SEI POESIE di Stelvio Di Spigno da “Fermata del tempo” (Marcos y Marcos 2015) con un Commento di Umberto Fiori

città tramStelvio Di Spigno vive a Napoli dove è nato nel 1975. È laureato e addottorato in Letteratura Italiana presso l’Università “l’Orientale” di Napoli. Ha scritto la monografia Le “Memorie della mia vita” di Giacomo Leopardi – Analisi psicologica cognitivo-comportamentale (L’Orientale Editrice, Napoli 2007). Ha collaborato all’annuario critico “I Limoni” con recensioni e note sotto la guida di Giuliano Manacorda. Per la poesia, ha pubblicato la silloge Il mattino della scelta in Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, Milano 2001), i volumi di versi Mattinale (Sometti, Mantova 2002, Premio Andes; 2a ed. accresciuta, Caramanica, Marina di Minturno 2006), Formazione del bianco, (Manni, Lecce 2007, finalista Premio Sandro Penna), La nudità (Pequod, Ancona 2010), Qualcosa di inabitato, con Carla Saracino (EDB, Milano 2013).

dalla prefazione di Umberto Fiori

Lo confesso: nomi e cognomi agiscono su di me come allarmanti radiazioni, si insinuano nel mio cervello e risuonano volta a volta come lusinghe, esorcismi, implorazioni, proclami. Quando conobbi Stelvio Di Spigno (nel 2001, alla presentazione del Settimo Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea a cura di Franco Buffoni) le generalità di quel ventiseienne, nella mia testa, si associarono all’impressione che mi facevano i suoi versi e la sua presenza. Nel quinario petroso e allitterante mi pareva di riconoscere i caratteri della sua poesia e della sua personalità: ai miei nervi, st e sp dicevano rigidità e iattanza, i uno stridìo, gn una torsione, una dolente contrattura. Nel nome, tornanti e rupi incombevano; spigoli e spine premevano nel cognome, dove nuotava candido e superbo un cigno mallarmeano. Allucinazioni morbose, certo. Ma i testi sembravano confermarle. Oggi, a distanza di più di un decennio, in questo Fermata del tempo, la mia fantasia delirante deve ricredersi. Di Spigno è cambiato.

In questo nuovo libro, niente più spigoli e torsioni: un racconto sofferto, disarmato, senza schermi, che va incontro all’amaro a viso aperto, raccogliendo ciò che resta degli anni. La musa di Di Spigno è – classicamente – figlia della memoria. Il suo sforzo è quello di frenare o addirittura di arrestare il flusso del tempo, di illuminarne una fermata, appunto, per chiarire un’identità che rischia di perdersi, travolta dal corso caotico e inconcludente dei giorni. L’io lirico non si astrae, non si sublima: è nell’ordinario della vita e degli affetti che cerca le proprie «radici sepolte». Ecco allora i nonni, le prozie, la madre, una Napoli intima, sobria, mai convenzionale, mai trasfigurata. Ambienti e personaggi si presterebbero a un gioco crepuscolare; ma qui non c’è gioco, non c’è ironia, non c’è compiacimento: c’è invece una dolentissima serietà, che fa pensare a volte allo Sbarbaro di Pianissimo, soprattutto alle poesie dedicate al padre e alla sorella. Come Sbarbaro, Di Spigno non bara, non ammanta di letterarietà il suo personale rovello; è capace di nominare le cose senza cercare di straniarle o di nobilitarle coi magheggi e coi fiocchi del “poetico”. Tutto il libro è percorso da una religiosità mai esibita, ma anche da una collera trattenuta: collera contro il mondo inautentico, la sciatta iniquità, la banalità, la falsità corrente (leggendo, pensavo che il cognome più appropriato per questo nuovo Stelvio sarebbe Di Sdegno). Ma la collera – per quanto sacrosanta – non riesce a prevalere: alla fine, la speranza si riaffaccia. Fermata del tempo è il racconto di un passaggio dall’adolescenza all’età matura, di una iniziazione al Vero (di Leopardi Di Spigno è stato ed è studioso) che schiva alla fine l’abisso del nichilismo. Il male di vivere è là, solido e trionfante, ma la poesia sa affrontarlo ad occhi asciutti, sa addirittura cantarlo.

Stelvio Di Spigno Fermata-del-tempo Copertina
Fotografie dell’epoca assoluta

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Vittorio insieme a Bianca, Anna, Giovanni
in eterno sposato a Concetta e Giuseppina
col suo corsetto a vita di vespa nel ritratto,
non pensavo che infine tutti voi
sareste finiti lì sul secretaire
dentro cornici di ferro istoriate,
con accanto ceri, lumini, santini e preghiere,
ma niente può impedire che domani
sarà un giorno di aprile del ’40,
e tutti noi tornati ventenni e atomizzati
ci incontreremo ai Tribunali o a Piazza Borsa,
con i vostri paltò e le vostre ghette e spille,
dove un sidecar ancora misura il senso
dell’onore, del decoro, del bruciore della vita,
con l’amore che è una pergola di rose
nell’antico tesoro di una piazza napoletana,
in mezzo al fumo che sa di ritorno e baci,
di riconoscenza per esserci stati,
o più semplicemente di umiltà prenatale
rocciosa e inebetita, un salto tra i pineti
che accoglieranno tutti i nostri corpi
nel giro di valzer di un fascio di decenni,
dalla luce di casa a quella della sera,
dal silenzio del sonno a quello della fine,
dalle lacrime scioccanti alla risurrezione.

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Galleria
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Forse hai capito quale festa ti dà gioia,
se Ognissanti o Natale, mentre previeni
il vento ottuso del porto, con tutti
quei presepi di barche e budelli,
e fuori c’è l’aria secca dei palazzi, e sembra che il Vesuvio
bruci elettricità nell’atmosfera: un giorno
andammo con mio nonno a leggere le pietre
nella grande vasca della stazione,
e su di loro c’era un volto napoletano.
Città di fame immonda e solo da guardare: oggi
lavoro lontano, non posso vederti invecchiare,
hai un saluto per tutti nelle tue asole bollenti,
e passi in umiltà senza domandare
che i tuoi arrivi siano scaltri la sera, che si disfi
quella mole di infamia che ti fa nera, che una mano
infili nel fitto dei tuoi vicoli una riserva umana
di latte impiantato tra colli e caserme.
Ogni volta che hai pianto ti ho visto
perdere a dadi ogni verginità, e come
se fossi una madonna abbandonata
in una delle mille edicole di quartiere,
ho cercato la tua essenza da amare
dentro un barattolo di complimenti a ore,
sapresti regalarmi ancora un po’ di castità,
fermarti dove si passa dal diluvio alla sciagura,
essere in tempo per salvare ancora te
dalla tua storia e insieme prendermi e farmi
ancora tuo, come quando ero
uno dei tuoi fantasmi arroventati.
Stelvio Di Spigno

Stelvio Di Spigno

Il pranzo dalle zie
 .
Sapere che non verrò più da voi,
come facevo ogni sabato a pranzo,
ai tempi del liceo, ma anche prima e dopo,
fino a quando zia Velia scappò via
e divenne una lavagna del cielo,
ancora mi rende schiavo dell’amore
di rivedervi nella vostra casa,
con la radio, il telefono, i parati,
tutti comprati o abitati da almeno quarant’anni;
e quanto era forte il laccio che ci univa,
lo scopro ora, quando il sabato mi sveglio
contento perché so che da voi devo venire,
poi mi concentro, il sonno lascia la mente,
ricordo che non c’è più la casa,
che voi siete in Paradiso e nei ricordi,
e mi viene da piangere e vorrei
salire le scale e vedere cosa provo,
adattarmi a stare senza voi, ma non riesco,
allora tento di capire il perché del tempo,
e perché due angeli come voi
hanno lasciato sola la mia vita
a disfarsi, a dirimere la quantità
di giorni che separa la vecchiaia di tutto
dal mio presente di oggi, la nicchia
sterile dove vivo e dove ricordando
quanto è stato bello starvi accanto,
faccio di me un breve dirottamento
fino al vostro caseggiato,
e torno al mio peccato di un essere solitario
che si chiede quanto ancora ha da patire.

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Il distacco
a T. C.
 .
Hai coperto bene la paura con l’assenso,
il bruciore di un osso con una cavità entrante
e mancante nella mente, mentre spiegavi
e rispiegavi che non era il tempo, quello, buono
per l’innamoramento e intorno c’era già fruscio
di ricci e castagne e foglie di platino adamantine,
su tutta la strada ragionammo su come salvare
un amore che voleva cominciare, in mezzo
alla plastica e al niente io vedevo il tuo vestito,
il suo colore di rifiuto, le mezze scuse, le mani
che battono sul volante, e tu mi chiedevi
di uscire, di non farti del male, ma da una
vastissima distanza, una danzante valle distesa
ormai tra due silenzi, tra una fine decisa, tutta
di metallo, sentivo il freddo delle tue parole
dall’anima fino alle gengive, e questo solo
è il mio ricordo: non hai portato via niente.

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Notizie dall’estate

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Fuoco nell’aria mista a sale e a corpi terrestri
e incostanti. Pedalare, camminare, sterzare con l’auto
per Gaeta, Formia, Minturno. Una curva presa male
e ti ritrovi a Napoli o su una croce. Tutto sa di altro.
Ovunque luoghi troppo cari per passarci l’estate.
Troppo inutile l’estate per passarci la vita.
Dove i miei cari pendevano verso il fresco del mare
ora negozietti e rent car. Fine delle trasmissioni,
con la camicia sbottonata, cerco di essere
invisibile come loro, ma la parete della morte
non si fa attraversare. Loro sono oltre, io dall’altra
parte, non so se partire, restare, pregare
per una vita breve. Estate benedetta, che mi riporti
dove tutto è cominciato. Agosto torrenziale,
che mi fai vedere a figura intera i volti, i templi,
i tempi in cui tutto si è interrotto. Fuoco per ogni dove,
fuoco su di me. Sparate pure, non mi prenderete.
Non ancora, tra le rotonde e le spiagge con nomi
californiani, anche la fine perde l’orientamento.

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Ballata del giorno normale

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Il sole è alto nel cielo
come tutti i soli
da milioni di anni a questa parte.
Facciamo finta che sia
una bella giornata,
palpeggiata, accarezzata, irresoluta,
coi suoi splendidi nomi a corollario:
spiaggia, cappuccino, vento a schiera.
Si va a lavoro. Si torna a casa.
Bello l’ultimo chilometro
della solita strada. Gli stracci
della nostra coscienza,
mandati al lavatoio e raggelati,
ora sono puliti e non disperano.
Che bella brezza di mare,
uguale a tutte le brezze
e i fondotinta da qui all’eternità.
Risaliamo il ponte sulla stazione.
Qui c’è casa mia ad Anzio. Se non foste spettri,
voi che leggete queste righe,
vi inviterei a entrare. Invece
ci si vedrà domani. Buon giorno. Addio.
Amore, gioia, lutti e dispiaceri
rimangono muti nelle tasche.
Migliaia di io, dentro la mia mente,
sanno che la vita è tutta qui:
orologio, rumori, amanti devoti.
Milioni di anni sotto i piedi
e nessuno sa dirmi cosa mi aspetta.
Siamo una specie senza predizione.
E col presente non va meglio:
cos’è questo tutto che mi circonda,
quanto è larga la parola destino,
quando incontrerò qualcuno
che mi somiglia.
Anima, sole, castrazione
di ogni volontà.

13 commenti

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13 risposte a “SEI POESIE di Stelvio Di Spigno da “Fermata del tempo” (Marcos y Marcos 2015) con un Commento di Umberto Fiori

  1. Com’è noto, Tynianov si opponeva a una concezione evolutiva della letteratura, che secondo lui procede per salti e per spostamenti piuttosto che secondo uno sviluppo uniforme. In ogni genere, osservato a un dato momento, si distinguono tratti fondamentali e tratti secondari: sono proprio i tratti secondari, i risultati e le deviazioni «casuali», gli errori, che producono nella storia dei generi mutamenti più cospicui da annullarne in certa misura la continuità. Si può parlare di continuità per la nozione di «estensione», che oppone le «grandi forme» (romanzo, poema, racconto lungo) alle piccole (racconto breve, poesia), e di continuità per i «fattori costruttivi» (per esempio, il ritmo nella poesia e la coerenza semantica – trama – nella prosa) o per i materiali; ciò che cambia è ben più importante per la individualità del genere: è il principio costruttivo che fa utilizzare in modi sempre nuovi i fattori costitutivi e i materiali.
    Gli spostamenti all’interno di uno stesso genere, mettiamo la poesia, sono molto importanti per comprendere come a volte delle piccole novità conseguite in periferia possano avere ripercussioni, per vie sotterranee, sulle linee maggioritarie che si esprimono attorno alle due più grandi città italiane.

    Non c’è dubbio che la fine del Novecento ha visto la caduta dei Grandi Racconti, la poesia italiana ed europea si è ritrovata e si ritrova sempre più vicina alle narrazioni del privato, ai racconti familistici, alle tribù dell’anima. A questo processo epocale non c’è dubbio che abbia contribuito quella che noi abbiamo chiamato la “globalizzazione”, è un po’ forse un fenomeno analogo a quello che si ebbe nell’Impero romano dopo l’unificazione del mondo antico. Anche oggi, di fronte a questo fenomeno macro storico della “globalizzazione”, ci troviamo davanti ad un ritorno alle ragioni storiche dei vincoli familistici, quasi che la nostra identità possa essere trovata soltanto andando a ritroso alla ricerca di ciò che siamo e di ciò che siamo diventati. In questo recupero di Mnemosyne mi sembra di dover indicare la differenza maggiore e più visibile tra la poesia che si fa a Milano (quello che ho definito l’esistenzialismo milanese) e quella che si fa a Napoli (ciò che si potrebbe definire il memorialismo meridionale).
    E questo è il contributo che può fornire la periferia del Sud al motore poetico del Nord.

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  2. A parte “Ballata di un giorno normale” più che un poeta mi è sembrato di leggere un cantautore…

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  3. Francesco

    Potrebbe Linguaglossa spiegare meglio il concetto??? temo di non aver capito bene.
    A me non sembra poesia, ma tanto non si sa nemmeno cosa sia poesia.

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  4. Gentile Francesco,

    la poesia di Stelvio di Spigno è perfettamente riconoscibile se intendiamo la cosa chiamata poesia come la intendono i milanesi nel loro idioletto poetico… a mio avviso, il punto interrogativo che porrei davanti a questa poesia è la sua riconoscibilità padana, anzi, lombarda, e infatti l’autore ha scelto un prefatore milanese, scelta inequivoca che ha una sua ragion d’essere. A mio avviso, la poesia di Di Spigno è perfettamente riconoscibile. Però ciò non significa che ciò che per me è riconoscibile per un altro lettore invece non sia perfettamente irriconoscibile. Questione di punti di vista. Non è facile per un contemporaneo esprimere valutazioni sulla poesia della propria epoca, tutto quello che possiamo dire è: “questo per me è poesia”, oppure, “questo per me non è poesia”. In entrambi i casi il prodotto non cambia, perché dobbiamo aspettare il fattore tempo per poter dire con qualche sicurezza: “Sì, questa è poesia”.

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  5. Ivan Pozzoni

    Quindi se l’amico Stelvio è un autore lombardo, io, che stilisticamente (?!) sono l’opposto di Stelvio, sarei un autore campano? Così, lo sappiamo, e ci scambiamo case e mestieri… 🙂 Per capire meglio: che tratti ha la riconoscibilità lombarda? Noti in me (e sai che sono un esponente geografico della lombarditudine più retriva e chiusa = mezzo brianzolo e mezzo bergamasco), tu che mi conosci bene, tratti lombardi. Quali? Se non ti va di andare out e di scrivere sul sito, scrivimi un’email. Sono curiosissimo [Stelvio, scusami l’incursione tra i tuoi apprezzatissimi testi].

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  6. caro Ivan,

    con il riferimento agli autori lombardi io non voglio denigrare nessuno, dico solo che in autori come Mario Benedetti, Umberto Fiori, Santagostini, Stefano Dal Bianco, Maurizio Cucchi e il loro poeta maggiore, Milo De Angelis e altri minori, leggendo le loro poesie riconosci immediatamente la loro provenienza meneghina… con ciò il mio non vuole essere un giudizio di valore o di disvalore, dico solo che sono immediatamente riconoscibili, scrivono tutti alla stessa maniera (o pressappoco), si dirà che hanno radici comuni, una storia comune, e sarà pur vero, non lo metto in dubbio. E questa “riconoscibilità” è un dato di fatto oggettivo non una mia percezione personale. Che poi ogni scrittura maggioritaria abbia degli epigoni anche fuori della Lombardia e di Milano, è un fatto naturale e ovvio… si tende a scrivere in modo simile ai propri modelli maggiori, questo è un fenomeno del tutto naturale, si tende a farlo per motivi vari e per farsi apprezzare al Nord, per ordine di scuderia, per leziosaggine, per convinzione, non so ma il fenomeno è indubitabile…
    La tua posizione è diversa, a mio avviso tu sei un milanese anti-milanese e la tua poesia è una anti-poesia… tutto si può dire della tua poesia, sia pro che contro, resta il fatto cmq che tu scrivi in modo del tutto singolare, non assomigli a nessuno, quindi non sei “riconoscibile”… se è questo che volevi sapere… ma finché non ti deciderai a scrivere “poesia”, a mio avviso sarai destinato a restare ai margini (intendo ai margini della marginalità) e a restare invisibile (per quanto rumore tu possa fare con le tue teorie e le tue antologie).
    Nel caso di Di Spigno, non a caso parlavo di “memorialistica”…

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    • Giuseppina Di Leo

      Caro Giorgio, in un commento (su Poliscritture) alcuni mesi fa avevo scritto che la scrittura deve essere riconoscibile se vogliamo che un poeta possa dirsi coerente.
      Parlando in questi termini, il riferimento che ho presente parte dalle ‘informazioni’ che i testi mi offrono/trasmettono come lettrice (la competenza critica non ce l’ho), per cui riuscire a ‘riconoscere’ un poeta per me significa individuare quella che chiamo la sua ‘coerenza’ riguardo ai contenuti e allo stile. Nel caso di Ivan, questi elementi li vedo. Aggiungo che, poiché non ‘assomiglia a nessuno’, come tu dici, proprio per questo Ivan è coerente e riconoscibile.

      Passando invece alla poesia di Di Spigno, la mia impressione è che la memoria, che offre al poeta la materia prima per la sua ricerca (almeno in queste poesie), manchi però di mordente e si divide in tante immagini, dove però stranamente i ricordi perdono colore.

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    • Ivan Pozzoni

      Grazie della spiegazione. Tu sai bene che la mia è una scelta “disperata”, orientata ad aprire, da invisibile, la “porta” ad una nuova generazione di scrittori migliori di me. Conosci i miei obiettivi, e la mia coerenza. Purtroppo non saprò mai, se non da morto, se i miei obiettivi avranno raggiunto il loro scopo. [Chiedo nuovamente a Stelvio scusa dell’intromissione].

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    • Ambra Simeone

      ma Stefano Dal Bianco è padovano non lombardo!

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  7. La poesia dell’autore è valida: rimane comunque l’impressione che in molti autori del primo duemila ci sia una omologazione stilistica. Occorre (s)fuggire: solo così si è liberi.

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  8. Si possono fare tutte le dissertazioni possibili, il dato di fatto è che oltre a non essere poesia è anche pessima prosa!

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