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LE FONDAMENTA ONTOLOGICHE PER UNA POETICA DEL VUOTO – LA DOMANDA FONDAMENTALE DI LEIBNIZ: “Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?”. Leibniz, Martin Heidegger, Robert Nozick, Giacomo Marramao “Il Nulla nientifica se stesso”, “La teoria egualitaria” di Nozick, con un Appunto di Giorgio Linguaglossa sul “Sistema stabile del Vuoto”Appunto di Giorgio Linguaglossa: Le fondamenta ontologiche per una poetica del vuoto

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Il filosofo americano Robert Nozick nelle sue Philosophical Explanations (Cambridge, Mass. 1981, p. 122) ha riproposto da domanda di Leibniz: «Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?».

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“Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?”. La domanda di Leibniz è una domanda estrema, essa sconfina con i margini del linguaggio metafisico. È la domanda prima. O la domanda ultima, oltre la quale non è possibile andare. Di qui la liquidazione, da più parti, come “mal formulata”, “insignificante”, “folle”. «Ma perché – ha fatto notare Robert Nozick – la rifiutano allegramente invece di osservare con disperazione che essa pone un limite a quello che possiamo sperare di capire?». È una domanda così formidabile che anche uno che di recente l’ha ripresa e l’ha chiamata ‘la domanda fondamentale della metafisica’, Heidegger, non propone risposte e non cerca nemmeno di far vedere come le si potrebbe rispondere.

L’interrogazione era stata ripresa da Heidegger in una forma sensibilmente modificata: «Perché in generale l’ente piuttosto che il nulla?» (Introduzione alla Metafisica, 1953). È la domanda fondamentale dalla quale dobbiamo partire, la domanda che, per il suo rango, merita il primo posto tra tutte le domande. La domanda per Heidegger «la più vasta, profonda e originaria», alla quale non è possibile sottrarsi.

Capovolgendo la domanda, io penso che un ipotetico abitante dell’Iperspazio a 10 dimensioni più il tempo (Secondo la tesi del famoso fisico Michio Taku), così si esprimerebbe: «Perché in generale il nulla piuttosto che l’ente?», in quanto dal punto di vista di un tale abitante l’assurdo sarebbe ipotizzare l’esistenza dell’ente, posto che il nulla sarebbe la modalità normale di esistenza del suo Super-pluriverso simmetrico e stabile.

Ma ipotizzare un “sistema simmetrico e ordinato”, uno stato naturale e privilegiato quale potrebbe essere il Vuoto, lo si può fare soltanto a partire da un universo dissimmetrico quale il nostro, affetto da instabilità, inflazione, fluttuazione e dalla freccia irreversibile del tempo. È possibile ipotizzare, come ha fatto Robert Nozick, l’esistenza di una quantità minimissima di nientità che è sfuggita alla forza di nientificazione e che ha prodotto l’universo; in questa speculazione ci conforta la fisica delle particelle sub-atomiche che, appunto, galleggiano nel nulla e, in quanto tale, esse sono (e non sono). Questa nientità è quindi inerente all’ente come facente parte della sua stessa “sostanza”.

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Giuseppe Pedota L’universo acronico, anni Novanta

Perché esiste l’universo piuttosto che il nulla? L’esistenza  dello spazio-tempo dovrebbe essere considerata una forma di “creazione”? La risposta è: avrebbe potuto non esserci nulla piuttosto che qualche cosa. Molti scienziati sono dell’idea che l’esistenza dello schema matematico di un universo non equivale all’esistenza reale di quell’universo. Rimane dunque ciò che Drees definisce “la contingenza ontologica”. La teoria di Hartle-Hawking si accorda piuttosto bene con questo senso più astratto di “creazione”, perché è una teoria quantistica. L’essenza della fisica quantistica è l’indeterminazione: la predizione in una teoria quantistica è la predizione di probabilità più che di certezze. Il formalismo matematico di Hartle-Hawking fornisce le probabilità che un universo particolare, con una organizzazione particolare della materia, esista in ciascun momento. Nel predire che c’è una probabilità diversa da zero per un particolare universo, si afferma che c’è una possibilità ben definita che esso sarà realizzato. Siamo qui di fronte ad una “realizzazione di possibilità“.

Possiamo ipotizzare che il Vuoto è un sistema stabile e simmetrico che ospita una gigantesca forza di nientità o di vuotità. Trattasi di un sistema a-dimensionale (secondo alcuni pluridimensionale), un sistema stabile e simmetrico che non ospita il movimento. L’immobilità del Vuoto sarebbe il risultato di un sistema di forze in tensione in perenne equilibrio. Il sistema del Vuoto è un sistema abitato da una gigantesca forza di vuotità, una forza in tensione perenne e stabile che, è paradossale, per esistere, ha bisogno di produrre continuamente universi instabili e dissimmetrici abitati dalla freccia del tempo. Ora, è anche possibile ipotizzare che questi infiniti universi non sgorghino dalla sua superficie o dai suoi orli ma che abitino stabilmente in esso Vuoto. E che nel sistema del Vuoto ritorneranno quando si concluderà il viaggio dell’entropia del nostro universo. Mi sembra ovvio aggiungere, in epigrafe, che da questa ipotesi topografica non c’è alcun posto per dio. Dio, infatti, è stato fatto sloggiare dai suoi stabilimenti del nostro universo. E anche dagli altri universi; gli resta semmai soltanto un Non-luogo dove abitare: il Sistema a-dimensionale, stabile e infinito del Vuoto.

Secondo la tesi del famoso fisico Michio Taku, dio è una entità che parla matematica e che abita l’Iper-spazio a 10 dimensioni più il tempo. Solo che ancora non abbiamo una matematica in grado di leggere le frasi che dio pronuncia nella sua dimora nell’Iperspazio. Il problema dell’autenticità nella nostra epoca si pone come l’orizzonte decisivo delle  filosofie  del nuovo esistenzialismo, proprio perché dio sembra aver abbandonato il nostro piccolo universo e si è ritirato a villeggiare nella sua vasta dimora presso l’Iper-spazio. Sta a noi e solo a noi, dunque, trovare le chiavi di una esistenza giusta e dignitosa. Così oggi si torna a parlare di autenticità come si parla di Iperspazio, cioè di entità distanti quanto la luna da noi semplici enti mortali.

Robert Nozick 2

Robert Nozick

Giacomo Marramao testo tratto da Minima temporalia (2005, lucasossella editore)

«La domanda per il filosofo americano presuppone “una teoria egualitaria“, nel senso che divide gli stati in due classi: «gli stati N (naturali o privilegiati) che non richiedono (né ammettono) spiegazione e quelli che viceversa la richiedono (che vanno cioè spiegati come ‘devianze’ da N imputabili casualmente all’azione di forze F). Nozick adduce al riguardo gli esempi di Aristotele e di Newton: per il primo, lo “stato naturale” che non richiede spiegazione era la quiete, e le deviazioni da questo stato si determinavano per l’azione costante esercitata da forze impresse; per il secondo era invece costituito dalla quiete e dal moto rettilineo uniforme, mentre tutti gli altri moti dovevano essere spiegati mediante “forze non controbilanciate che agiscono sui corpi”. A questi esempi potremmo affiancare dal canto nostro… proprio quella di Leibniz. Con risultati un po’ curiosi, se non addirittura paradossali: per la metafisica leibniziana nessuno stato del mondo soddisfa i requisiti di N, poiché ogni situazione del mondo, anzi il mondo nel suo complesso, necessita – in quanto contingenza e devianza – di una giustificazione. Si potrebbe azzardare allora, sempre avvalendoci della stilizzazione di Nozick, che il solo “stato N” sia rappresentato in Leibniz dalla mera potenza o virtualità… e che E sia costituito invece dall’azione impressa a questi ultimi dall’Ens existentificans. Riceverebbe così un’ulteriore conferma e chiarificazione la tesi per cui nulla esisterebbe senza il conato all’esistenza impresso ai possibili dalla forza “esistentificante” di Dio.

Robert Nozick 1Ma torniamo alla forma di domanda “perché c’è X anziché Y?”. A essa si attagliano per Nozick particolarmente le teorie egualitarie: “C’è uno stato non-N anziché uno stato N a causa delle forze F che hanno allontanato il sistema da N. E se c’è uno stato N, c’è perché nessuna forza non controbilanciata ha allontanato il sistema da N“. È in conformità a questo dispositivo che la domanda “Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?” implica “una presunzione favorevole alla nientità [a presumption in favor of nothingness]”. La domanda ha, in altri termini, un senso solo se si presume che il nulla sia lo stato naturale o privilegiato che non ha bisogno di spiegazioni, mentre ogni devianza dal nulla – sia pure un aliquid impercettibile – va spiegata mediante il ricorso a fattori causali speciali. La difficoltà del problema risiederebbe però a questo punto nel fatto che “qualsiasi fattore speciale in grado di spiegare una deviazione dalla nientità diverge a sua volta dalla nientità, per cui la domanda chiede di spiegare anche quello”. La questione che Nozick deve porsi a questo stadio della sua explanation suona davvero schiettamente “leibniziana”: è possibile immaginare il nulla come uno stato naturale – ovvero una situazione simmetrica iniziale – che “contenga in sé la forza con cui produrre il qualcosa?”…. Resta tuttavia in piedi la plausibilità dell’argomentazione: assumere il Nulla come stato “naturale” potrebbe anche voler dire che esso deriva da una potentissima forza “nientificante” (tanto per intenderci: simmetrica e opposta all'”esistentificante” di Leibniz), una vacuum force, una “forza aspirante che risucchia le cose nell’inesistenza”. Diremmo allora che il Nulla “nientifica” se stesso: See how Heideggerian the seas of language run here! Quanto è heideggeriano, qui, l’oceano della lingua!” – esclama ironicamente Nozick. In base a questa idea si giungerebbe alla conclusione che c’è qualcosa anziché niente perché c’era una volta una forza di nientità che ha nientato se stessa. Producendo qualcosa. Forse, però, si è nientata solo in parte, producendo qualcosa ma lasciando ancora un po’ di forza di nientità [force for nothingness] residua” (Ibidem).

Abbiamo in tal modo l’esatto rovescio dell’Endspiel, del “finale di partita” leibniziano. Rovescio talmente perfetto da lasciarne intatti tutti i passaggi intermedi: dalla radicale contingenza del mondo all’allineamento orizzontale dei possibili. Ma un allineamento siffatto è proprio quello contemplato dalle “teorie egualitarie“, verso cui Nozick sembra nettamente propendere: “Una teorie egualitaria [egalitarian theory] coerente non considererà più naturale, o privilegiato, il non esistere o non sussistere, nemmeno per una possibilità, e metterà tutte le possibilità sullo stesso piano. Un modo per farlo è quello di dire che tutte le possibilità sono realizzate”. Conclusione – ancora – clamorosamente leibniziana, si sarebbe portati a dire. Salvo due differenze: “impercettibili”, forse, ma davvero decisive.

In primo luogo, le possibilità sono in Leibniz tutt’altro che “fittizie”, come si è visto, ma non realizzate: sono soltanto idealmente presenti pari jure “in Dio”, essendo la loro compossibilità intrinsecamente condizionata dalla universale concorrenza a esistere.

In secondo luogo: abbracciare la teoria egualitaria non implica soltanto rispetto alla domanda “Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?”, una neutralizzazione del contrasto implicito nel piuttosto-che, ma un azzeramento del paradosso che proprio quella particolare forma di interrogazione – e non un’altra – tenta di indicare o di evocare.

[…]

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Giuseppe Pedota, L’universo acronico, anni Novanta

Il problema radicale dell’essere e del nulla non è una questione che si ponga “provvidenzialmente” a un determinato stadio della storia del Nichilismo, a un’«ora X» dell’«oblio» o della “manifestatività” destinale dell’Essere. È un problema che può porsi, e che è stato di fatto variamente posto, in tutte le “epoche” della riflessione filosofica. Lo specifico contributo heideggeriano alla questione sollevata da Leibniz sta – come aveva osservato a suo tempo Luigi Scaravelli in un magistrale saggio su Il problema speculativo di Martin Heidegger – nella dimostrazione che l’«unità in cui l’essere e il nulla coincidono non è l’identità, né la dialettica del sapere». Questa unità avviene piuttosto «come continuo allontanarsi in noi dell’essere di noi stessi, in quanto l’allontanarsi di quest’essere è l’agire come costruzione d’una realtà che è il mondo stesso».

[…]

In quanto Ente “esistentificante”, Dio non solo fa si che esista qualcosa piuttosto che il nulla, ma anche che omne possibile habeat conatum ad Existentiam, che “ogni possibile abbia un conato all’esistenza”, dal momento che l’universale non ammette una ragione di restrizione dei possibili. Da ciò consegue però soltanto che “ogni possibile può essere detto existiturire in quanto si fonda sull’Ente necessario esistente in atto, senza il quale non vi sarebbe alcuna via per cui il possibile pervenga all’atto”; ma non che “tutti i possibili esistano”, che l’intera gamma della potenza pervenga all’atto: ciò che si darebbe esclusivamente a condizione che tutti i possibilia fossero compossibilia. Ma poiché, nella pretesa di esistere tutti, i possibili si trovano in conflitto, solo alcuni – in ragione della reciproca incompatibilità – giungono all’esistenza. Sta qui l’inestirpabile radice della divergenza delle serie“».*

Giacomo-Marramao

*Giacomo Marramao Minima temporalia. Tempo spazio esperienza lucasossella editore, 2005 pp. 32 segg.

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Marco Onofrio legge LA GRANDE BELLEZZA di Roma in un libro fotografico di Franco Spuri Zampetti

Roma CopertinaConcepire un libro su Roma (un altro, dopo le migliaia di pubblicazioni uscite) è come affrontare un oceano della conoscenza che dà le vertigini. Ci vuole coraggio e un pizzico di incoscienza. La città della “grande bellezza” è praticamente inesauribile: ed è perciò quanto di più arduo e affascinante gestirne le irradiazioni, tentando invano di contenerla o di venirne a capo. Roma non entra negli schemi, non si lascia prendere: sfugge da ogni parte, come l’acqua dal cavo di una mano. La gioia di guardare studiare fotografare scrivere Roma può talvolta ombrarsi di sbigottimento, di sconcerto. Si raggiunge così il sentimento che Gabriele d’Annunzio, in quel capolavoro liberty che è il romanzo Il Piacere – ambientato nella Roma salottiera e mondana di fine ‘800 – definisce «l’oscura tristezza che è in fondo a tutte le felicità umane, come alla foce di tutti i fiumi è l’acqua amara».

Roma Palazzo della Consulta - Quirinale

vista sulla piazza del Quirinale

Come gestire il mare senza sponde di questi 2768 anni di Storia? Trasformando appunto la Storia (con la “s” maiuscola) nelle storie infinite che la compongono: parcellizzandone, cioè, il blocco monolitico che ci intimorisce, nella possibilità di saggiarne frammenti significativi. Perché ogni frammento parla dell’insieme di cui fa parte. Ecco dunque l’idea vincente di Roma in particolare, lo splendido libro fotografico dell’architetto romano Franco Spuri Zampetti (ISBN 9788890722141, pp. 226, Euro 49). Scrive Iosif Brodskij (Premio Nobel per la letteratura 1987), a chiusa della dodicesima e ultima delle sue Elegie romane (1981):

«Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come / può soltanto sognare un frammento! Una dracma / d’oro è rimasta sopra la mia rètina. / Basta per tutta la lunghezza della tenebra».

 L’assemblaggio delle oltre 200 fotografie che compongono il volume di Zampetti configura una sorta di traduzione iconografica delle parole di Brodskij. Immaginiamo Roma come un sole, e il sole come archetipo dell’oro: l’occhio di chi fotografa Roma è chiamato a darci “spiccioli di luce”, cioè monete sonanti e vive, ciascuna rappresentativa della sua grande e inestimabile ricchezza. L’inconoscibile essenza di Roma è nell’oro che resta impresso sulla rètina, dopo aver guardato. Roma è una città che, nella dimensione sublime della sua bellezza, inonda la mente di luce: vive come un sogno, negli spazi sterminati dove parla – ad ogni uomo – le verità dell’anima. La suggestione di Roma svela nel silenzio i confini senza tempo dell’infinito. Per capirlo basta sprofondare con lo sguardo e con il cuore nella luce dorata di certi suoi crepuscoli, che ammantano le cupole di eternità. Ogni frammento, allora, è una goccia nel mare di questa luce. Roma è la totalità ideale che eternamente sogna ogni suo frammento. L’idea di base è appunto questa: Roma tutta è in ogni luogo che singolarmente la compone. Anche nel dettaglio in apparenza più banale, più insignificante. Che poi la banalità e l’insignificanza – a dire il vero – sono, o non sono, non nelle cose in sé ma dentro l’occhio di chi guarda.

 Autunno a Ponte Milvio

Autunno a Ponte Milvio

La grande bellezza di Roma si svela (più che attraverso visioni oleografiche dei suoi “loci deputati”, rimasticati e noti, ormai, in tutto il mondo) attraverso particolari epifanici, aperti e quasi scontornati, nell’immensità storica e simbolica che li contiene, e li rivela, e ci vibra dentro. Occorre dunque partire dallo scacco amaro della totalità impossibile per risalire al contrario le vie d’acqua dolce che ad essa conducono: dal mare ai fiumi ai ruscelli ai rivoli alle sorgenti. Si individuano dei “tagli” particolari di lettura della facies policentrica e stratificata, e si usano come calamite di aggregazione del significato, a mo’ di tracciati di attraversamento della complessità; che risulta così scorporata nei suoi elementi semplici: ma non ridotta o semplificata, proprio perché in ogni parte si riverbera il tutto. Enucleare un particolare sugli altri, dal contesto “Roma” (praticamente infinito negli echi delle sue millenarie stratificazioni), significa porre l’accento su una dimensione simbolica che da quel particolare riconduce al contesto, e dal contesto a sua volta riconduce al particolare, come in un gioco di specchi. Ecco il fascino meraviglioso di queste fotografie, che concentrano il focus di una ricerca ontologica, e in un certo senso metafisica, nei dettagli più “insoliti” della facies urbana acquisita, o negli aspetti meno noti dei “soliti” luoghi, anche quelli più conosciuti e rappresentativi. Tutti i grandi fotografi del ‘900 – da Man Ray a Robert Capa, a Henry Cartier Bresson, a Ferdinando Scianna, a Gianni Berengo Gardin – hanno contribuito a definire la fotografia come grande “arte ontologica”. Si recupera a distanza di secoli il potere irradiante della claritas tomistica: il fotografo bracca le cose e attende con pazienza il momento epifanico in cui, per un misterioso ineffabile animarsi dei loro connotati, aprono la loro scorza e confidano il loro segreto essenziale, il loro senso.

Palazzo del Quirinale

Palazzo del Quirinale

Leonardo Sciascia parla di ritratto fotografico come “entelechia”, cioè destino necessità e rivelazione del personaggio. Questione di “aura”, fin dai dagherròtipi. Il fascino infinito della luce: l’apertura cosmica del mondo catturata, nei suoi fondamenti invisibili, dallo scatto che interrompe la continuità unica del divenire. Un istante irripetibile è fermato per sempre, congelato in una forma che lo uccide come vita ma lo salva dall’evanescenza. Scrive Walter Benjamin in Piccola storia della fotografia:

«Che cos’è, propriamente, l’aura? Un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina. Seguire placidamente, in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione – tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo».

Zampetti respira le aure di Roma: acque, luci, pietre, cupole, scorci, quadri viventi. E alla fine del volume si diverte a incastonare un sonetto romanesco inedito (“Aria de Roma”), da lui composto, dove si parla di aria che «amminestra, tutto ner turchese», di sinfonia del «venticello» che accarezza i platani e increspa il Tevere, di «ponentino» serale che però è «difficile a stana’ co’ l’obbiettivo». Zampetti, in altre parole, avrebbe voluto fotografare anche il vento, portando cioè alla luce le dimensioni nascoste e invisibili della realtà ordinaria. L’uso stesso del verbo “stanare” è significativo della sua volontà di utilizzare la macchina fotografica come strumento di indagine conoscitiva, e scavo nel segreto di ciò che si nasconde.

Fontana a Piazza del Popolo

Fontana a Piazza del Popolo

Ma Zampetti va ancora più in là: si diverte ad accoppiare le foto, facendole “baciare” a libro chiuso, con la cerniera di una libera interpretazione, a partire dai loro addentellati. E in tale processo di associazione si scatena la creatività del fotografo, che mette in campo gli stratagemmi retorici più efficaci e persuasivi, tra cui si riconoscono facilmente – anche in seno alla stessa immagine – le figure classiche della similitudine, dell’analogia, della metonimia, della sineddoche e, più rara da trovare, dell’antitesi. Ne esce un labirinto straordinario di visioni tra le quali perdersi, senza smarrire il “filo d’Arianna” della bellezza, col suo fascino infinito, e dove continuare a trovare, riconoscendosi in ciò che la pagina “apre”, la carezza calda di quella luce profonda e antica, ma sempre nuova, che è Roma – agli occhi di ogni uomo che la “vede”. Una Roma storica, eterna, perenne, conosciuta e misteriosa, consueta e irripetibile. La città “de noantri” insieme alla nuova metropoli multiculturale. Zampetti insomma ci fa capire meglio ciò che già sappiamo: che la Città Eterna, nell’universalità del suo “particolare”, è patrimonio di tutto il mondo: basterà sfogliare le pagine di questo libro per averne ulteriore e grandiosa conferma.

Riflesso a Vicolo della Volpe

Riflesso a Vicolo della Volpe

Santa Maria della Vittoria - La Morte.

Santa Maria della Vittoria – La Morte.

Dioscuri del Quirinale

Dioscuri del Quirinale

Aracoeli

Aracoeli

Stadio dei Marmi - Il calciatore

Stadio dei Marmi – Il calciatore

Bruma mattutina a Ponte Milvio

Bruma mattutina a Ponte Milvio

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (Sovera, 2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (Sovera, 2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito finora 30 riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in centinaia di presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

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