Faccio copia e incolla da LPLC di un post di Andrea Cortellessa del 23 luglio 2015 che riguarda il nostro discorso sulla presunta chiusura della collana di poesia Lo Specchio della Mondadori:
[…] Venendo agli altri interventi, devo dire che rappresenta un’occasione mancata, soprattutto, quello di Alfonso Berardinelli. Fra quelli in attività è lui il maggior critico di poesia: quello cioè che avrebbe, ancora oggi forse, i maggiori strumenti per rispondere alle domande che in questi giorni si vanno facendo. Ed è oltretutto anche – co-autore nel ’75 con Franco Cordelli di un’antologia, Il pubblico della poesia, che per prima antivide il mondo in cui si andava trasformando quello, cioè il nostro – pienamente e personalmente parte in causa. Col suo pezzo s’è invece iscritto al partito dei tantopeggiotantomeglisti (rappresentato allo stato puro da un intelligente poeta e saggista di destra, Davide Brullo, guarda un po’ sul Giornale: che è fra parentesi la più tipica malattia infantile dell’estrema sinistra culturale del nostro paese. (Aveva davvero ragione, allora, un poeta assai irritato con lui quando lo definiva «Adorno di Monteverde»?)
Dice, il tantopeggiotantomeglista: era così scarsa (qualitativamente), la proposta recente dello «Specchio», che tanto vale che questo chiuda una buona volta i battenti. A parte che, all’atto pratico, se (come è dato oggi prevedere) questa collana semplicemente ridurrà gradualmente le uscite sino all’ineffettualità, il risultato sarà che potrà pubblicare solo le fetecchie di stretta ordinanza (senza potersi permettere i libri “veri”, di Antonella Anedda, Mario Benedetti o Mark Strand), questa obiezione pecca d’essere schiacciata sul presente, sui giudizi che oggi siamo in grado di dare. Se è vero che, concede micragnoso Berardinelli, «di poeti pubblicabili, cioè leggibili (anche se poco vendibili) in Italia ce ne sono circa una dozzina, magari anche venti, o se proprio si vuole si arriva a trenta», semplicemente non è vero – non è quantitativamente vero, intanto – che «non c’è quindi sufficiente materia per alimentare e tenere in vita» le collane di poesia. Se sono venti, o addirittura trenta, questi poeti, essi produrranno mediamente dieci-venti libri all’anno; e le collane “storiche”, fino ad oggi appunto, erano due. Ma il punto non è quantitativo; non così banalmente, almeno. Lo dimostra Paolo Febbraro, con la sua utile “verticale del 1961”: se oggi possiamo concludere che lo «Specchio» di allora (gestito da un certo Vittorio Sereni) «aveva fatto per intero il proprio dovere», lo poté fare perché aveva la possibilità di sbagliare. Cioè di sperimentare, piaccia o meno questo termine; di pubblicare cose che nel presente possono apparire, a questo o quel lettore o critico, illeggibili o «inutili» (per usare l’interessante termine di Berardinelli) ma che ad altri, già oggi, appaiono invece perfettamente leggibili, e magari pure utili; e che magari tanto più appariranno tali ai lettori a venire: quelli che oggi leggono con la massima utilità Auden, sì, ma anche Celan. Scommettere sul futuro è stata una prerogativa profonda dei moderni, e se oggi l’abbiamo persa – non solo ovviamente in ambito editoriale – le conseguenze, a livello economico politico umano, sono sotto gli occhi di tutti.
Dice infine, ma che problema c’è se la poesia non verrà più pubblicata su carta? C’è la Rete, bellezza. Un altro amico intelligente, Daniele Giglioli, suole dire che il verso famoso di Hölderlin, «là dove è il pericolo, lì è la salvezza», altro non è che l’ultima risorsa dei disperati. Capovolgiamo i termini: se – come a me pare assai evidente – la rete per la poesia è oggi una specie di pozzo senza fondo, dove si trova tutto e il contrario di tutto (cioè, appunto, il nulla), si potrebbe dire che, là dove parrebbe esserci la salvezza, proprio lì è il pericolo. A sessant’anni di distanza da quando è stato pubblicato il saggio di Calvino con quel titolo famoso, è oggi che navighiamo, frastornati e senza uno straccio d’indirizzo, nel mare dell’oggettività. Dove però, in realtà, regnano indisturbate le soggettività – intemperanti e risentite – degli autopubblicatori e autopromotori social-seriali. (Fu non a caso uno dei protagonisti della generazione del Pubblico della poesia, Dario Bellezza, a usare per primo il titolo Il mare della soggettività.)
Si ripete allora sconsolati: Che fare? Un grosso lavoro è quello che ci attende, e che spetta principalmente a quella generazione di esseri «ibridi», come li ha definiti Mazzoni nel suo I destini generali: quelli che, come lui e come me, si sono formati nel mondo vecchio ma hanno avuto in sorte di vivere la maggior parte della loro esistenza in quello nuovo. Nella rete, e con la rete, occorre ri-costruire dei luoghi non dove non ci sia l’inferno (quello, con buona pace di Calvino, ce lo portiamo dentro), ma dove almeno resti acceso un buon impianto d’aria condizionata. Dove cioè si possa contribuire a ri-costruire dei valori condivisi: non perché calati dall’alto da una nuova classe di mandarini (che, lo sappiamo, non ci sono le condizioni storiche perché si ri-formi); bensì perché discussi insieme, a tutti i livelli, da tutti quelli che “ci stanno”, nei molti sensi di questa espressione (per questo aggiungo con la rete: volendo dire, in forma di rete). Un tentativo fu, nel 2010-2013, quello delle Classifiche di qualità “Stephen Dedalus”, ideate e gestite (fra mille improperi e contumelie) da Alberto Casadei insieme appunto a Mazzoni e al sottoscritto, in collaborazione con Pordenonelegge (vale la pena segnalare, perché non lo si è fatto a sufficienza, che l’attuale attività che porta questo stesso nome non ha alcuna continuità con quella che conducemmo allora). Un altro, in ambito specificamente poetico, è la rubrica Campioni che sto provando a portare avanti su doppiozero, cioè uno di quei luoghi illuminati della rete che vanno moltiplicati (non all’infinito, pena l’effetto-caciara di cui sopra) e messi in grado di funzionare (cfr., in particolare, questa giustificazione non petita), come quello dove ci troviamo ora.
Questo infatti lo stiamo già facendo, stiamo già provando a farlo. Ma c’è un’altra cosa che non possiamo fare, invece, col mero volontariato dei singoli. Ed è porre le condizioni perché venga finalmente affrontato quello che, per la cultura editoriale italiana, è stato finora un tabù (rinvio alle risposte desolanti date al questionario sottoposto agli editori italiani dal numero monografico del «verri» sulla Bibliodiversità, il 35 del 2007): l’accesso a finanziamenti pubblici come quelli da decenni riservati, all’editoria di qualità (non necessariamente cartacea), da diversi Stati europei. Per esempio in Norvegia, come segnalava il compianto André Schiffrin in uno dei suoi imprescindibili pamphlet su queste questioni (Il denaro e le parole, a cura di Valentina Parlato, Voland 2010): dove – con un mercato ancora più ristretto, molto più ristretto, di quello italiano – s’è realizzato un circolo virtuoso che fa leva sul circuito delle biblioteche: quei luoghi, cioè, in cui si tocca con mano che il libro – con buona pace di Franco Tatò e delle sue legioni di, dichiarati o meno, imitatori contemporanei – non è, appunto, una merce come tutte le altre. Facile rispondere alla domanda circa il vero motivo per il quale gli editori italiani si sono sempre sottratti a questa discussione. Facile, se si guarda ai risultati impresentabili (a differenza di quelli ottenuti da altri Stati) coi quali la Repubblica Italiana ha sinora provveduto a sovvenzionare le traduzioni all’estero dei nostri libri: quella cioè che è pressoché l’unica forma di effettivo aiuto pubblico sinora introdotta nel comparto.
Ma è una risposta sbagliata, esattamente come quella dei tantopeggiotantomeglisti editoriali. Se le collane “storiche” – che per decenni hanno svolto in Italia, né più né meno, una funzione istituzionale – sono venute meno al loro compito, non è questo un buon motivo per chiuderle. Se degli aiuti pubblici all’editoria si è fatto sino a questo momento un uso clientelar-provinciale, non è questo un buon motivo per demonizzarli. Esattamente allo stesso modo in cui la risposta al cattivo funzionamento dei trasporti pubblici non può essere la loro abolizione (se si vuole un esempio meno paradossale, pensiamo alle scuole pubbliche). La collettività siamo noi, anche se sempre più spesso ce ne dimentichiamo. A nessun altro che a noi, dunque, spetta salvaguardare e migliorare i servizi pubblici: all’atto stesso di usufruirne.
Andrea Cortellessa intervistato da Nanni Delbecchi “Spengono i poeti perché sfuggono alla melassa”, ” il poeticidio”
[«Il Fatto Quotidiano», 9 luglio 2015].
Scoprire la società di massa nel 2015 è come chiudere la stalla quando è scappato l’ultimo dei buoi, e la nostra editoria si appresta a compiere il più efferato dei delitti letterari: il poeticidio. Non ha dubbi Andrea Cortellessa, che in queste denunce è impegnato con il puntiglio inattuale del critico militante:
«Siamo fuori tempo massimo anche dal punto di vista storiografico. E quanto si legge nelle ultime pagine è un esempio di quell’occultamento dei veri valori denunciato da Scrittori e massa. Troppi dei narratori “salvati” da Asor Rosa sono autori Einaudi, cioè della sua casa editrice, che sempre lui provvede a recensire su Repubblica».
Poteva fare un capitolo anche su se stesso?
Volendo sì, visto che ha provato a fare anche il romanziere.
Secondo Asor Rosa l’unico genere immune a questo meccanismo è la poesia.
«Su questo sono d’accordo: la poesia resta fuori dalla melassa mediatica, in quanto priva di un tornaconto commerciale. Questo la rende il genere più vitale della nostra letteratura, ma è anche la sua parte maledetta, nel bene e nel male».
Il declino della società letteraria si vede anche da qui?
«Certamente. Negli anni Sessanta e Settanta ai poeti era riconosciuta una grande autorevolezza, scrivevano in prima pagina».
E oggi?
Anche oggi i nostri maggiori poeti avrebbero molto da dire sulla società contemporanea, ma non hanno accesso ai media. Nel 2010 Valerio Magrelli ha scritto la poesia intitolata Le ceneri di Mike, in cui ricordava i funerali di Stato per Mike Bongiorno ma non a Edoardo Sanguineti. Ecco un segno dei tempi.
Un altro segno potrebbe essere la chiusura da parte di Mondadori della collana di poesia «Lo specchio», ultima superstite insieme a quella di Einaudi, di cui si rumoreggia.
In teoria le collane storiche di poesia sono tre. Ci sarebbe anche quella di Garzanti, mai ufficialmente chiusa anche se è come se lo fosse, visto che pubblica un libro ogni tre anni. Credo che la Mondadori voglia fare la stessa cosa; non chiudere ufficialmente lo «Specchio» per evitare clamori, ma ridurla sempre di più, lasciarla morire di consunzione. Un poeticidio contrario alla storia e alla vocazione di una casa editrice che fin dagli anni Trenta aveva creduto nella poesia italiana.
Oggi i poeti non rendono più.
Ma i poeti non devono rendere! Non bisogna sapere se la poesia rende oppure no. Non ha nessuna importanza; anzi, se vende tanto, probabilmente è cattiva poesia.
Anche la critica non si sente tanto bene.
Altra bella scoperta. Dieci anni fa, in Eutanasia della critica Lavagetto scriveva che i media non hanno più interesse a consultare i critici proprio perché sono critici, alieni da una macchina da profitto che non sopporta obiezioni, come teorizzò nel ’95 Franco Tatò. Nel libro-intervista A scopo di lucro sosteneva che il libro doveva diventare una merce come tutte le altre; a un ventennio di distanza, questa logica ha vinto definitivamente.
Al di là della poesia, come può resistere la buona letteratura?
Visto il disinteresse dei grandi, l’editoria indipendente è sempre di più il canale in cui passa la letteratura di ricerca, o meglio, la letteratura senza aggettivi, che non è certo quella degli opinionisti del Corriere della Sera. Per reagire allo strapotere delle concentrazioni si è dotata di strumenti propri come l’Osservatorio degli editori indipendenti, o di fiere come il recente BookPride. Inoltre proprio oggi viene presentato a Roma il Premio Sinbad, il premio dei piccoli editori che svolgerà i suoi lavori attraverso una serie di discussioni pubbliche.
Una specie di antiStrega?
Non sta a me dirlo, visto che quest’anno sono tra i giurati. Di sicuro al Premio Sinbad non ci saranno le stanze segrete, le cordate preconfezionate, le truppe cammellate dello Strega. Sarà un premio piccolo ma trasparente, espressione della resistenza al sistema. Perché è così: da una parte ci sono i grandi gruppi con i loro best-seller annunciati, dall’altra la riserva indiana. Un’editoria a doppia velocità, come l’Europa.
È già qualcosa.
Un’editoria a due velocità è un male minore. Ma pur sempre un male.
(LPLC 23 luglio 2015)