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Stanislav Dvorský (1940-2020): L’inizio del gioco a cura di Petr Král, traduzione di Antonio Parente, Dvorský  Chiama questa poetica “costellazione di parole”, l’uso coerente del potere specifico, proprio solo della poesia, dei singolari collegamenti tra le parole stesse: di ingannevoli collegamenti lessicali, nei quali l’aspetto verbale – per metà di idee e per metà puramente fonico – e quello grafico coprono tutti gli altri (narrativo, riflessivo e metaforico), si rendono indipendenti  

Lucio Mayoor Tosi, stampa digitale, Pomodoro

Stanislav Dvorský

L’inizio del gioco

non ho nessun amico dietro le finestre scure d’azzurro
lancio soltanto dei sassolini con accortezza per non rompere nulla
ricordiamo ancora i giochi giudiziosi quando sull’acqua si formano dei cerchi sbadiglianti
il cordoglio sorride non ho nulla da perdere
nemmeno le mie mani mobili
nemmeno i miei amici
nella vuotezza zincata del profondo banco di mescita
tanti avanzi convincenti dell’eternità usignola
una volta ero un eccellente tiratore e i miei amici continuano ad applaudirmi
ho sparato già quasi tutte le cartucce
non riesco a fare centro continuo ad essere
come vivo come vivo

* * *

Tarda estate

il ponte di fili bianchi sospeso
sulla baia assente di palombari inchinati

una seppia morta da tre giorni
contempla qualcuno di loro con occhio riconoscente
tutto il limaccio al centro della maestà stagnante del vetro
non volge altrove il capo
culla in grembo il bimbo d’inchiostro

gli raccontai le mie allucinazioni jazzistiche
innalzai un recinto brunito intorno all’idiota
infastidito dagli ordini perenni sul foglio senza righe
alzai i tacchi
delle scarpe sotto il tavolo
pittai il recinto color pelle con vernice color pelle
in modo da non essere troppo visibile
in modo da non stare in piedi
avevo i miei riposi illuminati i ceppi floreali
del resto è la mia missione
poche volte il sistema solare comprende tutti i simboli esterni
perché persino facendo notevole attenzione l’intonazione sfugge dalle narici

lo chiamai col nome di battesimo
nessuno si voltò

Zborcené plochy (Piani distrutti, 1996)

* * *

Bottiglia Molotov

le fiamme disegnano mandrie di animali galoppanti lungo il soffitto del vagone frigorifero che con un ampio tornante si precipita sui binari chissà dove
apicoltori portalettere spazzini intere stazioni di inseminazione un’unica enorme moltitudine armata di forconi asce e attizzatori
si precipita con terrore su piazza Democrazia popolare

questi fenomeni sono visibili nelle nostre bevande
dove cala di sbieco il basso sole primaverile
quando un vento fresco spinge a soffi la tenda nel profondo della stanza

* * *

Tra le cosce di questa primavera

pezzi di cannelli di paraffina nell’attimo in cui cambiano sostanza

della tua eterna nudità (buia: sussurro “di nicotina”)
è anche così il punto focale della notte il resto della pelliccia
dopo un istante pieno di sego caldo

poi le arterie pulsano gemi il nastro al buio fruscia
(mettiamo Wheels of Fire basso basso)
e alla finestra si accendono azzurri i fumi alcolici
invano
senza futuro

Dobyvatelé a pařezy (Espugnatori e ceppi, 2004)

Stanislav Dvorsky 2018 Petr Kral

Stanislav Dvorsky e Petr Kral

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Petr Král

Black and Blue[2]

Quando conobbi Standa Dvorský, alla luce arancione della leggendaria “stagione del ‘59”, diventò subito per me l’amico-iniziatore (secondo la definizione di Sarane Alexandrian), colui col quale è possibile instaurare un vero dialogo, complice e contendente allo stesso tempo, colui che ci apre le porte del mondo e di ciò che vi sarà per noi di fondamentale, e che ci aiuta in maniera decisiva a chiarire i nostri pensieri.

[…]

Molti erano i tratti da noi condivisi, che costituivano la nostra esperienza e la nostra “memoria” comuni, se non altro grazie alla sistematica e reciproca comunicazione: l’esistenzialismo e il surrealismo, il poetismo e il dadaismo, la decadenza di fine secolo e l’ubriacamento degli anni Venti, le incisioni e le comiche mute, i vizi dei salottini e gli amori delle gite scolastiche, la canzone Zasu di Jaroslav Ježek e il Castello di Kafka, i vaporetti domenicali e i salotti in fondo al lago, Voskovec + Werich e Rimbaud con Verlain, la cicoria di Pečky e l’Hispano Suiza, gli smoking bianchi e i maglioni alla beatnick, l’assenzio e il jazz… Ognuno poneva l’accento su cose diverse e costruiva tutto in maniera differente; Standa lo faceva in maniera meno casuale, come se sapesse fin dall’inizio quello che voleva.

[…]

Dopo aver letto i suoi primi testi, fu chiaro che la nostra generazione aveva in Dvorský uno dei suoi autori chiave, il proprio poeta, il quale in modo unico ma essenziale riassumeva le idee, “le sensazioni” e le posizioni degli altri. In molti di quelli che allora lo conobbero i suoi testi ebbero di colpo un influenza determinate; ad esempio, l’opera di Karel Šebek non sarebbe stata la stessa senza di loro, e anch’io non sono sicuro se le mie “visioni” poetiche non siano per metà di Standa – tanto intimamente alcune delle sue immagini si sono impresse nella mia memoria.

Nei suoi testi poetistico-dadaistici del periodo precedente il 1959, nei quali andava assumendo sempre più vigore l’influenza surrealista, traspare la sua caratteristica concezione delle tre componenti che – in diverse proporzioni e relazioni – formeranno l’intera sua opera: il lirismo, la narrazione poetica, il discorso sarcastico. Se la sua narrazione ha, fino a quel momento, una comunanza con le poesie-sogno del Nezval surrealista e il suo discorso con la provocazione dadaista, dietro il lirismo di Dvorský trapela soprattutto, ed è cosa non senza significato, Halas. E ciò sia per quel che riguarda la visione del mondo del poeta e il suo sviluppo personale, sia per il ruolo dello stesso Halas nello sviluppo della poesia ceca. Continua a leggere

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Intervista al poeta ceco Ladislav Fanta (1966) a cura di Antonio Parente, Topazi e giovinezza, Composizioni in cornice di Lucio Mayoor Tosi, “linguaggio di immagini concrete, materiali, senza alcuna censura, senza stilizzazione, artificialità di stile, laconicità e antilitterarità, l’impressione di piante secche, stantie tirate fuori da un vecchio erbario, Il tempo dei manifesti, delle raccolte di firme, di sfide e dichiarazioni aperte attraverso le quali i surrealisti si pronunciavano sui problemi del tempo, devono a mio parere registrare un cambiamento di prospettiva”

Foto Kikenli Incir

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Ladislav Fanta nasce a Uherské Hradiště nel 1966. Completata la scuola elettrotecnica, lavora come giornalista e operaio. Importanti per la sua formazione furono gli incontri con gli artisti Jaromír Čechura, Hynek Šnajdar, Leonidas Kryvošej e con i surrealisti Jiří Koubek, Pavel Řezníček e Milan Nápravník. A cavallo degli anni 1980 e 1990 prese parte alle attività del gruppo informale di giovani artisti e scrittori attivi nella città di Šternberk, accomunati oltre che dalle percezioni ed espressioni legate alle tendenze mondiali, anche dalla necessità di ricollegarsi agli impulsi del movimento surrealista. Questa generazione di autori nati tra il 1964 e il 1966 rifiutò di accettare in bianco la democrazia esteriore e commerciale, che iniziava allora a far sentire la sua rumorosa presenza in Cecoslovacchia. La coulisse del paesaggio di una piccola città e i banali “utensili” della vita locale, così come gli originali personaggi che la popolano, saranno per lui fonte di ispirazione anche in seguito, in testi che inventariano il passare irreversibile del tempo. Insieme allo scrittore e poeta surrealista Pavel Řezníček prese parte alla pubblicazione degli almanacchi inediti del più antico samizdat ceco, Doutník (Sigaro), presentando una stretta cerchia di autori (K. Šebek, E. Válková ed altri). Sempre con Pavel Řezníček, è anche autore di una raccolta di prosa grottesca, Miss Mléko a jiné burlesky (Miss Latte e altri burlesque), scritta utilizzando il metodo della corrispondenza.
Il suo interesse per la storia moderna e più recente, unito a quello per la psiche umana, lo capitalizza in una vasta ricerca teorica, che si tradurrà in una serie di analisi storico-sociali, in pubblicazione. È anche coautore, insieme a Jiří Koubek, del libro intervista Ne Deník: k 70. výročí založení Skupiny surrealistů v ČSR (Non Diario: per il 70° anniversario del Gruppo surrealista cecoslovacco), sulla crisi del surrealismo e sulle sue prospettive dopo il 1989. È anche curatore delle opere inedite di Milan Nápravník, raccolte, per il momento, in un primo volume intitolato Prokletá slast a jiné eseje (Piacere maledetto e altri saggi, 2019)
(Estratto del servizio pubblicato su Poesia, n. 314, 2016.)

Lucio Mayoor Tosi frammenti blu e celeste 2021

Ladislav Fanta

Topazi e giovinezza

La rada luce del sole penetra tra i cespugli
in centro: una scatoletta arrugginita ai piedi di mura fatiscenti
l’entrata dei campi da tennis
il vuoto glabro delle piste di rosticcio
raffiche di vento che sollevano tra l’erba pezzetti di carta bruciacchiata

né profeti
né forme verbali future
ma velocisti neri leggermente clini in avanti
in corsa per dire addio alle cose ormai inutili

correre e respirare l’odore delle stanze vuote
dove tutto rimane com’era
l’autunno solare delle ardesie piritiche
come se dipingesse queste giornate
di un incredibile calore che ricorda l’estate
movenze di palmi
inviate attraverso il vecchio sacchetto di plastica sfondato
da qualche parte in lontananza
nel grembo degli automatismi psicomotori
piantato nel tessuto spugnoso di via Cejl
come un proiettile caldo di Abu-Jamal

mentre uno parla e l’altro ascolta
è ancora una ferita viva e senza cicatrici
attorcigliare i bozzoli della corteccia grigiastra
e infilarli in tasca
le gabbie d’ascensore che salgono ad altezze vertiginose
sopra una strada che si ricopre appena di uno strato opaco di ossidi
non importa dove vai
il sole scalda l’aria fresca del mattino
ombre nel legno dei banconi dei bar negli specchi grigio-verdi delle pozzanghere e della cenere
il luccichio occasionale di una scatoletta di grasso artificiale ricoperta di secrezioni sempre più dure
riflette il cielo sconosciuto e desolato dei giorni futuri

ricordo le cerimonie del tè di Vlado Dančiak
chanoyu con sacchetti di LIPTON tirati sopra la superficie marroncina nell’esatto secondo
tutte quelle odi di ore e ore sulla bravura del reporter Martin Gregor Papucsek
registrate su un vecchio Walkman tenuto insieme dalla garza
che avvicini al mio orecchio
Pan Ram dove il cespuglio del tè cresce dalle ossa dei lavoratori
ricordo il “Dančiak Tea Comp.”
una scatolina nera che celebra la gloria del leggendario Beg ungherese Candragupta Vikramaditya
nella sua memoria a transistor grandi aree di pelle cupamente bluastra sospese
sigarette torte e la ricerca ostinata di infiammare accendino
il gigante di due metri di Žilina con i denti del colore degli infusi di tè forte in vasi di porcellana
̶ dal giallo pallido al nero

l’aria pura il ferro incontaminato della parola
dove la ruggine come macchie di caffè fa cadere scintille dai buchi
intorno agli edifici di torri di rocce tetti e buchi
quando la pioggia lontana copre gli aghi diradati e arrugginiti
la barba di cannella di madre natura
con l’aroma del caffè mattutino servito dalle cavità degli alberi
nel letto asciutto del fiume il sussurro insistente delle foglie
i fruscii variamente sparsi
ottoni ciondolanti indirettamente
per la superficie disabitata della terra

People loved John Coltrane
l’universo cosmico…
piega il vento freddo e costante
sa che sto arrivando e sempre una tale
nostalgia colossale
erbe d’Africa dove stelo dopo stelo scivola dolcemente nell’altro
ancora una volta il fruscio setoso dei pennelli
spezia l’umore quando la stagione delle piogge si allunga
la griglia nera arrugginita del giardino come quelle usate dai druidi per i loro garden-party
torreggia abbandonata nel mezzo di un container con il suo coperchio a tapparella
e con l’untuosità migrante del grasso e del carbone di legna
ora qualcuno spegne rapido nel posacenere la sigaretta fumata a metà e rimuove i rami sporgenti
tra i tagli della draga con un’enorme quantità di humus dove ogni tanto spigola il vento
un barbone
è già quasi impossibile sentire il polso
siamo di fretta per incontrare qualcuno
ma ciò che può essere dato deve essere dato
l’oceano tetro della natura lo sbatacchia ancora un paio di volte
ma poi è già intento a raggiungere la sua destinazione

lo stormo di storni e il raduno di migliaia di rondini alle pompe
di calore di scarto industriale
il solfito tiepido ti spiana le rughe
Pharoah Sanders
che muggisce come una mucca macellata al mattatoio.
le pantere nere di Bratislava.
L’Atomic Peace dura ancora
E la Atomic war nelle strade quando le percorri legame di particelle di un gioco d’azzardo
Pharoah
il sesso impollinato a mano come un’orchidea
Pharoah Pharoah
il gel rinfrescante del nevischio autunnale
inviti educati su cartelli di latta che chiedono di non entrare
a chi non ha bisogno di niente

il padiglione Anthropos di Pisáry è invaso dalla flora terziaria
il vento nella piscina abbandonata da tempo fa turbinare le carte e le foglie cadute
le lampade di sale dell’Himalaya
si sciolgono trasformandosi in pozze
d’un tratto sta arrivando e tu sei ancora qui
alla deriva con i volantini della pubblicità
con l’autunno indorato e abbagliante come una porta metallica spaccata in due
la luce che cade di lato trasforma gli ultimi resti della trappola a colla per le mosche
in un barlume che continua a diffondersi
e le increspature della luce nel segnale ottico
del bocchino mellifero
di John C.
un tavolino da campeggio e su di esso l’edam affettato sul foglio di giornale aperto
in una fattoria per disintossicarsi
il sole riscalda l’aria fresca del mattino
il pianeta con la sua regolazione equitermica
un fiume pieno di pellicce di volpe bianca
l’odore di una sigaretta il cui fumo un attimo prima di salpare via per sempre
sta per inviare un cablogramma

Solo di rado si spade il lontano fragore dei ramponi
penetra il sottile muro di carta da parati
la malinconia ciò che ne rimane: le macchie di sostanze tossiche
i mercoledì di swing a Židenice
il gravare indescrivibile del Great Glacier
i pezzi di ferro le funi sollevate e le gru mobili
il pianeta – quella vecchia scatoletta di sardine rivestita di miti
l’odore salato del mare che si trascina dietro una moto in corsa
funi e gru
una motocicletta che raggiunge il persistente odore salato del mare

(Brno, 2000 cca)

Lucio Mayoor Tosi frammento variegato 2021

Lucio Mayoor Tosi, Composition 2021

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Ladislav Fanta

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Karel Šebek (1941-1995), 3 X Nulla, Cura e introduzione di Petr Král, Traduzione di Antonio Parente, Mimesis-Hebenon, Milano 2015, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa: Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio

 

Foto Karel Teige

Karel Teige, collage

Commento di Petr Král

Karel Šebek, agente doppio di se stesso, castoro-conquistatore, protettore e protégé di sua nonna, usurpatore e liberatore segreto di Jilemnice, mascotte e fantasma degli Istituti di Dobřany, Sadská e Kosmonosy, guardiano notturno e scrivano che con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre.

Nato il 3 aprile 1941 a Jilemnice, misteriosamente scomparso nella primavera del 1995 (come lui stesso aveva predetto in un testo degli anni Sessanta Il mondo si punisce e piange: «I cani da caccia non fiutano ancora il luogo dove una volta mi smarrii del tutto»); dal momento che il suo corpo non è stato mai trovato, si può supporre si sia trattato di omicidio più che di suicidio, che in precedenza aveva invano tentato più volte. Cugino del poeta e psicoanalista Zbyňek Havlíček, fu grazie a lui che si avvicinò alla poesia e prese a conoscere i surrealisti di Praga, soprattutto i rappresentanti della «terza generazione surrealista», con i quali socializzò intensamente prima della partenza di alcuni di loro per l’esilio. Sempre con l’aiuto di Havlíček, divenne infermiere dell’ospedale psichiatrico di Dobřany, dal quale tentò di fuggire in Germania in compagnia di due ricoverati, e dove fece ritorno come paziente successivamente all’arresto del trio di fuggitivi da parte della polizia; soggiornò di nuovo a Dobřany anche prima della sua scomparsa, avendovi trovato l’anima gemella e protettrice (e anche co-autrice) nella dottoressa Eva Válková.

petr kral 1

petr kral

L’opera di Šebek fu influenzata da una serie di artisti surrealisti, da quelli – cechi o stranieri – che aveva conosciuto grazie alla sua opera di instancabile copista dei loro testi, a quelli che prese a frequentare di persona. Dai poeti che lo colpivano in modo particolare non esitava a prendere in prestito temporaneamente sia il tono sia l’intero stile figurativo, sviluppandolo, però, in  modo proprio e portandolo a nuove conclusioni e a scoperte di paesaggi sconosciuti. Nella sua poesia possiamo distinguere varie fasi; dopo i primi testi di inizio anni Sessanta, dove prevale soprattutto l’influenza di Zbyňek Havlíček e Vratislav Effenberger –  e dove il lirismo del primo si fonde con “l’immaginazione critica” dell’altro  –  nel 1963 rimane ammaliato dall’opera di Stanislav Dvorský (grazie alla lettura di Binari e poi anche dei testi che faranno parte di Gioco al recinto), sviluppandone gli impulsi in sistemi erratici personali, in monologhi “assurdi” e in statici microdrammi tra le quattro mura (Conversazione, 3 volte Jilemnice); verso la fine degli anni Sessanta riecheggiano nei testi di Šebek anche le poesie dell’estensore di questa nota, con il quale è in sistematica corrispondenza epistolare. Agli inizi degli anni Settanta, successivamente alla morte di Zbyňek Havlíček, nei testi di Šebek ricompare parzialmente il lirismo iniziale di Havlíček (soprattutto nel ciclo istigato dalla sua relazione con Hana K., conosciuta durante il suo soggiorno a Kosmonosy) e, contemporaneamente, aumenta anche il numero di immagini autodistruttive; per fortuna, però, l’umorismo rimane un tratto permanente di questi testi. Dopo diversi cicli di poesie scritti individualmente per vari amici, ai quali li invia come ripetute grida d’aiuto, scrive anche delle interpretazioni poetiche dei disegni di alcuni di essi, in particolare di Martin Stejskal (che Šebek stesso portò da Jilemnice introducendolo tra i surrealisti di Praga) e di Pavel Turnovský. Purtroppo crescono anche i suoi tentativi di suicidio e i soggiorni negli istituti, durante uno dei quali porta a termine, nel 1990 – prima di tale anno, a quanto pare, vi fu una lunga pausa nel suo lavoro, un silenzio durato vari anni – un testo esteso e, come lui stesso affermò, riscritto più volte, 3 x nulla, dove a suo modo fa i conti con Dio o con la propria “figura paterna”.

Il punto di vista delle poesie di Šebek muta nel corso degli anni, la fantastica obiettività delle immagini dei primi testi acquista successivamente un senso maggiormente psicologico, e alla fine i suoi scritti scadono in una confessione personale; František Dryje è l’unico critico ad evidenziare, a tal proposito, i limiti di un tale sviluppo, altri – come Jan Nejedlý – sottolineano invece in maniera abbastanza banale questa psicologizzazione. Ad ogni modo, le beffarde diagnosi del mondo nei testi di Šebek lasciano il campo ai resoconti sulle difficoltà che all’autore procura il vivere nel mondo; i testi vanno concentrandosi sempre più su poche permutazioni di motivi ossessivi,  mentre assistiamo ad una nuova ripresa lirica in quei testi scritti per la dottoressa Válková (o insieme a lei) che il poeta compone negli anni di poco precedenti la sua scomparsa. L’esperienza poetica delle prime composizioni e «corse», il cui sarcasmo e apertura al mondo per fortuna non scompaiono completamente nemmeno nelle confessioni successive, continuando così ad aprire anche alle scoperte poetiche impersonali e agli sguardi innovativi sulla realtà.

fotofilm realizzato da Cristina Boldrin e Disan Danilov Дисан Данилов per il Ponte del Sale

Contrariamente alle affermazioni di alcuni commentatori, anche gli scritti creativi iniziali di Šebek possono essere considerati poesia, ma quei testi improvvisamente crescono in ampiezza ed entrano in una particolare tensione con la prosa, alla quale a tratti si avvicinano; nei testi più lunghi di Šebek, inoltre, i brani di prosa sono intervallati da versi, mentre alcuni sono scritti completamente in prosa. Nel percorso dal delirio surrealista all’ossessione  “involta su se stessa” alla maniera di Dvorský, Karel crea anche un particolare stile ostinatamente descrittivo, con il quale gioca con i più piccoli dettagli di scenari e scene della vita quotidiana (Il giorno di scuola murato, Discussione) e al cui impatto coinvolgentemente mostruoso partecipa anche la costruzione della frase, anormalmente estesa (catene illimitate di complementi aggettivali e avverbiali) sommariamente dichiarata dai critici come mera goffaggine. Nei testi più tardi, all’oscillazione tra versi e prosa va aggiungendosi anche lo snodamento dei diversi significati oggettivi e simbolici delle espressioni usate, dove anche i più urgenti degli ultimi continuano a serbare la possibilità di un ritorno e la capacità di ritrasformarsi dalle immagini dell’ansietà di Šebek in un coltello o in una vespa veri e propri. Il verso del poeta, è vero, perde, con la sua tendenza alla confessione, l’estensione prosastica e si accorcia sensibilmente, ma anche in questo senso non chiude la via del ritorno: nelle interpretazioni delle opere di pittori suoi amici, nel testo dove alle visioni in libertà si alterna il loro commento autoriale “auto-critico” (Poche parole aggiuntive) o nella meditazione notturna 3 x nulla, il verso riacquista ampiezza e anche una struttura dettagliata, il monitoraggio dello sviluppo del pensiero poetico supera la sua sintesi figurativa.

I periodi più ispirati della sua opera sembrano essere gli anni 1962-1963, 1973-1974 e quelli a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. La seguente selezione dei suoi scritti è tratta dagli archivi personali di Stanislav Dvorský, Jan Gabriel e mio personale. Le uniche correzioni che ho apportato riguardano evidenti refusi ed errori grammaticali.

Giorgio Linguaglossa specchio (2)

Giorgio Linguaglossa in ascensore, Praga, hotel Bila Labut, 21 agosto 2018

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio – Una poesia composta interamente di «stracci»

«Come un pescatore che cattura se stesso con l’amo»

Nella poesia di Karel Šebek ci troviamo il «chiacchiericcio», una grandissima quantità di chiacchiericcio, discorsi strampalati, scombiccherati, casuali, variegati. Poesia magistrale nel suo sottrarsi a qualsiasi intentio comunicativa o comunicazionale, a qualsiasi intenzione suasoria, assertoria, assolutoria, consolatoria, ma anche rigorosamente severa nel suo ritrarsi dinanzi a qualsiasi reintroduzione del «senso» (parente del suasorio e del sensorio e quindi morfologicamente concetto conformistico). Karel Šebek è forse tra i poeti cechi che ho letto nelle traduzioni di Antonio Parente, l’autore più nichilistico il più drastico nel suo progetto di disimpegno nel disegno di una poesia priva di funzione poetica, di utilizzabilità. Una poesia infungibile e inutilizzabile che avrebbe mandato in visibilio Pasolini e avrebbe fatto infuriare Montale. Leggiamo qui:

«…in cortile crescono i surrealisti e fanno smorfie agli esistenzialisti mentre m metto in piedi davanti alla mia porta come se facessi la fila per la carne.

In realtà ho cominciato a trasformarmi in cane giù all’inizio del testo quando mi sono addormentato alla macchina da scrivere col metro in mano. Ma il mio abbaiare si sentirà solo tra un istante. Finora luccica al buio soltanto il collare, tempestato di mirtilli. le orme portano dalla porta al tavolo e poi continuano nelle singole pagine. Ce ne sono esattamente tante quante i residenti di questa casa. Per il momento non ci diamo fastidio l’un l’altro quando scriviamo anche se abbiamo tutti la stessa pelliccia.

(Le righe successive devono essere lette solo con gli occhi chiusi. Allo stesso modo sono anche state scritte. Chi non lo farà sia pronto a sopportare le conseguenze delle proprie azioni:)».

Noi sappiamo che nella poesia italiana che si fa oggi, ad esempio quella  che corre in certa editoria maggioritaria, si utilizza un «chiacchiericcio», un descrittivismo tipico dei chierici, un descrittivismo senza costrutto, senza teleologia, senza metafisica, a vanvera, una fraseologia-pretesto, senza contesto, che è la contraffazione della «chiacchiera» eliotiana, quella sì, di nobile ascendenza!. In Eliot c’è sì la chiacchiera, ma dietro di essa c’è una metafisica, è questa la differenza tra i poeti di rango e i versificatori di oggidì. Nella poesia neorealista che si fa oggi in Italia non c’è davvero niente da scoprire, non c’è nessun accadimento, non c’è evento. L’aspetto grottesco del neorealismo fraseologico nostrano è che i letterati domenicali vogliono apparire intelligenti, e invece la poesia tira loro un tiro mancino, li sgambetta, gettandoli sul lastrico della banalità.

In Šebek, dicevo, c’è un progetto poetico agguerrito, micidiale, perseguito con grande severità: quello di voler sottrarsi a qualsiasi utilizzazione del suasorio e/o dell’anti suasorio. La sua poesia è esteticamente inaccettabile, e tale vuole essere; vuole essere qualcosa di infungibile. Un progetto poetico serissimo che non concede nulla a nessuno, che chiude tutti i rubinetti all’ermeneutica su ciò che è del poetico e dell’anti poetico, o dell’anipoetico, su ciò che è sensato e su ciò che non lo è. Qui siamo veramente dinanzi ad una scrittura ridotta allo zero della significazione in sibemolle, neutralizzata in quanto consapevole del proprio effimero non-progetto.

Ora, dicevo, questo non-progetto, questo grottesco-non-grottesco, che è un progetto perseguito con grande determinazione, portato alle sue estreme conseguenze, ha qualcosa di grandioso e di serissimo. Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio. Una poesia composta interamente di «stracci», come noi della nuova ontologia estetica stiamo  propugnando da tempo. Come scrive Petr Král, Šebek «con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre».

Karel Sebek

Karel Šebek (1941?)

Poesie di Karel Šebek

Questa città è una purea pepata di tanto in tanto dai poliziotti
in libreria
la carta si rivolta
insieme allo stomaco
la carta è la coccinella dai sette punti lo stomaco perfettamente
vomitevole
da qualche parte sopra la ringhiera dell’alba
perché non voglio sottrarmi alla malattia mortale della notte
la sola a produrre i batteri fantastici della poesia
contagiosa come l’idea di se stessi in un film
visto attraverso lo spioncino nella camera da letto del lupo
è stato tanto tempo fa
sento ancora il colpo di martello
nel bel mezzo della mia nascita
quando al mio posto è giunta la peste e lo scorbuto
la peste è giunta come si è allontanata
sono la peste nelle arterie della salamandra
bombardata da tempo immemorabile da un sacco di bombi
sopra di me il boccale come la bandiera sul defunto
la cicoria della morte fiorisce lentamente
come si va sformando il tendone da circo sul mondo
e come forse una volta scomparirà per sempre il terribile spettro
dell’essere umano
il rumore infernale della macchina che mi fa la terza guerra
mondiale nella testa
alla quale romperei volentieri il muso che le manca così
dannatamente
come a me i trampoli alti centinaia di metri
in modo che conosca la delizia oltrenube della solitudine
in modo che possa finalmente liberarmi dalla catena maledetta
delle parole
e il mio amore non marcisca sul foglio
le frasi si intrecciano si annodano perciò invidio anche il gomitolo
di serpenti
sono veri compagni con i testicoli come se mandati dal cielo
ed è una frase la cui arguzia riempie la pancia fino a quando
non scoppia
nel pollaio del mio sistema nervoso
e una ragazza facile che mi rende difficile il cervello
mi canta sulla strada per l’incesto
fino al punto in cui arriva l’agognato lusso della guerra

(1978)

hebenon-18-sebek_copia
* * *

Lì dove sbocciano i fiori dei naufraghi
su una nave che è porto per se stessa
infido come una scure con la quale ho colpito il bagno
a mezzanotte
poiché conosco le lune e suoi pazienti
che contemplano la luna ad ogni luna
come fosse lo stipendio mensile
dopo questi roditori davvero non rimarrà più nulla
nemmeno il piatto in mano al cameriere
questo giocoliere con la sete e la fame
diverse da quello che ho in mente
è la somma delle bolle al naso
così come il latte è proprietà delle mucche
genero il testo come un idiota
nella cassa bucata della vita
come in un cappello in cui tuona
il fulmine tradisce la sorte
e io
omaggiato di ortica al posto del rasoio
osservo il feretro della città marciare in un unico luogo
lo sgambettio da zero all’infinito
i sorrisi impastati di fango
osservo l’essenza della realtà come di un cinghiale
e il manicomio è la mia seconda casa
non sono versi da recitare sul podio
ma chiodi per la vostra bara
nella bara c’è buio
e il buio è quello che mi è rimasto dall’infanzia
è malinconico e spezzerebbe anche il cuore di un orso
che un bel giorno ha demolito la classe scolastica e mi ha mangiato
la merenda
come mille diavoli appena rilasciati dal carcere
come un libro con migliaia di orecchie d’asino reale
che mi porta ad esplorare l’interno del mio occhio
finalmente vedo davvero dentro di me
vedo l’amo che lancia un messaggio di avviso alle carpe
l’infinita solitudine del pescatore la solitudine che possiede
quest’amo
e la nostra terra lebbrosa di idiozia
l’idiozia di cui sono formato
la scacchiera sparpagliata della verginità del comunismo
poiché è notte e la notte è solitudine bellezza e sangue
poiché è notte e io noto la notte
la notte sparviero

(1978)

* * *
I denti delle unghie nel cervello
di bambino con la tenerezza di leone
davanti alla gabbia come in gabbia
il bambino con la criniera di leone
quando la pioggia recita una poesia
sul vento che lo porta
dalla scuola costruita da scheletri di insegnanti
davvero dei crani nudi
la lama prende vita nelle mie mani
nell’isola di voce o in cima alla torre
appuntita e tagliente come la solitudine di una matita inutilizzata
e le sue labbra al di là di tutti i poeti e delle loro opere
mi trasformo in un cannibale baciando le labbra
e il compasso un tempo da qualche parte traccia la copia di
un’antica foresta
vado per funghi
e i funghi raccolti come la raccolta di opere del comunismo
richiedono tatto noto solo al carnefice
ultimo nel fiacchere della speranza
il carnefice muore nell’ultimo giustiziato
e lo stupendo volto del piatto
inghiotte la fame si rimpinza di fame
la torre della fame del pranzo
quando le rose cadono dal cielo
e il giardino si solleva nell’aria
e così ci incontriamo
anche se fosse col muso rotto
e la mia insonnia
adesca gli uccelli notturni
come i maccheroni di lombrichi
al centro della città c’è la città
nella casa la casa
il mio letto con tante porte e finestre
che non ho la risolutezza di andarmene
perché esiste una sola
isola nel mio occhio
dietro le sbarre delle palpebre
quando la mostruosità di cui sono composto dorme
e dall’abbandono sguscia la poesia come un uovo che cova
la gallina

(1978) Continua a leggere

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