Antonio Colandrea è nato a Vico Equense (NA) il 20 giugno1955, vive a Matera dal 1981. Mancato Capitano di lungo corso e mancato Biologo marino, è Funzionario del Ministero della Giustizia presso il Tribunale di Matera. In giuria come membro esterno del Premio “Edoardo Nicolardi” negli anni ’70 e del Premio Letterario Energheia (MT) negli anni ’90, è socio fondatore del Cenacolo Letterario Internazionale AltreVoci nonché Presidente esecutivo della prima (2012) e della quarta (2015) edizione del Premio Letterario Thesaurus. Suoi testi sono presenti in varie antologie, riviste e settimanali. Ha pubblicato con le edizioni Leonida di Reggio Calabria la raccolta poetica Sassofonie e Sassifraghe.
Appunto per una poetica della pietra
L’illustre astrofisica Margherita Hack, nella sua ultima opera di divulgazione scientifica afferma che noi esseri umani siamo figli delle stelle, nel senso che siamo composti dei minerali fondanti dell’universo, quelli derivati cioè, dalla diaspora dei frammenti di supernovae esplose nella notte dei tempi. Questi minerali costituenti l’organismo quindi, conserverebbero in sé, l’idea della coesione di un disegno divino da riprodurre, per riuscire di nuovo a risplendere.
Intendo pertanto la poesia, come passaggio ricostruttivo, dalla polvere – o dal materiale informe- al manufatto “luminoso”.
L’immagine centrale, l’epicentro epifenomenico, il punto di partenza di ogni riflessione filosofica e di ogni meditazione poetica è per me la pietra.
Questa pietra che da punto fermo, d’angolo o confine, diviene per crolli e rotolamenti, per scissioni e ricongiunzioni successive, altro da sé, pur conservando gli elementi fondamentali e naturali che la costituivano e caratterizzavano.
A volte, può divenire inciampo o impedimento soffocante, altre piedistallo per salirci e ampliare la propria visuale, altre ancora muro difensivo o calda parete di casa e infine ponte, da gettare verso un futuro ignoto da solcare.
Potremmo assimilare la memoria al territorio materano. Una sorta di cava di tufo, dove più che togliere, depositiamo mattoni. I ricordi, le storie accadute e che inglobiamo, sedimentano in questo sito. E’ compito del poeta frantumare questi blocchi informi, fino a recuperarne ogni granello e ogni pietra in modo da realizzare nuove costruzioni che conservino gli elementi costitutivi pregressi ma li ricompongano affinché riverberino in parte la bellezza passata e in parte risuonino di una melodia nuova.
La cava di tufo materana è un ventre cavo che ha partorito le case nei Sassi, è un occhio aperto che ripete le parabole del Centro di Geodesia spaziale e fissa l’universo, un orecchio in cui il mondo in vibrazione versa i suoni.
Per una poetica della pietra, sono vitali e da ricercarsi la musicalità e l’armonia semplice delle parole che rotolano e tintinnano come ciottoli di fiume trascinati dall’acqua della verità e del senso della giustizia. Il suono della parola quindi, sovrano, puro, nitido, naturale. Da questo discende l’esigenza di una naturalità dei comportamenti, finalizzati al benessere dell’uomo nella società. Una società stessa, giusta e a misura d’individuo.
L’aspirazione è quindi a una realtà delle cose, espressa nel loro primo rivelarsi, senza infingimenti e fraintendimenti sovrapposti e successivi.
Intanto, in attesa del raggiungimento di questa dimensione ideale, necessario e consolatorio è anche il ricorso alla mediazione del sogno, dell’incantamento, sia quale grimaldello per il superamento del contingente che quale oasi di rifugio e pace.
Collegati a questa importanza del suono e della parola, la dimensione orale, declamatoria della poesia, sia per la sua funzione appagante che per quella catartica. Inoltre, nella declamazione, la parola pietra, si accorda come un martelletto al timpano propagando armonia e benessere.
In tutta questa naturalità e armonia, essenziale il richiamo a un ritorno dell’uomo alla natura, alla manualità, agli antichi e lenti mestieri e quindi alla gestualità, passando per il teatro, il cinema, la pittura.
In fondo però, l’unica arma possibile oggi è solo l’ironia, arma spuntata forse e che non vuol ferire ma solo riferire in altro modo la realtà del mondo che subiamo, per difenderci dal luogo comune, dalla Verità proposta e universalmente accettata. Questa parola-pietra possiamo per ora, solo rotolarcela in bocca, come unico rimedio alla balbuzie.
Le poesie presentate, tranne “Itaca 2”, “Autoritratto” e “Prospettive di custodia e fuga”, sono tutte edite in Sassofonie e Sassifraghe (2015)
Autoritratto
Falotico
sono
e dadaista
cresciuto da solo
e solitario
come un bagolaro
ma non poi tanto
.
Prospettive di custodia e fuga
Collezionavi palline di vetro
quei mondi silenziosi ove la neve
sempre si posa
e solo sale lieve
(su fintamente liete cittadine)
non appena
e però sempre invano
le agita la mano
che le gira
Sotto una teca fine di cristallo
oggi la foto tua mi guarda e ride
“Sei tu, non io- mi sembra voglia dire-
che senza le falene intorno e i santi
mi appari chiuso sotto una campana”
Supposizione ardita ma non vana
perché la vita
ha un vetro per riparo
di chi la mira
come fosse un gioco
e ad impedire
a chi ne vuol fuggire
di far la fine
che fa sempre il topo.
.
Ego
che agli ami dell’amore
mi leghi
dai legami della morte
slegami, ti prego
fa che dall’arco già teso
resti sospeso il volo della freccia
e che il bersaglio attenda invano
il dolore dalla mia mano
poiché sempre mi rattrista
l’appagar una conquista
mentre invece io godo
nel mancarne l’approdo
– Itaca –
A me contrario
quale sconosciuto evento
che soffia appena t’intravedo
e m’allontana
e come in sogno frena
la mia corsa affannata
ali di farfalla
appena sfiorata
è la calda tua memoria
che si sfalda
e impolvera le dita
di nuovo ti ho perso, Itaca,
siamo parti ormai
di una calamita spezzata
di cui non ritrovo
il verso
P.S. Continua, ondulata, altalenante nebbia, solo il cuore ritma una voga incessante, mirata al ricongiungimento con la forma gemella della sua isola lontana.
– Deriva (Itacae viae) –
Itaca più non m’attende
laddove l’avevo lasciata
su un piedistallo isolata
della mente
e lì perdutamente amata
e rimpianta
trasformata s’è ora
l’originaria immagine
di lei dolcemente serbata
e come un abito dismesso
tirato fuori dall’armadio
all’occorrenza
più non veste la sua forma
il mio ricordo
Itaca più non ho trovata
e mi manca
dicono che alfine
stanca d’aspettarmi sia salpata
che forzando gli scalmi sia saltata
oltre gli scogli posti a guardia
della stretta imboccatura del porto
e con calma scivolando
nella bruma
mi stia ora cercando
per tutti quei mari
dove io non sono
io sono qui
invece
(almeno così è scritto nel rapporto)
e i piedi ho immersi
nell’umida sabbia
del suo antico mare
io sono qui
sono tornato
e più non l’ho trovata
dove l’avevo lasciata
è storia strana
(io affermo)
l’amore
ti fa tremare più forte
il cuore
quando sei fermo
la tua pena è terminata
ed è ormai salda
(dentro morbida rena)
l’ancora
affondata
Approdi
E’un granello ogni lettera
ogni sillaba una pietra
ogni verso
una catena d’ancoraggio
e ogni poesia incompiuta
una richiesta
-non accordata-
di salvataggio
Ogni lirica finita
è approdo
e spiaggiamento
insabbiamento scoraggiato
mai punto di partenza
esca amo e lenza
per prenderci la vita
e poi restarvi saldamente
agganciato
Ogni poesia
sputata fuori
è un sasso in meno
ad inceppare l’ingranaggio
e gira più veloce
quel volano che tritura
sedimenti di dolori
rimorsi
tradimenti
a sabbia fine
che affolla la clessidra
erge pareti
ottura fori
finché non viene fuori
a soffocare l’onda
Alla fonda
pescherecci lanciano retaggi
strani pontoni
come avvoltoi sospesi in volo
intorno zigzagano fumanti
e la pilotina s’impenna
senza raggiungere la riva
franta dall’onda ostinata
di ritorno
che di speranza priva
.
Bou(s)tade
Vola una busta di plastica vuota
portata via dal vento
ed ecco fa un looping
s’impenna
poi scende giù in picchiata!
resta sospesa
si riprende…
Nel mentre così gonfia sale
a me… sembra… serena
più che se fosse piena
di cibo o spazzatura
lieta e festante quasi
per quello stato suo
vaghissimo, gassoso, esilarante
così conforme alla natura umana
e confortante pure
che mi fa immaginare
la mano gigante di un poeta
che vola a far la spesa
di nuvole e pensieri…
Nella sua scia la mente mia si svuota
è una bianca medusa cerebrale
che in fase ascensionale
raggiunge cieli iperuranei
agli occhi estranei della gente
e spazi ancor più ameni
da sempre secretati
distaccati dagli affanni terreni
Ma forse era soltanto
l’asola rotta
d’una strappata tela
qualcosa che rivela all’improvviso
un’altra ignota dimensione
Ogni cosa scucita si ricuce
e pare non esserci mai stata
perché ora la busta s’è impigliata
alla luce ricurva d’ un lampione.
*
Come gerridi lesti, pattiniamo
inutili esistenze a pelo d’acqua
sfiorando a malapena
la superficie eterea delle cose.
Basta una trasparenza a trattenerci,
a impedirci il contatto col reale.
Senza volare o immergerci sostiamo
e intanto accende l’Albero di Giuda
di viola e verde i bordi dello stagno
e non ha muro d’acque che lo fermi
-o lo difenda -, e il cielo lontanissimo
il cipresso sfacciatamente offende
mostrando il proprio dito medio oscuro.
Nessun vantaggio nell’accettazione
arrendevole del proprio destino
nessuna punizione se ribelli
l’Occhio ineffabile e annoiato scruta