dà un odore che si spande lontano: Colui che tira fuori dalla tasca il fazzoletto profumato, tratta quelli che gli sono intorno contro la loro volontà e, se vogliono respirare, li obbliga nello steso tempo a godere”.

Subito dopo, quasi ad avvisare che non erano solo gli antichi a dir coglionate, ecco un brano da una lettera di Joyce a Frank Budgen: “Osservo un furtivo tentativo di contrapporre un certo signor Marcel Proust di quaggiù al firmatario della presente. Ho letto qualche pagina di costui. Non riesco a vedervi alcun talento particolare.” Decisamente, il Verri stava avviandosi a non rispettare più nessuno.

Il clima

Ma non bisogna dimenticare quello che stava avvenendo nelle altre arti. Non dirò dei pittori, che poi ci siamo ritrovati accanto alle prime riunioni del Gruppo 63, da Perilli a Novelli, da Franco Angeli a Fabio Mauri. Vorrei piuttosto ricordare quanto stava avenendo nell’ambiente musicale.

A Milano, ancora nel 1956, veniva fischiato Schönberg alla scala. Alla prima di Passaggio, con musica di Berio e testo di Edoardo Sanguineti, nel 1962: il pubblico era così inviperito che, per condannare questa cosa nuova e atroce, aveva gridato: «centro-sinistra!». Roberto Leydi, recentemente scomparso, che non è mai stato arruolato nel gruppo 63 ma viveva le vicende della nuova musica insieme alla riscoperta di quella dei tempi andati, ricordava che una volta, in non so quale occasione, lui e Berio erano stati accolti dal grido “andate in Russia!” Per fortuna non ci sono andati perché, con l’aria che vi tirava allora, sarebbero finiti in un gulag. Ma per il pubblico di quegli anni il nuovo era comunista. Dove si vede che le cose non sono tanto cambiate nel giro degli ultimi quarant’anni, ovvero che nel regno della malafede vige una legge dell’eterno ritorno.

C’era alla Rai di Milano, non ancora di Bossi, lo Studio di Fonologia musicale, diretto da Luciano Berio e Bruno Maderna, dove passavano smanettare con i nuovi strumenti elettronici Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Henry Pousseur ed altri. Sul finire degli anni cinquanta Luciano Berio aveva pubblicato i pochi numeri di Incontri Musicali, dove si è verificato il primo confronto tra teoria della Neue Musik e linguistica strutturale, con una polemica tra Pousseur e Nicolas Ruwet – e dagli articoli pubblicati in quella sede è nato nel 1962 il mio Opera Aperta. D’altra parte è stato proprio che in alcune serate musicali organizzate da Boulez a Parigi, verso la fine dei cinquanta ho incontrato Roland Barthes.

Al Laboratorio di Fonologia era arrivato anche John Cage, le cui partiture (a metà tra arte visiva e insulto alla musica) erano state pubblicate sull’Almanacco Bompiani 1962, decicato alle applicazioni dei calcolatori elettronici alle arti – e vi appariva la prima poesia composta da un computer, il Tape Mark I di Nanni Balestrini. Cage aveva composto a Milano il suo Fontana Mix, ma nessuno ricorda perché si chiamasse così. Cage era stato messo a pensione presso una signora Fontana, era un bellissimo uomo, la signora Fontana era molto più matura di lui e cercava dei pretesti per possederlo in fondo al corridoio. Cage, che notoriamente aveva tutt’altre tendenze, resisteva stoicamente. Alla fine aveva intitolato la sua composizione alla signora Fontana. Poi, rimasto senza un soldo, via Berio e Roberto Leydi, era approdato a Lascia e raddoppia come esperto sui funghi, eseguendo sul palcoscenico improbabili concerti per frullino, radio e altri elettrodomestici, mentre Mike Buongiorno domandava se quello era futurismo. Si stavano creando misteriose connessioni tra avanguardia e comunicazioni di massa, e molto prima della Pop Art.

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Roma, 1960 Pier Paolo Pasolini con Italo Calvino al Caffe’ Rosati in piazza del Popolo

Per continuare con gli eventi di quegli anni ricordo che nel 1960 esce finalmente in Italia lo Ulisse di Joyce, ma prima ancora, proprio con Berio, Roberto Leydi e Roberto Sanesi si componeva un evento musicale basato sulle onomatopee del capitolo 11 dell’opera, Omaggio a Joyce. Se dovessimo definirlo oggi, era un tentativo di capire i significati lavorando sui significanti, ovvero un omaggio al linguaggio come chiave per capire il mondo.

Nel 1962 Bruno Munari organizza nella Galleria a Milano la prima mostra di arte cinetica e programmata, e di opere moltiplicate, con i contributi di Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi e Grazia Varisco, del Gruppo N, di Enzo Mari e dello stesso Munari.

Voglio dire che il Gruppo 63 non nasce nel vuoto, né nel vuoto era apparsa l’antologia dei Novissimi coi testi di Sanguineti, Pagliarani, Giuliani, Porta e Balestrini.

In altra sede ho cercato di mostrare come molti di quei fermenti fossero espressione di un “illuminismo padano”, e non per caso Anceschi aveva scelto il nome di Verri per il titolo della sua rivista. Il Verri nasceva in quella Milano in cui durante la guerra le edizioni Rosa e Ballo avevanoi fatto conoscere i testi di Brecht, Yeats, gli espressionisti tedeschi e il primo Joyce, mentre da Torino Frassinelli ci aveva fatto conoscere e Melville, e il Portrait joyciano, e Kafka. Naturalmente termini come padano o lombardo hanno valore simbolico, perché a questo clima avevano appartenuto prima il sardo Gramsci e poi il siciliano Vittorini, e non sarà per caspo che la prima riunione del Gruppo 63 avvenga a Palermo nel corso di un festival musicale e teatrale di ampia apertura europea. Ma parlo di illuminismo padano perché l’ambiente culturale in cui nasceva il Gruppo 63 si caratterizzava per un rifiuto della cultura crociana, e dunque meridionale: era l’ambiente dei Banfi, del napoletano ormai torinese Abbagnano, dei Geymonat e dei Paci. Era l’ambiente in cui si scopriva il neopositivismo, si leggevano Pound ed Eliot, dove Bompiani nella collana Idee Nuove pubblicava tutto quello che nei decenni precedenti non era apparso nelle copertine floreali della Gius. Laterza e figli, dove il Mulino ci faceva conoscere teorie critiche ignorate sino ad allora, dai formalisti russi al New Criticism attraverso Wellek e Warren, l’ambiente dell’Einaudi, della Feltrinelli e poi del Saggiatore, che traducevano Husserl, Merleau Ponty o Wittgenstein, l’ambiente i cui si leggeva Gadda e si iniziava a riscorire uno Svevo di cui sino ad allora si diceva che scrivesse male, l’ambiente i cui Giovanni Getto leggeva il Paradiso dantesco avvicinandoci a una poesia dell’intelligenza che non era stata compresa appieno da un De Sanctis ancora legato a una poesia delle umane passioni.

edoardo sanguineti interno

edoardo sanguineti

Nel triangolo Torino-Milano–Bologna fiorivano i primi approcci alle teorie strutturalistiche. Si noti che, benché in seguito qualcuno abbia parlato di un matrimonio tra avanguardia e strutturalismo, la notizia è falsa. Quasi nessuno nel giro del Gruppo 63 si occupava di strutturalismo, che caso mai era praticato dai filologi pavesi e torinesi, come Maria Corti, Cesare Segre, D’Arco Soilvio Avalle, e i due filoni marciavano per così dire indipendenti (l’unica eccezione ero forse io). Ma questi incroci creavano un clima.

Mi ricordo che Eugenio Scalfari, che mi aveva invitato a collaborare all’Espresso nel 1965, mi diceva all’inizio, quando recensivo Lévi-Strauss, di non dimenticare che stavo scrivendo per un pubblico di avvocati crociani meridionali. Quello era il clima anche del pensiero più laicamente aperto alla novità, ma io rispondevo a Scalfari, che peraltro mi lasciava fare, che i lettori dell’Espresso erano ormai i nipoti di quegli avvocati crociani, leggevano Barthes o Pound, e si costituivano in scuola di Palermo.

E non bisogna dimenticare quale fosse allora l’ossatura della cultura marxista. Per i grandi dibattiti “ufficiali” sulle arti essa si allineava ai dettami del realismo socialista sovietico – e di lì le scomuniche ad autori pure vicini al PC che apparivano peccare vuoi di romanticismo di ritorno vuoi di qualche altra perversione, e non sto parlando di autori d’avanguardia ma del Pratolini di Metello o del Visconti di Senso, per non dire ovviamente del gelo di fronte ai film di Antonioni, che in parte assolto perché si suggeriva che mettesse in scena, sia pure sotto forma di drammi privati, l’alienazione del mondo capitalistico. Ma in effetti la formazione culturale dei marxisti italiani era ancora fondamentalmente crociana e idealistica.

Per capire questo clima occorre pensare agli sforzi fatti da Vittorini, peraltro già eretico sin dai tempi del Politecnico (titolo che ancora una volta richiamava l’illuminismo lombardo di Cattaneo) quando nel 1962 ha operato la svolta storica del Menabò 5. Nel 1961 Vittorini aveva dedicato il Menabò 4 alla letteratura industriale, intendendo col termine gli scrittori che si occupavano della nuova realtà dell’industria (da due anni Ottieri aveva pubblicato nei Gettoni il suo bellissimo Donnarumma all’assalto e sul Mebabò 4 pubblicava un “Taccuino industriale”). Nel Menabò 2 del 1960 Vittorini aveva già pubblicato “La ragazza Carla” di Pagliarani, poi pezzo forte dell’antologia dei Novissimi. Con il suo solito fiuto aveva deciso di dedicare il Menabò 5 a un nuovo modo di intendere l’espressione “letteratura e industria”, focalizzando l’attenzione critica non sul tema industriale ma sulle nuove tendenze stilistiche in un mondo dominato dalla tecnologia.. Era un coraggioso passaggio dal neorealismo (dove valevano i contenuti sopra lo stile) a una ricerca sullo stile dei tempi nuovi, ed ecco che dopo un mio lungo saggio “Sul modo di formare come impegno sulla realtà” apparivano prove narrative oltraggiosissime di Edoardo Sanguineti, Nani Filippini e Furio Colombo. Vi appariva un saggio, apprentemente polemico, ma sostanzialmente complice, di Italo Calvino (“La sfida al labirinto”), che allora mi aveva detto: “Scusa, ma Vittorini [e dietro a Vittorini stava la cultura marxista dell’epoca, da cui egli si era liberato ma alla quale in fin dei conti doveva ancora rendere conto] mi ha chiesto di stendere un cordone sanitario.” Caro e amabile Calvino che in futuro avrebbe incrociato i suoi destini con quelli dei sentieri che si biforcano e con gli sperimentalismi dell’Oulipo.

Insomma, rispetto al mondo della cultura marxista i nuovi scrittori, che ritenevano che l’impegno stesse nel linguaggio e non nella tematica politicizzata, erano visti come mosche cocchiere del neocapitalismo, e non contava che tra di loro vi fossero alcuni, come per esempio Sanguineti, esplicitamente schierati a sinistra.

Incontro con Italo Calvino

italo calvino

Le contestazioni

Capire questo ambiente – e l’urto che si creava tra Gruppo 63 e altri settori della cultura italiana – serve a decifrare anche una serie di reazioni spesso furiose e di appassionate contestazioni. Per riandare solo a ricordi personali, nel 1962 Opera aperta (che pure, vi ricordo, parlava di Joyce e Mallarmé e persino di Brecht, e non della merda d’artista di Piero Manzoni), e poi il numero 6 di Menabò, se avevano suscitato consensi o feconda polemica “dal di dentro” da parte di Eugenio Battisti, Elio Pagliarani, Filiberto Menna, Walter Mauro, Emilio Garroni, Bruno Zevi, Glauco Cambon, Angelo Guglielmi, Renato Barilli, e – strenuamente e intelligentemente polemico – Gianni Scalia, aveva subito dal di fuori attacchi feroci. Aldo Rossi su Paese Sera scriveva: “dite a quel giovane saggista che apre e chiude le opere, quasi fossero usci, giochi di carte o governi a sinistra, che andrà a finire in cattedra e che i suoi alunni, imparando a tenersi informati su decine di riviste, diventeranno così bravi da voler prendere il suo posto” (il che per fortuna fu mirabile profezia, e non ho mai capito perché i miei alunni non dovessero leggere decine di riviste). L’Unità per la firma di Velso Mucci parlava di ritorno al decadentismo, L’osservatore romano a firma Fortunato Pasqualino si chiedeva perché gli scrittori si stessero mai cacciando nel sottobosco della critica scientifica e filosofica e si votassero ad assurdi dilemmi extra-estetici. Su Filmcritica, allora di ispirazione paleomarxista, prova ne sia che ne era nume tutaleare il futuro missino Armando Plebe, si parlava di “opera aperta come opera assurda” Sull’Espresso, allora testata degli ultimi crociani abbarbicati all’intuizione lirica come gli ultimi giapponesi sulle isole del Pacifico dopo la fine della guerra, Vittorio Saltini si domandava con Machado (innocente) come mai “le più potenti perversioni del gusto avranno sempre dei soliti avvocati che difendano le loro maggiori stravaganze”. Rinascita, sia pure a insaputa del più prudente autore, Luigi Pestalozza, intitolava la sua recensione come “L’opera aperta musicale e i sofismi di Umberto Eco”. Paese Sera Libri condannava le improbabili esercitazioni sul linguaggio, Walter Pedullà sull’Avanti rilevava come “Eco stia a sostegno di pochi inesperti e modestissimi narratori d’avanguardia”.

Per non dire di quando nel 1963 ho pubblicato due articoli su Rinascita, per invito dell’indimenticabile e apertissmo Mario Spinella, per richiamare la cultura allora di sinistra a una attenta considerazione delle nuove letterature, degli studi sulle comunicazioni di massa. Apriti cielo. Solo Alberto Asor Rosa in Mondo Nuovo del novembre 62 ha prestato orecchio all’appello. La risposta più virulenta era arrivata da Rinascita, e pazienza che fosse da parte di di Rossana Rossanda, che non è mai riuscita in vita sua a cambiare una sola idea, ma è curioso che tra i più severi critici da parte marxista apparissero Massimo Pini, oggi AN, e un saggio in due puntate di un giovane marxista francese, secondo il quale cercare di mettere insieme strutturalismo e marxismo era impresa disperata e troppo neocapitalistica. Si chiamava Louis Althusser e queste cose le ha pubblicate su Rinascita 1963, due anni prima di scrivere Pour Marx e Lire le Capital. Bei tempi.

Nel corso di tutte queste vicende Montale seguiva in tono preoccupato gli eventi, che non riusciva ad accettare, ma ad essi dedicava numerosi articoli sul Corriere, come uno che s’interroghi – caso amirevole considerando la sua età e la sua storia.

eugenio montale 2La societa’ letteraria italiana

Dopo di che è stato quasi per forza di cose che un giorno Balestrini (e non so se fossi il primo con cui ne parlava, ma eravamo in una tavola calda vicino a Brera), mi ha detto che il momento era venuto di ispirarsi al Gruppo 47 tedesco, e di riunire tante persone che vivevano di una temperie comune, per leggersi a vicenda i propri testi, ciascuno parlando male anzitutto dell’altro – poi, se avanzava tempo, degli altri, quelli che secondo noi intendevano la letteratura come “consolazione” e non come provocazione. Mi ricordo che Balestrini mi avea detto “faremo morire di rabbia un sacco di gente”. Ebbene sembrava una spacconata, ma ha funzionato.

Perché il Gruppo 63 che si riuniva a Palermo senza, all’inizio, strombazzare troppo l’iniziativa, e – se ci pensiamo bene – facendosi i fatti suoi, doveva fare arrabbiare tanta gente?

Per capire questa storia occorre fare un passo indietro a ricordare cosa fosse la società letteraria italiana (indipendentemente dalle posizioni ideologiche) verso la fine degli anni cinquanta. Si trattava di una società che era vissuta in difesa e in muto sostegno, isolata dal contesto sociale, e per ovvie ragioni. C’era una dittatura, gli scrittori che non si allineavano col regime – dico che non si allineavano quanto a scelte stilistiche, indipendentemente dalle convinzioni e persino dalle viltà politiche di molti – erano a mala pena tollerati. Si riunivanmo in caffè umbratili, parlavano tra loro e scrivevano per un pubblico da tiratura limitata. Vivevano male, e si aiutavano a vicenda per trovare una traduzione, una collaborazione editoriale mal pagata. Era stato ingiusto, forse, Arbasino, a domandarsi perchè non avessero mai fatto una gita a Chiasso, dove avrebbero potuto trovare tutta la letteratura europea. Magari attraverso spalloni, ma Pavese aveva pur letto Moby Dick, Montale Billy Budd, e Vittorini gli autori che aveva pubblicato in Americana. Ma, se da dentro riuscivano a ricevere tutto, o molto, essi non potevano andare fuori.

Debbo raccontare un episodio personale, e mi scuso, ma in quel caso ho avuto come una rivelazione. Dunque, nel 1963 il Times Literary Supplement aveva deciso di dedicare una serie di numeri , nel settembre 1963, a “The critical moment”, ovvero a un panorama delle nuove tendenze della critica. Sono stato invitato a partecipare, e come me erano stati invitiati Roland Barthes, Raymond Picard, che poi sarebbe diventao il suo arcinemico, George Steiner, René Wellek, Harry Levin, Emil Steiger, Damaso Alonso, Jan Kott e altri. Figurarsi il mio orgoglio, all’età di trent’anni essere messo in tale insigne compagnia, quando nessuno dei miei testi era ancora stato tradotto in inglese. Credo di averlo detto a mia moglie, per mostrarle che non aveva sposato proprio l’ultimo degli imbecilli, e poi ho taciuto.

Sta di fatto che l’altro italiano invitato era Emilio Cecchi, dico Emilio Cecchi, uno dei più illustri studiosi di letteratura anglo-americana. Nessuno era più degno di lui di essere incluso in quella lista. Ebbene, Emilio Cecchi, onusto di lauri accademici, considerato all’epoca l’unico che potesse competere con Mario Praz per il titolo di massimo anglista italiano, in occasione di quell’evento ha scritto due articoli sul Corriere della Sera, uno per dire che era in opera quella raccolta, uno per recensirla appena uscita.

Che cosa vuole dire questo? Che un uomo come Emilio Cecchi, dopo anni di dittatura e di guerra, trovava finalmente ascolto nel mondo anglosassone, e ne era giustamente fiero. Io, per quanto mi riguardava, ritenevo perfettamente normale che gli inglesi mi avessero letto in italiano nel 1962 e mi chiedessero un intervento nel 1963. Per la mia generazione, il mondo si era allargato. Non andavamo a Chiasso, ma a Parigi e a Londra in aereo.

Eugenio Montale upupaSi era verificato uno scarto drammatico tra noi e la generazione precedente, che ha dovuto sopravvivere sotto il fascismo, perdere gli anni più belli nella resistenza, o nelle squadre di Salò. Noi, quelli nati intorno agli anni trenta, siamo stati una generazione fortunata.. I nostri fratelli maggiori sono stati distrutti dalle guerra, se non sono morti si sono laurerati con dieci anni di ritardo, alcuni di essi non sono riusciti a capire che cosa fosse il fascismo, altri lo hanno imparato a proprie spese faticosamente nei Guf. Noi siamo arrivati alla liberazione e alla rinascita del paese che avevamo chi dieci, chi quattordici, chi quindici anni. Vergini. Consapevoli abbastanza per aver capito quello che era accaduto prima, innocenti abbastanza perché non avevamo avuto il tempo di comprometterci. Noi siamo stati una generazione che ha iniziato a entrare nell’età adulta quando tutte le opportunità erano aperte, ed eravamo pronti a ogni rischio, mentre i nostri maggiori erano ancora abituati a proteggersi l’uno con l’altro.

Agli inizi qualcuno aveva parlato del Gruppo 63 come di un movimento di giovani turchi che cercavano con azioni provocatorie di dare la scalata alle roccaforti del potere culturale. Ma se qualcosa distingueva la neo-avanguardia da quella d’inizio secolo, era che noi non eravamo dei bohémien che vivevano in soffitta e cercavano disperatamente di pubblicare le loro posia nel giornaletto locale. Ciascuno di noi, a trent’anni, aveva già pubblicato uno o due libri, era ormai inserito in quella che si chiamava allora l’industria culturale, e con mansioni direttive, chi nelle case editrici, chi nel giornali, chi nella Rai. In questo senso il Gruppo 63 è stato l’espressione di una generazione che non si ribellava dal di fuori bensì dal di dentro.

Non è stata una polemica contro l’establishment, è stata una rivolta dall’interno dell’establishment, un fenomeno certamente nuovo rispetto alle avanguardie storiche. Se è vero che gli avanguardisti storici erano incendiari che morivano poi da pompieri, il Gruppo 63 è stato un movimento nato nella caserma dei pompieri, dove poi alcuni sono finiti incendiari. Il gruppo esprimeva una forma di gaiezza, e ciò faceva soffrire lo scrittore che per definizione si voleva sofferente.

bello diabolik ed Eva Kant

diabolik particolare di Eva Kant R. Lichtenstein

Rivoluzione nelle forme

La cosiddetta neo-avanguardia del Gruppo 63 irritava la cultura che allora si diceva impegnata (fondata, lo abbiamo visto, su un connubio tra poetica del realismo socialista e marx-crocianesimo, ircocervo, a pensarci bene oggi, assai curioso, una sorta di Casa delle Libertà culturale in cui potevano convivere fieri reazionari (almeno dal punto di vista letterario) e impegnati socialisti, paleo-idealisti e materialisti vuoi storici che dialettici. Il Gruppo 63 non pareva credere al gesto rivoluzionario, fosse pure quello dei futuristi che scandalizzavano i buoni borghesi al Salone Margherita. Aveva ormai capito che i gesti rivoluzionari, nella nuova società dei consumi, andavano a colpire una conservazione così duttile e smaliziata da far proprio ogni elemento di disturbo, e fagocitare ogni proposta di eversione immettendola in un circolo dell’accettazione e della mercificazione. L’eversione artistica non poteva più assimilarsi all’eversione politica. E quindi la neo-avanguardia, ponendosi come progetto di eversione dal di dentro, tentava di aggiustare il tiro, di spostare la polemica su obiettivi più radicali, difficilmente immunizzabili, di cambiare i tempi e le tecniche di guerra e soprattutto di anticipare o provocare, attraverso le soluzioni dell’arte, una visione diversa della società in cui si muoveva.

La vocazione profonda della cosiddetta neo-avanguardia era stata individuata bene da Angelo Guglielmi, nel 1964, nel suo Avanguardia e sperimentalismo. Se l’avanguardia era sempre stata movimento di rottura violenta, diverso era lo sperimentalismo, per cui se i futuristi, i dadaisti, i surrealisti erano stati avanguardia, scrittori sperimentali erano stati invece Proust, Eliot o Joyce. E certamente la maggior parte dei convenuti al convegno di Palermo 1963 stavano più dalla parte dello sperimentalismo che da quello dell’avanguardia.

Per questo, a proposito della prima riunione di Palermo, avevo parlato di una Generazione di Nettuno, opposta alla Generazione di Vulcano, e avevo coniato l’espressione di “avanguardia in vagone letto” (malignamente pensando a Mussolini, che non aveva preso parte alla marcia su Roma e aveva raggiunto appunto in vagone letto, il giorno dopo, i suoi plotoni, ben sapendo che la marcia contava assai poco, visto che il re era d’accordo, e un parlamento democratico lo si scalza a poco a poco dal di dentro e non prendendo una Bastiglia ormai vuota).

L’accostamento era sarcastico, ma serviva a polemizzare con chi si stava ancora immaginando i neo-avanguardisti come truppa d’assalto al palazzo d’inverno del potere letterario. Voleva dire che sapevamo benissimo che avrebbero rifiutato di metterci in prigione, e non valeva la pena di farsi eroiche illusioni. Al gesto rivoluzionario si voleva sostituire la lenta sperimentazione, alla rivolta la filologia. Scrivevo allora:

Al gesto che chiarifica tutto in un colpo (la mia posizione e quella degli altri) succede la proposta che al momento non chiarisce ancora nulla, … solo si sa che la direzione è buona, e a lunga scadenza i semi che si stanno gettando daranno un frutto insospettato. Per il momento, nel corso della fase mediana, anche il lavoro che si fa entrerà a far parte del gioco (nulla ne esce): ma intanto grazie a questo lavoro si sta configurando un nuovo modo di vedere le cose, di parlare delle cose, di individuare le cose per agirvi. Non c’è alibi eroico che, al momento, dia giustificazione di sorta. Si sta come, nella taverna, Jenny dei Pirati : un giorno verrà una nave, e Jenny schioccherà le dita e farà cadere le teste. Ma per intanto Jenny lava i piatti e rifà i letti. Intanto scruta nel volto gli avventori, ne mima i gesti, il modo di bere il vino… preme la mano sui guanciali per rifare forme delle teste che vi si sono posate. In ogni suo gesto … si cela un progetto, un esperimento di gesti diversi. E non è detto che Jenny faccia solo questo: già sin d’ora potrà intrattenere un carteggio segreto con la Tortuga, a tarda notte muovere la lampada davanti ai vetri della sua stanza per segnalare i movimenti degli avventori; e darà rifugio sotto il suo letto ai compagni braccati. Ma questo farà come un’altra Jenny, che non è la Jenny della locanda, con la sua funzione tecnica precisa, lavare i piatti e rifare i letti. Come son fatti i piatti ? Di quale legno i letti? E c’è una relazione tra il legno e la forma dei letti, e la natura degli avventori? Cosa di questo sarà ricuperabile il giorno dello sbarco? Jenny perciò non fa rivoluzioni, nel suo mestiere. Fa della filologia. Ma il gesto sperimentale non potrà attardarsi su se stesso – nella sequenza delle ricerche successive non si perderà di vista il fine? Nulla di piu facile. Di quì la necessità di un controllo reciproco, di una discussione, non ad opera finita, ma mentre l’opera si fa. I gesti di ciascuno sono così diversi che solo confrontandoli fase per fase se ne potranno individuare le direzioni comuni o complementari. La generazione ha capito che, poiché la verifica non è più data dallo scandalo effettivo di ogni singola proposta; non rimane che la verifica comune, l’incontro e il. controllo delle triangolazioni. Certo, nulla piu dell’effusione lirica individuale sfugge a ogni triangolazione: segno che la generazione non crede all’effusione lirica. E se con essa si identifica la poesia, ebbene, sia chiaro che la generazione non crede neppure alla poesia. Evidentemente crede a qualcos’altro. Forse non ne conosce neppure ancora il nome.

Alberto Moravia esistenzialismo

Alberto Moravia scrittore dell’esistenzialismo

Immaginatevi se l’estetica del realismo socialista poteva vedere con favore simili affermazioni. Ma quello che ancor più aveva irritato la società letteraria non era stata la posizione che diremmo “politica” del Gruppo. Era stata una diversa disposizione al dialogo e al confronto. Ho parlato di una società letteraria confinata nei propri luoghi deputati, e impegnata per ragioni storiche di sopravvivenza a proteggere i propri membri e a mantenere intatto l’unico suo capitale, la idea sacrale del poeta e dell’uomo di cultura. Era una generazione che poteva conoscere il dissenso, ma lo consumava attraverso un mutuo ignorarsi delle varie conventicole, e preferiva la malignità sussurrata al bar alla stroncatura su un pubblico elzeviro. Per così dire era una generazione abituata a lavare i panni sporchi in famiglia (se ne distinguevano solo i marxisti, per tradizione inclini alla polemica e all’attacco, ma anche in quei casi, tranne che venissero messi in causa i canoni di un’estetica di partito, il tentativo era piuttosto quello di arruolare compagni di strada, non di respingerli).

Cosa era stato invece messo in scena a Palermo? Intorno a un tavolo un gruppo di poeti, romanzieri, critici (e pittori e musicisti in funzione di auditori) ascoltava alcuni dei presenti che leggevano le loro opere più recenti. Capitoli, pagine, frammenti, esempi, excerpta. Se i presenti costituivano un gruppo, a prima vista pareva fosse per le sole ragioni per cui fu “gruppo” il manipolo di vittime sul ponte di San Luis Rey. Insieme alla squadra del Verri sedevano chi, come Pignotti, veniva da diverse esperienze fiorentine; o come Leonetti, da una linea Officina-Menabò; e vagantes come Ferretti, come Marmori isolato a Parigi, o Amelia Rosselli, a cui sarebbero poi toccati padrini che a Palermo non c’erano.

E anche tra i collaboratori del Verri già esistevano divergenze di opinioni venute in chiaro in quei giorni, prefìguratesi già da tempo, acuitesi in seguito. La valutazione che Sanguineti e Barilli davano del marxismo era, a esempio, difforme. Sui problemi dell’opera aperta la posizione di Guglielmi era lontana dalla mia. Sarebbe stato difficile trovare analogie di poetica tra il fiume verbale della Rosselli e la precisione brechtiana di Pagliarani. Sull’atteggiamento emotivo verso i dati della realtà tecnologica contemporanea Balestrini e Pignotti, pur così diversi tra loro, si erano trovati di fronte all’opposizione radicale di Sanguineti. E poi, basta mettere di fronte una pagina di Balestrini e una di Manganelli per domandarsi, con qualche buona ragione, che cosa avessero in comune quei due curiosi individui.

Eppure le persone convenute a Palermo erano accomunate sia da una volontà di sperimentazione che da una esigenza di dialogo rissoso, senza pietà e senza infingimenti. Gli scrittori si leggevano a vicenda i loro testi ma, dato che c’erano fratture originarie, nessuna lettura fatta riscuoteva il consenso generale. Non ci si dichiarava perplessi: ci si diceva contro. E si diceva il perché. Quali fossero i perché non conta. Conta che in questa società letteraria l’unità si stava realizzando a poco a poco attraverso due implicite assunzioni di metodo: I) ogni autore sentiva necessario controllare la sua ricerca sottoponendola alle reazioni altrui; 2) la collaborazione si manifestava come assenza di pietà e di indulgenza. Correvano definizioni da levare la pelle agli animi troppo sensibili. Espresso pubblicamente nell’ambito di una società letteraria apollinea, ciascuno di questi giudizi avrebbe segnato la fine di una bella amicizia. A Palermo il dissenso generava invece amicizia.

Ripellino-Bosco

Angelo Maria Ripellino a Praga

Mi ero reso conto che il gruppo esisteva, solo giorni dopo, parlandone con un letterato di altra generazione. Cercavo di dimostrargli che a Palermo non si era costituito un movimento omogeneo. Alle tre accuse: “Vi rimprovero di avere fatto gruppo. Di averlo fatto su base generazionale. Di averlo fatto in opposizione a qualcuno e a qualcosa”, facevo osservare che era tipico di ogni epoca il costituirsi di correnti, che spesso il denominatore comune era su base generazionale (si licet, Sturm und Drang, Scapigliatura, Die Brűcke o Ronda), e opponevo comunque l’argomento conciliante e definitivo: lui stesso, se avesse voluto, avrebbe potuto venire a Palermo, sedere a quel tavolo, leggere il. suo testo più recente; e sarebbe stato accolto col rispetto e la stima dovuta all’autore, e la franchezza dovuta a quegli oggetti di esercizio critico che sono le opere. Risposta: “Io non sarei mai venuto a Palermo. Non accetto di sottoporre ad altri un lavoro in fieri. Lo scrittore realizza se stesso solo davanti alla pagina bianca, e in quella si conclude, realizzandola.” Cosa rispondere ?

Questo era stato il messaggio offensivo lanciato dal gruppo e, a rileggere le razioni di allora, c’è da rimanere sconcertati di fronte alle ripulse, le proteste, i barricamenti difensivi. Anzi, oserei dire che la fortuna del Gruppo, la sua visibilità massmediatica, è stata dovuta ai suoi avversari.

Rimane tipica la faccenda delle Liale 63. Era stato Sanguineti, mi pare, a dire che Cassola e Bassani erano le Liale 1963. Battuta che ora ritengo ingiusta almeno rispetto a Bassani, senza dimenticare che all’epoca accanito denigratore del Giardino dei Finzi-Contini era proprio Vittorini. Ma insomma, se la battuta fosse stata lasciata cadere, o avesse circolato come una delle tante boutades messe in giro in Piazza del Popolo o in Via Veneto da Flaiano o Mazzacurati, saremmoi rimasti all’aneddoto a circolazione orale. Invece fu proprio Bassani, evidentemente impreparato al gioco provocatorio dell’invettiva e uso a ben altra, come si diceva allora, civiltà letteraria, a scatenare un’accorata polemica su Paese Sera, contribuendo ad allargare lo scandalo a macchia d’olio.

D’altra parte, qualche anno dopo gli amici fiorentini, con la complicità mia e di Camilla Cederna, avevano organizzato un Premio Fata, da opporre al Premio Strega, e da essere conferito al libro più brutto dell’anno. Niente più di una idea goliardica, e la giuria aveva fatto apposta ad assegnarlo a Pasolini. E Pasolini, polemista così combattivo e per tanti versi attento alle nuove provocazioni culturali, non aveva resistito e – sapendo che il premio sarebbe stato assegnato a lui – aveva inviato per la sera della premiazione una lettera in cui spiegava perché il verdetto fosse ingiusto.

Come si vede, non si può negare una componente goliardica a tente provocazioni del gruppo, ma il gruppo andava a finire sulle pagine dei giornali non per le sue imprese da studente beffardo, bensì per le reazioni scandalizzate dei presidi colpiti dalla beffa.

Passati poi i primi e poco eroici furori, le opposizioni alla neo-avanguardia hanno preso un’altra strada: non si parlava più di monellacci insolenti, ma si diceva che il gruppo esprimeva molte belle teorie e nessuna opera valida. Questa contestazione dura ancora adesso, ma si avvale di un delizioso argomento che definirò del carciofo. Quando il tempo ha fatto giustizia e si è scoperto, da parte della critica ufficiale, che Porta era un grande poeta, Germano Lombardi o Emilio Tadini grandi romanzieri, Manganelli un altissimo prosatore o, per parlare di chi è stato assolto ancora in vita, non si è potuto negare (e faccio solo due esempi senza pretendere di esaurire l’elenco) il talento di Arbasino o di Malerba, allora si è detto: ”Sì, ma costoro non appartenevano di fatto al gruppo, erano soltanto di passaggio.” Ora è ovvio che, se io denigro il cinema americano e, quando qualcuno mi cita Orson Welles o John Ford, Humphrey Bogart o Bette Davis, e via dicendo, a ogni nome io rispondo che però quelli non erano veramente americani nel senso più profondo del termine, alla fine del gioco, tolte via via le varie parti del carciofo, il cinema americano si riduce a Gianni e Pinotto e io ho vinto la partita. Ma così si è fatto e ancora si sta facendo su varie gazzette.

foto donna mascherataRimettersi in causa

Certamente, come in tutti i cenacoli d’avanguardia, si è spinta talora la polemica e la sperimentazione all’eccesso, basti pensare al gusto dell’illeggibilità. Però ritengo sia stata una stagione produttiva, in cui in ogni caso si è concimato molto. Ma soprattutto non ès stata una stagione dogmatica, nel senso che nel corso degli anni (e questo certamente sconcertava ancor più gli avversari) attraverso le sue varie riunioni il Gruppo sapeva rimettere in questione le idee dell’inizio.

A questo proposito vorrei ricordare la riunione del Gruppo del 1965, due anni dopo. Vorrei ricordare la relazione iniziale di Renato Barilli, già teorico di tutti gli sperimentalismi del Nouveau Roman, che si trovava a quel punto a fare i conti col nuovo Robbe Grillet, e con Grass, e con Pynchon, e citava il riscoperto Roussel, che amava Verne. Diceva Barilli che sino ad allora si era privilegiata la fine dell’intreccio, e il blocco dell’azione nell’epifania e nell’estasi materialistica, ma che stava iniziando una nuova fase della narrativa con la rivalutazione dell’azione, sia pure di una azione autre. In quei giorni era stato proiettato un curioso collage cinematografico di Baruchello e Grifi, Verifica incerta, una storia fatta con spezzoni di storie, anzi di situazioni standard, di topoi del cinema commerciale. E si era visto che il pubblico aveva reagito con maggior piacere proprio nei punti in cui, sino a pochi anni prima, avrebbe dato segni di scandalo, e cioè dove le conseguenze logiche e temporali dell’azione tradizionale venivano eluse e le attese apparivano violentemente frustrate. L’avanguardia stava diventando tradizione, ciò che appariva dissonante qualche anno prima diventava miele per le orecchie (o per gli occhi). L’inaccettabilità del messaggio non era più criterio principe per una narrativa (e per qualsiasi arte) sperimentale, visto che l’inaccettabile era ormai codificato come piacevole. Ma quello che attirava nel lavoro di Baruchello e Grifi era la rivisitazione ironica e critica di un piacevole filmico che veniva rivalutato nello stesso istante in cui veniva messo in crisi.

In quei giorni a Palermo 1965 era stata discussa, senza ancora saperlo, la insorgente poetica del post-moderno, solo che all’epoca il termine non circolava ancora.

Sin dal 1962 un musicista severamente seriale come Henry Pousseur, parlando dei Beatles, mi diceva “essi lavorano per noi”, ed io gli rispondevo che anche lui stava lavorando per loro (e in quegli anni Cathy Berberian ci mostrava che i Beatles potevano essere eseguiti in uno stile alla Purcell).

Dall’interno del Gruppo si avvertiva che, se la sperimentazione precedente aveva portato alla tela bianca, alla scena vuota, o (e credo che sia stato il prodotto estremo del primo Gruppo 63) nel 1968 Gian Pio Torricelli pubblicava da Lerici Coazione a contare, in cui per una cinquantina di pagine apparivano stampati in lettere alfabetiche, l’uno appresso all’altro e senza virgole, i numeri da uno a cinquemilacentotrentadue – se a questo si era giunti, finiva allora un’epoca e doveva incominciarne un’altra.

Un’epoca in cui Balestrini passava dal collage di parole a un collage di situazioni sociopolitiche, Sanguineti non abbandonava del tutto la Palus Putredinis dei primi anni cinquanta ma si avventurava nel 1963 con Capriccio italiano e nel 1967 con Il Gioco dell’oca in territori di più affabile narratività, e potrei continuare con altre citazioni.

foto le gambe sbagliate

foto le gambe sbagliate

La contraddizione e il suicidio

Quale è stata la contraddizione fondamentale del Gruppo 63? Ho detto che, non potendo rifare la scelta innocente delle avanguardie storiche, la maggior parte dei partecipanti al Gruppo praticavano un più sotterraneo sperimentalismo letterario, e non a caso loro nume tutelare non erano dadaisti o futuristi ma Gadda. E tuttavia nella stessa definizione di neo-avanguardia, che non ricordo più se fosse stata appioppata dall’esterno o venisse dall’interno, o arrivata dall’esterno fosse stata accettata con ilare serenità – giocava ancora i richiamo alle avanguardie storiche. Ora c’è una differenza sostanziale tra movimenti di avanguardia e letteratura sperimentale, ameno quanta ce ne poteva essere tra Boccioni e Joyce.

Renato Poggioli nella sua Teoria dell’arte d’avanguardia aveva bene fissato le caratteristiche di questi movimenti. Erano: attivismo (fascino dell’avventura, gratuità del fine), antagonismo (si agisce contro qualcosa o qualcuno), nichilismo (si fa tabula rasa dei valori tradizionali), culto della giovinezza (la querelle des ancien set des modernes), ludicità (arte come gioco), prevalenza della poetica sull’opera, autopropaganda (violenta imposizione del proprio modello a esclusione di tutti gli altri), rivoluzionarismo e terrorismo (in senso culturale) e infine agonismo, nel senso di senso agonico dell’olocausto, capacità di suicidio al momento giusto, e gusto della propria catastrofe.

Invece lo sperimentalismo è devozione all’opera singola. L’avanguardia agita una poetica, rinunciando per amor suo alle opere, e produce piuttosto manifesti, mentre lo sperimentalismo produce l’opera e solo da essa estrae o permette poi che si estragga una poetica. Lo sperimentalismo tende a una provocazione interna al circuito dell’intertestualità, l’avanguardia a una provocazione esterna, nel corpo sociale. Quando Piero Manzoni produceva una tela bianca faceva dello sperimentalismo, quando vendeva ai musei una scatoletta con merda d’artista faceva della provocazione avanguardistica.

Ora nel Gruppo 63 sono convissute le due anime, ed è ovvio che l’anima avanguardistica abbia prevalso nel creare la sua immagine massmediatica. Se i testi sperimentali, a dispetto di tante contestazione, ancora rimangono, i gesti avanguardistici non potevano che vivere una breve stagione.

Il momento in cui il Gruppo 63 ha scelto definitivamente la via dell’avanguardia è stato paradossalmente quello in cui ritornava, dallo sperimentalismo sul linguaggio, all’impegno pubblico e politico. E’ stata la stagione di Quindici, che ha visto drammatiche conversioni all’utopia sessantottesca, o sofferte resistenze, e alla fine ha portato la rivista (e indirettamente, con essa, il Gruppo) a un deliberato suicidio – proprio nel senso dell’agonismo di Poggioli. Nella catastrofe stoicamente voluta di Quindici sono venute ovviamente allo scoperto divisioni che esistevano sin dall’inizio, ma che erano state superate grazie alla scelta del dialogo reciproco. Confrontandosi con le tensioni immediate di un periodo storico tra i più contradditori e animati, il Gruppo ha deciso che non poteva continuare a fingere un’unità che non c’era all’inizio. Ma questa assenza di unità che aveva fatto la sua forza interna, e la sua energia di provocazione all’esterno, ora ne sanciva il giusto suicidio. Il Gruppo si consegnava, se non alla storia, almeno alle occasioni celebrative di un quarantennio più tardi.

Fu vera gloria? Tutti possono rispondere, meno che noi. Che quel lavoro abbia dato dei frutti, lo credo, e si può creare tradizione ed esempio anche attraverso i propri errori. Soltanto mi spiace che questa riunione sia incompleta e che lungo il cammino siano caduti, tra i più noti, Antonio Porta, Giorgio Manganelli, Enrico Filippini, Emilio Tadini, Adriano Spatola, Corrado Costa, Germano Lombardi, Giancarlo Marmori e, tra quelli che erano stati allora attivi compagni di strada, Amelia Rosselli, Pietro Buttitta, Andrea Barbato, Angelo Maria Ripellino, Franco Lucentini, Giuseppe e Guido Guglielmi, per non dire di Vittorini e Calvino. Che il loro ricordo accompagni questo nostro simposio e gli dia l’unica e ragionevole nota di nostalgia.

 

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UNA RIPROPOSTA: LA POESIA DI CORRADO GOVONI (1884-1965) da “Gli aborti”, 1907– un Commento di Giorgio Linguaglossa con una scelta di poesia “Dove stanno bene i fiori”, “Il cuculo”, “Nel cimitero di Corbetta”, “Villa chiusa nella campagna romana”, “Charlot”, “Arcobaleno”, “Effetto di nebbia”

 

Govoni

Commento di Giorgio Linguaglossa

Corrado Govoni è un «classico» indiscusso del primo Novecento, anzi, uno dei «classici» di tutto il Novecento. La poesia “Dove stanno bene i fiori” è un esempio impareggiabile dell’estro e della magnifica capacità che Govoni ha di spaziare con le metafore e le immagini, con le analogie e i parallelismi, come mai forse nessun altro nel Novecento. È impressionante quell’andare a briglia sciolta da invenzione ad invenzione, da immagine ad immagine, senza dare tregua al lettore, senza blandirlo con soluzioni languide, servizievoli o ammiccanti, obbligandolo a seguirlo nella sua funambolica ascesa alla immaginazione poetica più sbrigliata e libera di tutto il primo Novecento italiano. Sotto questo aspetto, non c’è nessun altro poeta del primo Novecento (con l’eccezione di Palazzeschi) che possa stare al pari della sfrenata libertà metaforica di Govoni; c’è da restare perplessi, meravigliati e smarriti dinanzi alle iperboli funamboliche delle immagini che si susseguono senza tregua.

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Marc Chagall, “Sopra la città”

Sarebbe ora di rileggere con altri occhiali i grandi poeti del primo Novecento. Torniamo a rileggere la poesia a briglia sciolta di Govoni, vediamo con quale strabiliante svolgimento di immagini Govoni tematizza il tema: prende il tema dei “fiori” e ci fa sopra una poesia che ha una straordinaria brillantezza e «trasandatezza» formale. Scrive Mengaldo: «Govoni appresta quel repertorio di oggetti e temi che sarà tipico della sensibilità “crepuscolare” (parola tematica che in lui compare presto), e lo fa in modo straordinariamente elementare, e, per così dire, feticistico”, accompagnandolo con “arpeggi di annoiata chitarra” (Solmi). In realtà Govoni è soprattutto attratto dalla superficie colorata del mondo, dalla varietà infinita dei suoi fenomeni, che registra con golosità inappagabile e fanciullesca, quasi in una volontà di continua identificazione col mondo esterno» (P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. 5). Il giudizio riduttivo di Mengaldo è indicativo della cecità e della ristrettezza di campo concettuale con cui il critico citato guarda alla poesia di Govoni. Mengaldo fa una duplice operazione: dimidia il valore della poesia dei crepuscolari per puntare dritto sulla poesia del primo Montale, quello degli Ossi e quello delle Occasioni, canonizzato quale spina dorsale della poesia del Novecento; inoltre, l’idea guida di Mengaldo ripete il cliché del topos accademico che guarda alla poesia del primo Novecento dal punto di vista della poesia maggioritaria del secondo Novecento. Mengaldo svaluta la prima per rivalutare la seconda; svaluta la libertà sfrenata e gioiosa dei grandi poeti del primo Novecento come Campana, Govoni, Palazzeschi, i futuristi, Lucini, Saba, i crepuscolari, per rivalutare la poesia del pedale basso del Montale di Satura (1971) e della poesia post-montaliana del disimpegno e dell’ironia, della cultura dello scetticismo e del disinganno dinanzi alla invasione della società di massa.

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de Chirico_periodo metafisico

Alla luce degli eventi che hanno punteggiato la poesia italiana in questi ultimi tre quattro decenni, dobbiamo rovesciare come un guanto il giudizio critico di Mengaldo e rivalutare quei poeti che nel primo Novecento hanno corso a briglia sciolta sulle ali di una irrefrenabile aria di libertà creativa (Govoni) e di una estenuata malinconia (i crepuscolari). Occorre riparametrare quella presunta centralità della poesia del secondo Novecento che aveva (ed ha) la sua referenza sociale nella piccola borghesia. Ritengo sia giunto il momento di ribaltare i giudizi (anzi, i pregiudizi) consolidati. Proviamo a rileggere all’incontrario la poesia del primo Novecento. Devo fare un inciso su ciò che ci dice la poesia del minimalismo. Attraverso quella poesia si può leggere, in filigrana, ciò che stava diventando il Paese: una Italia invasa dalla cultura dello scetticismo, dal demagogismo, dal disimpegno assunto a nuova ideologia di massa, dall’ironizzazione scontata e facile, da una cultura che non aveva cognizione di ciò che stava avvenendo, che continuava a fare una narrativa del disincanto, del ritorno al privato, alla cronaca, al quotidiano, al particulare, allo scetticismo. Una cultura celebrativa e inaugurale del Presente fondata sulla digressione e su una sorta bilanciamento e oscillazione tra il quotidiano e il privato. E l’affermarsi di una clericatura di massa dotata di invarianza e di tatticismi e di uno stile cosmopolitico, transpolitico. A questo punto, corre l’obbligo di fare una distinzione tra il correre a briglia sciolta della poesia di un Govoni e di un Palazzeschi del primo Novecento e lo sbocco del Paese nel fascismo: non c’è alcun legame tra le due cose; quello che poi emerse negli anni Trenta è stato il richiamo all’ordine de “La Ronda” che la poesia di Cardarelli in certa misura legittima: il ritorno all’ordine politico e il ritorno all’ordine del testo poetico. Occorre leggere la storia della poesia del Novecento con un’altra lente di ingrandimento. E, direi, anche con altri occhiali. Per tornare all’oggi, è utile e salutifero guardare alle esperienze poetiche del primo Novecento con l’occhio critico di chi abita l’omologismo del post-minimalismo di massa dei nostri giorni.

(da Gli aborti, 1907)

Dove stanno bene i fiori

I ciclami, nei chiostri di marmo.
Le ortensie, nelle rosse Certose.
Le margherite, nei prati.
Le viole, tra le foglie secche
lungo i fossi.
La malva, nelle pentole dei poveri, alle finestre.
Gli oleandri, nei vestiboli dei ricchi.
Le rose, dentro gli orti di campagna.
I tuberosi, nei giardini dei collegi.
Le aquilegie, nei cortili dei castelli antichi.
Le ninfèe, come
bianche lavandaie, sotto i ponti.
Gli edelvai, vicino ai nidi delle aquile.
I convolvoli, nelle siepi delle strade.
I glicini, sui ruderi.
L’edera, come una decorazione verde
intorno agli alberi veterani.
I gigli, sugli altari e in processione.
Le orchidee, simili ad aborti, nei bicchieri.
Le azalèe, nelle chiese protestanti.
Le camelie, nei vasi di maiolica sulle scale.
I narcisi, davanti agli specchi.
I garofani rossi, nella bocca delle amanti.
I crisantemi, sulle tombe e nelle tavole.
I pensè, come maschere curiose alle finestre.
I papaveri, nel frumento.
I begliuomini dai fiori ascellari
simili ad arlecchini, negli orti delle zitelle.
Le violacciocche, lungo i viali delle passeggiate.
I semprevivi, nelle camere dei malati e davanti ai santi.
I gelsomini, alle finestre degli ospedali.
I funghi, nei boschi umidi
nelle travi marcite
e nell’anima mia.

Il cùculo

O cùculo, bel cùculo barbogio
che voli sopra il fresco canepaio ,
cantando il tuo ritornello gaio,
il vecchio ritornello d’orologio:
tu sei la primavera pazzerella,
che si nasconde e canta allegra: – Orsù,
venitemi a pigliar… cucù! cucù!
dietro il frumento che va in botticella.
E quando, dopo un lungo inseguimento,
tu speri d’acciuffarla nel frumento,
ella, che ti spiò e venir ti vide,
eccola là, che canta e ti deride
da un alto pioppo, tremulo d’argento,
che s’alza in fondo al campo di frumento.
O cùculo mio del cùculo vaio
che voli sopra il fresco canepaio.

Nel cimitero di Corbetta 

Povera creatura inutile!
io ti conosco, forse.
Eri una delle tante bambine
ch’io vidi nei cortili delle cascine;
scalza, seduta sul limitare
con la tazza di latte sui ginocchi
e un gran pane di frumentone ai denti
e con le compagne intenta a giocare.
Eri anche bella ed accarezzata
da tutti: quando il male
ti spense in un istante.
Ora t’hanno sepolta e più nessuno
stasera si ricorderà di te.
Tranne tua madre che non dormirà,
sospirerà guardando il tuo lettino
vuoto, accanto alla finestra nera
aperta sulla notte di primavera
pensando ch’eri così piccola …
(…sì, ma il becchino
ha sudato scavandoti la fossa
profonda come la sua vanga!
sì, ma non tanto
che tua madre per te non pianga!)
e che sei qui sotto, sola nella tomba oscura,
e che forse hai paura,
tu ch’eri così piccola
che bastava una lucciola
pendula ad uno stelo a farti lume
lungo la via,
così piccola e leggera
nella tua culla, che bastava a muoverla
l’onda dell’avemaria!
O povera innocente, dormi in pace!
Ché anche tu avrai, come ogni misero,
la tua fresca coroncina
di vetro, che il ragno,
che tesse tesse e non sa nulla,
ti rinnoverà ogni mattina;
e invece del tuo lettino bianco
nella camera nera
sei adagiata in una culla
d’odori di primavera,
e se non senti più la voce della tua mamma
hai l’usignolo che ti canta la ninna nanna.

Villa chiusa 
nella campagna romana

So d’una villa chiusa e abbandonata
da tempo immemorabile, segreta
e chiusa come il cuore d’un poeta
che viva in solitudine forzata.

La circonda una siepe, e par murata,
di amaro bosso, e l’ombra alla pineta
da tanto più non rompe né più inquieta
la ciarliera fontana disseccata.

Tanta è la pace in questa intisichita
villa che sembra quasi ogni cosa
sia veduta attraverso d’una lente.

Solo una ventarola arrugginita
in alto su la torre silenziosa,
che gira, gira interminatamente.

Charlot

Con la tua bombetta all’idrogeno
piena d’uova di pasqua e canarini;
con la tua finanziera rattoppata
che ha nelle tasche i resti dell’aquilone
impiccato al lampione del sobborgo
per rumoroso vertebrato fazzoletto;
con la tua giannettina di rabdomante,
scettro di re in esilio,
bastone del vescovo pazzo,
vincastro del pastore;
con le tue scalcagnate scarpe
buone da far bollire nella pentola
nei giorni della carestia;
pagliaccio schiaffeggiato dai milioni:
girerai sempre l’ironico disco
della luna dei poveri
col tuo tacco di eterno vagabondo,
usignolo fischiato dal silenzio,
sull’ipocrita cuore del mondo.

Arcobaleno 

È cessato or ora il temporale
e il prato odora
di menta glaciale.
È un immenso fruscio di pioggia
che sgocciola lenta lenta
lungo i tremuli fili d’erba,
dalle ciglia rosee dei fiori.
Laggiù il cielo sereno
è il grande innaffiatoio di smalto azzurro
col manico variopinto dell’arcobaleno.

Effetto di nebbia

Nella nebbia luminosa del mattino
la casa dolcemente indietreggia e s’appanna;
si piegan sullo stelo, nel giardino,
dolci fiori di spuma e di panna.

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Durs Grünbein, “Della neve ovvero Cartesio in Germania”: Durs Grünbein e il poema epico nella post-storia. (Traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, 2005). Commento di Letizia Leone

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Durs Grünbein nasce a Dresda nel 1962 e vive a Roma dal 2013. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra quali il premio della città di Marburg (1992), il premio Büchner (1995), il Premio Pasolini (2006). Membro dell’Accademia Tedesca per la Lingua e la Poesia (1995) e dell’Accademia delle Arti di Berlino-Brandeburgo (1999), è autore di numerosi volumi di poesia e saggistica: A metà partita: poesie 1988-1999, traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 1999; Il primo anno. Appunti berlinesi, traduzione di Franco Stelzer, Einaudi, Torino 2004; Della neve ovvero Cartesio in Germania, traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 2005; Infanzia in diorama, traduzione di Silvia Ruzzenenti, in “Comunicare – Letterature Lingue” N. 7, 2007, Il Mulino, Bologna, pp. 241-249; Strofe per dopodomani e altre poesie, a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 2011; Il consiglio dei gamberi e altre passeggiate sott’acqua, traduzione di Silvia Ruzzenenti, in “Prosa saggistica di area tedesca”, a cura di G. Cantarutti e W. Adam, Il Mulino, Collana “Scorciatoie”, Bologna 2011, pp. 17-50; La strada per Bornholm (racconto presente in “La notte in cui cadde il muro”, a cura di Renatus Deckert, traduzione di Valentina Freschi, Scritturapura Editore, Collana Paprika, Asti 2009).

Commento di Letizia Leone

“Le forme letterarie possiedono un determinato indice di resistenza che assicura loro il passaggio attraverso tutta una serie di epoche; nello stesso tempo, la forma letteraria si trova a dover affrontare l’influenza di compiti diversificati, e il nuovo si accumula sul vecchio in maniera qualitativa…”: queste considerazioni di Šklovskij sull’assimilazione e trasformazione stilistica dei generi introducono adeguatamente l’operazione poetica di Durs Grünbein (uno dei maggiori poeti della Germania post-unificazione) il quale, in duemila versi suddivisi in quarantadue canti di dieci strofe ognuno, rivitalizza la tradizione inerte della narrazione lirica in esametri. Risonanze e memoria dei classici ma anche recupero di ritmi e metri della poesia barocca come l’illustre alessandrino (verso canonico del teatro tedesco del XVII sec.), reso sapientemente nella traduzione di Anna Maria Carpi con un recitativo “che tolti alcuni isolati endecasillabi, nasce a seconda della necessità, da aggregazioni diverse di settenari, endecasillabi, quinari”.

Viene da chiedersi: è possibile che la parola epica abbia ancora la capacità di cogliere lo Zeitgeist contemporaneo? E soprattutto ha ancora senso parlare di unità del genere a fronte della dissoluzione postmodernista che avvalora la contaminazione e il riciclo caotico dei materiali, quando lo stesso paradigma critico di genere rischia di risultare obsoleto? Già Hegel, in base alle categorie di “totalità” e “assolutezza dei valori” propri dell’epica classica, dichiarava impossibile un’epica moderna, e Lukàcs supportando la linea hegeliana vedeva nel romanzo (epopea moderna dell’eroe borghese) la filiazione manchevole dell’epos, cosicché nell’ambito di una riflessione critico-stilistica “a rappresentare con purezza il tipo epico risultava esserci sempre e solo l’epos di un Omero e questo tipo omerico sparisce per così dire all’inizio della storia della letteratura” (M. Wehrli). Eppure non mancano esempi di sperimentalismi e riformulazioni che hanno apportato nuova linfa al genere: da Whitman ai classici del modernismo come I Cantos o La terra desolata (opera questa che nel giudizio di I. A. Richards conterrebbe in sé una dozzina di volumi dell’Enciclopedia Britannica) oppure la nuova epica postcoloniale dell’Omeros di Derek Walcott. Opere polifoniche, stratificate, portatrici di un’ampia esegesi.

In “Della neve” la riproposizione del canone epico viene esibita in una architettura compositiva di grande rigore metrico. Grünbein ha adottato brillantemente l’ambizione enciclopedica del genere ai suoi scopi, e se ad uno sguardo retrospettivo l’epica ha funzionato come deposito della memoria collettiva con la narrazione di imprese mitiche e storiche, qui le gesta eroiche da cantare sono quelle del pensiero, e l’eroe è l’homo theoreticus, il filosofo francese René Descartes. Cartesio è il “più frainteso dei filosofi della modernità” e il primo a fraintenderlo è stato proprio il suo contemporaneo Leibniz “che inizia ciò che l’idealismo portò a termine: e cioè congelare Cartesio come il momento pre-dialettico, freddamente razionalistico del pensiero”. Nell’intento di “riscongelare un filosofo esiliato dall’idealismo tedesco”, Grünbein apre la scena in medias res con lo studioso ripiegato nel proprio isolamento interiore ed esistenziale in un “luogo sperduto vicino ad Ulm”, cittadina della Baviera immersa nel gelo straordinario dell’inverno del 1619, come testimonia Cartesio stesso: “Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre ancora in corso; e tornando verso l’esercito dopo l’incoronazione dell’imperatore, l’inizio dell’inverno mi colse in una località dove, non trovando compagnia che mi distraesse, e non avendo d’altra parte, per mia fortuna, preoccupazioni o passioni che mi turbassero, restavo tutto il giorno solo, chiuso in una stanza accanto alla stufa, e qui avevo tutto l’agio di occuparmi dei miei pensieri.”(dal “Discorso sul metodo”)

cartesio

Cartesio

Nella descrizione poetica dell’interno domestico, illuminato da una luce caravaggesca, cose e dettagli vengono colti con un’assoluta freddezza di sguardo:

Un mozzicone arde. La griglia nella stufa
dopo il banchetto è lustra come gabbia toracica d’un manzo
fatto arrosto. Ma il freddo si raccoglie nella veste del dotto,
dentro le scarpe a fibbia, nel bavero di pizzo
e dipinge arabeschi alle finestre, entro i tondi piombati.
E gelo e buio marcano i contorni, più aguzzi sono i nasi
e i menti, e blu le labbra la mattina.
D’inverno l’uomo è come il suo cadavere.
Disteso e duro come sulla bara – sul sarcofago-letto.
Un brivido lo desta. Nevica. Un nuovo giorno.

La citazione di Keplero ut pictura, ita visio all’inizio del canto ventiseiesimo, dal quale è tratta la strofa, conferma e ribadisce una modalità di stile all’insegna della figuratività e visibilità. Grünbein sembra adottare la stessa tecnica del chiaroscuro dei pittori olandesi e fiamminghi del XVII secolo nel calcolare l’effetto “luminoso” del freddo sui corpi, gelo e buio marcano i contorni del volto facendo vibrare il ritratto inedito del dotto e sotto la pallida luce dell’alba gelida il dormiente nel letto, disteso e duro come sulla bara, trasfigura quasi nell’icona di un Cristo deposto. L’azione del poema è condensata intorno ad un momento topico del pensiero occidentale, la nascita del razionalismo cartesiano sullo sfondo del paesaggio nordico invernale, o per meglio dire sotto il “diluvio grande di neve” (come annotò il padovano Nicolò De Rossi) della piccola glaciazione che investì l’Europa del 1600. Condizioni estreme, adatte al filosofare. Il poema vuole essere anche elogio dei filosofi, dello stile di vita teoretico, dell’osservazione disinteressata, dell’ascesi nell’epochè, sotto gli imperativi dell’isolamento e della concentrazione che denotano una modalità dell’esistenza filosofica, e ci rammentano i ritiri di Heidegger nella famosa Hütte, la baita di Todtnauberg: “Quando nel profondo della notte invernale, una violenta tempesta di neve avvolge la baita, copre e vela tutto, allora è il tempo della filosofia.” L’immagine-simbolo della neve che apre e chiude il poema svettando nel titolo, è richiamo e correlativo del metodo analitico del matematico Cartesio, inventore della geometria delle coordinate. “Il cristallo di neve, perfetto, esagonale, è il modello della ragione geometrica”, afferma Grünbein, “e l’inverno è la stagione più propizia alle intuizioni della filosofia: ci mostra la natura nel rigore delle sue leggi. Io credo però che Cartesio, costretto per forza maggiore nella prigionia di quel paesaggio gelato, cercasse di apportarvi dinamismo e calore”.

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Freddo, neve, inverno: isotopie meteorologiche che avviano la sequenza delle metafore ma anche allegoria della condizione dell’uomo moderno. La suggestione plastica della landa innevata è condicio sine qua non della concentrazione, visione che astrae dalle contingenze, impulso al cogito del filosofo che comincia a pensare il mondo come astrazione geometrica dalla sua torretta di osservazione, la stanzetta mal riscaldata da una stufa. E il poeta sa rendere perfettamente la situazione emotiva di isolamento ed esilio in cui prende forma il cogito ergo sum bilanciando la narrazione nella compenetrazione dialettica tra l’esterno, la bianca magnificenza del tappeto nevoso che copre le simmetrie del paesaggio naturale e depotenzia i clamori della Storia (la guerra dei trent’anni), e lo spazio interno della coscienza che tende a realizzare il vuoto dei mistici, la sospensione spazio-temporale, il congelamento di affetti e affanni. Inoltre nel gioco testuale di allusioni, rifrazioni, parallelismi figurativi, la neve è speculare all’immagine del foglio bianco, tabula rasa e punto focale su cui si concentrano le fatiche dell’intelletto, il foglio ondulato sudario, torbido specchio, comunque materiale tangibile, res extensa, carta soltanto carta sulla quale vergare il Discorso sul metodo:

Il polverino manca. Mezzo foglio è sconciato.
Stanza stretta e aria secca – Moccio, acqua che schizzano
Sul foglio, se tossisce. E come gratta questa penna d’oca,
Pare un ronzio di mosca. Chi decifra
Tutti gli scarabocchi? Nemmeno il loro autore.
La scrittura va insieme, fanno smorfie i paragrafi.
Ogni frase è una tenia. E questa è un n o un u?
È come nella vita, dopo il 5 romano viene il 4.
“Discours de la méthode” – l’io dà del tu a se stesso.
Chi è io? Non farmi ridere. – Carta, soltanto carta.

Tra riflessione intellettuale e paesaggio il racconto mette in scena la grandezza epica del pensare, ma le questioni fondamentali esposte nel “Discorso” emergono nel bel mezzo della conversazione quotidiana tra il filosofo e il suo unico interlocutore, il fedele Gillot, servo e discepolo, controparte dell’uomo pratico armato di buon senso. Così accade che durante una chiacchierata estemporanea, resa con un parlato espressivo ricco di locuzioni fàtiche, si può discutere dei massimi sistemi e ricollocare le teorie cartesiane dentro uno “stato d’animo” che è poi la Stimmung di un’epoca intera lacerata da guerre, dubbi e insicurezze. Basti qui il breve esempio su come il Dubbio metodico, quale procedimento critico di vaglio e analisi di tutta la realtà, irrompe tra le chiacchiere:

“Io parlavo del dubbio…
Il dubbio nel pensiero è la traccia rovente
che indica la via. È il buco stretto
in cui cacci la testa per passare…”
“Nei casi dubbi, sono le vacche tutte grigie.
Dove niente è più certo, le parole non quadrano,
devo, signore – affidarmi al mio fiuto?”
“Nei casi dubbi – tienti al dubbio, che ti dà
E ti toglie, ti toglie e dà da sé sostegno.
Dimenticati Euclide. Ad Archimede tienti,
al suo punto di leva, da cui anche un infante
col pollice potrebbe scardinare fin il globo terrestre”.
“Voi intendete nei casi dubbi…” “Hai già capito:
uno solo ti aiuta – il figlio di tua madre”.

“È di me che parlate?” “te ne stavi un po’ curvo,
e adesso balzi indietro, ergo lo senti che di te si tratta”.
“Sono i dubbi, signore. Mi si girano dentro…”

Sempre sulla linea di congiunzione immaginale neve-bianco-letto il poema si conclude a Stoccolma alla corte della regina Cristina trent’anni più tardi con il moribondo Cartesio nel suo giaciglio di sofferenza, con un “blocchetto di ghiaccio / premuto sulla fronte”. Il letto dove aveva trascorso metà della vita, dato che era solito alzarsi a mezzogiorno, e dove in una gelida giornata del 1649 muore di polmonite. Dato per scaduto il tempo dell’Epica quale forma rappresentativa di una visione unitaria del mondo (tanto che un personaggio del Dottor Živago esclama che “perfino nel Faust c’è qualcosa di mortalmente insopportabile e artificioso… L’uomo d’oggi… quando è assalito dagli interrogativi dell’universo, si immerge nella fisica, e non negli esametri di Esiodo”), sembra utile riconsiderare le osservazioni di Šklovskij sulla ri-funzionalizzazione dei modelli letterari.

SKLOWSKIJ VIKTOR

Viktor Sklovskij

Oggi un modello di poema epico risponde in parte a quella “nostalgia per la cultura mondiale” individuata da Brodskij, e la poesia, “essenza della cultura del mondo”, è vocata ad essere Cantiere dell’Utopia come quello della Basilica di San Francesco in Assisi dove sono stati archiviati e assemblati 300.000 frammenti della volta di Giotto dopo il terremoto del 1997. Non solo conservazione, custodia e salvaguardia della civiltà umanistica, ma anche attività esegetica, ripensamento mito-poietico dei dati inerti della tradizione con il recupero dei frammenti storici alla grande visione, come quella ad esempio di un Cartesio razionalista, matematico e filosofo e insieme poeta e uomo che sogna. E, nel rivalutare l’importanza delle visioni e dei sogni nella genesi del suo pensiero, vivificarne la figura liberandola dalla rigidità museale della Storia. Inoltre, come Grünbein dichiarò tempo fa in un’intervista, è ora che la poesia si riposizioni al punto di congiunzione di filosofia e scienza superando il suo fondamentalismo antiscientifico. È ora per la poesia di ripartire dalla grande lezione di Lucrezio e di Dante.

della neve

Der Schnee von heute

Monsieur, wacht auf. Es hat geschneit die ganze Nacht.
Soweit das Auge reicht auf einer weißen Fläche,
Schmückt sich das Land mit weißen Kegeln. Es sind Bäume,
Die mit der Winterhand der große Arrangeur
Veredelt hat. Man sagt, Ihr schätzt ihn, seinen Spieltrieb,
Der Türmen Hauben aufsetzt und die Dächer deckt
Mit kalten Daunen. Sein Kristallenes Flanell,
Gewebt aus Flocken, polstert faltenlos die Fluren aus,
Bis alle Welt verzaubert ist und tief verschneit –
Ein Foliant mit weißen Seiten, die nur er beschreibt.

Seht Ihr, es tagt. Spurlose Frühe, geometrisch klar.
Kühl wie am Morgen nach der Schöpfung, formenstreng,
Zeigt sich die Erde nun, berechenbar. Was möglich ist,
Nicht wa durch Sintflut, Ackerbau und Kleinstaatkrieg
Verheerend wirklich wurde, liegt nun ausgebreitet.
Besänftigt lädt, was irgend denkbar ist, zum Studium ein.
Schnee hat den Bann gebrochen. Das Diktat der Zeit –
Habt Ihr bemerkt, ist aufgehoben. Unter frischen Wehen
Kroch eine Gleichung in die Hügel. Rein als Raum,
Dreht sich die Landschaft auf den Rücken wie im Traum.

Wacht auf, Monsieur. Auch wenn es scheint, ein Federbett
Sei wie die Wunderwelt dort draußen – nur im Kleinen.
Zum Greifen nah, leicht überschaubar. Eine Projektion
Im Maßstab Eins zu Tausend, nimmt man die Region,
In der Euch Winter traf und einspann wie die Raupe.
Heraus aus dem Kokon! Kommt, werft die Decken ab,
Wenn auch ihr Faltenwurf an Berg und Tal erinnert –
Dazwischen Gänsepfade, überm Knie ein ferner Hügel…
Was früh den Blick trübt, nachts ihn bricht, ist kein Gestirn.
Ein Futteral ists, weich gepolstert, für das müde Hirn.

Es hat geschneit. Seht, vor dem Haus, die weiße Pracht.
Bringt Euern Leib, das feine Instrument, in Position.
Haltet den Atem an ein Weilchen. Adjustiert genau,
Was zum Verorten so geschaffen ist wie kein Sextant –
Dies Sehwerkzeug mit seinen Linsen. Merkt Ihr was?
Auch das Gerät, das uns zur Orientierung dient im Raum,
Ist nur ein Körper, für den Euklids Regeln gelten.
Aus Protein gemacht, doch nach der Art von Glas –
Nichts was zerbricht, und doch im Sog der Erdenschwere,
Folgt es, verletzbar, wenn auch Ding, der Brechungslehre.

Lacht nicht, Monsieur. Ihr kennt so gut als jeder Physicus
Die beiden Wunderkugeln. Wetten, mit Sezierbesteck
Habt Ihr die Äpfelchen zerteilt, die feinen Nervenstränge,
Verzweigt im Eiweiß rings wie vor dem Fenster draußen
Das Wurzelwerk der Bäume unterm frischen Schnee.
Weit mehr gewußt habt Ihr als jeder schnöde Anatom
Von Iris und Pupille, Meister Metaphysicus.
Kein Augenarzt – ein Philosoph betrat das dünne Eis
Zuerst mit der vertrackten Frage: Was heißt Sehn?
Que sais-je? Vielleicht hilft Schnee ja, Perzeption verstehn.

Schnee abstrahiert. Nehmt an, er hat das Bett gemacht
Für die Vernunft. Er hat die Wege eingeschläfert,
Auf denen der Gedankengang sich sonst verirrte.
Die Landschaft gleicht der Schiefertafel, blankgewischt,
Gekippt um neunzig Grad. Im Winterlicht erstrahlt
Die reinste Kammer lucida. Durchs Guckloch geht
Der Sehstrahl scharf zum Horizont und kommt zurück.
Kein Hindernis, kein Zickzackpfad, nur Perspektiven.
Vom Frost geputzt der Zeichentisch – ein idealer Boden
Für den Discours, Monsieur. Allez! Für die Methode.

Nun steht schon auf. Die Sonne wartet nicht auf Euch.
Erhebt Euch aus zerwühlten Laken, eh die Herrlichkeit
Zerschmilzt und Dreck die Sicht Euch trübt wie immer.
Neuschnee ist kostbar wie die großen Diamanten,
Für die man Kriege führt und tauscht Provinzen.
Ein Juwelier, der Schnee. Er modelliert, wohin er fällt.
Er rundet auf und ab und übersetzt in schöne Kurven,
Wofür Physik dann, schwalbenflink, die Formel findet.
Monsieur, bedenkt, was Euch entgeht, verliert Ihr Zeit.
Für Euch hat es, für Euch, die ganze Nacht geschneit.

La neve di oggi

Destatevi, Monsieur. Tutta notte che nevica.
Fin dove arriva l’occhio è bianca la pianura,
è tutta un cono bianco. Sono gli alberi
che il grande arrangiatore con invernale mano ha ingentilito.
Voi apprezzate, dicono, lui e il suo umore ludico
che incappuccia le torri, che gelidi piumini
adagia sopra i tetti. Flanella di cristallo,
una liscia imbottita sopra i campi,
finché la neve è alta e il mondo un incantesimo –
pagine di un in-folio su cui lui solo scrive.

Guardate, si fa giorno. Un intatto mattino. Geometrie.
Algida come all’alba del creato, e severa
di forme è ora la terra, calcolabile, e accedi
a quel che lei sarebbe senza devastazioni,
guerre fra staterelli, diluvi e agricoltura.
Placato ogni pensiero, un invito a studiare.
Infranto l’anatema, anche il diktat del tempo
con la neve è sospeso. Sotto nuove dune
nei colli si è insinuata un’equazione. Il paesaggio
si è girato sul dorso, come in sogno.

Destatevi, Monsieur. Non è un letto di piume
Pari al prodigio fuori, o solo in piccolo.
A portata di mano e dello sguardo,
in scala uno a mille, si prende la regione
dove state incastrato come un bruco d’inverno.
Su, fuori da quel bozzolo! Buttate le coperte,
che fanno pieghe come monti e valli,
fra sentieri per oche, e il ginocchio è un colle…
Vi offuscano il mattino, acciecano la notte
non stelle ma un astuccio, molle di dentro, per cervelli stanchi.

Neve davanti a casa. Bianca magnificenza.
Portate in posizione lo strumento finissimo del corpo.
Trattenete il respiro per un po’. Regolatelo,
per fare il punto è meglio di un sestante –
strumento per vedere con le lenti. Lo notate?
L’attrezzo che ci orienta nello spazio
è anch’esso un corpo e sottostà ad Euclide.
Fatto di proteine ma pur simile al vetro –
Non lo spezza risucchio di gravità terrestre,
vulnerabile cosa, segue però le leggi della rifrazione.

Non ridete, Monsieur. Voi come tanti fisici
Conoscete, scommetto, i due stupendi globi.
Nelle meluzze avete messo il bisturi,
in rami e nervature dell’albume, simili alle radici
degli alberi là fuori, sotto la neve fresca.
Più d’ogni sciocco anatomo sapete cos’è l’iride
e la pupilla, maestro metafisico.
Sul ghiaccio fragile s’avventurò il filosofo –
Non l’oculista. Irta domanda: e vedere cos’è?
Que sais-je? Forse la neve aiuta- a capire cos’è la percezione.

La neve astrae. Come se avesse fatto alla ragione il letto
e addormentato tutte quelle strade
su cui il pensiero prima si smarriva.
Lavagna ripulita è il paesaggio,
inclinata di 90 gradi. Nella luce d’inverno ecco risplende
la camera purissima, la lucida. Per il foro arriva
il raggio della vista all’orizzonte e torna senz’ intralcio,
non a zigzag, soltanto prospettive.
Tavolo da disegno spolverato dal gelo – un terreno ideale
Per il Discours, Monsieur. Allez! Avanti il metodo.

Ora alzatevi dunque. Il sole non vi aspetta.
Uscite dal groviglio dei lenzuoli prima che lo splendore
si squagli e sporco offuschi, come fa sempre, l’occhio.
La neve fresca vale quanto i grossi diamanti
Per cui si fanno guerre, si scambiano province.
La neve è un gioielliere. Dove cade modella.
Qua e là arrotonda, traduce in belle curve
Per cui l’agile fisica trova a volo le formule.
Monsieur, cosa vi sfugge se state a perder tempo.
Per voi, per voi tutta la notte ha nevicato

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale (2004); Carte Sanitarie (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi, a cura di Lidia Ravera (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo “Le invisibili” (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie, tra le quali Rosso da camera. Versi erotici delle poetesse italiane (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

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Giuseppina Di Leo SULLA SCRITTURA POETICA, IL POTERE DELLA PAROLA «la parola inesprimibile», «la giraffa non è figlia dello scimpanzé»

Caro Giorgio,
Interrogandomi ancora sulla poesia e sull’atto dello scrivere tout-court, la riflessione che ne scaturisce è la seguente. Innanzitutto, immagino che la poesia, attraverso le parole, rimandi ad una istanza, e tuttavia essa stessa parola/poesia non spiega, nel suo comporsi, la ragione da cui è mossa. O perlomeno, spesso e volentieri ci sorprendiamo di aver scritto cose che non avevamo in mente, usando magari una parola (o forse più d’una) ‘doppia’ che rimanda a qualcos’altro (e questo è un caso felice); oppure, al contrario, per quanti sforzi si facciano capita di non riuscire a esprimersi come vorremmo e rendere degno un pensiero.
La ragione della parola ‘inesprimibile’ proviene da questa seconda ipotesi. Si tratta in ogni caso della stessa difficoltà che si pone, nel rapporto tra analizzando e analista, nel valutare i dati emersi durante l’analisi. Ma, come quei dati, analogamente la poesia si offre al lettore non solo e forse non tanto per quello che dice, quanto per le suggestioni / emozioni che essa parola/poesia riesce a far scaturire nel lettore, nell’altro. Per questa ragione penso alla poesia come a qualcosa in continuo movimento: uno svelare quanto era non ancora esplicitato a sé stessi. Una sorta di movimento tellurico che fa riaffiorare in superficie uno stato d’animo poco conosciuto in apparenza.
Sulla poesia più recente, oggi un diverso sguardo permette di poter invertire i termini del problema: il ‘perché’, prima racchiuso in un’istanza non esplicitata, si presta al “gioco del rocchetto” (lo sguardo dell’osservatore); attraverso la rappresentazione la realtà rivela qualcosa di sé attraverso la finzione. L’elemento ludico della scrittura, insieme al piacere che se ne trae, andrebbe sempre ricordato.
Giuseppina Di Leo

.

Cara Giusy,
mi corre l’obbligo di risponderti. Storicamente, precipuo della moderna opera di finzione è lo sgretolarsi della possibilità di accedere al senso dei testi. Il carattere di finzione dei testi kitchen, la loro non-referenzialità ci dice che l’opera storicamente decostruisce attraverso la testualità ogni messaggio, ogni significato, ogni senso. Non potendo essere letterale, il testo possiede soltanto la pluralità delle letture come unica lettura, l’unità di senso diventa frattura, abisso del senso e del sensato, la figuratività ha il sopravvento rispetto alla referenzialità, che tenderà a scomparire, ad inabissarsi. Da Borges in poi la letteratura contemporanea si presta all’idea di perdita del senso e alla apertura di letture molteplici, essa non può più porsi come modello del logos o norma generale. L’anti-referenzialismo dà troppo credito al suo opposto, lo suppone vero, occorre uscire al più presto dallo schema referenzialismo-antireferenzialismo. Identificando la significazione con l’attribuzione di un referente e, parallelamente, la non-significazione con la non-referenzialità, l’opera di finzione storicamente si sottrae per forza di cose alla questione del senso e del sensorio e del sensato. Ne risulta che il linguaggio dell’opera kitchen non può più dire qualcosa di sensorio e di sensato e sostenere che la letteratura non si lascia più comprendere ma fraintendere… Chiedo, quale «Potere della Parola» può avere la «parola» in un contesto kitchen? E ti rispondo: Nessuno.
Giorgio Linguaglossa
.

moda iperrealismo

Michael Cunningham

Leggo il pensiero dello scrittore americano Michael Cunningham sul mestiere di scrivere e sulle difficoltà incontrate nel tradurre in parole le immagini che abitano nella testa.
È un po’, credo, come avere la pretesa di riuscire a far assaporare al pubblico cinematografico una torta attraverso la visione di un film. Bravura del regista, attori permettendo, e pubblico disposto a immedesimarsi, si potrebbe ricevere un assaggio mediatico stimolando i sensi del gusto e dell’olfatto per via dell’autosuggestione. Ma, a conti fatti, rimarrebbe pur sempre una percezione olfattiva solitaria, con l’unico effetto reale di incremento della produzione salivare. Ricordo di aver letto che in alcune situazioni estreme, come nel caso della prigionia, per sopperire alla mancanza di cibo sia possibile ‘sfamarsi’ immaginando succulenti pranzi ricchi di ogni ben di Dio traendone, momentaneamente, un qualche beneficio. Momentaneamente. Come effetto placebo.

Lo stesso vale ad esempio per questo muro che ho qui davanti, ad appena a un metro e mezzo di distanza, fuori dalla mia finestra. Ebbene, l’impatto visivo è dato da un muto/muro di pietra: punto e basta. Una visione che contrasta con il mio pensiero che sento invece in questo momento ricettivo, un ‘ostacolo’ che limita la capacità di esprimere il pensiero impedendogli, e impedendomi, di farsi strada (prova ne sia il fatto che sto scrivendo altro da ciò che vorrei).
Eppure, quel muro è lì per un lavoro dell’uomo, dei tanti uomini che lo hanno realizzato. Ma ancor prima del suo essere muro vi è il cielo, che è preesistente a tutto. Dunque, alla maniera di quei prigionieri, non posso fare altro che guardare il muro, che tra l’altro mi fornisce tutti i volti di pietra di cui ho parlato più volte; come, ancora, potrei anche scegliere se demoralizzarmi oppure, diversamente, travalicare i confini puri e semplici (la realtà), per immaginare, con un pizzico di fantasia, quello che c’era prima, o prima ancora.

Tutto questo per dire che la “traduzione” del pensiero in parole potrebbe realizzarsi, come in effetti si realizza, attraverso un lavoro, faticoso a volte, lento in molti casi, di riappropriazione del proprio cielo. Alla fine della ricerca, partendo dal muro/ostacolo ovvero scavalcandolo, avremo a nostra disposizione immagini e parole suscettibili di altrettante emozioni. Il problema consiste semmai nel trovarle, le parole. Riduttivamente.

E difatti, ci sono libri in grado di farci commuovere o ridere, accendere o spegnere desideri, persino quelli di ‘gola’, e non solo. Il potere della parola è il potere per eccellenza. Perlomeno è stato elevato a sovrano assoluto nell’occidente, in cui vige il binomio inscindibile parola/potere.

In un contesto differente, un ruolo diverso ha altresì la parola, come altro è l’impegno che assume verso gli altri il «Signore delle parole» nelle tribù senza stato amerindiane, dove nessun insegnamento è ammesso, se non quello che garantisca la continuità con la stessa società che ha eletto il suo «capo», come ci racconta Pierre Clastres: «Vuoto è il discorso del capo appunto perché non è discorso di potere: il capo è separato dalla parola, perché è separato dal potere”».
Ne consegue che, scindendo il potere dalla parola, nessuna sopraffazione è ammessa.

Ma ecco il pensiero di Cunningham:
«Anche se il libro in questione viene fuori abbastanza bene, non è mai il libro che avevate sperato di scrivere. È più piccolo del libro che avevate sperato di scrivere. È un oggetto, una raccolta di frasi, e non assomiglia neanche lontanamente a una cattedrale di fuoco» (Il Sole 24 Ore – Domenica, 13 giugno 2010, trad. di Ivan Cotroneo).

Ho riportato il finale dell’articolo, perché lo trovo più interessante dell’articolo stesso e anche degnamente conclusivo, dopo che l’autore ha spiegato che nessun romanziere che si rispetti sfugge alla crisi ‘post partum’; cosa che, inversamente a quanto si verifica nel diventare madri, fa dire (o pensare) che la rosa più bella resta ancora da cogliere: «Questa la nostra gloria. Siamo alla ricerca di qualcosa, e non veniamo scoraggiati dal sospetto collettivo che la perfezione che cerchiamo nell’arte abbia le stesse possibilità del santo Graal di venire trovata. Questa è una delle ragioni per cui noi, e intendo noi esseri umani, siamo non solo creatori, traduttori e consumatori di letteratura, ma della letteratura siamo i soggetti».
Una conclusione tutto sommato da romanzo. Dato che la giraffa non è figlia dello scimpanzé.

Giuseppina Di Leo

giuseppina di leo

giuseppina di leo

Agnizione

C’è stato un tempo in cui calanchi erano le parole
scurità apicali infilzavano occhi discendenti lame
bocche orribili. E di un dio non vidi mai la fine.
Mezza pagina era troppo. Né parlarti
spostava lo sgomento dei tre sì e dei tre no.
Su quale fragile armonia s’incammina la rabbia
stesa in alto pressa un tavolo di accordi poche facce
si riconoscono tra gli estranei nel momento del saluto.

Giuseppina Di Leo

Giuseppina Di Leo – Ha pubblicato tre libri di poesie: Dialogo a più voci (LibroitalianoWorld, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010); Con l’inchiostro rosso (Sentieri Meridiani Edizioni, 2012); la plaquette: Il muro invisibile (LucaniArt, 2012). Alcune sue poesie, racconti e interventi di critica letteraria sono ospitati su antologie, riviste, su blog e siti dedicati alla poesia.

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