Archivi del giorno: 7 dicembre 2016

Requiem per un libro che non ci sarà: Vieni, parliamo, chi parla non è morto Lettere di Cristina Campo (1936-1972) a Alejandra Pizarnik (1936/1970) a cura di Stefanie Golisch

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Cristina Campo (1923-1977), scrittrice, poeta e traduttrice italiana. Unica figlia del compositore Guido Guerini. È vissuta a Bologna, Firenze e Roma. Compagna del filosofo Elémire Zolla. Nel 1977 muore a Roma in seguito ad un una congenita malformazione cardiaca all’età di 53 anni.

Disse di sé: «Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto meno».

Alejandra Pizarnik (1936-1972), poeta argentina. Figlia di immigrati ebrei russi. Dal 1960 al 1964 vive, studia e lavora a Parigi. Nel 1972 muore suicida a Buenos Aires all’età di 36 anni.

Disse di sé: «Scrivi poesie perché hai bisogno di un posto, dove essere quello che non sei».

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Presentazione a cura di Stefanie Golisch

Circa otto anni fa scoprii negli archivi della Princeton University (New Jersey) una raccolta di lettere di Cristina Campo alla poeta argentina Alejandra Pizarnik (1936-1972). Decisi quasi subito di tradurre queste lettere – scritte in francese, a mano – in italiano. Convinta di sfondare porte aperte cominciai la mia ricerca di una casa editrice e, naturalmente, degli eredi del lascito della Campo per chiedere il consenso per la pubblicazione.

Ma quell’impresa, avviata con entusiasmo e sicuramente una buona dose di ingenuità, ben presto si trasformò in una vera e propria odissea.

Non avevo messo in conto che, evidentemente, mi stavo per espormi in un campo – quello della Campo – in cui non c’è posto per chi viene da fuori un circolo ristretto di persone che si arroga di diffondere una immagine canonizzata della poeta.

Proprio in questi giorni ho ricevuto il definitivissimo NO alla pubblicazione presso la casa editrice Mimesis di Milano da parte della portavoce degli eredi.

Ringrazio Giorgio Linguaglossa per la possibilità di pubblicare sul suo blog la mia prefazione e due lettere che lasciano intravedere i tratti di una amicizia epistolare intensa e tormentata che aggiungono nuove sfumature alla personalità di Cristina Campo.

Tentata vicinanza

Cristina Campo e Alejandra Pizarnik

Io non esisto se non nella massima angoscia. Sembra che la vita mi si comunichi soltanto a bastonate e in alcun altro modo. Se non ci fosse il dolore il mio mondo interiore non sarebbe diverso da quello di una qualsiasi ragazza che la mattina sbadiglia in autobus, vestita per una giornata in ufficio. Io posso parlare a pieno titolo del “dolore di essere viva”.

 Alejandra Pizarnik

Non Le accade di attendere pallido, col cuore in gola il suo passato, di piangere rabbiosamente il suo futuro? Non La prende l’impulso di dare tutto il suo sangue a ciò che ama e insieme quello di fuggire nel più lontano chissà dove, solo come il primo uomo, in un’aria di schiuma e di buona ventura? È una voglia di vivere tale da desiderare d’esser già morto.

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Cristina Campo a Remo Fasani

Fu tramite l’edizione tedesca dei diari di Alejandra Pizarnik che scoprii il legame tra la poetessa argentina di origine ebrea e Cristina Campo.

Mi feci spedire il carteggio dagli archivi della Princeton University, dove viene custodito il lascito letterario della Pizarnik, Immediatamente intuii i tratti di una relazione molto intensa, ma altrettanto complessa e non priva di una forte tensione di fondo, la quale per un certo periodo doveva avere occupato uno spazio non indifferente nella vita di entrambe le poetesse. Anche se a causa della perdita delle lettere di Alejandra l’immagine della loro amicizia rimane univoca, nei suoi diari si trovano tuttavia alcuni commenti che permettono di intuire come lei vivesse l’incontro con quella donna che, sebbene in modo opposto, è alla sua stessa ricerca di una intensificazione massima della vita: l’una, buttandovisi senza riserve, l’altra ritirandosi successivamente in una sfera di pura spiritualità. Nella diversità si riconoscono: Cristina scopre in Alejandra la sua fisicità repressa, Alejandra in Cristina la sua spiritualità sommersa.

Due modi di essere nel mondo che si attraggono e si respingono, che si avvicinano e si distanziano di nuovo secondo le proprie leggi interiori.

Campo, la raffinata scrittrice e studiosa, che vive volutamente al margine dell’ambiente letterario della sua epoca e Alejandra Pizarnik, l’eterna ragazza dai tratti geniali, psichicamente labile che si compiace nel ruolo di uno sfrenato Rimbaud al femminile e che vuole fare del suo corpo il corpo della poesia.

Due donne

 Cristina Campo.

Nata a Bologna nel 1923. Figlia unica. Famiglia borghese. Il padre, il compositore Guido Guerrini, è prima direttore del Conservatorio di Firenze, poi di Roma, la madre discende da una delle più importanti famiglie della città.

Un’esistenza privilegiata, segnata però da quella malattia – un difetto cardiaco, all’epoca inoperabile ‒ che le causerà la morte all’età di soli 54 anni. Non essendo in grado, per via della fragile salute, di frequentare le scuole pubbliche, la sua formazione avviene esclusivamente sotto la guida di insegnanti privati e tramite le più svariate letture.

Cristina è una divoratrice di libri, un’appassionata di lingue e letterature straniere: francese, tedesca, inglese e spagnola. Presto sviluppa un raffinatissimo gusto letterario che trova al margine della cultura ufficiale l’esclusivo e il bizzarro, ossia quell’altra verità, il cuore della sua produzione poetica e saggistica

Cristina Campo non ha alcuna intenzione di sfruttare la sua cultura ai fini pratici, non ha bisogno di essere amata dal grande pubblico, ed è intransigente per quanto riguarda la pubblicazione dei suoi testi. Possiede una innata libertà interiore che la protegge davanti alle tentazioni del pensiero comune.

Ipersensibile, fragilissima di salute, ma forte di animo e dotata di un carattere determinato ‒ così si potrebbe caratterizzare quella donna che Alejandra conosce nel 1962, tramite comuni amici, a Parigi. Lei, 26 anni, Cristina 39.

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Alejandra Pizarnik

 Il mito di Parigi, l’eldorado degli scrittori sudamericani dell’epoca: un sogno collettivo che rapisce intellettuali tra loro così diversi, come Julio Cortázar, Ottavio Paz, Hector Murena e molti altri.

Senza aver terminato gli studi letterari e artistici a Buenos Aires, nel marzo del 1960 Alejandra si era imbarcata per l’Europa. Sa che i cambiamenti geografici non modificano il paesaggio dell’anima, ma sente la necessità di prendere le distanze dai genitori, ebrei ucraini, emigrati in Argentina due anni prima della sua nascita, nel 1934.

A differenza della Campo che, per quanto lucida nell’analizzare i rapporti umani in generale, tende a idealizzare i suoi rapporti familiari, Alejandra è spietata.

Nel disastro della propria infanzia ‒ in che cosa esattamente consista è poco chiaro ‒ vede la principale causa del suo squilibrio psichico, del suo malessere nel mondo.

Non diversamente dalla Campo, anche lei cresce in circostanze assai privilegiate. Il padre, un commerciante di gioielli, permette alla famiglia una vita senza preoccupazioni economiche. Eppure Alejandra non si sente compresa, né dalla madre, che disapprova apertamente le sue ambizioni letterarie, né dal padre che nei suoi ricordi sembra una figura piuttosto sfuggente.

Nonostante le tensioni incessanti che, a quanto emerge dai diari, rendevano la convivenza in famiglia un inferno quotidiano, vivrà insieme a loro fino al 1968, quattro anni prima della sua morte: l’eterna figlia che attribuisce ai propri genitori la colpa per una vita che, nonostante il crescente riconoscimento letterario, non riesce a gestire e che la porterà al suicidio nel 1972.

Sono colei che mi cerca dove non sono.

Con queste parole Alejandra descrive nel diario l’angoscia del proprio vivere. Un’infelicità di fondo la separa dal mondo e le impedisce di costruire rapporti durevoli. Dall’altra parte tale radicalità nella sofferenza diviene la fonte della sua arte.  La contraddizione rimane.

L’8 febbraio 1958 annota nel diario: E’ come se mi avesse divorato un morto. Come se avessi nutrito il mio sangue con cenere. Come se la peste si fosse innamorata del mio destino. Come se la parola non fosse mai scappata dal mondo per trovare dimora in me.

Sostiene George Bataille che quando due persone s’innamorano, sono le loro ferite che si riconoscono. Il compimento dell’amore sarebbe dunque il momento del massimo dolore: quando le due ferite si posano una sopra l’altra.

Probabilmente ciò che Alejandra e Cristina avvertono reciprocamente è la radicalità del vivere negli estremi.

Sempre in altissimo.

Sotto la soglia della massima intensità di ogni attimo di vita nulla vale.

Bisogna essere pronti a bruciare vivi.

Cristina Campo sublimerà i pericoli della sua natura intransigente nell’ideale della perfezione etica ed estetica mentre Alejandra cerca di resistere giorno dopo giorno nella spietata battaglia tra l’io e il mondo. Poiché soltanto a chi non diserta e non si risparmia sarà concesso di formulare – per dirlo con un’espressione di Ingeborg Bachmann ‒ wahre Sätze, frasi vere.

 Vieni, parliamo, chi parla non è morto

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Mia cara piccola Alejandra,

la Sua lettera  mi ha profondamente sconvolta. Mi ha raggiunto in un momento di tenebra totale (i medici lo chiamano nervous breakdown) che è ancora e sempre frutto di troppo lutto. La comprendo pressoché troppo dolorosamente.

Cosa Le posso dire? Creda nell’anima, nella Sua, se non può più credere in quella di Suo padre, impegni la Sua anima, se può, a ricomporre con amore la sua figura, la sua eredità, la sua più segreta perfezione. La impieghi a creare un legame più forte – o forse più flessibile, in ogni modo più sicuro – con Sua madre.  Queste perdite orribili, queste mutilazioni senza nome, sono delle occasioni di rinnovamento per tutto ciò che resta. Non bisogna perderle.

Non mi aveva mai parlato di Suo padre. Vedo dal tono, dalla descrizione, che Le assomigliava molto. Ed è una grande fortuna. Rispetti profondamente questa rassomiglianza, preghi per Suo padre, se non può altrimenti, assomigliandogli nel modo più puro. La totale dignità dei morti è la più grande lezione spirituale che essi possano dare ai viventi!

La penso incessantemente e vorrei esserLe accanto per aiutarLa ad affrontare i mille piccoli orrori momentanei che rendono così dure queste eterne sofferenze. Mi scriva, se può. Il mio silenzio di tutti questi mesi significava, in parte, la paura di parlarle in un linguaggio che l’avrebbe disorientata. Oramai, ahimè, credo però che Le sia diventato familiare. L’abbraccio insieme a Elémire, pregando per voi, tutti e tre.

Cristina

 Questa breve lettera è caratteristica dello stile e del tono che Cristina assume quando si rivolge all’amica. Siccome ne avverte l’estrema instabilità psichica, cerca di condividerne il percorso di vita, trasmettendole tutto ciò che a lei stessa è stato di conforto.

La relazione dell’individuo con la propria tradizione non solo è centrale in questo contesto, ma è un tema ricorrente nelle lettere e costitutivo del pensiero di Cristina Campo, che proprio in quegli anni si avviava alla conversione al cattolicesimo.

Nella religione trova una via d’uscita dalle aporie della modernità, che proprio a causa della perdita di tradizioni millenarie non è più in grado di trasmettere all’uomo un orientamento spirituale, un senso del suo esistere.

In Alejandra avverte il prototipo dell’individuo moderno che, abbandonato a sé in un vuoto di significato, non può che reagire manifestando dei disturbi psichici. In aperto confronto con il pensiero corrente, lei difende l’idea che un solido radicamento dell’uomo nelle proprie tradizioni culturali e religiose sia garanzia della salute mentale individuale e collettiva.

In una lettera non datata, probabilmente del 1964, scrive a proposito:

Lei mi diceva, quasi un anno fa – quanto tempo è trascorso dalla Sua prima lettera – che parole come religione, patria, famiglia “naturalmente” non avessero alcun senso per Lei. Può benissimo essere vero, ma non è affatto naturale. E’ solo tragico – e se il poeta accetta tutto ciò come naturale, questa è la fine, lontana o vicina, della sua stessa arte, perché il poeta, cioè l’aristocratico, ha la sua patria, la sua religione, la sua famiglia: ce l’ha, in ogni caso: la religione della parola, la patria della lingua, la famiglia dei morti meravigliosi e severi. E’ sorvegliato ovunque, controllato da un seguito implacabile, da un cerimoniale più duro e più puro di quello degli imperatori di Bisanzio. Se si sottomette da asceta a questa corte invisibile più tardi avrà, oltretutto, perfino la patria reale, la religione reale, la famiglia reale: è, in ogni caso, il passato, la tradizione ritrovata, l’infanzia trasfigurata nella rivelazione della morte. L’esperienza, infine, così com’è: “un’altra vita, irriconoscibile, solenne e perfetta”.

Per salvare Alejandra dalle devastazioni del Zeitgeist le consiglia i libri di Simone Weil, il Lord Chandos di Hofmannsthal, e la mette in contatto con persone che ritiene possano esercitare un’influenza positiva su di lei. In particolare in Simone Weil, la Campo vede la figura guida sui generis. Ma Alejandra si sente respinta dal rigorismo morale della Weil, anzi, la spietatezza del suo pensiero le fa paura. Il 28 aprile 1963 scrive: La paura che mi fa S. Weil è una paura come se si aspettasse per un tempo incerto in una stanza vuota (bianca). Forse perché ha abolito la fantasia, ossia l’arte, per instaurare al suo posto la morale (la giustizia, la virtù, la filantropia. (…) Questo significa che per me S.W. è la tentazione del salto dall’estetica all’etica. E, anche se sono cosciente di essere caotica, di venire dalle menzogne e dall’immaginazione (…) devo dire che la giustizia e la virtù non m’interessano affatto. In me c’è qualcuno che accetta il male e il disordine se essi sono le premesse di una bella poesia.

Infatti, le sue osservazioni riguardano direttamente un conflitto, forse irrisolto della Campo stessa, cioè quello tra la ricerca spirituale e quella letteraria.

A causa della perdita delle lettere di Alejandra, purtroppo non possiamo sapere se le due donne abbiano mai affrontato apertamente questo argomento. E’ comunque probabile che, come spesso avviene per le amicizie femminili, abbiano preferito evitare i dissensi, sottolineando invece le somiglianze reciproche. Tuttavia, nel suo diario Alejandra parla chiaramente del rapporto con Cristina. Soprattutto nel periodo tra il 1964 e il 1967 numerose annotazioni riguardanti il loro scambio epistolare provano che Alejandra viveva questa relazione in modo molto intenso, ma altrettanto conflittuale: Strana relazione con C.C.. Non è strana, ma semplicemente una ripetizione in più. Desidero che non mi scriva più, affinché io possa soffrire. Ossia: perché lei sappia che io soffro a causa del suo silenzio.

Con il passare del tempo sempre più spesso deplora una lontananza di fondo, che, dall’altra parte, Cristina pare non avvertire:

Lettera di C.C. La comprendo?

Devo e non devo scrivere a C.C.? Tanto, non comprenderebbe mai ciò che mi duole.

Lettera di Cristina. Mi fa paura. Come se mi avesse scritto un angelo.

Terribile dolore a causa della lettera di C.C. a I. e, al contempo, gioia, perché in verità sono io che,

nonostante tutto, sono fedele. (…) Ossessionata dalla lettera di C.C. (…) C.C. fu la mia interlocutrice interiore.

Nelle lettere di Cristina, sempre gentili e misurate, Alejandra ravvisa la natura sfuggente, intoccabile della sua interlocutrice: Ora non sono più arrabbiata con C.. Ciò che assolutamente non posso capire: perché non ho letto le sue lettere con uno sguardo più critico? Ma queste lettere non m’interessano. C. non esiste, se non soltanto nella fantasia, è un personaggio inventato che mi scambia per qualcun altro quando parla, perché dice delle cose che non mi aspettavo. Soprattutto non ho notato la sua freddezza. Comprende che Cristina, nonostante gli apprezzamenti rivolti alla sua scrittura, la considera comunque una scrittrice non ancora matura, bisognosa di una guida spirituale. Ma Alejandra pretende che il caos della sua vita venga preso sul serio.

Due mondi

Da una parte la ricerca dell’armonia, dall’altra la resa al caos.

Tra questi due modi di percepire l’arte e la vita non c’è corda che leghi. Non si può arrivare a un compromesso, ma solo all’accettazione di un’altra necessità, imparagonabile alla propria.

Il 19.9.1967 Alejandra scrive nel diario: Ieri sera ho raccontato a Silvina del mio scambio epistolare con Vittoria. Avevo la sensazione che le interessasse; e ancora di più: credo che abbia visto in esso qualcosa di straordinario. Indubbiamente lo è o lo era (non so come andrà avanti, non so se voglio o posso continuare). E’ strano, ma soltanto quando ne parlavo con lei, ho capito che la grandezza e l’intensità dell’incontro tra me e V. non è “scontato”. (…) Perché l’entrata di V. nella mia vita non mi ha mai sorpreso? Non solo non mi ha sorpreso, ma ho dimentico la sorpresa (o la non-sorpresa). Qualche giorno dopo aggiunge: Davvero, che libro si è dissolto in tutte quelle lettere che ho spedito o non spedito a C.C.? E nel dicembre del 1968 conclude: Credo che la mia corrispondenza con C.C. mi abbia dato molto, perché mi ha costretto di rivolgermi a lei in modo chiaro. E’, la chiarezza, una virtù? Non so quali siano le virtù. Io conosco soltanto desideri.

L’ultima lettera di Cristina a Alejandra invece è del febbraio 1970.

Comincia in modo leggero con dei pettegolezzi su comuni conoscenti per poi passare, come di consueto, ai consigli di lettura: Ma salviamoci da questi antri orribili, dalla paura che un rospo ci possa saltare sulla spalla. Ho qualcosa di molto urgente da dirLe: è necessario, è un imperativo, che legga i libri del Rabbi Abraham Joshua Heschel, un mistico di pura tradizione chassidica che ho conosciuto in circostanze straordinarie (era qui un anno fa). Credo che una grande ricchezza e una grande gioia L’attendano in queste pagine. (…) Credo che Rabbi H. sia uno dei 10 giusti sopravvissuti al disastro di Sodoma: quelli che, un giorno, si dovranno riunire dai quattro punti cardinali per salvare le tradizioni minacciate, poiché “tutte lo sono”. Fu lui a dirmi quest’ultima parola. (…) Ed è molto bello che parole molto simili io le abbia ricevute tante volte da Alejandra.

Parole concilianti, il tentativo di aiutare l’amica di uscire dal circolo vizioso dell’autodistruzione che però non la raggiungono più.

L’amicizia amorosa tra Cristina Campo e Alejandra Pizarnik non si rompe clamorosamente, ma sfocia nel silenzio. Come succede in casi di questo genere, l’attrazione irrefrenabile del proprio opposto è troppo seducente per essere respinta e troppo pesante per essere vissuta fino in fondo. Il breve periodo del loro contatto epistolare non ha cambiato il corso della vita né dell’una, né dell’altra. Entrambe indomabili, si sfiorano soltanto; poi, come delle comete smarrite, tornano nella propria orbita, per andare laddove devono andare.

Prima lettera di Cristina Campo a Alejandra Pizarnik

Martedì [gennaio/febbraio?] 1963

Mia carissima amica,

non so come chiederLe perdono per non aver ancora risposto da settimane alla lettera dove Lei mi parlava della sua angoscia e che mi aveva molto colpito. Raramente il cielo ci permette di realizzare in tempo il gesto che vorrebbe scaturire da noi come la voce stessa e che, nella sua perfetta gratuità, potrebbe? dare, talvolta, a coloro che si ama ciò che Simone Weil chiamava “un poco di energia supplementare”. Ci sono dei casi in cui la distanza è crudele. La mia mano che prende la Sua in questo momento direbbe quanto dolorosamente io senta il Suo stato d’animo, che la mia imperdonabile mancanza d’attenzione, all’inizio, mi aveva fatto credere meno drammatico. E saprebbe anche, senza altre parole, a che punto sono certa di Lei, a che punto credo nella Sua vittoria. Non ci sono tracce in Lei di questo polo interiore di sofferenza, o del male che risponde alla sofferenza o al male esteriore e senza il quale niente di increscioso per lo spirito possa verificarsi. Le sembrerà strano, ma attendo impazientemente che Lei parta per questo viaggio che La sgomenta.

Ci sono grandi mostri che attendono di diventare principi. Bisogna proseguire dritto, come la Bella, e sedersi alla loro tavola. Lei appartiene, più che ogni altra persona al mondo, alla razza della Belle. Possiede il grande coraggio, la grande pietà, “il sacro dono del ridere” ed è proprio la donna che vuole la rosa in inverno. Inoltre, se ora scrive poesie più lunghe, vuol dire che è diventata più forte (è una meravigliosa notizia che mi ha dato). Inoltre ‒ e so che ciò non Le è indifferente ‒ ora Lei si trova in un cerchio – o meglio in un quadrato – magico: 4 amici La circondano (ne avrà degli altri, credo, molti altri, ma mi piace pensare che questi 4 Le sono più vicini degli altri). Hector è mercuriale, Lei lo sa, psychopompe, se possibile, e la sua presenza, mentre stavate partendo da B[uenos]. A[aires] ci dà molta gioia.

Ma perché, cara Alejandra, non inviarmi le Sue poesie? È crudele sollecitare un poeta, ma è ancora un poco più crudele, annunciarmi la mia poesia, altre lunghe poesie, senza inviarmi un solo verso…. Ci sono dei Suoi versi che mi ossessionano. Uno: “Cuando yo muera, quien me lo va a decir?” Aquì Alejandra, todos son muertos y no toleran que se lo digan. Roma è una città dove, per non morire, anche senza vocazione, anche senza religione, bisogna vivere come i santi. ”Y pasar la noche con una espada en la mano”.

Non ho mai conosciuto un posto dove l’odio per tutto ciò che vive è talmente feroce, di una ferocia da scimmia e da pollo. Per esempio: ho appena ricevuto la nuova edizione italiana dei meravigliosi saggi di Gottfried Benn (un libro che Le appartiene, credo). L’editore si scusa nella copertina, per questa pubblicazione, parla del grande poeta, l’ultimo: “certamente né un maestro, né un modello”; eccetera. Vorrebbe essere perdonato per aver aperto a un vivente la porta del grande cimitero. (Lo stesso odio cieco circonda Zolla che vive come un monaco e non ha alcuno in patria).

Non dimentichi, Alejandra di mandarci al più presto il suo saggio su Macedonio Fernandez. Se dovessi dare un giudizio soltanto considerando alcuni passaggi della Sua lettera su “Cecilia”

(che Zolla mi ha letto al telefono la mattina stessa), infinite altre gioie ci attendono nei Suoi saggi. Non so nulla di M. Fernandez. Se non ricordo male, si tratta dell’ammirabile assente al quale Borges dedica il suo Hacedor (“quel libro che non gli sarebbe piaciuto”)?

Quanto a Borges, è accaduta una piccola magia. Avevo preparato per Lei questo pesante e noioso ritratto (Prix Formentor), tagliandogli la testa ed i piedi, stilizzandolo fino all’emaciazione. Stavo per spedirglielo quando, molto disgustata, trovo tra i miei vecchi quaderni un foglietto battuto a macchina (il che faccio raramente) e che non ricordavo di aver scritto. Questo foglietto s’intitola

“Omaggio a Borges”, ma non ha nessun rapporto con Borges che non sia analogico, perché non si tratta di lui, non parla di lui, ma di un bellissimo piccolo monumento alchemico, la porta magica, nascosta nel mezzo di uno squallido mercato romano che vicino alla stazione. È una porta cieca (che, del resto, non introduce in alcun luogo) ma sulla quale si trovano misteriose incisioni latine ed ebraiche, quali: “Quando i vostri neri corvi genereranno bianche colombe, potrete chiamarvi saggi.” ecc. (Ecco, di nuovo, la metamorfosi dei mostri!)

È questa paginetta che Le invierò (se non preferisce l’altra versione, quella accademica, per questa occasione così poco ufficiale). Io sarò occupata per 2 giorni alla correzione della Venice sauvée di S[imone] W[eil] che ho tradotto in italiano; poi copierò quel foglietto e lo riceverà, spero, al più tardi entro circa una settimana.

Come vede, Alejandra, la Sua presenza è causa di ogni sorta di fenomeni inquietanti.

L’atto stesso di scriverLe produce delle specie di cortocircuiti e questo non è una metafora, perché avevo appena cominciato a scrivere questa lettera quando un fulmine è caduto a due passi dalla casa (con mia grande gioia, perché attendevamo il temporale da ieri) e dopo qualche minuto un campanello ha cominciato a suonare da solo nel corridoio – nessuno alla porta, soltanto questo tintinnio allegro come un riso che mi ha donato una grande gioia. È durato circa 10 minuti, a tre riprese. Cosa ne dice?

Mia cara Alejandra, La stringo tra le mie braccia. Attendo le poesie. Grazie.

La Sua Cristina

Grazie per Commerce. Tutto ciò che fa è ben fatto. Hector [Murena] (che è molto arrabbiato perché, tutta occupata di Lei, non gli ho più scritto negli ultimi tempi, e altamente incoerente come tutti i maschi, perchè aggiunge: “che felicità sapere che Lei ha una corrispondenza con Alejandra”) mi ha consigliato di inviare un saggio a Papeles de Son Armadans.

Avrei così qualcosa che potrebbe leggere senza un orrendo dizionario. (Cosa pensa di Papeles? Ha già avuto una collaborazione? Crede che accetteranno questo saggio di una sconosciuta?) María Zambrano scriverà loro. Vedremo.

Penultima lettera di Cristina Campo a Alejandra Pizarnik

 Roma, febbraio 1970

Mia carissima,

la Sua deliziosa lettera su S[ilvina] O[campo] mi diverte infinitamente. Ho assistito a una specie di (molto strana) resurrezione dei morti, perchè conoscevo già questa storia a memoria: è, alla lettera, la storia della mia relazione (se si può dirlo) con Elsa Morante, la scrittrice (moglie di Moravia). Secondo la logica inflessibile dell’irrazionale, Wilcock, dopo aver lasciato S[ilvina].O[campo] a Buenos Aires dodici o quindici anni fa, è immediatamente passato al servizio di E[lsa].M.[orante] a Roma. Sia dall’una, sia dall’altra, ha scrupolosamente svolto il ruolo del gatto della strega, mirabilmente adatto a un certo tipo di omosessuale subdolo e sentimentale e fondamentalmente masochista (perfino se, come Wilcock, di estrema intelligenza).

Alla fine della storia il gatto è stato divorato dalla strega, della quale pensava di servirsi per raggiungere) i suoi fini occulti – non essendo abbastanza donna per esercitare lui stesso la vera stregoneria…

Quelli, come Lei e me, che si rifiutano ostinatamente di lasciarsi divorare, sono destinati all’amorevole odio, teneramente criminale della strega. Mi ha colpito la Sua giusta osservazione sulla causa ultima del furore di S.[ilvina] O.[campo]: la scoperta della tradizione giudaica. Ogni forma, anche relativa, di certezza – amore, poesia, solitudine ‒ che rendono una creatura inafferrabile, è intollerabile per i vampiri; cosa dire quindi della certezza delle certezze, delle sue radici spirituali? Mi ricordo lo sguardo di vera disperazione di questo tipo di gente quando, per esempio, rispondevo alle loro descrizioni tragiche e mistiche dell’“esperienza allucinogena” con una risata o con un “Povero mio…. oh, è una disgrazia troppo grande”, costernata e piena di dolce compassione. O quando, evocando (loro) delle fascinazioni irresistibili, indicavo come unica e sovrana (il che è verissimo) quella di una vecchia badessa benedettina di clausura… L’unica differenza notevole è che E[lsa] M[orante] non è più né charmant, né squisita ‒ se mai lo è stata.

S[ilvina] O[campo], fondamentalmente identica, ha comunque molta più classe. (Leggevo circa un mese fa in “Razòn y Fabula” una sua impeccabile e purulenta poesia “Anamnesis”, credo. Mi domandavo se qualche cosa potesse esprimere più profondamente la decadenza, perfino intellettuale di un epoca; ma, tutto sommato, E. M. non sarebbe riuscita a scrivere nulla di simile).

Ma salviamoci da questi antri orribili, dalla paura che un rospo ci possa saltare sulla spalla. Ho qualcosa di molto urgente da dirLe: è necessario, è un imperativo, che legga i libri del Rabbi Abraham Joshua Heschel, un mistico di pura tradizione chassidica che ho conosciuto in circostanze straordinarie (era qui un anno fa). Credo che una grande ricchezza e una grande gioia L’attendano in queste pagine. Qualche titolo (scrive in un inglese ammirevole: “Man is not alone”, “God in search of Man” e soprattutto un libricino “Sabbath”. Credo che l’editore sia sempre Farrar & Strauss di New York. La cosa straordinaria in Rabbi Heschel, così come dei racconti del Baal Schem, è che ognuno vi trova ciò che è destinato a lui. (Personalmente non trovo alcuna difficoltà a leggere Verbo laddove egli usa Torah, ma questo ha poca importanza. Ho appena scritto, tra parentesi, la prefazione all’edizione italiana di “Man is not alone”). Credo che Rabbi H. sia uno dei 10 giusti sopravvissuti al disastro di Sodoma: quelli che, un giorno, si dovranno riunire dai quattro punti cardinali per salvare le tradizioni minacciate, poiché “tutte lo sono”. Fu lui a dirmi quest’ultima parola, supplicandomi di scrivere sulla mia. Ed è molto bello che parole molto simili io le abbia ricevute tante volte da Alejandra.

L’abbraccio molto teneramente, mia cara, augurandoLe tutte le grazie

Sua Cristina

Sono incantata che Tentori abbia trovato spunti di riflessione nei Suoi piccoli libri: tra i quali lui preferisce, come me, con veemenza “Los trabajos y las noches”. Penso che nella sua antologia, che conterrà un numero molto ristretto di poeti, ci saranno almeno 10 o 12 poesie di Alejandra e questo mi incanta più di quanto Le possa dire.

(E il Suo lungo poema di 360 pagine? Era una promessa…)

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Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia. Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014.

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