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sobre poesía y otras alimañas - sulla poesia e altri parassiti - sobre a poesia e outros parasitas
La poesia non ha rimandi . La consapevolezza d'essere poeta è la stessa spontanea parola che Erode. Stermino io stesso il verso.
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
La presenza di Èrato vuole essere la palestra della poesia e della critica della poesia operata sul campo, un libero e democratico agone delle idee, il luogo del confronto dei gusti e delle posizioni senza alcuna preclusione verso nessuna petizione di poetica e di poesia.
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Dino Campana UNA POESIA “Viaggio a Montevideo”- Commento di Marco Onofrio
La notte
campana lettera a Papini nella quale lo minaccia di morte
Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine
di un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune…
I Canti Orfici, secondo l’auto-definizione apposta dall’autore a sottotitolo, rappresentano Die Tragödie des lezten Germanen in Italien, ovvero la ‘tragedia dell’ultimo Germano in Italia’. Spiega Campana: «Il germano preso come rappresentante del tipo morale superiore (Dante Leopardi Segantini)» che in un Paese degenerato come il nostro – rovinato dalla “barbarie civile” (ovvero dalla «brutalità secolare clericale e popolare») – è destinato all’estinzione, e comunque alla sconfitta. Campana, insomma, cerca idealmente una patria non avendone: si protende «verso il paese nuovo (non putrida patria)» dove assistere alla nascita dell’uomo nuovo, libero, felice, trasfigurato. E così, nell’ottobre 1907, il poeta di Marradi tenta di rompere per sempre con l’Italia, che lo ha deluso, e parte per l’Argentina imbarcandosi a Genova. Il soggiorno sudamericano sarà breve (meno di un anno) ma basterà a fargli respirare un’aria diversa, a nutrire il suo sguardo di spazi sconfinati, di natura vergine, di civiltà elementare. Campana si spoglia delle scorie e abbraccia – malgrado gli stenti quotidiani (per sopravvivere fa un po’ tutti i mestieri: da mozzo in mare a peon de via) – la verità rigenerante delle origini. Ne recano traccia diversi testi, inclusi e non nella stesura dei Canti Orfici: “La Notte”, “Dualismo”, “Buenos Aires”, “Nella pampa giallastra il treno ardente”, “Pampa”, “Fantasia su un quadro d’Ardengo Soffici”, “Passeggiata in tram in America e ritorno”, “Viaggio a Montevideo”. Continua a leggere →
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7 commenti
Archiviato in poesia italiana del novecento
Con tag canti orfici, commento a Viaggio a Montevido, Dino Campana, Marco Onofrio