Vincenzo Petronelli, tre poesie kitchen, Il momento espressivo della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale, a poesia kitchen è l’inquilino sfrattato dal fondamento che è costretto dagli eventi ad abitare un diverso statuto della parola poetica, una parola a-denotativa, uno speech act gratuito e invalido, un’esperienza della parola che apra lo spazio della gratuità, della invalidità e del kitsch, che non presupponga alcuno scambio di equivalenti

foto-angelo-androgino

La poesia kitchen è un androgino, l’inquilino sfrattato dal fondamento che è costretto dagli eventi ad abitare un diverso statuto della parola poetica, una parola a-denotativa, uno speech act gratuito e invalido, un’esperienza della parola che apra lo spazio della gratuità, della invalidità e del kitsch, che non presupponga alcuno scambio di equivalenti, perché le parole non sono mai degli equivalenti.

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Vincenzo Petronelli

Interno, notte

“Quando il tuo sangue sarà contaminato e compiuto il sacrificio
il mio nome ti sarà ignoto”.

Agosto: lettere alla naftalina nella bonaccia della cambusa.
La stagione è finita con i gigli al balcone.
A Şile i juke boxes sulle spiagge sono sigillati:
i bambini tornano a vendere tè nei parchi.

Sugli altari sgozzano le galline per l’apertura delle finestre.
Lenzuola appese ai davanzali: fuori
si cuoce la carne di pecora alla rɘzzaulɘ 7 per la sera.
I Mara Salvatrucha bruciano legna e copertoni.

Dicono che la regina Giovanna ebbe le doglie per nove giorni e più.

Vasi di fiori in frantumi e cenere di rose sparse per il giardino.

La fattucchiera ha raccolto le monete dal pozzo.

Amen.

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[7] Tipico piatto di pecora della murgia barese: si caratterizza per la lunga cottura (anche oltre le nove ore) e per l’amalgma totale che si crea tra la carne di pecora e le erbe selvatiche murgiane, in fase di preparazione, che le conferisce un gusto unico ed intenso

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Teatro

Nessuno ne seppe più nulla
fino a quel giorno di marzo 2016.
I traghetti da Durazzo hanno orari incerti.
All’imbarco, una fila ordinata di transfughi
in pigiama e ciabatte.

Tre mesi di prugnole selvatiche e tabacco da masticare:
questo il referto.

“Avete solo il menù del giorno
o anche à la carte, Suor Pasqualina?”.
“Oggi pranzo fisso: stricnina e carne di cavallo”.

Ogni ultimo lunedì del mese
l’avvocato si recava in banca per effettuare i prelievi.

Cercarono a lungo, ma invano, la chiave della tenuta di Montaltino.
Un’icona di madonna ilirica
dietro il décolleté in conference call.

Nella vecchia madia
solo libri di poesie di Paul Muldoon e Rafael Alberti.
Non rimase più traccia
degli affreschi sui muri e delle vecchie auto.

Lo tsunami spazzò le isole per sempre.

Risuonano voci dai fondali marini:
“Se Dio vuole, il prossimo anno sarà migliore”

Cocomeri e grigliate sulle spiagge del Gargano
nelle domeniche d’estate:
per dessert, parmigiana di melanzane.

Gli arrotini di Cerignola, forgiavano parole nella pietra.
“Yo soy más valiente que tu: más gitano y más torero”. 8

Solo gli elettricisti ormai
continuano a coltivare la metafisica.
“Ha visto il mio ultimo quadro elettrico, Signora Grace?”

“Per quello che ho, non sto soffrendo”.
Al Saint John’s Hospital
Gordon Lachance ricordava i giorni felici a Castle Rock
nel suo ultimo romanzo.
“This is the end: my friend, ma la notte equatorial ti fa sognar”.

Oliva è uscito stamattina nella nebbia
per recarsi a scuola, baciando sulla fronte sua madre e sua sorella:
sarebbe rientrato per pranzo.

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[8] Trad. dallo spagnolo: “Sono più coraggioso di te: maggiormente gitano e torero”. Verso tratto dal famoso brano di Federico Garcia Lorca: “En el café de Chinitas”

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Danubio

Zuppe di cavolo e cipolla nel refettorio della vecchia scuola.

“Hogy vagy, Vittorio?”.
“Jól, köszönöm: csak nagyon hídeg van kint”.9

Káta Néni 10 aveva l’abbonamento all’opera:
adorava Mozart e Liszt.
“Una figlia di Liszt è nata a Como, lo sapeva?”.
“Certo: era molto prima delle “croci frecciate”11

Alla fermata di Gyöngyösy útca, si cammina
con la mano sulle borse
guardando le incisioni di Barnard. Veloci,
scorrono mani zingare lungo fianchi ormai di donna.

“Stasera abbiamo appuntamento con Pétra e Zita
per “quattro matrimoni e un funerale”.
“Sul Rakpart,12 assaporerai l’umido del mio autunno.”

In fila per la distrubuzione del gulyás levés 13
a Keleti Pályudvar .14
Per la notte, una luce da campo nelle cuccette del Venezia Express.
Il sermone del pastore calvinista, stasera
ricorda che gli ultimi saranno i primi.
“Padre, preferisco i primi: possibilmente anche con dei secondi”

Zsuzsa la bidella è rincasata tardi: le hanno offerto un contratto
ed un biglietto per Lugano.
Un numero in tasca ed una chiave pass partout.
“A víszontlásra továris” .15
Le domeniche ai mercatini di Praga.

Lassie Come Home, Furia, Rin Tin Tin.
Hanno rubato il tempo ai giorni nostri.
Al crepuscolo si attraversa volentieri la deriva.
Pizza all’ananas e birra Borsodi in bottiglia.

Nelle boutiques in centro la collezione autunno-inverno Nietzsche
annuncia le prime correnti dall’Himalaya.

With our lives we give lives e Remebrances16
risuonano nel Parco degli Eroi.
Coppie di pattinatori danzano sul lago ghiacciato.
“Amo quest’atmosfera.
Non è male Budapest d’inverno, vero?”.

Un’auto in corsa con i finestrini neri.
Scrivere, in fondo, non ha molto senso.
Dissolvenza in campo lungo.

9] Trad. dall’ungherese: “Come stai Vittorio?”. “Bene, grazie: solo che fa molto freddo fuori”.
[10] Zia Kàtàlin in ungherese
[11] Milizie fasciste ungheresi
[12] Lungo Danubio
[13] Trad. dall’ungherese: “Zuppa di gulasch”: E’ questa la denominazione corretta del noto piatto della cucina magiara.
[14] È una delle stazioni ferroviarie di Budapest: la stazione orientale
[15] Trad. dall’ungherese: “Arrivederci compagni”. “Compagni”, qui inteso nel senso del glossario comunista, è riportato con la magiarizzazione del termine russo.
[1] Brani tratti dalla colonna sonora del film Schindler’s List  del compositore John Williams

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Vincenzo Petronelli voltoVincenzo Petronelli, è nato a Barletta l’8 novembre del 1970, laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiede ad Erba in provincia di Como, dove è approdato diciotto anni fa. Dopo un primo percorso post-laurea impegnato come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e come redattore editoriale, ha successivamente intrapreso un percorso professionale nel campo della consulenza aziendale che lo ha condotto all’attuale profilo di consulente in tema di comunicazione ed export; è ricercatore nelle problematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare e la cultura di massa. Dal 2018 è presidente del gruppo letterario Ammin Acarya di Como, impegnato nella divulgazione ed organizzazione di eventi nell’ambito letterario e poetico. Alcuni suoi scritti sono presenti nelle antologie IPOET 2017 e Il Segreto delle Fragole 2018 (Lietocolle), Mai la Parola rimane sola, edita nel 2017 dall’associazione Ammin  Acarya di Como e sulla rivista on line lombradelleparole.wordpress.com.

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Kitsch Instant fascist poetry cialtronesca e maramaldeggiante da anonimo su facebook all’indirizzo della giornalista Marianna Aprile

Ammazzati

Il momento espressivo della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale

Il momento espressivo di Vincenzo Petronelli coincide con un linguaggio irriconoscibile… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in pseudo-forma, degenera in mera visione dell’io, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc., cose legittime, s’intende, ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento».

Il problema di fondo filosofico della poesia della seconda metà del novecento, che si prolunga per ignavia di pensiero poetico in questo post-novecento che è il nuovo secolo, è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio» e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum). Il digiuno di filosofia di cui si nutre la poesia scettico pragmatica del quotidiano, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare, che procede in una sola dimensione: quella della linearità unitemporale a scartamento ridotto sulla misura dell’io; ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. I maggiori responsabili di questa situazione di scacco della poesia italiana sono stati i maggiori poeti del secondo novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971);  queste cose le ho già divulgate nel mio studio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 edito da EiLet di Roma nel 2011, ma era utile riepilogarle in questa sede.

Qui posso solo tracciare il punto di arrivo di questa processualità italiana ed europea: il minimalismo, il post-minimalismo e il cronachismo dell’io. Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa in diagonale la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione. Delle due l’una: o si accetta la poesia del post-minimalismo romano milanese, legittima s’intende, che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidimensionale che ha antichi antenati e antichi capostipiti, o si tenta una  inversione di tendenza: da una poesia unidimensionale ad una poesia pluridimensionale che accetti di misurarsi con una «forma poesia» più spaziosa, con una molteplicità di spazi e di tempi, con una molteplicità di voci interne ed esterne, con il plurilinguismo e il pluristile.

L’andatura atetica della «nuova poesia» kitchen è atipica, fatta di vacillamenti, di zoppicamenti, di passi all’indietro; un passo in avanti e due all’indietro; si va per passi laterali e per retrovie, per tentativi, per scorciatoie, per smottamenti laterali, ribaltamenti e aperture parentetiche, per ri-tracciamenti, per sentieri che si rivelano Umwege e ri-tracciamenti all’indietro, di lato… È che non essendoci più una fondazione sulla quale posare il discorso poetico, anch’esso se ne va a ramengo, senza un mittente e senza un destinatario, privo di identità, contando unicamente sulla destinazione senza destinatario; si invia, si destina qualcosa a qualcuno pur sapendo che non giungerà nulla a nessuno, in quanto la destinazione è priva di destino, si vive alla giornata seguendo il Principio Postale, la spedizione della cartolina, delle cartoline. Il «polittico» e il «kitchen» sono ragguagliabili ad una sommatoria sussultoria di frasari, di fraseggi, di cartoline, di invii, di ri-invii, di post-it, di scripta che non manent, di voci interrotte. Si va per la via della complessificazione della forma-poesia. Si tratta di un meccanismo di ri-invii e di ri-tracciamenti destinati allo sviamento e all’evitamento, dove il messaggio, che reca impresso il desiderio, la pulsione, non arriva mai a destinazione in quanto per definizione freudiana inibito alla meta; il Principio di Piacere che ha prodotto il desiderio approda infine al Principio di Realtà, e quest’ultimo retroagisce sul primo riproducendo il circuito chiuso di un meccanismo invernale. E così facendo perpetua il meccanismo di riproduzione del capitale libidico del piacere non ottenuto mediante la riproduzione del piacere libidico in piacere sublimato, piacere tras-posto, tras-ferito.

Scrive Agamben che i poeti:

«devono innanzitutto abbandonare le convenzioni e l’uso comune e rendersi, per così dire, straniera la lingua che devono dominare, iscrivendola in un sistema di regole arbitrarie quanto inesorabili, straniera a tal punto, che secondo una tenace tradizione, non sono essi a parlare, ma un principio divino (la musa) che proferisce il poema a cui il poeta si limita a prestare la voce. L’appropriazione della lingua che essi perseguono è, cioè, nella stessa misura una espropriazione, in modo che l’atto poetico si presenta come un gesto bipolare, che si rende ogni volta estraneo ciò che deve essere puntualmente appropriato».1

Se la metafisica – secondo Agamben – non è che l’oblio della differenza originaria tra significante e significato, la fine della metafisica ci pone il problema di pensare una parola che dismetta quella frattura, la lasci cadere nel pozzo senza fondo della differenza e della disambiguazione.
La poesia kitchen è l’inquilino sfrattato dal fondamento che è costretto dagli eventi ad abitare un diverso statuto della parola poetica, una parola a-denotativa, uno speech act gratuito e invalido, un’esperienza della parola che apra lo spazio della gratuità, della invalidità e del kitsch, che non presupponga alcuno scambio di equivalenti, le parole non sono mai degli equivalenti. Semmai se scambio v’è nella poetry kitchen v’è scambio di non-equivalenti.

(Giorgio Linguaglossa)

1 G. Agamben,  L’uso dei corpi, Vicenza, Neri Pozza  2014, p. 122.

17 commenti

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17 risposte a “Vincenzo Petronelli, tre poesie kitchen, Il momento espressivo della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale, a poesia kitchen è l’inquilino sfrattato dal fondamento che è costretto dagli eventi ad abitare un diverso statuto della parola poetica, una parola a-denotativa, uno speech act gratuito e invalido, un’esperienza della parola che apra lo spazio della gratuità, della invalidità e del kitsch, che non presupponga alcuno scambio di equivalenti

  1. La zona grigia di compromissione in cui tutti ci muoviamo, è già in sé una ideologia.
    Abbiamo dato agli azzeccagarbugli la lingua del Principe di Salina. Sullo sfondo di una realtà che va a fondo per lasciare posto all’iperrealtà, alla pseudorealtà e alla iporealtà, alla ipoverità, alla pseudoverità e alla iperverità; la distanza tra segno e referente, tra segno e cosa, è diventata smisurata, insondabile. Dal capitalismo della produzione e del consumo siamo arrivati ad un capitalismo semiurgico, della manipolazione dei segni, semiotico, semantico nel quale le parole sono diventate innocue, si sono iperbarizzate, atrofizzate, sono entrate in frigorifero e da lì ne sono uscite a temperatura zero gradi, pronte per essere impiegate nelle catene di montaggio magari della poetry kitchen.

    «Siamo giunti così ad una dimensione del soggetto lirico totalmente estranea alla poesia novecentesca.»

    Scrive Rovatti:
    «Bisogna essere “aperti” all’evento, alla sua irruzione, altrimenti non si produce alcun “nuovo” evento (cioè, alcun “evento”). Apertura resta una parola chiave dee pensiero contemporaneo, ma siamo in grado di abitarne e custodirne la distanza? “Apertura” e “chiusura” vengono allora a formare una strana coppia; i nostri normali giochi linguistici entrano in una sorta di “impazzimento”, il giocatore deve farsi giocare dal proprio gioco e solo a questa condizione è uno che sa giocare… A partire da qui si disegna, a mio parere, un nuovo stile di pensiero, meno violento, più poroso e, in definitiva, più “debole”. E, naturalmente, si profila anche una diversa idea di “soggetto”, insieme più leggera e più esplosiva, più utile e meno rassicurante. Soprattutto, c’è da fare un ingente lavoro filosofico, di cui possiamo rintracciare tutte le premesse nel ricchissimo pensiero contemporaneo, ma sulla cui realizzazione siamo ancora molto incerti e poco determinati».1]

    1] Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Raffaello Cortina Editore, 2007. XII

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    • vincenzo petronelli

      Carissimo Giorgio, innanzitutto ti ringrazio per la tua attenzione verso la mia ricerca poetica e per la tua ermeneutica, come sempre illuminante. Devo dire che mi ritrovo nell’immagine del poeta “sfrattato” dalle fondamenta, perché in effetti la fase di non ritorno della mia ricerca è coincisa con la percezione della mia estraneità, rispetto allo scialbore del mondo della poesia contemporarenea, soprattutto a partire dal momento in cui – dopo aver scritto prevalentemente per me stesso – ho cominciato a confrontarmi più appronfonditamente con le “viscere” di ciò che si scrive oggi in Italia (ho sempre letto molta poesia, ma avendo un approccio internazionalistico, non sono mai stato ancorato esclusivamente a ciò che si produce in Italia) comprendendo lo scialbore, lo sperpero che si fa oggi della parola poetica nella nostra lingua, complice le adunate salottiere, specie internettiane. E’ stato a partire dal quel momento che ho compreso il fatto che non potesse essere quella della poesia lineare, soggettiva, la strada più appropriata per proporre della poesia in grado di testimoniare adeguatamente il nostro tempo oltreché, nel mio caso. per riflettere l’eclettismo della mia cosmologia. Da tempo ormai, preferisco affermare di pare poesia Noe o kitchen (come già menzionato in un mio precedente intervento) piuttosto che poesia”tout court”, sostantivo dalla nobile tradizione, ormai decaduto al rango da rotocalco o da gossip dei peggiori “talk-show”.
      Un abbraccio.

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  2. caro Vincenzo Petronelli,

    mi correggo:
    Abbiamo dato al Principe di Salina la lingua degli azzeccagarbugli –

    i risultati sono sotto i nostri occhi: una marmellata di medietà generalizzata che investe ogni ambito del nostro essere-nel-mondo e, soprattutto, i nostri comportamenti, le nostre azioni. E come si può credere che la poesia ne resti immune? Sarebbe una ingenuità pensarlo.

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  3. antonio sagredo

    il concetto di “sfratto” conseguente all’altro concetto, in modo diverso ripetuto, del concetto ad “abitare in un statuto dell parola poetica” non è che una derivazione del principio di “astraniene” (pronuncia fonetica) scoperta e ampliata a tutte le forme della parola poetica… principio principe del formalismo russo e poi del costruttivismo e dopo dello strutturalismo.
    Pur salvando il senso, il termine “abitare” è detto impropriamente, più tecnicamente si dice “dislocazione” all’interno della stessa parola poetica.
    Sono dunque i “tratti distintivi” a cui corrispondono diversi fonemi a determinare il passaggio o transizione in altro posto dello stesso con-dominio. La ricerca è appunto il dominio, e da qui alla celebre parola “dominante” a cui sono soggetti i versi, le svariate intonazione e perfino si giunge alle varianti: vero rompicapo a cui il poeta deve sottostare.
    Dunque di per se nulla è nuovo se non la diversa collocazione temporale,
    di quest’oggi, dell’epoca che viviamo che ci trasloca e ci sfratta e ci strania indefinitivamente.
    La parola poetica resta intatta come fatto e principio della creazione stessa, ma cambia l’assoggettamento a un qualcosa che definiamo in anticipo per anticipare quasi la nuova dimora!
    La poesia che ci viene offerta qui la “Poetry kitchen” potrebbe divenire un nuovo termine di paragone per altre poetiche già in atto e in divenire ma bisogna essere chiari circa gli obiettivi; p.e. questa poesia dovrebbe armarsi di una maniera diversa di vedere, fissare il luogo da cui pervenire a una nuopva viione.

    a.s.

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    • Antonio caro,
      ho sempre pensato che la poesia fosse la rappresentazione di un tempo dato. Tanto è vero che a parità di età si sparano sempre le stesse poesie d’amore, d’anima e dolore. Sempre le stesse dimore.

      È bello quello che dici delle dimore…Disserto sulla forma di queste dimore, di quello che immagino sono diventate. E naturalmente parlo delle dimore kitchen.

      Sono giorni che sottintendo i pensieri in forma di clessidra. Mi spiego, almeno tento…Lo statuto delle parole NOE risiede in forme alterate di uno spazio ormai irregolare.
      Proviamo per ipotesi a tenere in equilibrio, attraverso i fori di entrata, per esempio, una bottiglia e un pallone da rugby e che per ipotesi, la sabbia, le parole, transitassero da un oggetto all’altro capovolgendoli. Quindi dapprima avremmo parolerugby e poi parolebottiglia e viceversa invertendo il verso, contaminandolo.

      Ti dirò di più, ogni operazione ontologica, quindi di creazione poetica è espressione di questo differente, riempimento. (Salto e scambio spazio/ temporale).

      La poesia di Petronelli, per esempio, mi diverte perché è la rappresentazione di uno svuotamento culturale con rimpiazzo di culture altre di cui l’autore né è a conoscenza e di cui ce ne fa partecipe, con un biglietto pagato di andata e ritorno di sicuro accrescimento
      culturale.

      Le poesie kitchen sono viaggi temporali e storici, clessidre appunto, passaggi, con ritorno sulla terra, con accresciuto interesse.

      (Penso proprio che il prossimo lavoro sarà intitolato CLESSIDRE…)
      Grazie Antonio Sagredo.
      Grazie Vincenzo Petronelli.
      Alè OMBRA!

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      • vincenzo petronelli

        Caro Mauro, mi piace molto la tua metafora del viaggio applicata alla nostra ricerca poetica. E’ esattamente uno dei motivi di attrazione che ho sempre avvertito nei confronti della poetica della Noe fin da quando mi ci sono approcciato per la prima volta e fin da quando ho letto le mie prime opere nate sel suo seno e cioà “L’erba di Stonehenge” ed “In viaggio con Godot” del nostro grande Mario Gabriele. L’idea dello scrivere per me è sempre stata intimamanente connessa a quella del viaggio, interno ed esterno – complice probabilmente anche le mie passioni ancestrali per la geografia e l’antropologia – ma mai inteso come viaggio lineare, bensì sempre per sbalzi – logici, temporali, spaziali – perché il viaggio intellettuale non ha mai una dinamica, una traiettoria predefinita. Tale esigenza, ritengo sia tanto più sentita, quanto più la pesonalità di chi scrive è poliedrica, che poi per me vuol dire semplicemente cercare il più possibile di esplorare qualsiasi diramazione che il percorso di vita ci metta di fronte (di cui poi il “viaggio” della scrittura altro non è che una rappresentazione, una ri-elaborazione) senza porsi preclusioni in nome dell'”economicità” dell’itinerario, che è il sentiero in cui si annida il rischio della sterilizzazione della parola, come scriveva prima correttamente Giorgio.
        Come sai, amo la musica, ed in particolare ritengo che la sua massima espressione dal punto di vista strettamente sonoro, sia la musica classica, della quale mi ha sempre estasiato la sua capacità (immergendovisi totalmente) di trasportarti in una proiezione sospesa nello spazio e nel tempo, verso dimensioni ulteriori, rispetto all’orizzonte visivo del quotidiano. Ecco, ritengo che uno degli elementi qualificanti una valida costruzione poetica, rispetto a quella prostastica (senza nulla togliere peraltro alla narrativa), sia trascendere il dato dell’oggetto, per illuminare i “fondamentali” della parabola dell’esistenza; ciò presuppone però la dotazione di un bagaglio lessicale, concettuale, cognitivo adeguato, che la poesia dell”io” imperante – ed oggi dominate – è lontanissima dal poter rappresentare e che costituisce invece l’armamentario prediletto della Nuova Ontologia Estetica.
        Un caro saluto.

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  4. milaure colasson

    scrive Vincenzo Petronelli:

    solo gli elettricisti ormai
    continuano a coltivare la metafisica

    kitschpoem

    La verità del testo o il testo della verità? Qual è lo statuto di verità che si propone la nuova ontologia estetica?, si chiede Linguaglossa.

    Il discorso poetico è ormai stabilmente ridotto ad una dimensione ipoveritativa, ma questo potrebbe rivelarsi un vantaggio, ormai la dimensione drammatica è stabilmente tramontata, è andata a farsi friggere insieme alle parole. Apprezzo molto la dimensione ipoveritativa della poesia kitchen di Vincenzo Petronelli, si nota che proviene dal discorso sensato della tradizione del novecento, ma è l’allontanamento da quella tradizione, l’allontanamento consapevole, che fa la differenza. La differenza la si può misurare sulla base della distanza: base x altezza moltiplicato per l’ipotenusa. Al quadrato.
    Ecco la formula che mondi può aprirti.
    Ma prima di aprire un mondo bisogna chiudere l’altro.
    Bisogna avere la consapevolezza di mandare al macero tutta la poesia del pensiero sensato e pensieroso.
    E Vincenzo ha avuto questo coraggio.

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    • vincenzo petronelli

      Carissima Marie Laure,
      intanto ti ringrazio infinitamente dei tuoi apprezzamenti che mi onorano.
      Hai sicuramente colto nel segno. La mia storia (e l’ho sempre pubblicamente riportato) è legata geneticamente, alla scrittura “tradizionale”, ma il mio animo perennemente inquieto e sempre alla ricerca di sé, non poteva evidentemente arrendersi al “dato” al “cognito”, stagnazione che non mi appartengono, per cercare la mia via poetica. E’ vero ciò che dici: pur ritenendo di essermi appropriato degli strumenti della Poetry kitchen – nell’ambito di un cammino logicamente ancora perfettibile – in questo momento alcune tracce dell’ “antico scrivere”, credo compaiano ancora e soprattutto direi per due ordini di ragioni; la prima secondo me è un approccio all’incipit della composizione che risente ancora molto della contaminazione che esercita la musica sulla mia scrittura, quindi ancora piuttosto lirico; la seconda è nel fatto tecnico che alcuni scritti da me ultimamante presentativi, sono re-styling di precedenti composizioni, in cui inevitabilmente traspaiono i germi della mia storia e ciò non solo perché ontogeneticamente iscritti a quel mio modo di poetare, ma anche perché una sfida che mi stimola in questo senso è proprio lavorare in “opposizione binaria” a quello stile, in quanto misurazione diretta deil’edificazione delle nuova fondamenta.
      Per dare un’idea della distanza siderale tra le due modalità di scrittura, mi permetto di pubblicare di seguito, l’archetipo da cui la prima poesia qui presente proviene (scritta in barlettano, ma per necessità di sintesi riporto solo la traduzione italiana, pur perdendoci in musicalità, ma in fondo non è questo lo scopo per cui la riporto) e l’intera versione del brano qui presente, di gui giustamente Giorgio ha riportato una delle tre stanze, in quanto troppo lungo. Credo sintetizzi efficacemente il mio percorso.
      Un abbraccio.

      UN AMORE DI ROSA
      Giugno era una nave di contrabbandieri
      che dalle pozzanghere arrivava dritta al porto
      uscivano le ragazze ad aspettare i forestieri
      e usciva la zingara che leggeva la sorte.

      Luglio profumava di gelsi e di limone
      e di promesse nel favonio della controra;
      c’erano cento rose sul balcone
      e il cuore dal petto ti saltava in gola.

      Ad Agosto gettasti un soldo nel pozzo
      con una lettera, rantolo di sangue
      e riecheggiava dietro l’albero la carrozza,
      ma l’amore tuo non arriverà domani e neanche dopodomani.

      UN AMORE DI ROSA

      Esterno, mattino

      La bottiglia di Cointreau capovolta sul tavolo.

      Giugno: una nave di contrabbandieri.
      Il corredo da sposa riluce
      nelle pozzanghere del mattino.
      “Davvero bello Signora Ninetta!
      Vagherete 40 anni nel deserto del Sinai, prima di raggiungere
      la terra di Canaan”.

      Il libeccio dal mare: piscio di marinai
      mescolato alla varechina dall’angiporto.
      Las señoritas con los trajes de flores
      salen hacía los barcos; “cuantas John”?

      Giostrai e indovini, ambulanti e zingari
      posters di Billy Idol e Nick Rhodes
      nel girone dei parrucchieri

      Esterno, pomeriggio

      “Ti aspettavo sveglio, puttana: dove sei stata fino a quest’ora?”;
      il bicchiere barcolla tra le mani.

      Luglio: il capitano ha comunicato che prenderà il mare
      fino al ritorno della cometa.

      Odore di valvole e pistoni ad olio nelle strade.
      Cesti di gelsi e limoni dietro la porta
      e collane di pomodori nelle cantine alla “controra”.

      “Aprite le finestre al nuovo sole!”.
      Lungo i marciapiedi, per le strade
      le ragazze con il burqa vanno in giro inginocchiate.

      “Lasciami entrare da dietro all’alba, mentre ti pettini:
      ti giuro su Nabucondonosor
      che la spada ti sfiorerà appena”.

      André Breton era già asmatico quando l’abbiamo conosciuto:
      andò al tappeto dopo uno spettacolo di danza di Ray Sugar Robinson.

      ………………………………………………………………………..

      Interno, notte

      “Quando il tuo sangue sarà contaminato e compiuto il sacrificio
      il mio nome ti sarà ignoto”.

      Agosto: lettere alla naftalina nella bonaccia della cambusa.
      La stagione è finita con i gigli al balcone.
      A Şile i juke boxes sulle spiagge sono sigillati:
      i bambini tornano a vendere tè nei parchi.

      Sugli altari sgozzano le galline per l’apertura delle finestre.
      Lenzuola appese ai davanzali: fuori
      si cuoce la carne di pecora alla rɘzzaulɘ per la sera.
      I Mara Salvatrucha bruciano legna e copertoni.

      Dicono che la regina Giovanna ebbe le doglie per nove giorni e più.

      Vasi di fiori in frantumi e cenere di rose sparse per il giardino.

      La fattucchiera ha raccolto le monete dal pozzo.

      Amen.

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  5. milaure colasson

    Benjamin scrive il famoso saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) quando la trasformazione dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è in una fase avanzata di sviluppo. La metropoli (Parigi) è il teatro della modernità nel cui spazio si intrecciano lo sviluppo dell’architettura industriale, in stazioni, passages e gallerie dove la folla si accalca per inseguire un destino senza meta. I passages sono i luoghi in cui all’intensificazione della vita nervosa dell’individuo, corrisponde una moltiplicazione delle sollecitazioni estetiche. Nella città dei passages l’incontro con gli oggetti e le merci avviene nell’illusorio sguardo panoramico: il panorama si rivela l’idillio funebre da declinare nel mondo in miniatura di immagini e suoni.
    Oggi, l’analogo dei passages benjaminiani sono i media: twitter, instagram, facebook etcetera, sono i luoghi della ipermodernità dove si celebra il matrimonio tra le masse e la loro falsa coscienza dove si rispecchiano le fobie, le manie, le paure…

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  6. milaure colasson

    ecco la mia ultima poesia della prossima raccolta Les choses de la vie in corso di stampa con Progetto Cultura.

    48.

    Les chevaux de bois du Parc Montsouris
    un vol sousterrain avec Mistinguette
    chevauchent avec deux hyppogriffes

    Eredia se dispute avec le Star Bus
    prend un avion à Trafalgar Square
    et atterrit à Sorrento sous la pluie

    Tzara n’a pas la syphilis
    des têtes d’épingles pour les poètes qui mangent des fraises

    Les éoliennes de la Basilicata
    sont la digestion du papier à lettres de Proust

    Pour tuer l’air marin des océans
    mieux vaut un revolver
    que la croix de guerre de Louis Aragon

    La blanche geisha en Rolls Royce
    une araignée transparente lui tient la main
    pour traverser la rue Mouffetard à toute vitesse

    Les courants d’air sont tout à fait utiles
    pour la diversité de la couleur des yeux

    Deux éléphants voilés pipe à la bouche
    s’installent sur les cumulus
    pour écrire su Facebook
    que cette vie est une foutaise

    vraiment?

    *

    I cavalli di legno del Parc Montsouris
    un volo sotterraneo con Mistinguette
    cavalcano con due ippogrifi

    Eredia litiga con lo Star Bus
    prende un aereo a Trafalgar Square
    e atterra a Sorrento sotto la pioggia

    Tzara non ha la sifilide
    delle teste di spillo per i poeti che mangiano fragole

    Le pale eoliche della Basilicata
    sono la digestione della carta da lettere di Proust

    Per uccidere l’aria marina degli oceani
    vale di più un revolver
    che la croce di guerra di Louis Aragon

    La bianca geisha in Rolls Royce
    un ragno trasparente le tiene la mano
    per attraversare la rue Mouffetard a tutta velocità

    Le correnti d’aria sono del tutto utili
    per la diversità del colore degli occhi

    Due elefanti velati pipa in bocca
    s’installano sui cumuli in cielo
    per scrivere su Facebook
    che questa vita è una fottitura

    veramente?

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  7. antonio sagredo

    …non solo gli elettrecisti che sono soggetti infimi e a posteriori e che spesso vanno in corto circuito non capiscono nulla di quel che fanno e dicono… poichè sono come i mistici del non-senso e del a-peniseroso (?) e vagano in tutte le direzioni pensierose… senso insensato!
    al macero? certo, da quando avevo con me l’infanzia che non ho più senso e del pensiero pensato sensato e pensieroso insensato non so che farmene…
    l’a-priori è invece la poesia metafisica senza la quale in ultima istanza nemmeno la Poetry kitchen esisterebbe…. se leggete questa attentamente di poesia metafisica è stracolma tanto è sensata!
    e ” le fobie, le manie, le paure…” non si rispecchiano (specchiarsi di nuovo è vano) … vivere non specchiandosi questo si che è difficile, più facile è morire!
    as

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  8. Scrive Adorno nella Teoria estetica:

    «Il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte».

    E Marie Laure Colasson :

    “ oublions les choses ne considérons que les rapports ”.

    Il senso di questa dichiarazione di poetica e quindi della poesia che ne consegue lo si può cogliere se si pensa il «polittico» della poesia della Colasson e della poesia kitchen in generale non come un manufatto che è qualcosa di evanescente e fluttuante ma come un poliedro che solo il discorso poetico può intuire, percepire, cogliere e raffigurare. Forse siamo ancora sotto la suggestione hölderliniana dell’uomo che «abita poeticamente la terra». Un “abitare poetico”, questo della Colasson, che si configura in senso ontologico come un esercizio dell’abitare il mondo mediante il quale è possibile costruire e narrare una identità non più identitaria fondata sul senso dell’appartenenza alla terra. In fin dei conti noi corrispondiamo sempre, in modo inconscio e conscio, alla domanda sul senso del mondo, ma la poesia kitchen e della Colasson intende sottrarsi a questa coercizione prodotto di un ideologema. La poesia è libera di abitare il mondo-poliedro, e quindi il polittico. Il «progetto poetico» (dichtende) della verità ipoveritativa non avviene nel vago e nell’indistinto, ma si svolge per l’umanità storica, nell’apertura di ciò in cui l’Esserci è di già gettato in quanto storico, e quindi un mondo di relazioni: vale a dire la terra per un popolo storico che la abita.
    La «terra» per Heidegger è «fondamento autochiudentesi», fondo opaco e ascoso che custodisce, in contrapposizione a un mondo inascoso, che si apre e viene esposto. Ciò che è stato dato all’uomo deve essere portato fuori dal suo fondamento occultato e fatto poggiare su di esso. In tal modo questo fondamento si presenta come «fondamento sorreggente», talché la produzione d’opera, in quanto rappresenta un tirar fuori di tal tipo, è un«creare-attingente (schöpfen)» (Heidegger).1

    Il soggettivismo moderno ha frainteso l’idea di creatività, perché l’ha intesa come l’atto di genio di un «soggetto sovrano», mentre, al contrario, «l’instaurazione della verità è instaurazione non solo nel senso di libera donazione, ma anche nel senso di fondamento che fonda».

    L’orientamento della nuova poesia e del nuovo romanzo è antisoggettivistico e ipoveritativo, e la «forma-polittico» è quella che meglio definisce e rappresenta la condizione ontologica di frammentarietà del nostro mondo. Possiamo definire il «polittico» come un mosaico di frammenti, di immagini dialettiche in movimento nella immobilità, compossibilità di contraddittorietà. Vengono a proposito le intuizioni di Benjamin sullo statuto delle immagini in movimento. Scrive Walter Benjamin:

    «Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente
    temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».2

    La forma-poesia prescelta è il «polittico», così anche nella sua pittura la Colasson segue la forma-astratta come collegamento inferenziale delle cose, che è il luogo dove abitare in modo spaesante i linguaggi figurativo e poetico. Nei suoi «polittici» Marie Laure Colasson entra da subito nelle linee interne delle cose, illustra quasi didascalicamente la condizione ontologica di frammentazione dello spirito del tempo del nostro mondo, il quale si dà, lo si può cogliere soltanto nelle «relazioni» spaziali e temporali, nelle spazialità e nelle temporalità vuote dei personaggi che si affacciano nella cornice della poesia. Le Figure che compaiono sono gli Estranei. La lingua impiegata è una lingua straniera, che fa a meno dei segni di punteggiatura, dei nessi causali, formali, sintattici e fonosimbolici. Nei suoi «polittici», sia in pittura che in poesia, non v’è un punto di vista ma una pluralità di punti di vista, di scorci che non convergono mai verso una identità in quanto sono eccentrici e legati da leggi di probabilità e di entanglement. Il discorso poetico cessa di essere un discorso identitario di una identità e diventa discorso plurale della pluralità. I legami tra le forme che emergono dal fondo ascoso dei suoi dipinti sono equivalenti ed equipollenti alle singole strofe irrelate delle poesie con i loro personaggi porta bandiera del nulla da cui provengono. Emissari del nulla e Commissari dell’essere.

    1 Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio. Trad. A. Caracciolo. Mursia, 2007 – L’origine dell’opera d’arte. In: Sentieri interrotti. Trad. P. Chiodi. Firenze: La Nuova Italia,1984
    2 2 W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2007, p. 516

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  9. Mario M. Gabriele,
    da Horcrux in corso di stampa con Progetto Cultura

    12

    Questa sera il decoder metterà in scena
    Il coraggio di vivere.

    Bella corvina, il bosco è inanimato
    e tu sei il mio passerotto di giornata

    mentre cerchi L’Angelo Azzurro di Stemberg.
    Difficile trovare un concerto per violini e orchestra

    con il Te Deum nella chiesa di San Pietro.
    Lasciami Ketty con la notte di Halloween

    e il volo della Lufthansa.
    Negli scaffali della Giunti

    c’era L’ultima nave per Tangeri di Kevin Barry.
    Stai con me!

    Resisti in questo inverno di ragnatele.
    Ci sarà pure un riposo dopo il trekking.

    Hai mai visto qualcosa durare più dell’alba?
    Tiriamo a sorte questa vita che non lascia nulla

    con gli oroscopi e le tre carte.
    Lei, tanto magra e sottile

    come un rametto di baobab,
    diceva sempre: – Quando mi porti sul Titanic? –
    *

    Vincenzo Petronelli

    Interno, notte

    “Quando il tuo sangue sarà contaminato e compiuto il sacrificio
    il mio nome ti sarà ignoto”.

    Agosto: lettere alla naftalina nella bonaccia della cambusa.
    La stagione è finita con i gigli al balcone.
    A Şile i juke boxes sulle spiagge sono sigillati:
    i bambini tornano a vendere tè nei parchi.

    Sugli altari sgozzano le galline per l’apertura delle finestre.
    Lenzuola appese ai davanzali: fuori
    si cuoce la carne di pecora alla rɘzzaulɘ 7 per la sera.
    I Mara Salvatrucha bruciano legna e copertoni.

    Dicono che la regina Giovanna ebbe le doglie per nove giorni e più.

    Vasi di fiori in frantumi e cenere di rose sparse per il giardino.

    La fattucchiera ha raccolto le monete dal pozzo.

    Le differenze tra la poesia kitchen di Mario Gabriele e quella di Vincenzo Petronelli sono tante, ma io mi vorrei soffermare solo su alcune.
    Nella poesia di Mario Gabriele la Stimmung dominante è l’ironia, i suoi personaggi vivono l’aureola di un attimo e subito spariscono per far posto ad altri personaggi anch’essi vittime dell’attimo. Tanti attimi, tante superfici. Il distico è un ottimo regolo fatto apposta per ordinare le fettine delle superfici come tanti ologrammi di una realtà pluriversale. Nella velocità del distico tutto si consuma in velocità, cool e swift; le frasi pronunciate slittano veloci e insignificanti, le glosse dell’autore anche sono scivolose e insidiose, sembrano voler dire qualcosa che poi non riescono a profferire, per quanto l’autore tenti di dire, le cose nella loro volubilità si sottraggono al dictum, sembrano parole lavate con il sapone liquido che abitano in una nuvola.

    Nella poesia di Petronelli ci troviamo più «terra», non c’è ironia. Ci troviamo frasari che riecheggiano una antica civiltà magica (La fattucchiera ha raccolto le monete dal pozzo); frasari descrittivi della morta stagione (Vasi di fiori in frantumi e cenere di rose sparse per il giardino); frasari che rimandano alle feste popolari di una civiltà agricola scomparsa (Sugli altari sgozzano le galline per l’apertura delle finestre); correlativi oggettivi di stagioni andate (Agosto: lettere alla naftalina nella bonaccia della cambusa); antiche ordalie della civiltà contadina scomparsa (“Quando il tuo sangue sarà contaminato e compiuto il sacrificio// il mio nome ti sarà ignoto”). Tutto ciò equipaggiato con una visione kitchen del mondo, mixando mediante zoom e mash up singoli fotogrammi, ricordi, schegge del passato, ormai la storia ha devalutato tutto ciò e le ha consegnate alla storialità. Le parole di Petronelli abitano ancora, in qualche modo e a loro modo, la «terra».

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    • vincenzo petronelli

      Carissimo Giorgio,
      intanto mi onora già il solo fatto che la mia poesia possa anche solo lontanamente abbinata a quella di Mario Gabriele: è una patente di legittimità della mia poesia che mi gratifica enormemente.
      Ciò che scrivi è ineccepibile: un’interpretazione perfetta della mia poesia.
      La “terra” è molto presente in queste poesie insieme, inevitabilmente, ad un’antropologia “materiale”.
      La mia formazione intellettuale, la mia stessa “weltanschauung”, è sempre stata, come mia cifra specifica, un’osmosi di terra e spirito, di materiale ed immateriale, come testimoniano i mie interessi antropologici oscillanti in un ampio fra etnologia descrittiva e storia delle religioni.
      Il mio vecchio “modus scribendi” tendeva più verso il primo modello, in quanto stratificazione della poesia tradizionale, “lineare”, “oggettiva” in cui la mia versificazione è nata e come scrivevo sopra, in risposta a Marie Laure Colasson, queste poesie ed anche altre (non tutte però) scritte ultimamente, sono una ri-formulazione di poesie di quell’epoca, proprio in quanto misura della distanza del percorso poetico compiuto: probabilmente, come tu stesso osservi, la peculiarità (forse interessante. non saprei dirlo con esattezza) è proprio nella sua osmosi tra i due livelli, ferma restando ovviamente la volontà di perseguire un modello che sia totalmente “Kitchen”
      In questo contesto, è quasi naturale (per filogenesi antropologica) che la maggior parte delle figure che compaiono nei miei scritti siano piuttosto dolenti ed in particolare quelle femminili – ed in questo senso credo che si possa aprire tutta una disquisizione – e ciò conduce di conseguenza ed una latitanza di ironia.
      Forse senza saperlo (o magari invece lo intuisci) citando la mancanza di ironia, hai individuato uno dei punti cruciali del mio percorso che mi ha condotto ad approdare alla Noe. Scrivevo prima che uno degli elementi cruciali della mia volontà di evoluzione, di rottura dei vecchi schemi, è stata la necessità pulsante per me di riuscire a creare un’impostazione di quella che amo definire (e mi scuso se mi ripeto per l’ennesima volta in questo senso) “poesia antropologica”, un ricettacolo cioè, in cui – partendo dall’idea che la poesia sia la massima espressione dei mie interessi intellettuali – convogliare la totalità della mia personalità; ciò però non risultava possibile con la scrittura unidirezionale della poesia del secondo ‘900 e pertanto uno dei fattori trainanti del rinnovamento nella mia ricerca consiste proprio nella necessità di ampliare il “campo del dicibile”. In questo quadro, uno degli elementi che maggiormente mi è mancato, è stata proprio l’ironia, componente fondamentale della mia personalità.
      In effetti, sto già lavorando nel contempo, su nuovi componimenti, non più legati alla mia “eredità” in cui il superamento di tale modello emerge più nitidamente e che ci vi sottopporò prossimamente.

      Un caro saluto.

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  10. La poetica delle parole abitate in Vincenzo Petronelli, Mimmo Pugliese, Iacopo Ricciardi, Ewa Tagher e Alfonso Cataldi

    Riflessioni di
    Gino Rago
    *

    Vincenzo Petronelli, Mimmo Pugliese, Iacopo Ricciardi, Ewa Tagher e Alfonso Cataldi, nelle recenti pagine de L’Ombra delle Parole, allestite, proposte e accompagnate dagli acuti commenti di Giorgio Linguaglossa, si mettono in viaggio verso una loro «patria linguistica» popolata di parole da abitare nel proprio «cerchio del dire».

    A proposito della Civiltà della solitudine Andrea Sangiacomo scrive:«All’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esistenza, abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è imparare a pensare e a pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella contrada il giorno conosce.
    Esser nati tra colli tranquilli, o tra valichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, sono diverse domande a cui ciascuno dovrà rispondere esistendo. Ma l’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi ideali che sono le parole […]».

    Vincenzo Petronelli, Mimmo Pugliese, Ewa Tagher, Iacopo Ricciardi e Alfonso Cataldi si muovono alla ricerca di una patria, una “patria-linguistica”, l’unica porzione di mondo nella quale i poeti non avvertono lo strazio dell’esilio perché approdano al proprio, personalissimo «cerchio del dire», a quella porzione di spazio in cui le “cose” sono in grado di prendere la parola e di andare incontro ai poeti per raccontarsi, per farsi comprendere.
    Perché?
    Perché quando si pone la propria esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, si incontrano le cose in modo diverso, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose-per-me, voci che prendono ad abitare con me la mia esistenza.

    *

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    • vincenzo petronelli

      Caro Gino,
      ti ringrazio molto per la tua analisi.
      In effetti, sottolineavo anch’io nei giorni scorsi alcune similitudini che caratterizzano la mia poesia e quella di Mimmo Pugliese, Ewa Tagher ed Alfonso Cataldi e che anche a mio avviso si inquadra in un percorso nomadico alla ricerca di un approdo, una dimora, una stanza o giustamente, un “Heimat” linguistico-poetica, partendo dalla creazione di vuoto delle propria fondamenta pre-esistenti, condizione basilare per sganciarsi dalle vecchie convenzioni.
      Da cultore tanto di poesia, quanto di geografia ed antropologia, sono anch’io convinto poi dell’analogia tra la determinate ambientale-geografica ed ambientale-linguistica, dimensioni interdipendenti, ma anche “architettonicamente” similari come costruzione.
      Un abbraccio.

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