Archivi del giorno: 8 luglio 2015

Giuseppina Di Leo SULLA SCRITTURA POETICA, IL POTERE DELLA PAROLA «la parola inesprimibile», «la giraffa non è figlia dello scimpanzé»

Caro Giorgio,
Interrogandomi ancora sulla poesia e sull’atto dello scrivere tout-court, la riflessione che ne scaturisce è la seguente. Innanzitutto, immagino che la poesia, attraverso le parole, rimandi ad una istanza, e tuttavia essa stessa parola/poesia non spiega, nel suo comporsi, la ragione da cui è mossa. O perlomeno, spesso e volentieri ci sorprendiamo di aver scritto cose che non avevamo in mente, usando magari una parola (o forse più d’una) ‘doppia’ che rimanda a qualcos’altro (e questo è un caso felice); oppure, al contrario, per quanti sforzi si facciano capita di non riuscire a esprimersi come vorremmo e rendere degno un pensiero.
La ragione della parola ‘inesprimibile’ proviene da questa seconda ipotesi. Si tratta in ogni caso della stessa difficoltà che si pone, nel rapporto tra analizzando e analista, nel valutare i dati emersi durante l’analisi. Ma, come quei dati, analogamente la poesia si offre al lettore non solo e forse non tanto per quello che dice, quanto per le suggestioni / emozioni che essa parola/poesia riesce a far scaturire nel lettore, nell’altro. Per questa ragione penso alla poesia come a qualcosa in continuo movimento: uno svelare quanto era non ancora esplicitato a sé stessi. Una sorta di movimento tellurico che fa riaffiorare in superficie uno stato d’animo poco conosciuto in apparenza.
Sulla poesia più recente, oggi un diverso sguardo permette di poter invertire i termini del problema: il ‘perché’, prima racchiuso in un’istanza non esplicitata, si presta al “gioco del rocchetto” (lo sguardo dell’osservatore); attraverso la rappresentazione la realtà rivela qualcosa di sé attraverso la finzione. L’elemento ludico della scrittura, insieme al piacere che se ne trae, andrebbe sempre ricordato.
Giuseppina Di Leo

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Cara Giusy,
mi corre l’obbligo di risponderti. Storicamente, precipuo della moderna opera di finzione è lo sgretolarsi della possibilità di accedere al senso dei testi. Il carattere di finzione dei testi kitchen, la loro non-referenzialità ci dice che l’opera storicamente decostruisce attraverso la testualità ogni messaggio, ogni significato, ogni senso. Non potendo essere letterale, il testo possiede soltanto la pluralità delle letture come unica lettura, l’unità di senso diventa frattura, abisso del senso e del sensato, la figuratività ha il sopravvento rispetto alla referenzialità, che tenderà a scomparire, ad inabissarsi. Da Borges in poi la letteratura contemporanea si presta all’idea di perdita del senso e alla apertura di letture molteplici, essa non può più porsi come modello del logos o norma generale. L’anti-referenzialismo dà troppo credito al suo opposto, lo suppone vero, occorre uscire al più presto dallo schema referenzialismo-antireferenzialismo. Identificando la significazione con l’attribuzione di un referente e, parallelamente, la non-significazione con la non-referenzialità, l’opera di finzione storicamente si sottrae per forza di cose alla questione del senso e del sensorio e del sensato. Ne risulta che il linguaggio dell’opera kitchen non può più dire qualcosa di sensorio e di sensato e sostenere che la letteratura non si lascia più comprendere ma fraintendere… Chiedo, quale «Potere della Parola» può avere la «parola» in un contesto kitchen? E ti rispondo: Nessuno.
Giorgio Linguaglossa
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moda iperrealismo

Michael Cunningham

Leggo il pensiero dello scrittore americano Michael Cunningham sul mestiere di scrivere e sulle difficoltà incontrate nel tradurre in parole le immagini che abitano nella testa.
È un po’, credo, come avere la pretesa di riuscire a far assaporare al pubblico cinematografico una torta attraverso la visione di un film. Bravura del regista, attori permettendo, e pubblico disposto a immedesimarsi, si potrebbe ricevere un assaggio mediatico stimolando i sensi del gusto e dell’olfatto per via dell’autosuggestione. Ma, a conti fatti, rimarrebbe pur sempre una percezione olfattiva solitaria, con l’unico effetto reale di incremento della produzione salivare. Ricordo di aver letto che in alcune situazioni estreme, come nel caso della prigionia, per sopperire alla mancanza di cibo sia possibile ‘sfamarsi’ immaginando succulenti pranzi ricchi di ogni ben di Dio traendone, momentaneamente, un qualche beneficio. Momentaneamente. Come effetto placebo.

Lo stesso vale ad esempio per questo muro che ho qui davanti, ad appena a un metro e mezzo di distanza, fuori dalla mia finestra. Ebbene, l’impatto visivo è dato da un muto/muro di pietra: punto e basta. Una visione che contrasta con il mio pensiero che sento invece in questo momento ricettivo, un ‘ostacolo’ che limita la capacità di esprimere il pensiero impedendogli, e impedendomi, di farsi strada (prova ne sia il fatto che sto scrivendo altro da ciò che vorrei).
Eppure, quel muro è lì per un lavoro dell’uomo, dei tanti uomini che lo hanno realizzato. Ma ancor prima del suo essere muro vi è il cielo, che è preesistente a tutto. Dunque, alla maniera di quei prigionieri, non posso fare altro che guardare il muro, che tra l’altro mi fornisce tutti i volti di pietra di cui ho parlato più volte; come, ancora, potrei anche scegliere se demoralizzarmi oppure, diversamente, travalicare i confini puri e semplici (la realtà), per immaginare, con un pizzico di fantasia, quello che c’era prima, o prima ancora.

Tutto questo per dire che la “traduzione” del pensiero in parole potrebbe realizzarsi, come in effetti si realizza, attraverso un lavoro, faticoso a volte, lento in molti casi, di riappropriazione del proprio cielo. Alla fine della ricerca, partendo dal muro/ostacolo ovvero scavalcandolo, avremo a nostra disposizione immagini e parole suscettibili di altrettante emozioni. Il problema consiste semmai nel trovarle, le parole. Riduttivamente.

E difatti, ci sono libri in grado di farci commuovere o ridere, accendere o spegnere desideri, persino quelli di ‘gola’, e non solo. Il potere della parola è il potere per eccellenza. Perlomeno è stato elevato a sovrano assoluto nell’occidente, in cui vige il binomio inscindibile parola/potere.

In un contesto differente, un ruolo diverso ha altresì la parola, come altro è l’impegno che assume verso gli altri il «Signore delle parole» nelle tribù senza stato amerindiane, dove nessun insegnamento è ammesso, se non quello che garantisca la continuità con la stessa società che ha eletto il suo «capo», come ci racconta Pierre Clastres: «Vuoto è il discorso del capo appunto perché non è discorso di potere: il capo è separato dalla parola, perché è separato dal potere”».
Ne consegue che, scindendo il potere dalla parola, nessuna sopraffazione è ammessa.

Ma ecco il pensiero di Cunningham:
«Anche se il libro in questione viene fuori abbastanza bene, non è mai il libro che avevate sperato di scrivere. È più piccolo del libro che avevate sperato di scrivere. È un oggetto, una raccolta di frasi, e non assomiglia neanche lontanamente a una cattedrale di fuoco» (Il Sole 24 Ore – Domenica, 13 giugno 2010, trad. di Ivan Cotroneo).

Ho riportato il finale dell’articolo, perché lo trovo più interessante dell’articolo stesso e anche degnamente conclusivo, dopo che l’autore ha spiegato che nessun romanziere che si rispetti sfugge alla crisi ‘post partum’; cosa che, inversamente a quanto si verifica nel diventare madri, fa dire (o pensare) che la rosa più bella resta ancora da cogliere: «Questa la nostra gloria. Siamo alla ricerca di qualcosa, e non veniamo scoraggiati dal sospetto collettivo che la perfezione che cerchiamo nell’arte abbia le stesse possibilità del santo Graal di venire trovata. Questa è una delle ragioni per cui noi, e intendo noi esseri umani, siamo non solo creatori, traduttori e consumatori di letteratura, ma della letteratura siamo i soggetti».
Una conclusione tutto sommato da romanzo. Dato che la giraffa non è figlia dello scimpanzé.

Giuseppina Di Leo

giuseppina di leo

giuseppina di leo

Agnizione

C’è stato un tempo in cui calanchi erano le parole
scurità apicali infilzavano occhi discendenti lame
bocche orribili. E di un dio non vidi mai la fine.
Mezza pagina era troppo. Né parlarti
spostava lo sgomento dei tre sì e dei tre no.
Su quale fragile armonia s’incammina la rabbia
stesa in alto pressa un tavolo di accordi poche facce
si riconoscono tra gli estranei nel momento del saluto.

Giuseppina Di Leo

Giuseppina Di Leo – Ha pubblicato tre libri di poesie: Dialogo a più voci (LibroitalianoWorld, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010); Con l’inchiostro rosso (Sentieri Meridiani Edizioni, 2012); la plaquette: Il muro invisibile (LucaniArt, 2012). Alcune sue poesie, racconti e interventi di critica letteraria sono ospitati su antologie, riviste, su blog e siti dedicati alla poesia.

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