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Iosif Brodskij (1940-1996), Poemetto inedito, Teatrale, Traduzione di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova, Prima traduzione in italiano, stesura del 1995, Commento di Giorgio Linguaglossa, Dialogo di Nude Voci, da Il Mangiaparole n. 7, rivista di poesia e contemporaneistica, luglio/settembre 2019

Il Mangiaparole 7

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TEATRALE

a S. Yursky

“Chi sta lì sotto la cinta muraria?”
“E non è vestito alla nostra maniera: indossa
un abito di lana!” “E ora sta di fronte, ora di spalle”.

“Perché è arrivato qua? Un’altra bocca da sfamare!”
“Perché bussa alle porte della città?”
“Noi non gli piaceremo”. “E viceversa”.

“Che ci dia la sua spada!” “Ed anche il fodero!”
“Da noi non troverà rifugio né moglie!”
“Lui non ci serve”. “E noi non serviamo a lui”.

“Sembra giovane”. “Ma ha la testa canuta”.
“Che ci racconti lui stesso come è finito qui!”
“Forse ha sgozzato qualcuno e si nasconde dal processo”.

“Ce l’ha scritto in fronte!”
“Il destino sceglie noi e non noi il destino!”
“E certo! Vuole andarsene in paradiso sulla gobba di un altro!”

“Non esagerare! E che, noi saremmo il paradiso?”
“Embè: a me piace la mia catapecchia”.
“Ehi, guardia! Non aprire!”

“È chiaro che non è né greco né persiano”.
“Ha uno strano aspetto: niente barba né pèot”
“Che ne pensi, chi è?” “Non ne capisco di queste cose”.

“Ma se un viandante sporco di polvere delle strade
cerca di oltrepassare la soglia,
l’usanza ordina di farlo entrare. E se questo viandante fosse un dio?”

“O un profeta? “ “O addirittura – un eroe?”.
“Intorno c’è un fottio di tutte queste Tebe e Troia”
“Che si fa – si aprono le porte?” “Apri!” “Apri!”

“Entra e di’ come ti chiami,
da dove arrivi e come sei capitato qui?
Parla. La gente aspetta”.

“Ahimè, colui che ha scombinato la vostra pace,
quello che voi toccate con mano,
non sa chi è.

Io non so chi sono, dov’è la mia famiglia.
Persino un pronome è per me
di troppo. Come la data per il giorno.

E spesso mi sembra di non essere nessuno,
acqua che passa in un setaccio.
Soprattutto quando mi guardano cento

occhi. Ma quando mi guarda uno solo –
anche. Non lasciate che il mio gabardine
vi confonda: ora anche un popolano

veste così. Nella mano non ho una spada
ma un ombrello perché protegga la testa
se piove e quando batte il sole.

Non pensate che io rappresenti per voi
un pericolo, celandovi la mia
biografia. Io sono semplicemente la lettera che sta dopo la IU(1)

al confine dell’alfabeto, come ha detto il bardo.
Sarei felice di mostrarvi
da dove sono venuto. Ma là diventa nera la sala

che spaventa per profondità e oscurità.
Essa per me non ha nulla in comune con l’“a casa”.
Normalmente io mi muovo in linea retta,

avendo in mente una qualche cosa.
Ma devo riconoscerlo, a mia vergogna:
io non so dove vado. Penso che vado

nel Regno delle Tenebre. A volte – sgaiattolando,
inciampando. Ma questa è la strada.
Non si può determinare diversamente

la direzione. Alla fin fine se proibisci a te stesso
di pensare a questo, se ti tieni sotto chiave –
ti muovi nella stessa direzione. La vostra città era lungo la strada.

Ed ho bussato alle porte”
“È malato!”
“Suda!” “E l’appetito è triplo!”
“Si vede che i Persiani si sono decisi a farci guerra…”

“O i Romani” “Si, e lui è una loro spia”
“Ecco, ecco, tu lo accogli e lui
dopo porterà qui legioni

e ci annienteranno” “Della città, dove
si drizza anche alle statue, è ridicolo affermare
che si trovi lungo la strada verso l’Ade”.

“Dimostriamogli che ha torto!”
“La nostra città è coacervo di grandi tradizioni!”
“Culla di molti diritti!”

“Che sappia cosa si è perso, talpa senz’occhi!”
“E se è uno spione e mente?”
“Che sappia dove morirà”.

“Ehi, guardia! Ehi, tu – edile!
Mettete alle porte altri cento coglioni
affinché nessuno esca dalla città!”

“Dov’è il nostro storico?” “È sbronzo dal mattino e dorme”
“Trovate il suo eremo puzzolente.
Ditegli: ci serve una guida.

E presto.” “Lo portano già!” “Ehi, vecchio,
fai vedere tu a questo quanto è grande
la nostra città?” “Ich- ich.

Ich-ich. Nei miei occhi – caratteri corpo otto.
Io sono come su un balcone senza cariatidi.
Oh, che nausea! Che nausea.

Allora tu, straniero? Probabilmente tu.
Hai lineamenti irregolari.
Nella nostra città non sono importanti gli occhi ma le bocche.

Andiamo. Ti mostrerò quello che c’è qui.
Veramente la nostra città – non è un granché…
Oh, adesso vomito. Ohi, voglio sedermi un po’…

Guarda: a destra – il nostro antico tempio.
A sinistra – il teatro per gli antichi drammi.
Qui invece teniamo gli schiavi, i badili ed altro ciarpame.

Dietro questo portico classico c’è il nostro Senato.
Qui noi impazzimmo per il colonnato
di marmo, con sopra l’oltremarino.

E questo è il nostro Foro, dove a volte
le greggi muggiscono – dalla parola “noi” –
“si” o “no”. Ma di solito sì. (2)

In ogni caso il sovrano
da noi è lo stesso che c’era qui anticamente.
E anche lui di marmo. Soltanto negli occhi – ambra.

Nulla qui è mutato da quella
data, in cui è stato annunciato il secolo
d’oro e la storia da noi

ha preso alloggio. La gente vive, alimentando
la storia. Altre produzioni, a parte
la storia, non risultano. Noi utilizziamo tre

idee. Prima: meglio una casa
che un campo. Seconda: pascolare il gregge
è piacevole. E terza: non è importante cosa avverrà dopo.

E questo è il nostro antico Foro…Che? Dici che già
ci siamo passati. Con te bisogna stare in campana.
Dici che ti piace la lettera “ж ”? (3)

Beh, “ ж ”, è una bella lettera del nostro alfabeto.
Da lontano assomiglia ad uno scarabeo
ed ipnotizza gli uomini.

E davanti – il nostro antico Colosseo.
Ma i cristiani con i leoni li abbiamo portati nel museo.
Vuoi che andiamo a trovare gli amici?

Questo sta di fronte. Tutto quello che arrivò, ahimè,
dalla giungla o dalla testa,
come i cristiani o gli stessi leoni

è il futuro. E il suo
posto è in un museo. Probabilmente perché
la storia a nessuno

deve assolutamente nulla.
Come una femmina, sia pure intrigata,
anche se l’ha data – tuttavia non è una moglie.

Ti rendi conto dove sei finito, amico?
In questo vaso ci sono popoli ridotti in polvere.
E più avanti – la biblioteca: ma un incendio

non la minaccia. È difficile incendiare un ghiacciaio.
Mi ci sono intrufolato poco tempo fa:
ci stanno libri, ma non si possono aprire. I libri

che se ne stanno intonsi da secoli,
sviluppano la marmoreità e la mano
si abbassa e fa il gesto “ciao”.

Vedi quella torre? La sua inclinazione…
Che dici, devi pisciare? Lì, vicino a quelle colonne.
In esse è nascosta ripiegata nel rotolo,

la geografia. Di che parli, la patta?
Si, falla per strada. E che fa se è giorno?
Per chi lavoro? E se senza di me

ti perderai? Oh, oh, oh, ammazza che schizzo!
Come uno stallone! O la sua imbraca.
E, in linea di massima, anche questa è un’evasione. Ma io –

io non ti tradirò. Che i nostri cani
ci arriccino sopra i nasi. Piscia.
Dici dove sta nella nostra città l’orologio?

Per vedere il tempo da fuori?
Per questo noi non abbiamo un muro.
L’orologio, straniero, è stato inventato

dopo la storia. Da lì – guarda – si vede meglio
quella torre inclinata. Siccome in essa ci sta
un carcere, il tempo del giorno e l’andare dei giorni

lo capiamo a seconda dell’angolo di inclinazione
suo e di quelli meritatamente incarcerati e non grazie
all’orologio a pendolo

appeso sul tavolo. Il suono delle catene è
uguale ai Kuranti (4). E la somma delle condanne altrui –
è il nostro calendario. E il nostro Areopago è questo.

È più facile che ti prendano a sberle,
che ti lascino passeggiare per i prati
di Proserpina…Che è questo chiasso e baccano là?”

“Siamo noi! Ora siamo noi l’Areopago!
Abbiamo visto tutto! Ed ecco il resoconto dei cani:
in esso c’è l’analisi dell’urina. Lui ha la gonorrea!

Deve essere isolato!” “Là mortificano la carne!”
“Sì e non soltanto il prepuzio!“ “Purché smetta di dire
cazzate!” “Ed io dico di non sporcare

la nostra storia!” “Questo sarebbe anche capace
di sporcarla!” “È pure robusto,
se vedeste il pisello….” “La storia

gliela farà vedere lei! Perciò – la sentenza:
Valutato il suo strumento,
nella torre. A vita. Firmato: il coro”.

“Perché? Cosa ho fatto? Non sono un bandito,
non ho rapinato nessuno. Dove guarda
Zeus? Non ho preso a prestito

e per quello che riguarda la mia urina, forse da voi l’erba
ha la gonorrea…” “Non gridare!” “E non accampare diritti!”
“Ehi, guardia! Porta le chiavi e le catene.” “Prima di tutto,

vediamo se c’è posto?” “Certo che c’è!”
“Come può non esserci!” “Deve entrarcene ancora uno!”
Stare in carcere non significa letteralmente ‘stare seduto’,

si può stare anche in piedi” “Anche su una sola gamba!”
“Come un airone o un pino nella taiga”
“Si, abbiamo letto!” “Portalo, eh, eh, eh”

“Trasciniamolo!” La gente in generale è merda.
Nella massa soprattutto. Questa è la legge principale della dinamica –
carceraria. Guardandoti in uno specchio,

cominci a dubitare: tipo, è uno specchio ma inganna.
Tuttavia, riunendosi nel popolo
diventa chiaro: quanto più lontano nel bosco, tanto più sulla bocca. (4)

Che dire a voi prima del sipario. Che, ahimè,
la nostra città non è un’eccezione. Tutte le città
sono uguali. Prendiamo ad esempio voi. Ecco voi

guardate dal futuro. Per voi
questa è una tragedia e un soggetto per vasi;
una scenetta dove un uomo si è invischiato

nella storia. Oppure, dopo aver scavato tumuli,
così fissano le ossa.
Ma nella vera tragedia muore il coro (6)

e non soltanto il protagonista. In generale il protagonista
nella tragedia passa in secondo
piano. L’importante non è un’ape

ma uno sciame. Non un ago ma un pagliaio!
Un albero e non una sua fogliolina.
Non il sole, se le cose stanno così ma l’oriente

ecc ecc. La tragedia è semplicemente il tributo
del presente al passato. Quando, puntando il dito, – “guarda!” –
la schifezza seduta in sala contempla la schifezza

sulla scena – questo è quasi il paesaggio
del tempo! E la cosa si spinge
fino all’ovazione! Considerando la nostra esperienza

questo è ovvio. Proprio come un tipo,
uno dei vostri, si è arrampicato, cigolando,
dal parterre sulla scena, dove è rimasto impantanato

nella storia. Per così dire, si è immedesimato nel ruolo.
Ma lui – è uno. E un solo uomo – è uno zero (7)
e il dolore di un solo per noi non è il dolore

della massa. Questa cosa di per sé stessa
aiuterà a cancellare il marchio
della tragedia dalla nostra città. In generale tutti noi siamo merda,

voi soprattutto. Poiché il teatro è il tempio
dell’arte. Tuttavia nell’andamento dei drammi
i nostri non corrono verso di voi

e i vostri verso di noi – intrufolandosi continuamente nella trama.
Questo ha offeso Apollo più di una volta.
La prigione, per sua essenza, è la risposta

alla sete del futuro di insinuarsi
nella storia, adoperando l’adulazione,
vestendosi ora di latta, ora di Buona Novella,

ora di gabardine ora degli stracci delle idee.
Ma la storia è marmo e basta!
Non passerà! Come questo vostro truffatore.

E a voi, per salvarlo,
sarebbe toccato entrare sulla scena e frantumare
la storia. Ehi, guardia! Chiudi le porte e cala

il sipario”.

 

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