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POESIE INEDITE di Lucianna ArgentinoAppunti per una estetica del lavoro” (2005) con una Nota dell’autrice

Renato Mambor

Renato Mambor

 Lucianna Argentino è nata a Roma nel 1962. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Gli argini del tempo (ed. Totem, 1991), Biografia a margine (Fermenti Editrice, 1994) con la prefazione di Dario Bellezza e disegni di Francesco Paolo Delle Noci; Mutamento ((Fermenti Editrice,1999); Verso Penuel  (Edizioni dell’Oleandro, 2003),; Diario inverso (Manni editori, 2006), con la prefazione di Marco Guzzi;  L’ospite indocile (Passigli, 2012) con. Nel 2009 ha pubblicato la plaquette Favola (Lietocolle), con acquerelli di Marco Sebastiani. Ha realizzato due e-book, uno nel 2008 con Pagina-Zero tratto dalla raccolta inedita “Le stanze inquiete” e nel 2011  “Nomi” con il blog “Le vie poetiche”. Il suo lavoro inedito La vita in dissolvenza (quattro poemetti- monologhi) è stato musicato dal chitarrista Stefano Oliva e, dal marzo 2011, presentato in vari teatri e associazioni culturali. Dal 2014 collabora con l’Ensemble Acquelibere con lo spettacolo “Almanacco indocile”.

Renato Mambor

Renato Mambor

 Nota dell’autrice

Ho scritto questo libro perché non volevo andasse perduto quanto vissuto durante lunghi undici anni alla cassa di un supermercato. Soprattutto non volevo andasse perduta la memoria, seppur minima, di alcune delle persone con cui sono venuta in contatto. Un contatto vero, umano, che è andato oltre i gesti e le parole che il mio angusto ruolo richiedevano. Poi c’erano i foglietti di carta che affollavano le tasche del mio camice e la penna sempre a portata di mano per rispondere alla mia vocazione alla poesia.

Non soltanto l’uomo sappia quello che fa, ma se possibile ne percepisca l’uso, percepisca la natura da lui modificata”. Sono parole di Simone Weil che auspicava un’etica del lavoro in cui la comprensione del proprio operare e il senso dell’utilità dessero all’uomo il “sentimento del cuore”. Sentimento che, tra gli altri, mi ha sempre sostenuta e in particolare in quegli anni, facendo sì che le centinaia di persone che ogni giorno mi passavano davanti non si trasformassero in una massa informe e indistinta, ma ognuno mantenesse la propria identità perché anch’io mantenessi la mia. E’ stato un dirci umano, un reciproco riconoscerci nell’umanità, nella fraternità che ci rende uguali al di là di tutti i dati contingenti che ci definiscono.

Ho cercato di andare oltre, di oltrepassare l’arida meccanicità che il mio lavoro in sé richiedeva, ho alzato lo sguardo dai numeri del display per incontrare gli occhi di chi mi stava davanti. Ho cercato di vedere le persone così come sono, con le loro debolezze e le loro grandezze e di affidarmi al fatto che non sapevo altro di chi mi stava difronte se non che era il mio prossimo, nel senso più ampio e lato del termine. Un essere umano con la sua storia invisibile, una persona cui dovevo rispetto, attenzione e gentilezza così che quei pochi istanti in cui eravamo in relazione si aprissero a un tempo altro. Ho cercato di “scoprire tra la polvere quotidiana il granello di purezza che c’è”, è ancora Simone Weil, anche se non sempre ho trovato la purezza, forse perché si esprime solo a sprazzi, in attimi che pure esistono e quando arrivano illuminano il tempo, ne levigano il senso. “L’arte è conoscenza. O meglio l’arte è esplorazione. Il trionfo dell’arte è nel condurre ad altro da sé: alla vita in piena coscienza del patto che lega la mente al mondo”. Dice ancora Simone Weil che riteneva che la grandezza dell’uomo risieda nella sua capacità di “ricreare la sua vita”. Cosa che l’uomo può fare “attraverso il lavoro che forgia la natura per produrre i mezzi di esistenza; tramite la scienza che traduce in simboli l’universo; tramite l’arte alleanza tra il corpo e l’anima”. E questa alleanza è stata ed è per me come un lievito, come quell’attenzione creatrice che “possiede una facoltà sempre identica di proiettare luce su un essere umano qualunque esso sia”.

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

Riconoscere, dunque, in me e negli altri l’esigenza di bene che ci accomuna, attraverso l’attenzione, l’amore e il consenso pe realizzare il bene, dargli evidenza. Il poeta, da sempre, si fa intermediario tra la realtà altra e il mondo e tra l’uomo e l’altro uomo, riportando la mente nel cuore con il proposito di “leggere altrimenti” la realtà che ci circonda. E soprattutto vivendo quel poetare che è “l’autentico far abitare”: poetare in quanto far abitare è un costruire, dice Heidegger.  Costruire dunque uno spazio, un luogo in cui consentire l’av-venire dell’umano, in cui indicarne l’essenza rispondendo a quell’appello incessante e primario che è il linguaggio, attraverso cui il poeta prende la misura del nostro essere sulla terra, sotto il cielo e ne indaga il mistero. Nella scrittura stessa ho vissuto questo nostro essere frammezzo oscillando in una zona di confine, appunto, tra la prosa e la poesia. Probabilmente perché la vita vive di queste oscillazioni e perché l’incontro con queste persone è avvenuto in una zona di confine. Io che mi sporgevo al di là del plexiglas della cassa e loro che riuscivano ad andare oltre il camice che mi rivestiva e nello stesso tempo mi spogliava. Mi spogliava di ciò che sono e mi definiva in un ruolo preciso che non richiedeva da me particolari attitudini. Ma l’attitudine all’umano, all’ascolto, la curiosità per l’umano sono profondamente radicate in me e così ho cercato di raccontare, di dire in modo nuovo e pieno il tempo vissuto in quel posto, in un contesto lavorativo non particolarmente soddisfacente. (Ho detto posto e non luogo per definirlo come un semplice riferimento spaziale, in quanto posso ben dire che non era un luogo, ma un non-luogo, espropriato com’era dei presupposti dell’accoglienza, del riconoscimento dell’altro, ma tuttavia divenuto tòpos nell’atto della scrittura). “Le stanze inquiete” perché ho immaginato ognuno di coloro di cui racconto, come una stanza di cui riuscivo a sbirciare l’interno dallo spazio che essi mi concedevano. Visti e detti per inserire loro e me, nel complesso quadro dell’esistenza. Alcuni, quindi, solo raccontati, altri tradotti in spunti per riflessioni e considerazioni sull’umano.

In un testo parlo di “vita in paragrafi” e mi sono resa conto poi di quanto mai sia calzante il termine paragrafo che etimologicamente vuol dire “scritto al lato, annotare in margine”. E se il margine è lo spazio bianco entro cui è inserito lo scritto sulla pagina (simbolo pure del mistero, del non conosciuto, del non visibile che circonda ogni vita) e se il margine è pure la cicatrice di una ferita ecco il perché del mio scrivere e raccontare attorno e dentro questa cicatrice. E in margine annotavo le parole, costruivo un ponte da una sponda all’altra dove anche le sponde seguivano il fluire del fiume. Esercitavo pertanto la mia libertà di persona vivendo quel posto costrittivo attraverso gli altri che si avvicendavano alla mia cassa, ricreavo la loro vita sulla carta e con la loro la mia, in un’aggiunta di senso che fluidificava il mio essere lì in uno stato inquieto ma attento. Uno stare con lo sguardo orientato verso l’umano e illuminato dalla poesia, un oscillare tra il dettaglio realistico e la vibrazione lirica. Sempre in piena consapevolezza del fatto che è necessario seguire la propria vocazione, cioè, e concludo con Simone Weil, occorre: “avere davanti agli occhi la propria vita tutta e prendere la risoluzione ferma e costante di farne qualcosa, di orientarla da un capo all’altro in un determinato senso per mezzo della volontà e del lavoro”.

patrick caulfield

patrick caulfield

(quasi una prefazione di Lucianna Argentino)

Non è facile scrivere poesie. E’ facile semmai dirsi poeti se sia poesia vera poi chi lo sa che già dire cos’è poesia non è questione da poco. Eppure mi appassiona la vita e lascio che le cose mi rovistino lo sguardo e l’anima anche in questo bar di periferia dove assieme al caffè bevo le parole di un poeta morto in un gulag vicino Vladivostok quasi cinque lustri prima che io nascessi che tutto questo fosse che ormai di anni da quella data incerta ne sono passati quasi settanta ma ancora mi parla ancora mi dice sopra il vocio del bar sopra il vocio del mondo. Ma cosa avremo noi da dire a coloro che verranno se è già difficile intendersi parlando figuriamoci poi dirlo in poesia come tento io che non sono laureata e non insegno ma imparo imparo molto anche se di noi mi passa davanti quanto finisce nelle fogne ma pure tanti occhi tante storie perché magari ecco so ascoltare d’altra parte se non sapessi ascoltare che poeta sarei? Eppure temo che tutto in noi passi e scorra via ma devo credere che qualcosa resti e si fermi e sia seme ma poi mi dico pure che credevo che il dolore rendesse migliori e invece no perché il dolore a volte sta tra noi e il mondo come uno scudo e non come un abbraccio. Né credo che la poesia deve tirare giù dio perché dio ce l’ha già dentro semmai deve tirare su gli uomini sollevargli il mento e alitargli nelle narici parole ancora calde di vita fragranti di verità che poesia certo non è solo un fatto di metrica e la libertà del verso è condizionata perché non basta andare a capo. A capo di che poi se siamo in un tempo senza capo né coda a capo di me stessa almeno anche se ho una biografia stanziale ma fitta fitta di anime e di corpi e dunque nomade nell’essenza e allora scrivo. Scrivo perché poesia è la casa e la strada che ad essa mi conduce.

(settembre ottobre 2005)

kate-moss-to-cover-the-60th-anniversary-edition-of-playboy

kate-moss-to-cover-the-60th-anniversary-edition-of-playboy

Oltre le porte scorrevoli
a vegliare il sopire del canto
nel corpo stanco delle ore
– ore di veglia ore di allerta –
c’è una mendicante a chiedere sole
e aria nuova per la parola convalescente
nel fondo di una gora turchina.
Parola senza lingua né cittadinanza
alla vita della pagina s’avvinghia.

Sulla strada, intanto, uomini
abbattono robinie
e piantano ciliegi da fiore.

*

Sto qui senza vocazione, ma ogni giorno rispondo,
ogni giorno, pellegrina dell’umano, vado di volto in volto,
piegata al sì dagli occhi e quando l’anima stanca
cede al disamore li faccio tornare bambini,
li riconsegno all’infanzia o a Dio,
così mi stanno dentro per amore e non per dovere.

*

Nell’aiuola del parcheggio un gatto si rotola nell’erba in pieno sole:
mi consola il suo essere lì, perfettamente aderente all’attimo presente.
Verde anche il mio camice in cui sto dentro poco arresa,
eppure sorrido alla donna che mi mostra la foto del nipote,
coprendo col pollice il volto della mamma
e rivolgendomi uno sguardo mesto
si giustifica mia figlia è una ragazza madre.

*

Tu mi capisci, è vero? mi scuote una donna,
che ascoltavo distratta e stanca,
mentre ripone la spesa nella busta,
sollecitando in me un’intesa improbabile
perché capisco poco di quanto intende
oltre il suo sguardo, intriso di probità
e di tiriamo avanti, ma verso dove
se non c’è strada diversa da prendi tre e paghi due,
se il risparmio è risparmio anche di sé?
Non immagina, dunque, la donna
che mi è più complice lo sguardo vacuo di Martina
– bambina senza terra, bambina marina –
e le sue domande sciocche, cantilenate,
quasi che le parole resistano a quell’uso
per poi arrendersi alla poesia dei suoi occhi
e cedere benevole al suo respiro.

Gli stivali servono per parecchie cose per tenere caldi i piedi

Gli stivali servono per parecchie cose per tenere caldi i piedi

Signorì che bel sorriso! Grazie!
si stupisce del dirsi nuovo del tempo
un’anziana signora, si ferma e un poco si ristora,
mi cerca negli occhi e si trova.

*

a Massimo M.

Si frantuma il tempo quando l’uomo mi racconta del suo male
e chiede perché proprio a me? come se essere me fosse un privilegio,
un sicuro rifugio dagli scrosci del destino.
Ma c’è l’altro che non cede e chiede invece perché a me no?
quale merito o quale predestinata grazia m’avrebbe dato scampo?
Domanda da una ferita che risana il tempo.
*

Mi buttava via le bambole, mi racconta Pamela di suo padre
con uno smottamento che le fa più neri gli occhi.
Ma ora che non può più farlo ne ho la stanza piena!
Amara la rivalsa in quel rullio di nave
scossa dalle onde, ma tese e gonfie le vele,
le guance paffute e lei, bambina, piange senza capire
e si sente buttata via con le sue bambole.
*

E’ questione di buon senso. Non credi?, dice la donna all’amica
che annuisce ma come assorta in altro.
E penso che più che buon senso un senso buono potrebbe farci strada,
essere varco verso quel piegarsi pietoso, quel corpo genuflesso in noi
che non ha nome e non si può invocare,
ma lo senti a perdifiato, lo tocchi dal rovescio.

*

Faccio la mia parte non solo di respiro e mandibole,
raccolgo quanto gli altri perdono, scambio messaggi con gli occhi,
le mani e il fiato. Il lampo umido di uno sguardo
così come il ronzio di un insetto, mi svelano preziose teorie sul mondo.
Qui, un poco discosta, sotto l’ombra ardente della penna
che brucia tra le dita ma mi traccia la coerenza
e prova a dire no all’indifferenza.

*

Ha un senso vivere e lavorare se una bambina mi guarda a lungo
e poi mi dice sei bella e alla sua voce io di lei mi accorgo
e del suo sguardo fermo su me assente
e sanata risalgo al mio presente. E le sorrido pure se so
che non è bello il mio viso stanco, annoiato
e a disagio per il mio scoperto esilio per quell’asilo in me la benedico,
per i suoi occhi patria al mio foglio là in apnea e all’inchiostro calmo
che spero sia tempesta.

lucianna argentino

lucianna argentino

Volevo stare nella tua pancia. Non volevo uscire, così non mi strillavi,
così mi divertivo. E’ meglio che ci rientro adesso…
Lei, piccola, vicina al principiale, alla divaricata origine,
sul seggiolino del carrello alla mamma e a me
che da qualche parte sono poeta
e gioco anch’io a rientrare nella pancia di questo mondo.
A me che se mi tappi la bocca,
se mi leghi la destra mi estinguo e non rinasco.

.
(Alcuni)

Vibrano piano, stanno in me
come un granello di sabbia
nell’ingranaggio di un orologio,
anime al macero, anime asfittiche
di case da tempo chiuse.
Si portano dentro un dio abortito.

(Altri)

Vibrano forte, stanno in me
come la mano di un padre
che ti spinge sull’altalena,
anime ariose, anime senza età.
Li abita un dio partorito ogni giorno.

*

Mauro mi arriva
dall’altra sponda dell’Appia
nel riparare del tempo
verso un nuovo assetto
per la pausa colazione del mattino
il quarto d’ora perfetto
a parlare della vita e di come viverla
a somiglianza della piena esattezza del fiore
e della sua alleanza con gli insetti e il vento.
Nella vulnerabile fedeltà al cuore
offriamo una tregua al diverbio del sangue,
riconciliamo il respiro con la vita
calzando numeri e poesia.

*

Oggi ti ho tradito, ma vado di fretta.
Da te c’è troppa fila.
Mi salutano così
quelli a cui sono familiare o simpatica.
Non se ne vanno facendo finta di niente.
Si scusano, mi rassicurano
e si rassicurano, a loro volta,
di essermi familiari o simpatici.

*

Annaspa nel dolore questo tempo sfiancato
quando Anna mi dice oggi è una giornata no
e mi risale in gola e s’annoda la volta in cui mi raccontò
che il marito non esce più di casa,
che passano notti insonni da quella sera di gennaio
in cui gli ammazzarono il figlio, carabiniere,
a Bologna, quartiere Pilastro.

*

Mi porta via di qui l’incanto improvviso
e piccolo – da stare tutto nella pupilla –
di palloncini colorati che parlano al vento
del baluginare intontito dell’infanzia.
Pesci, cavalli, conigli, conversano con l’albero
e con la luce, fanno pianure e Antonio,
che poi li legherà ai polsi dei bambini, non ne sa nulla.

*

Com’è il cielo oggi?, mi chiede Giuseppe,
un vecchio cieco che incontro al mattino andando al lavoro.
Spesso sono tentata di rispondergli che non lo so,
che me lo chiedo pure io com’è il cielo. Quel cielo che lui sente prossimo,
quel cielo che una granata gli ha frantumato.

*

 brocca, Patrick Caulfield

brocca, Patrick Caulfield

Ha le unghie laccate d’argento lunghe
e lunghi capelli castani, le sopracciglia rasate
e ridisegnate, un seno di estrogeni
sotto la maglia scollata, la pelle depilata
e negli occhi ancora il fiato della notte.
Latte e biscotti per scomparire nel giorno,
per darsi al sonno degli antenati
scrollati via dalle vene.

*
Gli odori mi commuovono, mi raccontano vite
diversamente vissute. Stimolano le ciglia olfattive
calcano emozioni, sorprendono la memoria,
o nauseano l’amigdala ma sempre scavano nicchie di pietà.
Poi c’è Silvia che spruzza del deodorante
dopo che una barbona è passata alla sua cassa.

*

Cosa dell’uomo che mi sta davanti? Il cappello di panno grigio?
la cartella a quadri che tiene sotto il braccio?
il giaccone verde? gli occhiali di metallo? le mani nodose e arrese?
Questo che ci fa diversi o questo che ci lega?
Il garrito delle rondini, i clacson delle automobili?
Il vociare della radio, le folate di vento, la pioggia leggera?
O il battito del cuore come un incessante appello?
Eppure sento mio anche il suo aspettarsi solo il pane quotidiano
e un po’ di sole la domenica mattina.

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