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Marco Onofrio legge LA GRANDE BELLEZZA di Roma in un libro fotografico di Franco Spuri Zampetti

Roma CopertinaConcepire un libro su Roma (un altro, dopo le migliaia di pubblicazioni uscite) è come affrontare un oceano della conoscenza che dà le vertigini. Ci vuole coraggio e un pizzico di incoscienza. La città della “grande bellezza” è praticamente inesauribile: ed è perciò quanto di più arduo e affascinante gestirne le irradiazioni, tentando invano di contenerla o di venirne a capo. Roma non entra negli schemi, non si lascia prendere: sfugge da ogni parte, come l’acqua dal cavo di una mano. La gioia di guardare studiare fotografare scrivere Roma può talvolta ombrarsi di sbigottimento, di sconcerto. Si raggiunge così il sentimento che Gabriele d’Annunzio, in quel capolavoro liberty che è il romanzo Il Piacere – ambientato nella Roma salottiera e mondana di fine ‘800 – definisce «l’oscura tristezza che è in fondo a tutte le felicità umane, come alla foce di tutti i fiumi è l’acqua amara».

Roma Palazzo della Consulta - Quirinale

vista sulla piazza del Quirinale

Come gestire il mare senza sponde di questi 2768 anni di Storia? Trasformando appunto la Storia (con la “s” maiuscola) nelle storie infinite che la compongono: parcellizzandone, cioè, il blocco monolitico che ci intimorisce, nella possibilità di saggiarne frammenti significativi. Perché ogni frammento parla dell’insieme di cui fa parte. Ecco dunque l’idea vincente di Roma in particolare, lo splendido libro fotografico dell’architetto romano Franco Spuri Zampetti (ISBN 9788890722141, pp. 226, Euro 49). Scrive Iosif Brodskij (Premio Nobel per la letteratura 1987), a chiusa della dodicesima e ultima delle sue Elegie romane (1981):

«Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come / può soltanto sognare un frammento! Una dracma / d’oro è rimasta sopra la mia rètina. / Basta per tutta la lunghezza della tenebra».

 L’assemblaggio delle oltre 200 fotografie che compongono il volume di Zampetti configura una sorta di traduzione iconografica delle parole di Brodskij. Immaginiamo Roma come un sole, e il sole come archetipo dell’oro: l’occhio di chi fotografa Roma è chiamato a darci “spiccioli di luce”, cioè monete sonanti e vive, ciascuna rappresentativa della sua grande e inestimabile ricchezza. L’inconoscibile essenza di Roma è nell’oro che resta impresso sulla rètina, dopo aver guardato. Roma è una città che, nella dimensione sublime della sua bellezza, inonda la mente di luce: vive come un sogno, negli spazi sterminati dove parla – ad ogni uomo – le verità dell’anima. La suggestione di Roma svela nel silenzio i confini senza tempo dell’infinito. Per capirlo basta sprofondare con lo sguardo e con il cuore nella luce dorata di certi suoi crepuscoli, che ammantano le cupole di eternità. Ogni frammento, allora, è una goccia nel mare di questa luce. Roma è la totalità ideale che eternamente sogna ogni suo frammento. L’idea di base è appunto questa: Roma tutta è in ogni luogo che singolarmente la compone. Anche nel dettaglio in apparenza più banale, più insignificante. Che poi la banalità e l’insignificanza – a dire il vero – sono, o non sono, non nelle cose in sé ma dentro l’occhio di chi guarda.

 Autunno a Ponte Milvio

Autunno a Ponte Milvio

La grande bellezza di Roma si svela (più che attraverso visioni oleografiche dei suoi “loci deputati”, rimasticati e noti, ormai, in tutto il mondo) attraverso particolari epifanici, aperti e quasi scontornati, nell’immensità storica e simbolica che li contiene, e li rivela, e ci vibra dentro. Occorre dunque partire dallo scacco amaro della totalità impossibile per risalire al contrario le vie d’acqua dolce che ad essa conducono: dal mare ai fiumi ai ruscelli ai rivoli alle sorgenti. Si individuano dei “tagli” particolari di lettura della facies policentrica e stratificata, e si usano come calamite di aggregazione del significato, a mo’ di tracciati di attraversamento della complessità; che risulta così scorporata nei suoi elementi semplici: ma non ridotta o semplificata, proprio perché in ogni parte si riverbera il tutto. Enucleare un particolare sugli altri, dal contesto “Roma” (praticamente infinito negli echi delle sue millenarie stratificazioni), significa porre l’accento su una dimensione simbolica che da quel particolare riconduce al contesto, e dal contesto a sua volta riconduce al particolare, come in un gioco di specchi. Ecco il fascino meraviglioso di queste fotografie, che concentrano il focus di una ricerca ontologica, e in un certo senso metafisica, nei dettagli più “insoliti” della facies urbana acquisita, o negli aspetti meno noti dei “soliti” luoghi, anche quelli più conosciuti e rappresentativi. Tutti i grandi fotografi del ‘900 – da Man Ray a Robert Capa, a Henry Cartier Bresson, a Ferdinando Scianna, a Gianni Berengo Gardin – hanno contribuito a definire la fotografia come grande “arte ontologica”. Si recupera a distanza di secoli il potere irradiante della claritas tomistica: il fotografo bracca le cose e attende con pazienza il momento epifanico in cui, per un misterioso ineffabile animarsi dei loro connotati, aprono la loro scorza e confidano il loro segreto essenziale, il loro senso.

Palazzo del Quirinale

Palazzo del Quirinale

Leonardo Sciascia parla di ritratto fotografico come “entelechia”, cioè destino necessità e rivelazione del personaggio. Questione di “aura”, fin dai dagherròtipi. Il fascino infinito della luce: l’apertura cosmica del mondo catturata, nei suoi fondamenti invisibili, dallo scatto che interrompe la continuità unica del divenire. Un istante irripetibile è fermato per sempre, congelato in una forma che lo uccide come vita ma lo salva dall’evanescenza. Scrive Walter Benjamin in Piccola storia della fotografia:

«Che cos’è, propriamente, l’aura? Un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina. Seguire placidamente, in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione – tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo».

Zampetti respira le aure di Roma: acque, luci, pietre, cupole, scorci, quadri viventi. E alla fine del volume si diverte a incastonare un sonetto romanesco inedito (“Aria de Roma”), da lui composto, dove si parla di aria che «amminestra, tutto ner turchese», di sinfonia del «venticello» che accarezza i platani e increspa il Tevere, di «ponentino» serale che però è «difficile a stana’ co’ l’obbiettivo». Zampetti, in altre parole, avrebbe voluto fotografare anche il vento, portando cioè alla luce le dimensioni nascoste e invisibili della realtà ordinaria. L’uso stesso del verbo “stanare” è significativo della sua volontà di utilizzare la macchina fotografica come strumento di indagine conoscitiva, e scavo nel segreto di ciò che si nasconde.

Fontana a Piazza del Popolo

Fontana a Piazza del Popolo

Ma Zampetti va ancora più in là: si diverte ad accoppiare le foto, facendole “baciare” a libro chiuso, con la cerniera di una libera interpretazione, a partire dai loro addentellati. E in tale processo di associazione si scatena la creatività del fotografo, che mette in campo gli stratagemmi retorici più efficaci e persuasivi, tra cui si riconoscono facilmente – anche in seno alla stessa immagine – le figure classiche della similitudine, dell’analogia, della metonimia, della sineddoche e, più rara da trovare, dell’antitesi. Ne esce un labirinto straordinario di visioni tra le quali perdersi, senza smarrire il “filo d’Arianna” della bellezza, col suo fascino infinito, e dove continuare a trovare, riconoscendosi in ciò che la pagina “apre”, la carezza calda di quella luce profonda e antica, ma sempre nuova, che è Roma – agli occhi di ogni uomo che la “vede”. Una Roma storica, eterna, perenne, conosciuta e misteriosa, consueta e irripetibile. La città “de noantri” insieme alla nuova metropoli multiculturale. Zampetti insomma ci fa capire meglio ciò che già sappiamo: che la Città Eterna, nell’universalità del suo “particolare”, è patrimonio di tutto il mondo: basterà sfogliare le pagine di questo libro per averne ulteriore e grandiosa conferma.

Riflesso a Vicolo della Volpe

Riflesso a Vicolo della Volpe

Santa Maria della Vittoria - La Morte.

Santa Maria della Vittoria – La Morte.

Dioscuri del Quirinale

Dioscuri del Quirinale

Aracoeli

Aracoeli

Stadio dei Marmi - Il calciatore

Stadio dei Marmi – Il calciatore

Bruma mattutina a Ponte Milvio

Bruma mattutina a Ponte Milvio

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (Sovera, 2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (Sovera, 2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito finora 30 riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in centinaia di presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

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