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Lettera di Vincenzo Petronelli agli Amici dell’Ombra delle parole sul proprio tragitto, Dalla poesia del novecento verso una Nuova ontologia estetica, Poetry kitchen e Instant poetry, con una scelta delle poesie

L’umano non è per Giorgio Agamben, come per la tradizione della metafisica occidentale, Zoon logon echon, l’animale che ha il linguaggio, ma piuttosto l’animale che, a differenza degli altri animali che «sono sempre assolutamente nella lingua», ne è privo e deve riceverlo dal di fuori, e quindi dimora nella scissione tra lingua (il sistema dei segni) e parola (l’uso). La teoria agambeniana dell’«in-fanzia», come luogo nel quale  si è privi di lingua, si pone dunque esplicitamente come uno svolgimento della distinzione tra semiotico e semantico formulata da Benveniste. Forse proprio in questa sottilissima linea divisoria tra semiotico e semantico è possibile per un poeta di oggi situare il linguaggio poetico come linguaggio già pronto, ready language, una zona neutra di indistinzione tra il sistema semiotico e il sistema semantico.
Ready language poetry di Giorgio Linguaglossa

Caro Giorgio,

raccolgo con grande piacere il tuo invito a sottoporre ai lettori dell’ “Ombra delle Parole” questo profilo della mia storia poetica.
Ho sempre amato la poesia e la sua capacità di “curvare” le parole, come frutto dell’attrazione per la magia della parola e per la possibilità di plasmarla. Come tanti, ho cominciato a cimentarmi con i primi versi in età tardo-adolescenziale, per avviarmi a dei tentativi più “seri” e “sensati” attorno ai vent’anni, in un contesto culturale caratterizzato da interessi estremamente eclettici, culminati in un percorso di studi storico – antropologici, ambito nel quale successivamente sono stato anche ricercatore e che tuttora continuo a seguire come cultore della materia. Se da un lato tale versatilità mi ha permesso di individuare da subito la capacità della poesia di farsi vettore di questa visione olistica della vita e del mondo (tanto che ho sempre amato definire la mia poesia “antropologica”) dall’altro lato ne ha segnato probabilmente un limite nella ricerca iniziale sul linguaggio, in quanto ingabbiata nella commistione con la passione, altrettanto pregnante, per la musica e dall’idea – che ha accompagnato a lungo la mia versificazione in quel periodo – della ricerca di un registro popolareggiante, ricerca mutuata tanto dall’influenza cantautorale e dal filone musicale folk-rock, quanto dal mio retroterra antropologico. Se per un verso ciò mi ha conferito subito quel gusto per la narrazione e l’astrazione dalla logica dell'”Io” e dalle tendenze della poesia salottiera ed elitaria, dall’altro ha determinato il limite, in quella fase, di un indugio ed un compiacimento per il gusto folkorico – comunque qui inteso nel senso nobile, cioè antropologico del termine- per un lirismo esplicito, ostentato. Il risultato, al contrario delle premesse, finiva per appiattire il possibile spettro espressivo dei miei versi, sacrificandone l’eclettismo e ciò nonostante da sempre abbia attinto a letture e riferimenti poetici i più disparati, di differenti tradizioni geografiche e linguistiche e di diversa impostazione stilistico – espressiva, ma se ciò penetrava nella mia scrittura di allora con vari stimoli e suggestioni, non riusciva ancora ad incunearsi nella mia scrittura dal punto di vista tecnico.
I modelli prevalenti finirono per essere poeti sicuramente immensi (senza alcuna lontana pretesa di volermi a loro assimilare) come Yeats o Garcia Lorca, ma che presto ho cominciato ad avvertire distanti dalle mie istanze poetiche: ferma restando l’importanza e la centralità assunta nella mia formazione dalla cultura popolare, cominciavo a rendermi conto del fatto che essa non fosse un monolite, ma che al contrario, essendo a sua volta coinvolta nei processi di trasformazione del mondo e della società tutta, soggetta a mutamenti di paradigmi e declinazioni ed ad ampliamenti di territori ontologici.

Ecco un esempio di “parti” di quest’epoca: nel primo caso si tratta di un brano composto nel dialetto di Barletta – la mia città – naturalmente seguito dalla traduzione in italiano, ed il secondo in italiano.

Un amore di rosa

Giugne ièrre ‘na nàve de cundrabbandiére
ca da sope ‘e pelùne arruave abbásce ‘o puorte
e assèvene ‘i menénne a aspettà i frastière,
assave a zinghere ca addevenave ‘a sòrte.

Luglie profumave de cièlse e de lemone
e de promèsse ‘nu fagugne d’a condrore;
stèvene ciènde rose sope ‘o balcone
e da nbiètte te zumbave ngánne ‘u core.

A agòste scettièste nu sòlte abbásce ‘o puozze
che ‘na lèttre lôrde, ráchele de sánghe
e rendrunave rête ‘e iárevere ‘a carròzze,
ma ‘u bbêne nôn vêne crè e pscrè nemmánghe.

Traduzione

Giugno era una nave di contrabbandieri
che dalle pozzanghere arrivava dritta al porto
uscivano le ragazze ad aspettare i forestieri
e usciva la zingara che leggeva la sorte.

Luglio profumava di gelsi e di limone
e di promesse nel favonio della controra;
c’erano cento rose sul balcone
e il cuore dal petto ti saltava in gola.

Ad Agosto gettasti un soldo nel pozzo
con una lettera, rantolo di sangue
e riecheggiava dietro l’albero la carrozza,
ma l’amore tuo non arriverà domani e neanche dopodomani.

Il volo

Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.

Così ogni notte
liberato il mio inquieto colombo,
raccolgo
come contrabbandiere di confine
il povero bagaglio dei miei ricordi
ed attraverso i sentieri tracciati.

Sono ampi spazi
disseminati nel bianco fragore di case
col volto dei millenni,
e suoni
riecheggianti nelle stanze
dalle strade mute,
voci di bambini
sospinti dal vento
per le valli.

Sono mani dure
ed occhi rugosi di contadini
asserragliati nelle loro memorie
squarciate dagli inverni,
e donne che cuciono
la trama sottile di un tempo impari,
inebriate di sole
che esonda dai muri d’ombra
le loro ali di cera.

Sono stazioni scomparse
tra anfratti di treni a vapore,
che rifrangono accenti di giorni passati
mescolati
agli odori del mezzogiorno
ed alle grida dei venditori.

Sono sfumature di bianco e nero
e contorni di terra e sangue
che la storia
non cancellerà.

Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.

Penso che appaiano fin troppo evidenti i richiami ad immagini evocative della cultura contadina ed i riferimenti ad una poesia popolareggiante liricamente ridondante.

Se c’è un elemento che ritengo essere stata invece un’intuizione interessante è la modalità con cui ho fin da subito esperito l’uso delle lingue locali: paradossalmente, nonostante la pervasione di questo lirismo popolareggiante, cui apparentemente il dialetto è subordinato, l’idea del ricorso alle lingue locali è invece stato immediatamente associato più alla ricerca di una koinè universale, al punto che scritti che potrebbero sembrare nati da episodi di vissuto locale, affondano la loro genesi in esperienze o vissuti connessi ad una formazione che mi ha sempre fatto vedere nelle radici un trampolino da cui spaziare verso il mondo, per cui quest’attitudine antropologica è corrisposto anche ad un continuo ampliamento del bacino geografico dei miei interessi. In effetti, tale afflato si è accompagnato anche ad una robusta conoscenza linguistica (mi sono dilettato anche nella composizione – estemporanea in verità – in alcune lingue estere di mia conoscenza) e conseguentemente nella possibilità di viaggiare molto, cosa che ha influenzato le mie suggestioni poetiche, ma prediligendo stilisticamente farle convergere in una sorta di declinazione universalistica che mi permettesse l'”accorciamento delle distanze”, attraverso un processo di contaminazione e di traduzione, una una sorta di Bringing it all back home, per la quale necessitavo di una lingua affettivamente vicina al mio vissuto personale, ma al tempo stesso neutra: disegno al quale le lingue locali della mia area si prestano perfettamente per il fatto di non possedere una tradizione poetica radicata e di essere dunque sganciate da dettami “di scuola”. Risulta però evidente a posteriori come anche questa potenzialità del registro linguistico, rimanesse compressa in un quadro eccessivamente lirico – folkorico.

Alla fine degli anni ’90, ho cominciato a percepire una distanza sempre più stridente da questo modo di fare poesia, avviando un percorso palingenetico, abbinato non solo ad una necessità di rinnovamento personale della mia versificazione, ma anche – in un contesto in cui nel frattempo avevo cominciato ad ampliare i miei orizzonti di conoscenza poetica e del panorama della produzione poetica contemporanea – dell’inderogabilità per ogni poeta, anche il più modesto, di cercare di offrire un contributo al progresso delle attività artistiche e del sapere, per testimoniare nella propria opera il proprio tempo.
La “prima pietra” di questo percorso di rinnovamento è stato l’incontro con la poesia di Paul Muldoon, poeta nord-irlandese considerato la voce vivente più alta della poesia in lingua inglese con il suo stile fortemente allusivo e talvolta criptico, l’ironia ed autoironia, con i giochi di parole ed una musicalità “atipica”; un poeta di transizione se vogliamo, tra una poesia ancora “oggettiva”, ma con una complessità architettonica già straniante e ri-strutturante. Un poeta, Muldoon, che adotta in alcuni capitoli della sua produzione, anche la poesia narrativa, ma secondo la consuetudine “alta” tipica in questo senso della poesia anglo-sassone, che quasi contemporaneamente mi ha dischiuso le porte all’approfondimento anche di altri poeti, in particolare quella di altri due poeti irlandesi: Seamus Heaney e Patrik Kavanagh, sebbene tra loro molto diversi.

Tra i miei scritti di quel periodo (siamo ormai all’inizio degli anni 2000) ce n’è forse solo una che può avere un barlume di dignità, anche in questo caso composta in barlettano:

U Spusalizzie

Atténəmə jêrə də Cérəgnolə
manəsciavə i parolə accomə e curtiddə;
mamminəmə jêrə andrəsànə,
propriə u pajeisə d’i zappatourə e di bbàbunə
ndò i dibbətə pəsèvenə
accomə a na zochə ngánnə.

Na sciurnàtə appêsə də Márzə,
nonònnə facèttə mbáccə ‘a figghjə:
“Nan nə tənéimə daggè abbastánzə de uájə,
ng’i vuléimə scì a truà a fòrzə? Cə jə, tə fêtə
l’árjə ca tə nə vu scì da ddò?”, chə l’ucchjərə appəcciàtə.

‘A sêrə, doppə ca fərnavə də cusì,
mamminəmə assavə i fotograféje
da ìində o tərèttə,
adunénnə i pənzìirə nzìimə o ppànə da sope a távələ;
méndrə atténəmə sə sciavə a còlchə e sə sciuscelavə
ch’i rraggiunamìinde sou; u prèstətə da cercà a bánghə, a máchən-a novə,
i bastárdə ch’ i mannèvənə a schəmmunəchə.

Il matrimonio

Mio padre era di Cerignola
maneggiava le parole come coltelli;
mia madre era andriese,
proprio la città dei contadini e dei “signorsì”
dove i debiti pesavano
come una corda intorno al collo.

Un giorno incerto di Marzo
mio nonno disse rivolgendosi a sua figlia:
“Non abbiamo già abbastanza guai,
da andarceli a cercare a tutti i costi? Cosa c’è, ti puzza
l’aria, che vuoi andar via da qua?”, con gli occhi accesi.

Alla sera, dopo che finiva di cucire,
mia madre tirava fuori le fotografie
dal cassetto,
raccogliendo i pensieri insieme al pane sul tavolo;
mentre mio padre andava a dormire e si gingillava
con i suoi ragionamenti; il prestito da richiedere in banca, la macchina [nuova,
i bastardi che gli portavano sfortuna. Continua a leggere

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Mariella Bettarini, Antologia di poesie – dal diario di Romilda (1968),  da  Delle nuvole (1991), con una selezione di giudizi critici

 

foto palazzo illuminato

Datemi solitudine ma non lasciatemi sola

Vivo e lavoro a Firenze (dove fino al ’92 ho insegnato nelle scuole elementari), città dove sono nata il 31 gennaio 1942.
Dopo una parentesi torinese negli anni dell’infanzia e un doloroso soggiorno di tredici anni a Roma, e dopo corroboranti esperienze nella mia città natale (la città di La Pira e di don Milani, di padre Balducci e dell’Isolotto: le mie radici), nel 1973, in un postsessantotto colmo di disperate speranze, con alcuni amici scrittori diedi vita a “Salvo imprevisti”, quadrimestrale (12/11/06), fascicoli monografici dedicati a temi come “Cultura e meridione”, “Donne e cultura”, “Dopo il sessantotto”, Pasolini, “Poesia e inconscio”, “I bambini/la poesia”, “Poesia e teatro”, “Poesia e follia”, “Del tradurre”, ecc: Ho, infatti, sempre sentito strettissimamente connessa la mia ricerca etico-estetica con il rovello, la ricerca, l’esperienza etico-culturale di altre persone (prima che poeti/scrittori), in una comunitaria, non competitiva passione insieme letteraria e sociale.

Dal 1992 “Salvo imprevisti” si chiama “L’area di Broca”, semestrale che privilegia temi scientifico/conoscitivi, oltre che letterari.
Intanto, dal 1961 scrivevo molto, soprattutto poesia (ma anche prosa creativa e critica: recensioni prefazioni, brevi saggi), leggevo moltissimo, traducevo la Weil, partecipavo attivamente, su fogli e riviste, al dibattito in corso sui sempre difficili rapporti tra letteratura e società.

Da allora ad oggi ho pubblicato ventisei titoli di poesia, sette tra libri e plaquettes di narrativa,due di saggistica (sulla condizione della donna e la sessualità nel 1978 e nell’80 una serie di interviste a 33 poeti di varie generazioni); ho partecipato a dibattiti, letture pubbliche, convegni, ecc.
Poiché credo nella cooperazione culturale (e amo profondamente la scrittura degli altri), sono sempre stata contraria ai premi letterari. Così, dal 1984, in questa linea di intensa partecipazione e collaborazione, assieme a Gabriella Maleti (che ne è stata l’ideatrice) curo la piccola Editrice Gazebo, che ha collane di scrittura creativa e critica. Nel 1996, con i genitori di Alice Sturiale, ho curato Il libro di Alice (ripubblicato da Rizzoli nel 1997).

Oggi (inizi del 2006) continuo a lavorare molto, ad amare la parola: scritta, letta, orale, creativa, saggistica, epistolare. La parola/segno. La parola/bi-sogno. La parola/intenzione di dialogo, affinità, amore. Così come amo da sempre l’archeologia, l’arte, la botanica, l’astronomia, la fotografia, il cinema e la matrice poliedrica di tutto questo: la misteriosa/”naturale” natura: dall’infinitamente grande e lontano, interstellare, invisibile, all’infinitamente piccolo e prossimo (anch’esso talora invisibile). Parola che si fa carne. Carne (minerale, vegetale, animale) che si fa parola. Misteriosamente. A specchio.

Io non so se sia poesia o oratoria o oratorio e in verità non me ne importa nulla: ma il poemetto Terra di tutti, riletto ora, arriva, fa il suo dovere, ha passi che fanno trasalire, ha verità e ritmo. (…) Sta il fatto che, dovessi far leggere a uno straniero o a un postero un testo per far capire che cosa stava nell’animo di un giovane nell’anno Settanta, quei suoi testi sarebbero fra i primi, un vero risultato oggettivo. Non so né come né quando ma non mi dimenticherò di questo suo scritto.
Franco Fortini
(da una lettera, 8 maggio 1972)

 

C’è effettivamente nella Bettarini, fin da quando comincia a comunicare in versi, la disposizione alla concitazione oracolare e allo scavalcamento del politico sul privato. Questa disposizione si sente sempre, diluita o accentrata; come a volersi impigliare, contemporaneamente estendendone le trame, in rigorose metafore di avvertimento o ricognizione sociali. Definirei questa disposizione come il proposito di parlare alto a tutti (a tutti, non per tutti); parlare alto o, meglio ancora, comunicazione alta (sentimentalmente molto commossa).

(…) Alla concitazione oracolare, che produce non lemmi autoritari per « una vita esemplare » ma indicazioni che rimandano a quel bisogno o a quella richiesta di progressione conoscitiva e sentimentale di cui ho fatto cenno; a questa concentrata concitazione si allinea come altro e concomitante momento del discorso il referto esistenziale — che è solo trascritto, dato come indicazione e mai gridato come una perorazione.

(…) Il leccio è interessante da indagare; e non credo si possa considerare semplicemente l’opera di un’esordiente intelligente; lo leggo come il registro su cui sono trascritti i dati di un discorso personale (non privato) che si va precisando con uno sforzo autentico; che si fa persuasivo mentre tende a ramazzare con la scopa ideologica i problemi «vitali» piuttosto che a selezionarli per comporsi in un ordine possibile e rappresentarli a fini egoisticamente esistenziali.

Ma dieci anni dopo, nel ‘77, nella raccolta intitolata In bocca alla balena, la Bettarini propone un discorso più sconnesso (nel senso di una faticosa lacerazione, dell’orditura anch’essa volutamente frantumata e di inquietudine molto esasperata) non avendo più i riferimenti su cui ancorare la ricerca (archetipa) di verità. L’area di questa ricerca essendosi complicata di riferimenti sovrapposti e di tensioni non previste e conturbanti.

(…) È tutto un buttare uncini per arpionare i fragili e scontornati elementi di una realtà che si è già consumata (non che si sta consumando, concedendo qualche punto di riferimento). Ne consegue che in questi editi nel ‘77 (ma composti in precedenza), presi come campionatura di confronto per qualche definizione, si privilegia un parlato argomentante e descrittivo, a tutto tondo, di situazioni ideologiche; e il sociale come rap-presentativo dei sentimenti — o, meglio, come rappresentato dai sentimenti, resi infidi e inquieti dalla situazione emergente. In due parole: dalla prima alla seconda opera indicata si passa da una tensione positiva, che si alimentava dei problemi del tempo, all’inquietudine riflessa, a volte opaca a volte terribile, di un momento storico che propone solo contraccolpi, i quali sfuggono e non si lasciano definire.
Roberto Roversi
Introduzione al «Trittico per Pasolini»
Almanacco dello Specchio, n. 8 (Mondadori, Milano, 1979)

Situazione e tono da poesia-documento, poesia ‘arrabbiata’ angloamericana. Si va dagli eccessi di sconforto-disperazione personale (una voglia di «buttarsi via» e insieme di essere nelle cose) alla denuncia sarcastica nel linguaggio dell’intervento incazzato e della protesta. Nel linguaggio, cioè, da studente-operaio sempre un po’ sull’orlo della «devianza» (il fantasma, dietro le spalle, dell’ospedale psichiatrico)… A volte si ha l’impressione di una specie di ritomo del primo Ungaretti e Jahier (o un Ginsberg o un Leroi Jones).
Franco Cordelli
II pubblico della poesia (Lerici, Cosenza, 1975)

Più vicina alla Weil che a Marcuse e più che a un’ipotesi di poesia rinnovabile solo entro schemi semiologico-linguistici, a un’idea di poesia fecondata da una cultura alternativa, di classe, la Bettarini lavora tutte le occasioni, i pretesti, le provocazioni della cronaca-tragedia in una sorta di confessione disinibita, di flusso ininterrotto, caotico, della coscienza dove la esteticità, il decoro, il diritto della forma cedono il passo a una ragion pratica d’ordine globale: provocare, per disincantare, per trasformare, possibilmente in meglio, l’uomo.
Alberto Frattini
AA.VV., Inchiesta sulla poesia (Bastogi, Foggia, 1978)

Esemplare (…) è la posizione di Mariella Bettarini. Le sue radici sono in una tradizione di neorealismo fiorentino (per esempio «Quartiere»), che si combina con un più generale espressionismo toscano (per esempio Marcello Landi) e con un fondo di volontarismo cattolico. Fin dall’inizio (II leccio) interessa il suo aggrapparsi al fantasma di un centro, che non potendo essere sociale sarà psicologico (…) La sua asprezza è pazienza, fedeltà alla propria imbarazzante natura. Anche nelle cose più recenti (Diario fiorentino) ritorna l’immagine di un corpo vivo, inopportuno (…). In un libro di più complessa struttura come Dal vero, questa esigenza psicologica (l’esigenza del centro è consapevolmente legata al trauma del difficile rapporto col padre) si fa descrizione di un paesaggio degradato.
Walter Siti
II neorealismo nella poesia italiana (Einaudi, Torino, 1980)

 

A ripercorrere l’intero itinerario in versi di Mariella Bettarini si ha una sensazione di stordimento, sia per la vastità dell’opera che per la sua complessità, tanto che una nota come questa risulta ardua (non per nulla sulla produzione della Bettarini sono state realizzate più tesi di laurea), anche perché sulla poesia dell’Autrice si sono espressi, in tempi diversi, intellettuali, critici e poeti di gran valore e notorietà, da Luzi a Fortini, da Roversi a Ramat, da Cucchi a Manacorda. Già Luzi ne mise in evidenza “il tenero e ispido furore” e Silvana Folliero le “visioni un alto valore semantico, durevolmente attraversato da ritmi interiori”. (…) Credo che la Bettarini sia stata uno dei pochissimi scrittori di poesia a portare avanti pervicacemente il rapporto poesia/altro (soprattutto la fotografia), poesia/mondo, poesia/occasioni e a darne conto lucidamente: sì, credo che la critica della Bettarini sull’epifania della propria scrittura, sul sorgere improvviso nella coscienza della “necessità” di intraprendere – di dar vita ad una silloge specifica – sia anch’essa poesia: vedi “Nursia”, “La disertata” e la splendida raccolta “Zia Vera” dove l’Autrice costruisce una struttura di 68 testi – quanti gli anni della vita di zia Vera – sospesa fra il dato biografico e quello storico. (…) Concludo questa breve nota accennando alla sapienza del discorso poetico di Mariella Bettarini: il gioco degli spazi, l’uso costante dei trattini, l’ostracismo alla virgola, le rime quasi involontarie, l’iterazione (“passare per la testa”, ad esempio), l’utilizzo di lessemi da lingue straniere o di voci dialettali sono soltanto alcuni degli “strumenti” letterari della nostra autrice, che percorre da così tanti anni un suo originale, personalissimo sentiero poetico che mostra come – nella poesia autentica – mente e passione, etica e biografia si tengano mirabilmente, sino a dar vita a qualcosa di tenero, di lieve, di miracoloso.

Daniele Giancane
“La Vallisa” (n. 81, dicembre 2008)

POESIA:
Il pudore e l’effondersi (Città di Vita, Firenze, 1966)
Il leccio (I Centauri, Firenze, 1968)
La rivoluzione copernicana (Trevi, Roma, 1970)
Terra di tutti e altre poesie (Sciascia, Caltanissetta Roma, 1972)
Dal vero (ib., 1974)
In bocca alla balena (Salvo imprevisti, Firenze, 1977)
Diario fiorentino (Sciascia, Caltanissetta Roma, 1979)
– “Trittico per Pasolini”, in Almanacco dello Specchio n. 8 (Mondadori, Milano, 1979)
Ossessi oggetti/spiritate materie (Quaderni di Barbablù, Siena, 1981)
Il viaggio/il corpo (L’Arzanà, Torino, 1982)
La nostra gioventù (Sciascia, 1982)
Poesie vegetali (con fotografie di G. Maleti, Quaderni di Barbablù, Siena, 1982)
Vegetali figure (Guida, Napoli, 1983)
– “Il gregge”, in AA. VV., Etrusca-mente (Gazebo, Firenze, 1984)
– “Trentadue in viaggio – romaniche”, in Il viaggio (in collaborazione con G. Maleti, Gazebo, Firenze, 1985)
Tre lustri ed oltre (antologia poetica 1963-1981, Sciascia, 1986)
Delle nuvole (con fotografie di G. Maleti, Gazebo, Firenze, 1991)
Diciotto acrostici (Gazebo verde, Firenze, 1992)
Familiari parvenze (enigmi?) (Quaderni della Valle, S. Marco in Lamis, 1993)
Asimmetria (Gazebo, Firenze, 1994)
– “La disertata”, in AA.VV., Il fotografo (I quaderni di Gazebo, Firenze, 1994)
Il silenzio scritto (con opere pittoriche di Kiki Franceschi, Gazebo, Firenze, 1995)
Zia Vera infanzia (Gazebo, Firenze, 1996)
Case – luoghi – la parola (Fermenti Ed., Roma, 1998)
Per mano d’un Guillotin qualunque (Ed. Orizzonti Meridionali, Cosenza, 1998)
L’amoroso dissenso (con una tavola di Albino Palma, Luna e Gufo, Scandicci, 1998)
Haiku di maggio (Gazebo verde, Firenze, 1999)
Nursia (in collaborazione con G. Maleti, Gazebo, Firenze, 2000)
La scelta – la sorte (Gazebo, Firenze, 2001)
Trialogo – G. Maleti, G: S. Savino, M. Bettarini, (Gazebo, Firenze, 2006)
– Balestrucci (Gazebo, Firenze, 2006)
A parole – in immagini (antologia poetica 1963-2007) (Gazebo, Firenze, 2008)
Avvenga che canti (a cura di Rosaria Lo Russo e Massimo Liverani), con allegato cd audio

NARRATIVA:
Storie d’Ortensia (Edizioni delle Donne, Roma, 1978)
Psycographia (Gammalibri, Milano, 1982)
Amorosa persona (Gazebo, Firenze, 1989)
Lettera agli alberi (Lietocolle, Faloppio, 1997)
– “Caro Mistero”, in AA.VV., Lettera a un fagiano mai nato (Gazebonatura, Firenze, 1999)
L’albero che faceva l’uva (Gazebo, Firenze, 2000)
La testa invasa (Gazebo, Firenze 2003)
Il libro degli avverbi (piccole storie per bambini) (Gazebo, Firenze 2005)

SAGGISTICA:
– “I poeti sono uomini”, in Materiale per gli anni Ottanta, 1 vol. (D’Anna, Messina-Firenze, 1975)
– “Pasolini tra la cultura e le culture”, in AA.VV., Dedicato a Pasolini (Gammalibri, Milano, 1976)
– “Pasolini, le culture e noi”, in AA.VV., Perché Pasolini (Guaraldi, Firenze, 1978)
– “Donne e poesia” in AA.VV., Poesia femminista italiana (Savelli, Roma, 1978)
Felice di essere (scritti sulla condizione della donna e la sessualità) (Gammalibri, Milano, 1978)
Chi è il poeta? (in collaborazione con Silvia Batisti, Gammalibri, 1980)

Mariella_Bettarini foto Dino Ignani

Mariella Bettarini, foto di Dino Ignani

Mariella Bettarini

dal diario di Romilda (1968)

Sono le cose che fanno compagnia, caldo. Le cose che mi guardano e stanno intorno al mio freddo, alla mia acqua sconsolata.

Datemi solitudine ma non lasciatemi sola.

Accetto la versione che gli altri danno di me o prendo la mia?

C’è chi sta tranquillo ad osservare il futuro. Il mio futuro è una pietra piccola, un asparago nel piatto, una settimana nemmeno luce.

“Insegna chi dà e impara chi riceve” (Ralph W. Emerson).

Presso l’albero gli uccelli lavorano con colpi di coda, che sono lingua, messaggi, richiami, grida disperate o sguardi.

Penso alle rondini come a pesci alati.

“E sentivo che strideva piano piano, a un certo punto smise e io dissi: È morto e andai in piazza per prendere tre o quattro margherite e lo seppellii”.

Rileggersi freddamente. Poi abituarsi a considerare freddamente gli elogi, calorosamente – invece – critiche più penetranti: solo così si avanza.

Sfogliamo rose, facciamo il lavoro del vento.

Ho preso a marciare e ho conosciuto qual è la mia libertà, il mio destino. Non possono fermare la mia coscienza ebbra.

Il mio regno di carta e vento. Ma la carta può prendere fuoco e i1 vento dare inizio a un tifone.

Nessuno conta gli insetti che finiscono in bocca alla rondine, né i fumi che si levano dalla terra e le linee della terra surriscaldate tremano, mentre già prende corpo in alto il metallo del falcetto alzato sulle erbe.

“Siena mi fe’, disfecemi Maremma”. La lingua degli alberi.

Ci sono tempi per dichiarare aperti certi problemi e altri per risolverli.

Addento lo stelo della menta.

“Colui che dice: ‘io non so’ ha detto la metà di tutta la sapienza” (Ibn Zabara).

La poesia è soltanto la sua confusionaria fantesca.

Ho avuto bisogno di allegria, ma quando di questo mio sentimento si è abusato, ho avuto paura e mi sono ritirata dal patto sciocco.

La mia vita si dolcifica, prende piegature e ombre.

“I benefici sono graditi quando possono essere contraccambiati: quando sono troppo grandi, invece di riconoscenza generano odio” (Tacito). Continua a leggere

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Milo De Angelis UNA POESIA “Fuori c’è la storia” (1973) commento di Walter Siti

 Milo De Angelis 2 foto Viviana-Nicodemo

(da la Repubblica 30 marzo 2014)

Quando nel 1976 uscì Somiglianze (la raccolta a cui questo testo del ’73 appartiene) ricordo di aver provato un senso di liberazione: nei dieci anni precedenti la poesia in Italia aveva rischiato il soffocamento. Prima la neoavanguardia l’aveva spolpata e razionalizzata, poi l’aveva colpevolizzata il Sessantotto; i due poeti forse più in vista, Montale e Pasolini, per motivi diversi avevano smontato i loro versi con ironia o con rabbia. L’impegno politico sembrava così urgente che perder fiato e intelligenza con la poesia era roba da vergognarsi come di un passatempo per reazionari. (Solo un’antologia di Cordelli e Berandinelli, l’anno prima, aveva lasciato intravedere un fermento). E invece ecco, un poeta venticinquenne era lì, con una voce sua e con testi che nonostante il titolo non somigliavano a nessuno, che non si abbandonavano alla futile orgia del metalinguaggio e non si prendevano tartufescamente sottogamba; che si spingevano al sublime della lirica usando le parole di tutti i giorni. Dunque si poteva ancora fare?

Milo de Angelis1

“Fuori c’è la storia…”

 Un perdente

Fuori c’è la storia,
le classi che lottano.
Cosa fare dunque una volta per tutte
rifiutando il mondo
accettandolo al mattino
(“Era vero, sai, era profondo
il litigio con lei. Ma c’era un solo letto
e prevalsero i corpi”).
C’erano i confini
biologici e le grandi leggi del profitto.
Perciò inventò gli dei e l’interiore.
Alla sera, durante l’erezione
pretese anche un destino
(“dove sei stata
per tutta la mia vita ?”).

1973  (da “Somiglianze”)

milo_de_angelisQuel venticinquenne poi, a guardar bene, era meno alieno di quel che sembrasse; aveva letto gli ermetici italiani e i francesi, Char e Bonnefoy; durante il liceo a Milano aveva avuto come professore Francesco Leonetti, poeta marxista e engagé  quant’altri mai (portando all’esame di maturità il libretto rosso di Mao); Leonetti gli aveva presentato Franco Fortini, eretico della sinistra, maestro di dubbi e di forme chiuse. Il lessico dell’ideologia comunista è lì che preme: “le classi che lottano”, “le grandi leggi del profitto ”  –  il protagonista si definisce un perdente perché lascia queste cose fuori dalla finestra. Preferisce il privato, la blanda soddisfazione del sesso: con la ragazza si litiga, sinceramente, per cose che sembrano importanti, poi se c’è un solo letto si sa come va a finire. Ma perde pure nel privato, perché non domina la situazione: lui che vorrebbe essere stratega e definitivo (“cosa fare” risente del “che fare” leninista, “una volta per tutte” richiama l’amato Pavese che definiva il mito “lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte”  –  e forse anche un recente titolo fortiniano,
Una volta per sempre), lui rifiuta il mondo per accettarlo la mattina dopo. Non sa diventare mitico, contrapporre agli adulti ideologi una propria certezza.

Il presente assoluto si trasforma in un imperfetto narrativo, ed è nelle minuzie degli episodi quotidiani che la fragilità esistenziale si manifesta. È troppo duro accettare, oltre alle leggi economiche, anche i limiti biologici e la morte.

copertina milo de angelis

Così il doppio perdente si inventa la religione e l’interiorità: non come i grandi, come Freud o Kierkegaard, che ne scoprono le leggi, ma come ripiego e sotterfugio psicologico. Durante l’erezione, sorpreso al vivo della debolezza animale, pretende di trasfigurare il sesso in amore e addirittura in destino (ancora Pavese e la sua idea triste che i poeti “riducono a destino”, cioè a simbolo, la potenza selvaggia della vita). Sceglie una frase che dovrebbe impressionare la ragazza: una frase che De Angelis ripeterà seriamente, vent’anni dopo, in Cartina muta e in Scavalcamento ventrale, due poesie di memoria e d’amore dedicate alla saltatrice e poetessa Nadia Campana; ma qui la frase non nasconde la propria origine sentimentale e pop (“dove siete stata per tutta la mia vita?”, chiede William Holden alla Hepburn in Sabrina, ballando cheek-tocheek).

Smarrimento di un giovane che sa a che cosa opporsi ma non sa ancora come, eppure non si nasconde dietro l’alibi della tradizione retorica; la sua musica è elementare. Versi liberi ma sicuri nell’andare a capo, ogni verso uno snodo; qualche rima quasi casuale (mondo/profondo; mattino/destino), grumi di consonanti a fine verso (lottano  –  tutte  –  letto  –  profitto); perfino un endecasillabo e settenario regolari nel sottofinale; come segno di una necessità che si impone contro l’inerzia della prosa. I frammenti di discorso diretto tra parentesi, che sono una sua sigla in tutto il libro, si ispirano forse a Su fondamenti invisibili,
il libro di Luzi del 1971; ma in Luzi le frasi tra virgolette erano oracolari, un dialogo coi morti: qui è piuttosto un dialogo con la stupidità, schegge rubate al vero a cui concedere pietosamente la chance di diventare significative.

Tutto il libro è teso sul discrimine tra insignificanza e decisione, tra capire e accadere; c’è l’ossessione del kairòs, dell’attimo che passato quello si ricade nell’impotenza (“Forse è ora, è quasi ora./ La guarda, chiude gli occhi, sbaglia”). Ma insieme si insiste sul diaframma che impedisce all’azione di compiersi, che “divide il pugnale/ dal gesto “). De Angelis interpreterà questo divario come distanza tra il contingente e il metafisico, la sua poesia si farà più consapevolmente tragica (poesia dell’agonismo e del vuoto) e sarà imitata da molti. Io preferisco fotografarla qui, nella confusione di un perdente che in modo paradossale interpreta la stagione politica: quegli anni Settanta che sono gli ultimi in Italia in cui l’azione radicale sia parsa ancora possibile. Tra la tentazione di rifugiarsi nel privato per disertare dal pubblico, e quella di rifugiarsi nel pubblico per disertare dal privato.

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Fernando Pessoa  UNA POESIA È uma brisa leve  “È una brezza leggera” letta da Walter Siti 

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da  la Repubblica 16 febbraio 2014

Fernando Pessoa  È uma brisa leve (da Poemas 1921-1930, a cura di Ivo Castro, 1922)

.

 

Pessoa

È una brezza leggera
che l’aria un momento ebbe
e che passa senza avere
quasi avuto bisogno di essere.

.
Chi amo non esiste.
Vivo indeciso e triste.
Chi volli essere già mi dimentica.
Chi sono non mi conosce.

.
E in mezzo a questo l’aroma
portato dalla brezza, mi affiora
un momento alla coscienza
come una confidenza.

*

.
È uma brisa leve
que o ar um momento teve
e que passa sem ter
quase que tido ser.

.
Quem amo não existe.
Vivo indeciso e triste.
Quem quis ser já me esquece.
Quem sou não me conhece.

.
E em meio disto o aroma
que a brisa traz me assoma
um momento à consciência
como uma confidência.

*

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La prima strofa è la più difficile da tradurre: c’è una brezza così leggera che è come un’affezione dell’aria, come se l’aria avesse avuto un brivido. Passa senza “ter” – “ter”, cioè tenere, in portoghese significa anche avere, come nei nostri dialetti meridionali (“tenho fome”, ho fame); ma esprime anche un dovere (“tenho que estudar”, devo studiare) e inoltre può funzionare da verbo ausiliare (“tenho dormido”, ho dormito). Qui il gioco in rima è tra i due ausiliari, poi c’è un bisticcio legato a ben tre forme del verbo tenere (“teve”,” ter”, “tido”): la brezza passa senza quasi aver avuto bisogno di essere. La brezza è stata avuta ma non ha avuto, è stata passiva e non attiva, e proprio nella sua passività ha vinto sull’aria che voleva trattenerla. Meno si esiste e più si è liberi. Se c’è un segreto in Pessoa, è dire con leggerezza le cose più gravi.
Questo testo sembra un idillio insignificante: una folata di vento, un po’ di profumo e di tristezza. Ma Pessoa non si limita a descrivere: lui è quella folata di vento. Come confessa in una lettera, una delle sue paure è sempre stata che la propria riconosciuta passività spirituale diventasse passività sessuale. Come la brezza, anche lui oscilla tra la tentazione di essere tutto (superiore al timore e alla speranza) e la voglia di sparire, di non essere niente. “Chi amo non esiste”’ – ma in altri testi ammette che essere amato gli dà fastidio. La rima “triste/esiste” gli torna sotto la penna spesso, il fatto di esistere è tristezza. L’io è un incidente momentaneo, il vuoto d’aria che si crea tra una proiezione di sé e l’altra: “chi volli essere già mi dimentica”. La tipica frase scettica “io non conosco chi sono” si rovescia in un inquietante “chi sono non mi conosce”. Continua a leggere

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Salvatore Di Giacomo Una Poesia, “Na tavernella” (1901) – Commento di Walter Siti

Napoli milionaria Scarpellini

Napoli milionaria Scarpellini

 

salvatore di giacomo

salvatore di giacomo

da la Repubblica 16 marzo 2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

da “Vierze nuove” (1901)

 

Maggio. Na tavernella
ncopp’ ‘Antignano: ‘addore
d’ ‘anèpeta nuvella;
‘o cane d’ ‘o trattore

c’abbaia: ‘o fusto ‘e vino
nnanz’ ‘a porta: ‘a gallina
ca strilla ‘o pulicino:
e n’aria fresca e ffina

ca vene ‘a copp’ ‘e monte,
ca se mmesca c’ ‘o viento,
e a sti capille nfronte
nun fa truvà cchiù abbiento…

Stammo a na tavulella
tutte e dduie. Chiano chiano
s’allonga sta manella
e mm’accarezza ‘a mano…

Ma ‘o bbì ca dint’ ‘o piatto
se fa fredda ‘a frettata ?…
Comme me sò distratto !
Comme te sì ncantata !…

(1901)

 

salvatore di giacomo

salvatore di giacomo

 Cinque quartine che sembrano fatte d’aria, rarefatte come un soffio; i settenari corrono via veloci, resi più svelti dalle vocali indistinte del dialetto napoletano. Le rime alternate sono facili, qualcuna facilissima e legata alla grazia leziosa dei diminutivi; le pause spezzano i versi facendoli ancora più mobili. Gli enjambements tra un verso e l’altro smagliano la nettezza della visione, segnando il passaggio dalla pittura alla musica; l’aria fresca scavalca la divisione metrica e occupa per intero la terza strofa, mimando il contenuto col ritmo. Solo alla fine del testo la voce è costretta a fermarsi e a pronunciare i due ultimi versi lentissimamente, per riprodurre l’incantamento degli innamorati. La composizione ha un andamento cinematografico: prima la descrizione ambientale, topograficamente precisa  –  una trattoriola sopra Antignano (nucleo storico dell’attuale Vomero, allora amena zona collinare e campestre), la location rustica. Poi l’aria fresca mista a vento serve da freccia direzionale e quasi da zoom, fino al primissimo piano dei capelli di lei che non trovano “abbiento”, cioè pace, mentre la panoramica si blocca. Dai capelli di lei un breve stacco in campo medio, loro due seduti, per ritornare subito sul particolare ingrandito delle mani che si incontrano. Nell’ultima quartina non c’è più descrizione, ma non c’è neanche un vero dialogo: la domanda è interiore, non aspetta risposta. C’è solo lo stupore dell’intesa erotica che ha cancellato tutto, la magia ambientale ha agito: i due participi passati di genere diverso sigillano l’unione di maschile e femminile con la stessa simmetria con cui sigillano la rima alterna, in una coppia sintattica perfettamente parallela.

auto d'epoca

auto d’epoca

auto d'epoca

auto d’epoca

 Dove c’è il cambio di registro, dopo i puntini del v. 16, la descrizione avrebbe potuto continuare col viso di lei, con gli occhi che si parlano, e magari con frasi d’amore; tutto è sostituito, più efficacemente, dalla frittata che si raffredda nel piatto. Lo scatto realistico e anti-sentimentale è invece sentimentale al quadrato perché descrive l’attrazione nella sua volatile essenza, l’innamorarsi dell’amore. L’ellissi, coi due versi finali a specchio, passando dall’indicativo all’esclamativo suggerisce l’emozione in atto. Di Giacomo ha scritto molte canzoni (suoi i testi di Marechiare, Era de maggio, ‘E spingule frangese) e molti suoi testi autonomi sono stati musicati; il nostro testo lo è stato solo recentemente, e con timoroso pudore. Troppo intimo il canto, troppo sospeso il silenzio degli ultimi versi  –  degni di quelle che Verlaine un ventennio prima aveva chiamato “Romanze senza parole”. Continua a leggere

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Pier Paolo Pasolini, Supplica a mia madre (1962), Commento di Walter Siti

Onto Pasolini

P.P. Pasolini, grafica di Lucio Mayoor Tosi

 

da la Repubblica 9 febbraio 2014

 

Pier Paolo Pasolini

Supplica a mia madre
(da Poesia in forma di rosa – 1962)

.

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
.
E non voglio essere solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
.

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

*

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walter siti

Nel 1962 Pasolini era in crisi metrica; per un poeta è grave, è come perdere i punti cardinali o le chiavi per aprire la porta. Questa è una delle ultime poesie scritte in versi regolari: poi cederà al magma di una metrica sempre più informale, nel tentativo di catturare un cambiamento storico in cui i vecchi parametri ideologici non funzionano più. Qui la misura c’è ancora perché la poesia sembra escludere la storia e ridursi a un rapporto senza tempo né spazio, un rapporto quasi sacro: quello con sua madre. Pasolini all’epoca considerava la propria omosessualità come estranea al suo temperamento, un peso gravoso che gli era stato messo sulle spalle ma che non c’entrava niente con lui – insomma, una condanna («ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio»). La teoria freudiana gli veniva incontro, permettendogli di interpretare l’omosessualità come il risultato del troppo amore per una donna (la madre, appunto: «È dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia»). L’eccessivo amore per la madre sarebbe il dato primario e la ricerca dei maschi sarebbe la formazione reattiva; anzi, quello per la madre sarebbe il solo amore intero, vissuto con l’anima, mentre il sesso coi maschi sarebbe un puro sfogo fisico, in fondo umiliante. «La confusione / di una vita rinata fuori dalla ragione»: cioè il maledetto istinto vitale che spinge a sopravvivere comunque, anche quando non si è convinti di quello che si fa e non ci sarebbero ragioni profonde per continuare a vivere. Continua a leggere

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“Un giardino afoso…” di Georg Trakl, commento di Walter Siti

georg-trakl 2  [da la Repubblica del 30 marzo 2014]

Il testo integrale, in tedesco e nella traduzione italiana, di Ballade (III) di Georg Trakl, 1911-1913, da Nachlass (Opera postuma)

Ein schwűler Garten stand die Nacht.
Wir verschwiegen uns, was uns grauend erfasst.
Davon sind unsre Herzen erwacht
und erlagen unter des Schweigens Last.

Es blűhte kein Stern in jener Nacht
und niemand war, der fűr uns bat.
Ein Dämon nur hat im Dunkel gelacht.
Seid alle verflucht ! Da ward die Tat.

1911-1913

 

Un giardino afoso stava la notte.
Noi ci tacemmo l’orribile che ci afferrava.
Da questo furono svegliati i nostri cuori
e giacquero sotto il peso del silenzio.

Non una stella fiorì in quella notte
e non c’era nessuno che pregasse per noi.
Solo un demonio ha riso nel buio.
Siate tutti maledetti ! E l’atto fu.

 

La ballata dell’orrore

articolo di commento di WALTER SITI a Ballade (III) di Georg Trakl, 1911-1013, da Nachlass (Opera postuma)

geor trakl 3Georg Trakl

 

Un giardino afoso stava la notte” non si può dire in italiano; ma non si può dire neanche in tedesco. Il verbo stehen, come l’italiano “stare”, è intransitivo (e non c’è nemmeno la pallida possibilità che c’è in italiano di intendere “la notte” come complemento di tempo). Trakl ha sentito il bisogno di forzare la grammatica per esprimere una condizione innaturale: un giardino notturno che invece di ispirare dolci malinconie suggerisce un orrore impietrito. L’afa che incombe sul giardino immobilizza, paralizza quella particolare notte, una notte senza stelle consolatrici. Il silenzio notturno non significa pace, quieto ascolto dell’infinito, perché è frutto di una censura: sono le parole non dette che allarmano i due cuori e li svegliano  –  un silenzio che sveglia, altra situazione innaturale. “L’orribile che ci afferrava“: ciò che viene taciuto dalla coppia è evidentemente qualcosa di irresistibile, ma è anche un peso che li schiaccia e quasi li uccide. Il verbo erliegen (giacere definitivamente) mostra due cuori esanimi, cadaveri. Un giardino, un uomo e una donna oppressi dalla colpa, una morte spirituale; come non pensare al giardino dell’Eden, a Adamo ed Eva che “aprono gli occhi” dopo aver mangiato il frutto proibito e si nascondono scoprendosi nudi?

Strilli Král A tratti un libro ripostoStrilli Talia la somiglianza è un addioStrilli Gabriele Da quando daddy è andato viaIl ricordo della cacciata dal Paradiso non è raro nelle poesie di Trakl, e anche più frequente è l’accenno all’altra primordiale cacciata, quella degli angeli ribelli (“alla tempia del solitario/ sale il riflesso di angeli caduti“). I due colpevoli, spaventati dalla loro stessa censura, avrebbero bisogno di un aiuto divino: basterebbe una preghiera a spezzare la catena del male  –  ma non c’è nessuno che prega per loro (e loro non sanno più farlo da tempo). Anzi, invece della preghiera arriva la risata del Demonio, spaventosa nel buio; la risata significa “non avete speranza, siete miei”; la maledizione (che suona come maledizione universale) è la parola che spezza il silenzio colpevole sanzionandolo. A quel punto (“da”, allora) anche il ritegno può cessare, visto che tutto è perduto: è la maledizione che rende possibile l’atto. War è il verbo biblico della creazione (“e la luce fu”), tat è il termine infine scelto dal Faust goethiano per la sua faticosa traduzione del vangelo di Giovanni (“in principio erat Verbum”): “In principio era l’Azione”. Luogo troppo noto della letteratura tedesca perché Trakl potesse non averlo presente. Continua a leggere

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componimento 324 delle Rime di Torquato Tasso letto da Walter Siti

Torquato Tasso4(da la Repubblica domenica 26 gennaio 2014)

Torquato Tasso (1544-1595) Autore de La Gerusalemme liberata (ultimata nel 1575) è stato uno dei più grandi poeti italiani del Cinquecento.

(1580-‘86)

Qual rugiada o qual pianto
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle ?
E perché seminò la bianca luna
Torquato tasso_3di cristalline stille un puro nembo
al’erba fresca in grembo?
Perché nel’aria bruna
s’udian, quasi dolendo, intorno intorno
gir l’aure insino al giorno ?
Fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?

*

Torquato_Tasso_2Non so se questo madrigale di Tasso sia mai stato messo in musica: sembrerebbe fatto apposta e comunque non importa, perché la musica se lo porta dietro. Il madrigale cinquecentesco è un componimento breve di endecasillabi e settenari liberamente disposti, senza divisioni strofiche. Ma qui la libertà è solo apparente: i dodici versi sono in realtà divisi, dal punto di vista della rima, in tre quartine -nella prima le rime sono alternate, nella seconda sono incrociate, nella terza baciate. Come in un campionario. Nella prima quartina i due settenari precedono gli endecasillabi, nella seconda è l’inverso, come se fossero riflessi in uno specchio; nella terza endecasillabi e settenari si cedono reciprocamente il passo. La sintassi gioca a rimpiattino con la metrica, perché le frasi sono quattro e le quartine tre; l’ottavo verso è in bilico, come rima appartiene a ciò che lo precede mentre come senso appartiene a ciò che segue.

walter-siti-1Il delicato rapporto di equilibri e squilibri si manifesta anche tra il secondo e il terzo verso, dove un nesso banale come «quelle che» è spezzato dal ritmo, e un pronome senza dignità si ritrova a rimare addirittura con le stelle. Esitazioni appena accennate e canto spiegato, pause sapientissime e mai identiche, come un respiro che prima si trattiene e poi si distende – rilanciato dalle ripetizioni («qual.. .qual.. .quai», «e perché…perché», «intorno intorno»), incantato dalle allitterazioni («stelle…cristalline stille», «s’udian…dolendo», «fur segni WALTER-SITI-450x450forse»), fino al settena Continua a leggere

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