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ANTONIO GRAMSCI (1891 – 1937). Per la Festa dei Lavoratori. In occasione degli ottanta anni dalla morte di Antonio Gramsci, chiediamoci che cosa è rimasto di vivo delle sue elaborazioni e dei suoi interventi politici e culturali. Un bilancio è d’obbligo in tempi di restaurazione e di immobilismo delle classi dominanti.

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Poniamoci degli interrogativi: innanzitutto, possiamo ancora parlare di classe dominante? È ancora lecito adottare le categorie gramsciane di blocco sociale e di egemonia? C’è una classe al comando? O ci sono i bottoni del capitalismo internazionale? Un capitalismo globale che ha imposto, tramite la tecnologia, l’asservimento degli intellettuali e delle classi lavoratrici. Se mi guardo intorno vedo soltanto una moltitudine di gentes e di clientes, la ex classe media, che perde ogni giorno capacità di acquisto, status simbolico e in via di impoverimento, nonché il sorgere di un nuovo ceto esteso, il Ceto Medio Mediatico, come è stato battezzato, imbevuto di cloroformio con l’ausilio di un sistema informazionale complice in quanto dipendente dal capitale: un sistema di informazione salariato. Tutto ciò con la parola d’ordine che ci troviamo nel migliore dei mondi possibili, come dice Karl Popper, nel quale vige la libertà di parola, di pensiero e di scrittura. Sì, è vero, non siamo perseguitati per le nostre parole, ce ne stiamo comodamente seduti in poltrona, in casa e comunichiamo attraverso i social media. E la chiamano democrazia e libertà di stampa, lo chiamano il migliore dei mondi possibili. E forse è vero, è drammaticamente vero che ci troviamo nel migliore dei mondi possibili… E infine la questione nazionale, della ritardata unità d’Italia e la questione della Chiesa cattolica. Scriveva Gramsci: «Il Vaticano è un nemico internazionale del proletariato rivoluzionario», concetto da correlare con la insufficiente consapevolezza critica del marxismo italiano e dell’opportunismo politico che portò il PCI ad elaborare l’incontro con i cattolici sotto l’egida di una idea chiamata «cattocomunismo» durante gli anni Settanta e Ottanta, tutti problemi ancora oggi aperti che il pensiero critico di questi ultimi decenni ha evitato di affrontare. Siamo arrivati al punto che oggi la figura (il pensiero filosofico e politico di Antonio Gramsci) sia stata talmente depotenziata da essere perfettamente assimilabile nei canali della società mediatica, un po’ quello che è successo con la mediatizzazione della figura di Che Guevara: un bel volto da stampare sulle magliette e sulle cartoline.

Riallacciamoci a due concetti di Gramsci: blocco storico ed egemonia, possiamo dire che un filo conduttore  unisce questi due concetti. Com’è noto Gramsci riprende da Georges Sorel la categoria di blocco storico, e la correla con un nuovo concetto dei rapporti tra struttura e sovrastruttura. Secondo Gramsci il rapporto tra struttura (forze materiali) e sovrastruttura (ideologie) è dialettico: le ideologie senza le forze materiali sarebbero delle astrazioni fini a sé stesse e le forze materiali senza le ideologie non potrebbero essere colte nel loro nesso storico. La carica innovativa di questa rilettura gramsciana del rapporto struttura/sovrastruttura andava ad infirmare la concezione del marxismo positivo allora in auge secondo il quale era la sola economia a dare forma e contenuto alla sovrastruttura. Per Gramsci invece la struttura rappresenta il contenuto (la materia), mentre la sovrastruttura dona il proprio contributo in quanto forma.

Altrettanto importante nella concezione gramsciana è il concetto di egemonia, legato indissolubilmente alla nozione di blocco storico. Per egemonia si intende l’imposizione, da parte di un gruppo dominante, di una determinata visione dei valori dalla classe dominante alla classe subalterna. L’egemonia si verifica insieme al blocco storico quando c’è totale accordo tra la struttura e la sovrastruttura, quando le ideologie collimano con le forze materiali. Così si crea un unico blocco, il quale sarà destinato ad esser sostituito da un altro modello egemonico a seguito di una lentissima guerra di posizione. Il ribaltamento avviene infatti quando le forze materiali entrano in contrasto con i rapporti di produzione, ossia si manifesta un’incrinatura interna al blocco storico.

Sono fortemente convinto che le due categorie portanti del pensiero di Gramsci, il blocco storico e l’egemonia, oggi dovrebbero essere ripensate e riattualizzate alle condizioni dell’odierna fase di sviluppo del capitalismo globale e della rivoluzione internettiana, a fronte del quale il capitalismo monopolistico e protezionistico del suo tempo appaiono cose del Cretaceo superiore.

Giorgio Linguaglossa

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Citazioni

Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare. Continua a leggere

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Umberto Giovannangeli “Isis contro l’Italia, i nostri connazionali nel mirino del Califfato. Intervento in Libia sempre più vicino”

L'ISIS AVANZA IN LIBIA. LA FARNESINA, LASCIARE IL PAESEhttp://www.huffingtonpost.it/2015/02/14/isis-contro-italia-libia_n_6684274.html?1423940277&utm_hp_ref=italy

Ormai la domanda non è più “se” ma “quando” e “come”. Quando e come la comunità internazionale interverrà in Libia per evitare che il Paese nordafricano alle “porte” dell’Italia si trasformi nella trincea avanzata verso l’Europa dello Stato islamico. Ora è ufficiale. Oltre che sulla Santa Sede, la bandiera nera dell’Isis intende sventolare su Palazzo Chigi, il Quirinale. E la Farnesina. Da oggi il “Califfo Ibrahim” ha dichiarato ufficialmente guerra all’Italia. Come prima è avvenuto con la Francia, la Gran Bretagna, l’America. Il governo italiano entra ufficialmente nella lista dei nemici dello Stato islamico (Isis), che ha oggi definito il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni «ministro dell’Italia crociata». L’edizione mattutina del giornale-radio di al Bayan, l’emittente che trasmette dalla capitale dell’Isis in Iraq, afferma che Gentiloni, «ministro degli Esteri dell’Italia crociata», «dopo l’avanzata dei mujahiddin in Libia ha detto che l’Italia è pronta a unirsi alla forza guidata dalle Nazioni atee per combattere lo Stato islamico».

L’espressione «Nazioni atee» in arabo è un riferimento implicito alle Nazioni Unite: le due espressioni in arabo sono molto simili. Il ministro degli Esteri aveva annunciato venerdì la disponibilità italiana a guidare una missione Onu in Libia. Sabato è tornato sul tema: «Noi combattiamo il terrorismo in prima linea. Già ora l’Italia è in prima linea nella lotta a terrorismo sul piano militare, politico, culturale. Questa battaglia dobbiamo farla anche in Libia di fronte alla minaccia terroristica che cresce a poche ore di navigazione. Certamente in una cornice Onu, ma non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità per ragioni geografiche, economiche e di sicurezza», ha spiegato il ministro degli Esteri nel corso del suo intervento al convegno «Come cambia il mondo», organizzato dal Pd. «Lo sto dicendo con nettezza in questi giorni – ha aggiunto – perché so che la situazione si sta deteriorando. Nessuno pensa a fare interventi al di fuori di un progetto politico ma dobbiamo renderci conto che la situazione si sta deteriorando e il lavoro politico diplomatico deve essere una priorità», ha detto. «Per navigare in questo mare in tempesta – ha sottolineato – serve un grande impegno di governo e Parlamento».

Gli impegni del ministro Gentiloni sono mantenuti, confermano fonti diplomatiche all’Huffington Post, ma nessuno sottovaluta le minacce dell’Isis. Un rischio che non riguarda solo i politici e le figure di governo. E’ l’Italia ad essere entrata nel mirino. Il che significa che, soprattutto nelle aree dove è più radicata la presenza di milizie dello Stato Islamico o di al Qaeda, i nostri connazionali sono potenzialmente persone da rapire, obiettivi dei “guerrieri di Allah”. Per questo è stato accelerato il piano di evacuazione dalla Libia, così come la chiusura della sede diplomatica a Sanaa, in Yemen.

Un passo indietro nel tempo. Breve. Dieci gennaio 2015: il Vaticano è «il prossimo obiettivo dell’Isis» e i servizi di intelligence statunitensi hanno già «avvertito» la Santa Sede. Gli 007 italiani confermano che il cuore della cristianità è un «possibile obiettivo» dello Stato islamico, ma al momento «non ci sono segnali concreti» che possano far pensare ad un attacco imminente. La terribile minaccia, riferita in apertura del telegiornale dalla tv di Stato israeliana, Canale 1, arriva a poche ore da un altro allarme, «Roma è nel mirino», riferita dalla Bild tedesca, che cita a sua volta informazioni ottenute dalla National Security Agency (Nsa) americana.

Qualche giorno dopo, Marco Minniti, sottosegretario con delega ai servizi, a “In mezz’ora” fa il punto sulla situazione legata ai fatti di Parigi e alla minaccia del terrorismo in Italia e in Europa.”Non c’è un comando, una centrale strategica del terrorismo. C’è riferimento politico e culturale per le cellule che si muovono sul territorio. Singole persone e piccoli gruppi che si muovono sul territorio, spiega il sottosegretario. “C’è filo che lega ultimi attentati: un singolo individuo o piccolissimi gruppi. Non c’è uno che comanda, ma c’è qualcuno che ispira”. Per questo, “il tasso di imprevedibilità è molto alto, e questo è un problema”. La risposta giusta non è quella di impedire la libera circolazione delle persone: “Il problema non è sospendere Schengen, ma è l’opposto. Scambiarsi le liste dei passeggeri è una forma di tutela reciproca, tutela Schengen”. Intervistato da Repubblica, Minniti sposta l’obiettivo: i jihadisti italiani “li conosciamo e li seguiamo quasi in tempo reale”. Quelli europei, invece, “sono liberi di circolare nei Paesi dell’Ue e di venire anche qui da noi”. Il nemico ce l’abbiamo in casa, insomma, e “dovremo farci i conti almeno per i prossimi 10 anni”.

La stima è di 50 jihadisti italiani impegnati in Medio Oriente. “Li conosciamo, ma sono gli altri, quelli con passaporti europei, che ci preoccupano. Solo della metà sappiamo identità e movimenti. Provengono dal Nord Europa e dai Balcani. Sono loro che ci allarmano di più”. Quanto alla Libia, è ormai molto esigua – dopo la grande evacuazione dell’estate scorsa dovuta agli scontri tra i miliziani di Fajr Libya e quelli di Zintan per il controllo di Tripoli – la presenza di italiani nel Paese. L’Eni fa sapere che il suo personale è limitato “ad alcuni siti operativi offshore”, mentre resiste il presidio, seppure ridotto all’osso, nell’ambasciata a Tripoli. Non si hanno invece ancora notizie di Ignazio Scaravilli, il medico catanese “scomparso’” dalla capitale libica il 6 gennaio.

L’avanzata delle milizie Isis e delle tribù che le fiancheggiano in Libia, accelera i preparativi per quello che sempre più si considera una “necessità inevitabile”: intervenire militarmente nel Paese nordafricano. Passo dopo passo si va in questa direzione. La chiusura dell’Ambasciata italiana a Tripoli – questione di giorni secondo quanto apprende l’Huffington Post – ha anche questa doppia valenza: simbolica e operativa. Simbolica, perché sta a significare che nel “non Stato” libico ormai il linguaggio della diplomazia non ha più senso, nessuno è disposto ad ascoltarlo, e non esiste una autorità interna capace di tradurlo in arabo. E una valenza operativa, perché sottrae il nostro personale diplomatica a possibili azioni di rappresaglia da parte dei miliziani di al-Baghdadi.

I colloqui tra le varie fazioni libiche stanno andando verso un fallimento annunciato. Ciò che resta dell’esercito libico non è in grado di fare argine all’avanzata degli uomini del “Califfo” neanche a Tripoli. La Cirenaica è ormai una sorta di Stato della jihad. Dalle aree controllate dalle fazioni qaediste passate al servizio dello Stato islamico è iniziata la “jihad dei barconi”. Washington preme perché l’Italia si faccia, come in Libano, capofila di un intervento “stabilizzatore” in Libia. Il che significa uomini, mezzi, impegno sul campo. Un compito a cui Roma non può sottrarsi. E’ solo questione di tempo. Ma in Libia dovremo tornare. In armi.

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