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Nur Asilah, Q Asi Hai Q – Quasi Haiku, Transeuropa, Milano, 2021 €10, Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa, La cultura poetica italiana del novecento, primo e secondo ha mostrato un interessato disinteresse per la funzione dei poeti non allineati al sistema maggioritario, una procedura securitaria ha preso il posto del discorso critico e poeti come Ennio Flaiano, A.M. Ripellino, Emilio Villa, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Mario Lunetta, Anna Ventura sono stati considerati periferici e minori

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Jacopo Ricciardi, Viaggio 5 pastelli su carta 120×70 cm

Nota di lettura

Il 2 dicembre 1970, Michel Foucault tiene la lezione inaugurale per la nuova cattedra di “Storia dei sistemi di pensiero”, al Collège de France, il noto testo che verrà pubblicato con il titolo L’ordre du discours. La tesi di fondo è che «in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e ridistribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità».
Tra tali procedure vi sono quelle di esclusione, di cui l’interdetto è la più comune: non tutti possono parlare di qualsiasi cosa in ogni circostanza: per esempio sessualità, arte, politica, poesia, letteratura, economia; un altro metodo di esclusione si ha con la partizione e il rigetto: per esempio nell’opposizione tra ragione e follia. Principio di esclusione è anche l’opposizione del vero e del falso. A prima vista, la volontà di verità ha un ruolo positivo, in realtà funziona come metodo di selezione ed esclusione. In tutti i campi del sapere si hanno delle regole che separano le affermazioni che in ogni momento storico sono accettate come vere, da altre che vengono rigettate in quanto prive dei requisiti di veredizione. Queste procedure hanno il compito di controllare e delimitare il discorso dall’esterno; vi sono anche procedure attive al suo interno: in primo luogo, il principio regolatore presente in ogni comunità: un certo numero di testi (religiosi, giuridici, letterari etc.) sono meritevoli di generare dei discorsi ermeneutici; un secondo principio regolatore interno è dato dalla autorialità dell’autore; il terzo principio è quello di esclusione: Certe discipline sono avallate da un ambito di oggetti, libri, discorsi, autori considerati come valori.

Se un enunciato non si adegua questi valori viene considerato esterno alla disciplina ed espulso dalla narrazione; un terzo gruppo di procedure ha l’obiettivo di limitare il numero dei soggetti che può accedere al discorso, tra di esse Foucault indica ciò che definisce il «rituale»: chi parla deve non solo essere qualificato per farlo ma anche rispettare un ordine di ruoli, di gesti, di cerimoniali in modo da conferire al proprio discorso efficacia e consenso istituzionale e quindi ermeneutico. Hanno vigore le «società di discorso» che svolgono la funzione di avvalorare determinati enunciati e farli circolare negli spazi specifici; infine, vi è l’appropriazione sociale dei discorsi che avviene tramite il sistema universitario, scolastico ed educativo che non opera in uno spazio iperuranico ma viene tenuto sotto controllo dall’apparato politico dominante in funzione dei propri interessi mediante una logica di esclusione/inclusione. Il sistema della cultura tende a rafforzare questo apparato di enunciati con esclusione di quelli che lo mettono in discussione e ne dimidierebbero l’autorità. La storia delle idee risponde alla medesima logica degli altri ambiti, si cerca il punto della continuità narrazionale, il privilegio di un’opera, di un’epoca, di un tema, di un autore, si sceverano i significati reconditi, in tal modo si crea e si consolida una tradizione istituzionale ed ermeneutica.

La cultura poetica italiana del novecento, primo e secondo, ha operato nel modo tracciato da Foucault, ha mostrato un interessato disinteresse per la funzione dei poeti non allineati al sistema istituzionale maggioritario. Le voci non irreggimentate sono state spesso considerate periferiche e minori, e quindi espulse dalla codificazione istituzionale ed ermeneutica. Compito di un discorso critico serio è quindi quello di mettere in discussione la codificazione ermeneutica delle istituzioni chiuse, è questa la ragione che mi porta a considerare con indulgente simpatia questi quasi-haiku di Nur Asilah che rappresentano la sua opera d’esordio.

L’egemonia che la poesia del Pascoli ha esercitato sulla poesia italiana del primo e secondo Novecento e l’accademismo che ne è seguito ha avvalorato lo pseudo concetto di una poesia in chiave narrativa e sostanzialmente lirica prima e post-lirica poi. Con il primo ermetismo si istituisce un super linguaggio poetico specializzato, ad esempio una poesia come quella di Ungaretti è intuitivo-epifanica, ci si può identificare in essa come si prende parte ad un rito iniziatico, la frammentazione del metro e del verso ungarettiamo giunge ai suoi estremi limiti, oltre non era più possibile andare. Nel dopo guerra le cose cambiano, cambia l’ordine del discorso vigente nel senso che viene cooptato a quello fino allora maggioritario un altro discorso letterario che fino a quel momento era rimasto alternativo: e si ha la cooptazione per inclusione. Il Gruppo 63, lo sperimentalismo del significante di Zanzotto e la sopravvenuta poesia lombarda, hanno costruito un ordine di discorso che intendeva derubricare ogni altro diverso discorso poetico, con la conseguenza che poeti come Ripellino che privilegiava l’immagine e la metafora, o poeti diversi come Emilio Villa ed Ennio Flaiano che impiegava una poesia fondata sul riuso di citazioni anche del mondo pubblicitario, sono stati esclusi dal novero del sistema maggioritario.

Il risultato è stato che la poesia italiana, dopo Zanzotto, si avvierà per un sentiero epigonico di matrice unilineare di derivazione pascoliana. Espunte la metafora e l’immagine dalla testualità la poesia italiana del secondo novecento resterà e resisterà sì su un pedale basso, ma oblitererà il pluristilismo e il multilinguismo per optare per la narrabilità, la cantabilità e la comunicazione di un presunto messaggio in bottiglia o in vitro che dir si voglia. La susseguente ricerca della «comunicabilità» e della «narratività» a tutti i costi renderà un pessimo servizio alla poesia italiana del secondo Novecento. La lacuna che appare oggi vistosa, ci pone degli interrogativi, mi chiedo se la poesia italiana sia oggi in grado di formulare una diagnosi critica di questo quadro problematico fisiologicamente «patologico»; la risposta non può che essere negativa: la koiné poetica maggioritaria ha adottato una procedura securitaria, ha adottato da almeno cinque decenni un concetto narrativo e unilineare del discorso poetico, una koiné poetica di tipo derivativo e posiziocentrico. La poesia italiana, a parte eccezioni di pregio che pur ci sono state (Ennio Flaiano, A.M. Ripellino, Emilio Villa, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Mario Lunetta, Anna Ventura), conserverà una matrice stilistica monotonale e monogamica, non riuscirà ad infrangere il modello maggioritario: una posizione di poetica diventata con il tempo una forzosa petizione di poetica. Sia chiaro che il compito di un critico non è quello di ridire quello che il poeta ha scritto, ma illuminare il sotto testo, la cornice del testo, ciò che il testo sottintende, il non detto che pure è presente in ciò che è scritto, anche se in forma di non-detto.

«Nur Asilah – con le sue parole – è di origine maghrebina, oramai da sempre in Italia, ama credersi di nazionalità mediterranea quando non terrestre. Ha svolto numerosi lavori manuali dall’imbianchino al fabbro, dall’autista al muratore passando per il metalmeccanico».
È chiaro che un autore non letterato non sappia nulla di tutte queste complicazioni e scrive senza preamboli e senza corto circuiti ideologici, senza petizioni di poetica, il che comporta un certo indebolimento quando i suoi «quasi-haiku» ripercorrono in modo inconscio usurati stilemi e topoi letterari epigonici, ma a volte l’autore quando si libera delle convenzioni di scrittura riesce a trovare delle soluzioni linguistiche efficaci in modo, oserei dire, naturale. E noi non possiamo che augurargli buon lavoro prossimo venturo, a patto che dismetta le convenzioni letterarie che hanno ingolfato anche la scrittura di un autore non particolarmente versato nella retorica degli equilibrismi del mondo poetico.

(Giorgio Linguaglossa)

Nur Asilah,  Q Asi Hai Q – Quasi Haiku

Mi hanno strappato sette denti.
Quelli sopra. Quelli vicini al cielo.
Quelli che usavo per sorridere.

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Lascio orme su questa spiaggia.
Sabbia della mia clessidra.
Che il vento si levi.
Di nuovo il deserto disponga.

*

Le farfalle o sono fiori volanti
o i fiori
sono farfalle posate. Continua a leggere

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La lalangue di Lacan e la sua funzione nella poetry kitchen, Poesie di Francesco Paolo Intini, Commenti di Marie Laure Colasson, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, La poesia di superficie, Il nastro di Möbius,Pittura di Giorgio Ortona

Giorgio Ortona Letizia celestina 42 x 70 olio su tela 2020

[Giorgio Ortona, Letizia celestina, 42×70 cm, olio, 2020]

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Giorgio Linguaglossa

La lalangue di Lacan e la sua funzione nella poetry kitchen
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Nel neonato il significante, inteso come elemento differenziale, proviene da una dimensione indifferenziata che dura almeno un anno. Il neonato acquisisce pian piano la struttura dell’opposizione e della differenza tra un significante e un altro. Nel frattempo vive in una dimensione pre-simbolica.
Per ogni essere umano, il primo contatto con il linguaggio è il contatto con un significante che non significa nulla, che non è distinguibile da altri significanti sul piano semantico. Soltanto sul piano libidico una differenziazione tra il piacere e il dispiacere può essere posta: alcuni suoni causano l’abbassamento del livello di tensione dell’apparato, altri lo innalzano. A questo livello corporale il significante scrive le sue proprie tracce, tracce che saranno le autostrade sulle quali si incanaleranno tutti i futuri significanti.
Del mondo di parole che circonda il neonato, quest’ultimo può fare esperienza esclusivamente sul piano libidico, cioè, sul piano del godimento. Suoni che incidono il corpo. Si può comprendere come questa preistoria del significante incida profondamente la sua “storia”: il significante non solo proviene ma contiene quel nucleo di “reale” che costituisce il suo proprio ineliminabile.
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La lalangue di Lacan è un dispositivo che continua a funzionare in maniera sotterranea nel linguaggio, ad agire in qualche modo, magari come disturbo del regolare funzionamento del significante, come shifter, come clinamen che incide il linguaggio.
In particolare, questa funzione, diciamo di disturbo, ha luogo nel linguaggio poetico e nei linguaggi artistici. Ma è nel linguaggio poetico che tale «disturbo» viene in evidenza come un elemento analogo a quelli che corrispondono, ad esempio a livello somatico, ai tic. Nei linguaggi poetici tale elemento di disturbo funziona come un clic, un pulsante che interrompe la fraseologia standardizzata, spezza la sintassi, frantuma la semantica del discorso.
Processo che è ben rinvenibile nella poetry kitchen.
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Topologia del Reale? Una superficie piatta, unidimensionale, priva di transito

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L’inconscio funziona come una topologia, il sapere dell’inconscio è un sapere topologico.
La topologia ci dice che si dà un luogo che è un non-luogo. L’esemplificazione più avvincente di questa teorizzazione è il nastro di Möbius, uno dei più celebri esempi di superficie non orientabile, della quale non è possibile stabilire un sopra o un sotto, un dentro o un fuori. Per averne conferma non ci resta che attraversare questa figura, di percorrerla, in un senso o nell’altro.
Il nastro di Möbius ci rende evidente il paradosso dell’inconscio. L’inconscio è la dimensione più propria e intima del soggetto, ma è anche quel qualcosa che gli resta sempre escluso, esterno al soggetto, bersaglio mancato, luogo nel quale l’incontro con il reale avviene nella forma del trauma. Avviene così che l’extimità è quel qualcosa di più intimo del soggetto che però si trova al di fuori di esso; la superficie topologica del nastro di Möbius ci fornisce una perfetta rappresentazione della scissione del soggetto, l’estraneità del soggetto nei confronti del suo reale più proprio ed intimo.
Quel vuoto causativo del reale al centro del soggetto è intimamente intimo ed estraneo al soggetto medesimo. Nel nastro di Möbius il sopra è immediatamente il sotto, il dentro è immediatamente il fuori, il vuoto è immediatamente il pieno. Si dà un transito continuo: il sopra diventa sotto, il dentro diventa fuori, il vuoto diventa pieno. Lo svolgimento di questo divenire è un accadimento immediato, senza soglia, mediante un transito continuo. Un effetto quasi magico.
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Tutto accade in un continuum non dialettico, non oppositivo. Tutto accade in quanto ogni dimensione diventa un altro da sé in uno svolgimento senza scambio né attraversamento di soglie o discontinuità. Nel nastro di Möbius ogni dimensione spaziale precipita nel suo opposto senza superare la soglia del cambiamento
Così nella poesia kitchen di Gino Rago o di Marie Laure Colasson tutto accade in virtù del continuum, per via della genesi non dialettica del Reale, dove si passa da un personaggio all’altro attraversando i secoli (Antonio e Cleopatra), oppure mettendo in comunicazione telepatica e geografica, oltreché storica, gli autori della nuova poesia (Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa), facendo interagire oggetti disparati come la pallottola, la gallina Nanin e la giacca di Magritte… Sono questi oggetti a costituire l’orditura del Reale. O meglio, è per il tramite della ribellione degli oggetti che possiamo gettare uno sguardo all’interno del Reale. Nella poesia di Marie Laure Colasson abbiamo un gioco di maschere di di sosia che si scambiano il posto e le identità (Eredia, la bianca geisha, Francis Bacon etc.) in una fantasmagoria che segue le leggi dell’inconscio e, in particolare, quel vuoto causativo del Reale che si rivela essere la soglia più intima (ed estranea) della soggettività.
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Gli oggetti e i personaggi della nuova poesia kitchen sono come situati su un tappeto volante o nastro magico che, scorrendo, mettono in scena gli scenari di un Reale che non conoscevamo, gli scenari di un retro-Reale o sopra-Reale.
La configurazione topologica di questo nastro magico è dunque tale per cui in esso non c’è una cosa che si rovesci nel suo altro, perché prima non c’è alcuna cosa, ma solo un piano assoluto di un continuum senza opposti, senza contrari, senza discontinuità.
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Leggendo la poesia di Lucio Tosi, quella di Gino Rago, Mario Gabriele, Mauro Pierno, Francesco Intini e altri… mi sono resa conto di come la poesia kitchen si muova lungo la superficie, che poi sia una superficie toroidale o di un nastro di Moebius non cambia nulla. La superficie ha sostituito la verticale e la verticalità. Voglio dire che la poesia di Ungaretti de Il porto sepolto (1916), poi L’Allegria di naufragi (1919), è una tipica poesia della verticalità e del thaumazein; ancora la poesia del primo periodo di Maria Rosaria Madonna (Stige, 1992 e 2018 Tutte le poesie), si muove sulla verticalità, ma già la seconda sceglie la superficie, così il primo Montale abbraccia la verticale, il secondo opta per la superficie. Dunque, c’è una forza storica che spinge in questa direzione, verso la superficie, la superficie x la superficie, ma quello che differenzia la poesia kitchen o pop poetry dalla poesia tradizionalmente novecentescaè la scelta deliberata e consapevole verso la poesia di superficie unica, estesa ed infinita.
E mi sembra che la differenza è quella che fa questione.

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(Marie Laure Colasson)
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Francesco Paolo Intini

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Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. 
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Caro giorgio, la superficie dunque!
Penso che il metro quadro debba subentrare al metro cubo. Abolita questa unità di misura non si sa come comportarsi con i volumi. La terra è piatta dunque. Dov’è finito l’argomentare scientifico, quel mettere in luce le profondità dell’universo, le mille manifestazioni di un dentro che suggeriscono un centro unico delle forze fondamentali? Con l’abolizione di un centro di gravità tutte le macchine di Mobius prestano il percorso all’infinito movimento. Esistono velocità e uffici raccordati da un tempo che non gestisce gli affetti e con essi gli andamenti naturali all’interno della comunità umana ma sempre di più le superfici delle persone, la pelle, il tessuto oculare, il movimento degli arti e della bocca traducendoli in ansia da prestazione, paura del fallimento in un compito, parametri dell’ efficienza industriale. Non c’è nessuna tregua nel mondo Covid dove si sta collaudando il futuro fondato sul metro quadro. Gli orologi di ognuno scricchiolano di fronte allo strapotere dei sacerdoti della tecnologia. Il bilanciere continua ad oscillare ma non trasmette il movimento perché il tempo che conta si fida solo delle sfere che vede e può spostare avanti e indietro, non di ciò che sta sotto lo schermo. Tra un mondo e l’altro non si sa come comunicare semplicemente perché tutto ciò che occorre è visibile, consumabile, tastabile, agguantabile, sostituibile e dunque non necessario e fa parte di una dimensione piatta, senza ombre, tramonti o albe diventate incolori. Il mondo schiacciato sull’ angstrom è infinito e dunque non c’è inizio-fine per il sole che viaggia senza sapere dove appollaiarsi. La poesia non è che una conseguenza. Strozzata sul nascere di quella che un tempo si chiamava ispirazione, diventa un filo steso, come dici acutamente tu, su cui appendere cose ridotte a fare il verso a mutande, giacche, storia umana, scoperte scientifiche, teatro, persino il DNA. Cose irriconoscibili, impronunciabili. “Fare il verso” per dire l’insensatezza in cui è caduta la parola che un tempo era magica, per quella capacità sorgiva di esprimere il pathos e la meraviglia, la bellezza e il bene così come la profondità del male, la sua dannazione e la resurrezione, ben consapevole di avere di fronte una entità umana, un referente altro da sè. Non mi sorprenderei se un giorno subentrasse un universo in cui al metro quadro si sostituisse il metro lineare e la natura si esprimesse semplicemente contando gli atomi, uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità.
Che poesia scriveremmo?

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(Francesco Paolo Intini)
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Scatto dopo scatto

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Sul maniglione era scritto: “QUI SI VIVE”.
Meglio non aggiornare il tasso d’ateismo.
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A ogni tocco uno scatto di mamba.
Ma qualcosa andava storto.
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Cruscotto in moto. Uteri allevati da feti.
Secondo scatto, chiusura della cataratta.
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Gli uomini del porto cavalcarono alici
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muovendo il vento
distillarono cobalto.
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Da qui non si passa.
Se guardi bene troverai una galassia.
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Costruirono la Luna di Flaiano riciclando caffettiere
Così prese a pendere sugli intellettuali.
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Restavano versi a sé, nudi del racconto
Senza alcun ritegno, urati del dolore
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Vista sulle Alpi con bagnanti
Mossa di caffè che gira cucchiaini.
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Nessuno sapeva come trasformare un po’ di massa
in termini di Io.
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Il rischio di rimanere sepolti
da una pioggia radioattiva.
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Tra chi lascia l’ostrica con la perla al collo
e i forzati della parola,
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Il pesce nuvola di Hiroshima.
Esploso di una brocca.
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Ad oganesso sotto controllo
Il Dio delle previsioni toccava ferro.
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A suffragio e per ogni evenienza arcimboldo
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Sottoposto a grandi esperimenti non ha retto alla prova.
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La “macchina del desiderio” s’è inceppata. Senza fumo.
Non è bello vederla invenduta, diodi e schede perforate introvabili.
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Il mercato dei polacchi (a Japigia) mostra zloty di granturco
e chi doveva integrarsi ha venduto i suoi tentacoli.
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Dell’io invece una radiazione di fondo pervade le cantine
ha memoria di tutto perché è ghiaccio e Sole.
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A gusci concentrici procede contro i muri
Cresce fiori di stramonio. Mescola cingoli del ‘56 a quelli del ‘68.
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Trump e Kruscev, quale differenza? Entrambi odiano la cipolla
E mettono un’epoca sotto chiave per non sentirla agli occhi.
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Il rimescolio delle onde compie il miracolo.
Il Tempo riempie vuoti che appartennero alle orecchie
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Grandi angurie completano la bocca.
Lo Spazio ottura la gola.
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Plank scolpì la cappella Sistina completa di Michelangelo
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Onore alle onde del Nulla.
Ci gratifichi la sua imitazione dei 2000.
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Columbus way

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Abitava a piazza Moro,
tre salti in là dall’ufficio sinistri.
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Accanto alla Stazione c’è una galleria
Porta Paradiso, illuminata a salsa d’aglio.
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Fulmini colpiscono lattine
col vespasiano sotto il letto
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Già, perché di lì a poco nacque un colombo
Che fu scaraventato nel senso vietato
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Puzzava e saltellava da un predellino all’altro
Beccando polvere da sparo
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Il cerchio ha un profumo di anaconda
rotatoria che ingoia la fontana.
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E dunque esaminato all’infradito
Dava un senso di freschezza l’ erba all’ uncinetto
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Monterò un pullman tutto per me
Vorrei un nodo nell’intestino un orbitale per le ali
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C’è un posto per le zie accanto al guidatore?
Un sedile sniffa coca.
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Un finestrino risponde si.
La pratica è in disuso se non virtuale.
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Lei crede alle vecchie zie?
Io credo ai salti dell’urina.
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Alla cava degli orizzonti
Una lama di Sole puro.
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Le zie assistono i passanti ciechi
ognuno fa Tiresia a casa sua
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E almeno una volta ha visto far l’amore
Perché dunque un capoverso alla fermata del 21?
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Odora di Benedetto, posso giurarlo
E da qualche parte lo scheletro dei Tarocchi.
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Musica di Schubert suonata a becco
Oggi si vola, domani fiore d’ asfalto.
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C’è da menar le mani tra vecchie zie
Cornacchie e murattiani, blatte e persiani
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Uno yogurt salito in cattedra
Pontifica di un cucchiaio a testa in giù.
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Alla chiusa di piazza Moro
Respirare baygon. Una bontà.

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Una poesia inedita di Marina Petrillo e Donatella Giancaspero. Il paradigma della conservazione della poesia italiana del novecento, Due Interviste di Gino Rago sul Novecento poetico italiano, Futurismo, Ungaretti, Montale, Sanguineti, Cardarelli, Pavese, Nuova ontologia estetica

Foto selfie e foto varie

 

Una poesia inedita di Marina Petrillo

Un io gestatorio decaduto, morto al concetto di eterno.
Non rimane alcun frammento,

solo cellule amebiche poste ai limiti di un firmamento finito.
Inibita ogni azione,

anche la nascita. Memorie dissolte
in operoso dialogo interiore, lo sguardo volto e avvolto,

a stele di vento acido.
Inquieti i bambini vivono in universi paralleli,

gestatori, di cui smarrita è la memoria.
Non regna ascensione,solo litania prossima al vivere.

Il mistero, nel piangere bianco,
inclinato asse nella acquiescente vita abdicata.

Pericola il cardine posto a suggello di un dio imploso:
catastrofe morta al suo stesso suono.

Una poesia di Donatella Giancaspero

Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.

Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.

Le ragioni mai sapute vanno. Inconfutate 
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi 
ritmati di prima – gli stessi – 
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.

Per un’aria che non rimorde – l’ombra 
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio.

Giorgio Linguaglossa

Il paradigma della conservazione della poesia italiana del novecento

Dalle interviste immaginarie di Gino Rago sulla poesia italiana del novecento quello che emerge è la straordinaria rettilineità dello sviluppo della poesia italiana del primo e secondo novecento (sembrano due secoli diversi), nel senso che ad una azione segue una reazione violenta ed oppositrice, che poi rifluisce naturalmente nell’alveo della tradizione. Il «nuovo» rifluisce tranquillamente nell’«antico». Questa è la vera damnatio memoriae della poesia italiana del novecento. Anche Sanguineti dopo il rivoluzionario libro d’esordio, Laborintus (1956), ritorna al paradigma della poesia del Pascoli, in un certo senso dimidiando e nullificando lo sforzo dell’opera d’esordio. Così anche Cesare Pavere dopo Lavorare stanca (1936) perde il bandolo della matassa, non sa più in che direzione proseguire e ritorna alla poesia lirica di Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi (1951) che, francamente, poteva farne a meno, un’opera lirica inutile che sconfessava l’opera d’esordio e segna il ritorno all’antico petrarchismo della poesia italiana.

Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda –
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
– anemone o nube –
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore.

Il Futurismo, dopo lo scoppio improvviso e deflagrante del Manifesto del 1907, finisce subito dopo per rientrare nei ranghi della tradizione, ed ecco che spuntano fuori i crepuscolari e, in seguito, negli anni trenta il ritorno all’ordine de La Ronda con Cardarelli come capofila…

Come dire, c’è una linea di continuità della poesia italiana del novecento (primo e secondo) che si può spiegare con l’incapacità di trovare il percorso per un rinnovamento profondo e duraturo della poesia e delle sue istituzioni stilistiche. Una linea di continuità che si sviluppa attraverso segmenti di discontinuità che approdano alla fin fine nella continuazione della continuità conservatrice. Una continuità assicurata dalle discontinuità. C’è una sorta di paradigma della conservazione della poesia italiana del novecento, in linea con il conservatorismo della comunità nazionale e dei suoi esiti politici pur nella rottura avutasi con il fascismo, anzi, il fascismo con quel ventennio di stasi del libero dibattito e della libera ricerca intellettuale ha finito per aggravare certe caratteristiche conservatrici della poesia italiana del novecento.

Se aggiungiamo i trasformismi e i minimalismi di questi ultimi decenni, il quadro è completo. Il trionfo del conservatorismo elegiaco e minimalista ne è il necessario (storicamente) complemento. La fioritura del postruismo poetico epigonico di questi ultimi decenni e dei giorni nostri ne è la riprova più evidente.

Gino Rago
Novecento poetico italiano/7
Breve visita a un Redattore della Pagina Culturale di un quotidiano romano
(Poesia italiana de l’entre-deux-guerres, Ermetismo)

Domanda:
L’ermetismo, la poesia italiana de l’entre-deux-guerres

Risposta:
L’ermetismo, idea e stile direi ‘proverbiali’ del Novecento poetico italiano nella prima metà del ‘900, più precisamente come lei suggerisce fra la Prima e la Seconda guerra mondiale, oltre che scorciatoia nel tentativo di interpretazione della modernità poetica, ha avuto il grave torto di mettere a lungo in ombra altri modi diversi di fare poesia.

Domanda:
Per lungo tempo la poetica ermetica ha occupato il centro del Novecento poetico

Risposta:
E’ vero e finché la poetica ermetica è rimasta centrale ha dato a tutti l’impressione di essere la “norma”

Domanda:
Secondo i Suoi studi dove indagare per trovare le ragioni di tale fenomeno

Risposta:
L’ermetismo è stato guardato e sentito come unico erede di tutta la scuola poetica europea più innovativa, direi dal Romanticismo tedesco al Surrealismo, e per questa ragione tutto il resto e tutti gli altri modi di far poesia di conseguenza sembrarono “anomalie”.

Domanda:
Con il minimo numero possibile di parole l’ermetismo italiano è stato…

Risposta:
Astrazione dalla realtà, intellettualismo, onirismo e visionarietà, aggressione alle strutture logiche della lingua comunicativa e aggressione al realismo sentimentale della tradizione letteraria, e altro

Domanda:
L’ermetismo, un fatto poetico soltanto italiano?

Risposta:
La poetica ermetica prima brevemente tratteggiata acquistò prestigio internazionale e divenne famosa anche per una serie di teorizzazioni ricche di fascino come quelle di Friedrich e di Raymond.

Domanda:
E in Italia?

Risposta:
Citerei per ora Giovanni Macchia, parlò degli ermetici come poeti di una generazione “senza maestri”, una generazione per la prima volta estranea a Carducci e soprattutto estranea a Pascoli e a D’Annunzio.

Domanda:
I maestri dunque non più i soliti e non più italiani…

Risposta:
I ‘maestri’, se di maestri è il caso di parlare, per la prima volta nella storia della poesia italiana erano soprattutto non italiani. E il solo riferimento poetico italiano possibile sembrò Leopardi.

Dovrei citare anche altri autori e altri studi, ma ora non posso, devo ultimare la correzione delle bozze di un lungo articolo-saggio che necessariamente dovrà apparire domani nel Supplemento di Cultura… 

Giorgio Linguaglossa

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Raffaele Urraro, Eugenio Montale, La Poesia: Che cos’è la poesia secondo Montale? – La genesi della poesia – Il fare poetico – Metodo compositivo – forme chiuse e forme aperte – Il linguaggio poetico – La dimensione musicale del verso

 

Foto 4 femme blanche

 Che cos’è la poesia secondo Montale?

 1 – Premessa

 Eugenio Montale non ha lasciato nessuna trattazione organica sulla poesia e sul fare poetico. Ha lasciato invece un considerevole numero di articoli pubblicati nel tempo su giornali e riviste, parte dei quali – i più importanti – sono stati raccolti da Giorgio Zampa in un volume che può ritenersi la summa del pensiero poetologico del più grande poeta italiano del Novecento. (Eugenio Montale, Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976).

Su questo testo abbiamo condotto la nostra indagine estrapolandone i passi utili alla trattazione dell’argomento che affrontiamo in questo nostro lavoro. Sono i passi nei quali più direttamente Montale affronta il tema della poesia e del poiein, e cioè quello del rapporto tra il poeta e il tempo storico, quello della poesia e della sua genesi e del suo farsi, quello del linguaggio. Relativamente ad ognuno di questi argomenti abbiamo selezionato, raggruppato e analizzato i vari passi.

2 – Che cos’è la poesia?

 Che cos’è la poesia secondo Montale?

L’11 aprile 1954 il poeta, in una lettera – a quanto pare ancora inedita –  inviata a Vittorio Masselli, che si accingeva a curare l’Antologia popolare di poeti del Novecento assieme a Gian Antonio Cibotto pubblicata l’anno seguente da Vallecchi, formulò un concetto di poesia con il quale mirava a coglierne l’essenza stessa. Ma, ahimè!, come spesso capita alle formulazioni più note e famose, il concetto non è stato compreso da tutti nel suo vero significato, tanto che ancora oggi risulta spesso travisato, distorto, maltrattato. E difatti, nella più gran parte delle citazioni, si fa passare Montale per il teorico di una poesia volutamente e programmaticamente oscura, incomunicabile, la cui funzione fondamentale sarebbe proprio quella di non essere capita.

Ebbene, a parte il fatto che una tale dichiarazione di principio risulterebbe inspiegabile e assurda, tuttavia spesso ci si è presa la libertà di banalizzare e travisare un principio poietico di grande momento. Affermava, dunque, Montale nella succitata lettera:

Nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire. Il problema è di far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano. Ciò non accade solo ai poeti reputati oscuri. Io credo che  Leopardi riderebbe a crepapelle se potesse leggere ciò che di lui scrivono i commentatori.

Certo, se ci si ferma alla prima proposizione – e purtroppo molti lo hanno fatto, precludendosi la possibilità di comprendere veramente il senso delle dichiarazioni del poeta –, si potrebbe avere l’impressione che Montale veda la poesia come un’attività che si consuma nella chiusa bottega alla lucerna, e il poeta vien visto come incurante degli altri ai quali non si degnerebbe di comunicare le verità o i pensieri elaborati. Ma ad una lettura più attenta si coglie già in questa espressione un principio più profondo e serio: non è quello di “farsi capire” il problema che deve affrontare il poeta nel suo lavoro creativo, nel senso che, se questo fosse il suo scopo fondamentale farebbe ricorso ad altre forme comunicative. Il problema non riguarda la “comunicazione”, ma l’essenza stessa del fare poetico e le modalità del suo realizzarsi, come risulta dal prosieguo del discorso di Montale che non si può ignorare se si vuol penetrare a fondo e compiutamente il suo pensiero. E infatti il poeta aggiunge subito che il “problema” vero del fare poetico è di “far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano”. Che cosa significa questa seconda, importantissima, proposizione? Significa che il problema della comunicazione è ben presente al poeta, ma che viene spostato su altri aspetti ed è incentrato non sull’intenzione di comunicare le cose con i versi, ma sulla finalità del poeta di “far capire” ciò che le parole “da sole” non avranno mai il potere e la forza di trasmettere. Un esempio concreto può servire a far comprendere ancor meglio il senso delle affermazioni di Montale. Vogliamo riferirci, visto che il Montale subito dopo cita scherzosamente  Leopardi, proprio al poeta di Recanati. Ebbene, se  Leopardi avesse voluto esplicitare e “far capire” agli altri il suo concetto di “infinito”, non avrebbe avuto bisogno di scrivere il famosissimo idillio in quanto egli aveva formulato tale concetto in diversi luoghi dello Zibaldone, e quasi con le stesse parole usate nel componimento poetico. Ma Leopardi – come del resto tenta di fare ogni vero poeta – voleva proprio “far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano”; e quel quid egli raggiunge con la forma poetica, e quindi con l’elaboratissima struttura generale del testo, con il ritmo dell’endecasillabo, con l’armonia della versificazione, con la selezione e combinazione originali dei segni, con la struttura retorica che egli realizza, con la stessa creazione di un’atmosfera fatta di sospensione e di attesa, con la configurazione di uno spazio-tempo immaginoso e pur reale che egli riesce a creare. Sicché alla fine il poeta, con i suoi versi, dice altro rispetto al concetto di “infinito” filosoficamente espresso nello Zibaldone.

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A questo serve la poesia. E perciò tutti i poeti tendono a dire l’oltranza delle parole, non ad essere oscuri. Ed allora è vero che se il “problema” della poesia fosse soltanto quello di “farsi capire”, cioè di comunicare concetti, nessuno scriverebbe versi per il semplice motivo che non sarebbe necessario né indispensabile far ricorso alla poesia: basterebbe esprimersi oralmente a parole, oppure con un articolo di giornale, con un saggio specialistico o con un’altra delle tante possibilità comunicative. La poesia è altro e serve ad altro. Ed anche se si fa con le parole essa vuole giungere a ciò che è inesprimibile con le parole. Al quid di cui si è parlato.

Con questo si risponde alla domanda sull’essenza vera della poesia. Ma ci sono altri interrogativi relativi al problema di che cosa essa sia. E infatti nell’Intervista immaginaria del 1946 (1) il poeta le riconosce innanzitutto una grande importanza per chi l’esercita: essa “è una delle tante possibili positività della vita”, un valore, un mezzo per realizzare sogni e illusioni o, più semplicemente, per dare comunque un senso alla propria esistenza. Tanto che Montale confessa di avere approfondito il rapporto vita-poesia e di essersi anche impadronito di “un’infarinatura di psicanalisi” per comprendere meglio l’essenza del problema.

Pervenne così ad una conclusione, “che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato”.

Si potrebbe, quindi, pensare al poeta come ad un uomo che non può o non sa vivere, un “separato”, uno che cerca di realizzare nell’arte, e quindi nella poesia, ciò che non riesce a realizzare nella vita. E qui l’influenza di Freud è palese e innegabile. Ma Montale, a scanso di equivoci, si preoccupa subito di aggiungere che “ciò peraltro non giustifica alcuna deliberata turris eburnea: un poeta non deve rinunciare alla vita. È la vita che si incarica di sfuggirgli” (2).

Come a dire che il poeta non abbandona mai il tentativo di vivere, né quello di vivere con/tra gli altri uomini i problemi di tutti, neanche quando egli si accorge che è la vita che continuamente si incarica di tradirlo non consentendogli di realizzare ciò che egli vorrebbe.

Nella stessa Intervista, però, Montale riconosce che la poesia stava diventando “più un mezzo di conoscenza che di rappresentazione” (3). Ma di quale conoscenza si tratta? Si tratta della

ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale. Una verità del poeta-soggetto che non rinneghi quella dell’uomo-soggetto empirico. Che canti ciò che unisce l’uomo agli altri uomini ma non neghi ciò che lo disunisce e lo rende unico e irripetibile (4).

E perciò egli sembra proiettato verso l’affermazione di un concetto di poesia che coniughi le esigenze e i problemi del poeta-soggetto con quelli degli altri. Sono esigenze e problemi reali, colti nella loro vera consistenza. E difatti Montale dichiara apertis verbis di non pensare “a una poesia filosofica” perché, come afferma in un suo Dialogo, “la poesia filosofica esprime idee che sarebbero valide anche se espresse in altra forma. In certi casi (Lucrezio) questa poesia è vera poesia. Ma lo stesso non può dirsi di tanti filosofanti in versi (5).

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3 – La genesi della poesia

 Prima di affrontare lo specifico argomento della genesi della poesia, è necessario chiarire preliminarmente taluni aspetti del problema.

Innanzitutto Montale, come afferma in un suo articolo (6), non crede alla figura del poeta-vate, già caduta, agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso, in una crisi inevitabile e meritata: i poeti “hanno da tempo rinunziato al loro «ruolo» di annunziatori e di profeti, almeno nel vecchio senso della frase, e credo sia un bene. Pensate al Pascoli «poeta civile» e ne sarete persuasi. E difatti erano cambiati i tempi, e quindi era inevitabile che cambiassero gli atteggiamenti dei poeti di fronte al reale e, di conseguenza, le modalità stesse del fare poetico:

ho seguito la via che i miei tempi m’imponevano, domani altri seguiranno vie diverse; io stesso posso mutare. Ho scritto sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale. Non posseggo l’autosufficienza intellettualistica che qualcuno potrebbe attribuirmi né mi sento investito di una missione importante. Continua a leggere

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Werner Aspenström (1918-1997) SEI POESIE. VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Traduzione di Enrico Tiozzo da Antologia di poeti svedesi contemporanei Edizioni Bi.Bo., 1992, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Che cos’è un oggetto? Che cos’è una «cosa»?  E come si fa ad entrare dentro la «cosa»? Le «cose» ci si presentano nella loro nuda «cosalità»

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foto di gunnar-smoliansky-1976 [Le lampade hanno la stessa forma dei caschi.
Illuminano crudelmente i tavolini]

[Werner Aspenström è nato nel 1918, un piccolo villaggio della Svezia del Nord ed è morto nel 1997. Dopo studi irregolari e lavori saltuari, fra cui quello del boscaiolo, Aspenström ottiene la licenza liceale come privatista a Stoccolma nel 1940 e, nello stesso tempo, entra in contatto con l’ambiente letterario della capitale svedese e stringe amicizia con poeti come Karl Vennberg ed Erik Lindegren e con loro fonda la rivista “40-tal” (Anni Quaranta) caratterizzata da un vigile pessimismo e da un crescente senso di angoscia per i futuri destini dell’umanità. Nel 1943 esce Preparazione,  nel 1946 Il grido e il silenzio e nel 1949 Leggenda innevata di tono simbolista ed ermetico, che suscitarono qualche discussione nell’ambiente letterario svedese per l’oscurità enigmatica di certi passaggi. Nelle raccolte successive degli anni Cinquanta e Sessanta Aspenström ha continuato a muoversi fra i poli opposti di un senso disperato di impotenza e paura, tipico delle prime liriche, e di una tendenza all’idillio rasserenatore, percepibile soprattutto nella descrizione di momenti magici a contatto della natura. Negli anni Ottanta pubblica Presto una mattina (1976-1989) e Sussurro nel 1983.]

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il «tempo interno» in Poesia; Che cos’è un oggetto? Che cos’è una «cosa»?  E come si fa ad entrare dentro la «cosa»?

Proviamo ad avvicinarci ad una idea inconsueta, alla idea di far diventare gli «oggetti», «cose». Forse siamo troppo adulti, troppo abituati a considerare le «cose» gli equivalenti degli «oggetti» che non sappiamo più la differenza tra gli «oggetti», e le «cose». Che cos’è un oggetto? Che cos’è una «cosa»?  E come si fa ad entrare all’interno della «cosa»? Come si fa ad adoperare una «cosa»? Ma, una «cosa» si può adoperare? Quando è che una «cosa» diventa un evento esteticamente tracciabile? Che rapporto c’è tra un «evento» e una «cosa»? – Ecco, io direi che la poesia italiana ha trascurato da sempre questo piccolo problema: quando gli oggetti cessano di essere «oggetti» e diventano «cose». È soltanto a quel punto che può sorgere una tracciabilità per la poesia. Io la metterei così: la «cosa» è un oggetto simbolico che ha iniziato ad irradiare segnali significativi. Ad un certo punto avviene che un «oggetto» è muto per il linguaggio ordinario ma non per il linguaggio simbolico per eccellenza quale è il linguaggio poetico, e comincia a «parlare». E questo suo «parlare» è il discorso poetico. Un «oggetto» diventa «cosa» quando viene dotato di temporalità. Voglio dire che, fino ad un certo punto, gli oggetti di tutti i giorni non hanno ancora acquisito una propria temporalità ma convivono con noi e in mezzo a noi nella confusione della dimensione della confusione, dell’inautenticità, nella temporalità del presente; ad un certo punto della loro condizione di esistenza gli «oggetti» restano muti, non emettono segnali simbolici significativi, almeno fino a quando vengono, per una ragione o per l’altra, dismessi. E allora diventano oggetti simbolici, dotati di una propria temporalità significativa. Soltanto a questo punto possono fare ingresso nel linguaggio poetico. Leggiamo tre versi di Aspenström:

Il frutto che cade si ferma a metà strada
tra ramo e erba e chiede:
Dove sono?

L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante, fatto di quel solido nulla che è il soggetto degli oggetti.

C’è una bella differenza: le «cose» sono fatte di «tempo» mentre gli «oggetti» sono fatti di tempo di lavoro. Ad esempio: C’è una differenza abissale tra una poesia fatta di «oggetti» e una poesia fatta di «cose». Capisco di riuscire un po’ metafisico e misterioso, ma qui si cela una evidenza importante che vorrei esplicitare. Per farla breve, dirò che una poesia fatta di oggetti la si dimentica nel giro di qualche anno o di qualche generazione, la poesia fatta di cose invece resiste al tempo, non si cancella. Come mai avviene questo? La risposta la dobbiamo cercare nell’ingresso del Fattore tempo all’interno della «cosa», e quando io dico «tempo» intendo qualcosa di difficilmente definibile, qualcosa che riguarda tutto ciò che c’è nel creato e in noi. Come diceva Agostino se nessuno me lo chiede so benissimo che cos’è il tempo, ma se qualcuno me lo chiede, allora non lo so più. Appunto, il paradosso del tempo è questo; che noi pensiamo intuitivamente, dando credito al senso comune, di sapere che cos’è il tempo, ma in realtà non sappiamo nulla di esso, siamo ancora al livello dei trogloditi.

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foto di gunnar-smoliansky-1976 [Per me qualche volta il tempo esiste, qualche volta no]

Per semplificare, dirò una evidenza: che la Lingua e la Parola sono entità fatte di Tempo. Non soltanto il Tempo le penetra dall’esterno, ma direi che le penetra anche dall’interno, ma anche e soprattutto che il Tempo è la cosa stessa, che non c’è cosa nel nostro universo che non sia «tempo» irrelato. Ma, dicendo questo mi rendo conto che ho proferito una tesi estrema, che dovrebbe avere il supporto della scienza e del pensiero filosofico, ma tant’è, lo scrivo egualmente, in modo ingenuo, nella speranza che qualcuno che ne sa più di me voglia tentare di spiegare questa «evenienza»… Da questo punto di vista, l’idea anceschiana di una «poesia degli oggetti» è destituita di fondamento filosofico. In realtà, nella migliore poesia moderna sono le «cose» che si palesano nella loro «cosalità»; una «poesia degli oggetti» è un non senso filosofico, è una sciocchezza filosofica. La poesia abita le «cose», non conosce gli «oggetti». La «metafora tridimensionale» di Mandel’štam tratta di «cose», non di «oggetti», e così la poesia di Aspenström. Il «laboratorio di impagliatura» degli oggetti dei simbolisti viene da Mandel’štam sostituito con le «cose» vere, con le «suppellettili» con cui ha a che fare l’uomo nella sua vita quotidiana di tutti i giorni. Gli «oggetti» sono quelle entità di cui sono piene le nostre vite quotidiane, ma la poesia rigetta gli «oggetti», è loro estranea; o meglio, li ricrea e li sostituisce con le «cose». Soltanto le «cose» possono abitare il discorso poetico. La poesia è irrimediabilmente nemica della civiltà degli oggetti del capitalismo inoltrato.

Ma che cos’è questo «secondo tempo», non più parametro (come nella meccanica classica) ma operatore di una descrizione probabilistica che Prigogine chiama «tempo interno»? È singolare che per spiegare questo concetto scientifico così singolare Prigogine ricorra a una vera e propria riabilitazione ontologica della percezione immediata quando afferma che «è essa a renderci consapevoli dell’esistenza nella nostra stessa vita, di una freccia del tempo […] La giustificazione di questo punto di vista sta nell’osservazione che la natura, così come appare intorno a noi, è asimmetrica rispetto al tempo. Tutti noi invecchiamo insieme! E nessuno ha finora osservato una stella che segua la sequenza principale a rovescio».1

Quando gli «oggetti» sono saturi di tempo, allora vuol dire che sono diventati delle «cose».

Per caso oggi ho aperto una antologia di Poeti svedesi contemporanei nella traduzione di Enrico Tiozzo del 1992. Guardate il modo con cui il poeta svedese tratta gli «oggetti», qui non c’è alcuna topologia utilitaristica. Ecco come gli «oggetti» non più utilizzati ridiventano «cose» misteriose. Un semplicissimo «momento in pizzeria», una esperienza quotidiana e irrisoria, diventa epifania di una diversa collocazione delle «cose» nel mondo e nel «tempo». Attenzione, qui non si tratta di epifania estatica alla maniera dei primi simbolisti europei, di Ungaretti, per intenderci, che sta in posizione estatica in attesa dell’epifania, qui si tratta di una nuova e diversa collocazione del nostro essere nell’universo e nel tempo. Le «cose» ci si presentano nella loro nuda «cosalità». Le «cose» sono frammenti del mondo e del «tempo» e la cosalità è quell’alone che avvolge le cose come la carta stagnola avvolge i regali delle persone care.

Ecco un modo di fare poesia veramente moderna con le «cose» e il «tempo».

1 Marramao Giacomo, Minima temporalia, luca sossella editore, 2005, p. 20 Continua a leggere

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POESIE di Guillaume Apollinaire (1880-1918) Molto allegro con improvvise tristezze Poesie e calligrammi nella traduzione di Mario Fresa stralcio di un  Commento di Renzo Paris

Guillaume Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicky nasce a Roma il 25 agosto del 1880 e muore a Parigi nel 1918, figlio naturale di Francesco Flugi d’Aspermont, un ufficiale svizzero che non lo riconobbe mai, e di Angelika de Wąż-Kostrowicky, una nobildonna polacca. Si trasferisce con la madre in Francia giovanissimo. Ha una adolescenza instabile e disordinata, trascorsa tra vaste letture e numerosi viaggi e studi non regolari. Conosce e frequenta artisti d’avanguardia a Parigi, tra i quali anche i poeti Ungaretti e Max Jakob e il pittore Pablo Picasso. Partecipa alle discussioni sul cubismo in gestazione e, nel 1913, scrive un saggio su questa scuola artistica. Allo scoppio della prima guerra mondiale, sceglie di arruolarsi come volontario, definisce la guerra “un grand spectacle“. Nel 1916 viene ferito a una tempia e subisce un difficile intervento chirurgico. Diventa famoso come critico militante dei movimenti d’avanguardia di quegli anni: il futurismo e la pittura metafisica di De Chirico. Dato il suo carattere estroso ed irrequieto fu sospettato di essere l’autore del furto del dipinto della Gioconda avvenuto il 20 agosto del 1911 al Louvre; in seguito a tali sospetti (di cui fu gravato anche Picasso), viene arrestato ed incarcerato, salvo poi risultare del tutto estraneo ai fatti ed in seguito rilasciato. Del furto risultò poi essere autore un dipendente del Louvre, tale Vincenzo Peruggia. Inaugura nel 1910 la vita letteraria con i sedici racconti fantastici intitolati L’eresiarca & C., mentre nel 1911  pubblica le poesie di Bestiario o corteggio di Orfeo e nel 1913  Alcools, raccolta delle migliori poesie composte fra il 1898 e il 1912, considerata il capolavoro di Apollinaire insieme con Calligrammes (1918),  veri e propri componimenti scritti appositamente per formare un disegno che rappresenta il soggetto della poesia stessa.   

Apollinaire ritratto di Maurice de Vlaminck

Apollinaire ritratto di Maurice de Vlaminck

Commento di Renzo Paris

…Per dar carne alla biblioteca erotica detta dei Curiosi, che curava per uno spregiudicato editore, Apollinaire si tuffa nella letteratura italiana e ne trae pingue bottino. Riscopre, per esempio, lo scrittore Giambattista Casti (1724-1803), viaggiatore irrequieto e amico di letterati e regnanti di tutta Europa, quello stesso che Parini giudicava “prete brutto, vecchio e puzzolente” e che invece Stendhal e Goethe stimavano.

Piacque ad Apollinaire per le sue doti di poeta libertino ed irreligioso Giorgio Baffo che, insieme a scrittori come Francesco Gritti e Anton Maria Lamberti, Giovanni Pozzobon e Marcantonio Zorzi, dava vita all’ambiente che permise la nascita della lingua goldoniana. Ammirò Boccaccio, innanzitutto. Stampò Sade. Ma a proposito del Casti c’è ben altro da dire. Il Casti infatti è autore degli Animali parlanti. E che cos’è Bestiaire, la prima raccolta di poesie d’Apollinaire, se non una serie soprattutto di quartine in cui il poeta fa ‘parlare’ gli animali?

O forse è troppo azzardata l’ipotesi di una intuizione settecentesca di un bestiario illustrato alla maniera medioevale ancora viva nell’epoca rinascimentale? Bestiaire è del 1911. Definito dallo stesso autore “un divertimento poetico” è una serie di licenziosi auguri e scongiuri. Auguri al poeta che si appresta a circuire e a conquistare madama poesia, e d’altra arte, scongiuri contro i pericoli e gli ostacoli di cui è lastricata la strada della bellezza. Più che un ‘dizionario dei motivi poetici dell’autore’ sembra essere un manuale di istruzioni per la creazione poetica, per un poeta da spartire con il profeta di dantesca e rimbaudiana memoria né con il misterioso di Mallarmé. Proprio in Bestiaire, nella quartina ‘L’éléphant’, si dice:

Comme un éléphant son ivoire,
J’ai en bouche un ben precieux.
pourpre mort!… J’achète ma gloire
Au prix des mots mélodieux.

Nella quartina ‘La chenille’ invece leggiamo:

Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.

A prezzo del “lavoro poetico” il poeta può diventare ricco. Se le parole sono ancora melodiose, ma già tese e frenetiche, alla gloria si arriva attraverso una “compera”. Anche qui Apollinaire finisce col criticare il gusto simbolista dall’interno stesso della sua melodia. A proposito della “purpurea morte” de “L’éléphant” il critico francese Poupon ricorda Mallarmé e la sua particolare espressione “morire purpureo” riferita alla ruota di un carro, simbolo della poesia.

(tratto da Apollinaire Poesie Newton Compton Italiana, Introduzione di Renzo Paris, Roma, 1971)  

Nota del traduttore Mario Fresa

Un traduttore di poesia deve lavorare siccome un interprete musicale. È questo il senso del gioco di queste mie traduzioni-imitazioni confluite nel quaderno “In viaggio con Apollinaire”: ai testi ho voluto applicare minime inversioni sintattiche, dilatazioni o contrazioni metriche, sovrapposizioni, puntature, cadenzine. L’elemento di maggiore fascino nella traduzione poetica è d’altronde costituito, secondo me, soprattutto dalla forma e dalle modalità del processo di trasformazione del testo da cui deriva la traduzione stessa; un processo che non è un ʿcontrafactumʾ o un travestimento, ma una forma di scrittura trasversale che assume il valore di un omaggio-variazione, in cui si accolgono e si uniscono sia l’eco imitativa, sia la rielaborazione, fiorita e ampliata, del modello di partenza.

Da Il Bestiario o Corteggio di Orfeo

La Souris

Belles journées, souris du temps,
Vous rongez peu à peu ma vie.
Dieu ! Je vais avoir vingt-huit ans,
Et mal vécus, à mon envie.

Topino

O belle, mie belle, terribili, belle giornate!
Topini del tempo che la mia vita divorate!
Trent’anni, miodio, trent’anni li compirò tra un mese!
Che tempo perduto! Che ore malissimo spese!

L’Écrevisse

Incertitude, ô mes délices
Vous et moi nous nous en allons
Comme s’en vont les écrevisses,
À reculons, à reculons.

Gambero

O dubbio, dolcissimo mio. La dolce mia altalena.
Ah ridatemi la strada. Non la vedo. Non la vedi.
Tu mi sventoli all’indietro: come un gambero procedi
Che sgambetta, si ripara, che alla fuga già s’allena.

Da Alcools

Les cloches

Mon beau tzigane mon amant
Écoute les cloches qui sonnent
Nous nous aimions éperdument
Croyant n’être vus de personne

Mais nous étions bien mal cachés
Toutes les cloches à la ronde
Nous ont vu du haut des clochers
Et le disent à tout le monde

Demain Cyprien et Henri
Marie Ursule et Catherine
La boulangère et son mari
Et puis Gertrude ma cousine

Souriront quand je passerai
Je ne saurai plus où me mettre
Tu seras loin je pleurerai
J’en mourrai peut-être

Campane

Oh il mio caro zingarello: oh l’amante mio bello:
senti che razza, senti che razza di scampanìo!
Quanto ci siamo amati, vedi un po’, tesoro mio
(e volevamo non esser mai visti, amore bello…)

Il nostro nascondino, noi l’abbiamo scelto male!
Le campane delle chiese fanno un chiasso infernale
a destra, a manca: e dall’alto dei campanili ognuna
già si mette a bisbigliare, pettegola importuna…

e così, già domani, prima Enrico e poi Ursula Maria
e in aggiunta Cipriano e Caterina
e anche i coniugi fornai, lì, nella panetteria

ah come sorrideranno quando, mettiamo, io passerò di là
e dove, ohimé, dove poi m’asconderò?
Ah, ne potrei morire! Morire io ne potrei, chissà!

Signe

Je suis soumis au Chef du Signe de l’Automne
Partant j’aime les fruits je déteste les fleurs
Je regrette chacun des baisers que je donne
Tel un noyer gaulé dit au vent ses douleurs

Mon Automne éternelle ô ma saison mentale
Les mains des amantes d’antan jonchent ton sol
Une épouse me suit c’est mon ombre fatale
Les colombes ce soir prennent leur dernier vol

Costellazione

Sono nato sotto il segno dell’Autunno
Per questo mi piacciono i frutti perciò mi disgustano i fiori
I baci che ho donato io li rimpiango tutti
Come un noce bacchiato sussurra i suoi dolori al vento

Oh mio Autunno perenne oh stagione della mia mente
Mani di antiche amanti cospargono il tuo suolo
Una sposa mi segue ed è l’ombra mia fatale
Le colombe stasera spiccano il loro ultimo volo

Hötels

La chambre est veuve
Chacun pour soi
Présence neuve
On paye au mois

Le patron doute
Payera-t-on
Je tourne en route
Comme un toton

Le bruit des fiacres
Mon voisin laid
Qui fume un âcre
Tabac anglais

Ô La Vallière
Qui boite et rit
De mes prières
Table de nuit

Et tous ensemble
Dans cet hôtel
Savons la langue
Comme à Babel

Fermons nos portes
À double tour
Chacun apporte
Son seul amour

Alberghi

La camera è vuota
Ciascuno per sé
C’è un ospite nuovo
Si paga tra un po’

Ma dice il padrone:
Qui si salderà?
Io trottolo e vago
Per la mia città

Vetture chiassose
Che ceffo ha il vicino!
Si fuma un tabacco
Inglese, un po’acre

C’è la Favorita
Che zoppica e ride
Di queste preghiere
Sul mio comodino

E adesso in albergo
Noi qui tutti insieme
Parliamo le lingue
Di un’altra Babele

Chiudiamo le porte
Ben forte, ben forte
Ciascuno il suo amore
Si serbi per sé.

Cors de Chasse

Notre histoire est noble et tragique
Comme le masque d’un tyran
Nul drame hasardeux ou magique
Aucun détail indifférent
Ne rend notre amour pathétique

Et Thomas de Quincey buvant
L’opium poison doux et chaste
À sa pauvre Anne allait rêvant
Passons passons puisque tout passe
Je me retournerai souvent

Les souvenirs sont cors de chasse
Dont meurt le bruit parmi le vent

Corni da caccia

Nobile e tragica è la nostra storia
Come la maschera di un gran tiranno
Nessun rischio drammatico, nessun sortilegio,
Nessuna minuzia indifferente
Ha reso romantico il nostro amore

E de Quincey mentre beveva
L’oppio venefico dolcissimo e puro
Sognava la sua Annina
Passiamo trapassiamo, perché tutto passa, perché tutto va!
Ahi, spesso, ma sconsolato, volgerommi indietro!

I ricordi sono corni da caccia
E il loro suono si disperde nella bocca del vento

La Blanche Neige

Les anges les anges dans le ciel
L’un est vêtu en officier
L’un est vêtu en cuisinier
Et les autres chantent

Bel officier couleur du ciel
Le doux printemps longtemps après Noël
Te médaillera d’un beau soleil
D’un beau soleil

Le cuisinier plume les oies
Ah  ! tombe neige
Tombe et que n’ai-je
Ma bien-aimée entre mes bras

La bianca neve

Ah, gli angeli in cielo, là in alto, là fuori!
Uno è vestito da brigadiere
L’altro è vestito da cuciniere
E gli altri, quel gruppo, son tutti tenori

O bell’ufficiale, color dell’azzurro!
La primavera, adesso, dopo quel lungo inverno
Sai che bella medaglia di sole ti assegnerà
Ma sì, te la darà

Il cuciniere spiuma le oche
E che neve che cade: e cade, la neve,
Ricade: né v’è
La mia bella, qui adesso, con me!

Mes amis m’ont enfin avoué leur mépris

Mes amis m’ont enfin avoué leur mépris
Je buvais à pleins verres les étoiles
Un ange a exterminé pendant que je dormais
Les agneaux les pasteurs des tristes bergeries
De faux centurions emportaient le vinaigre
Et les gueux mal blessés par l’épurge dansaient
Étoiles de l’éveil je n’en connais aucune
Les becs de gaz pissaient leur flamme au clair de lune
Des croque-morts avec des bocks tintaient des glas
A la clarté des bougies tombaient vaille que vaille
Des faux cols sur des flots de jupes mal brossées
Des accouchées masquées fêtaient leurs relevailles
La ville cette nuit semblait un archipel
Des femmes demandaient l’amour et la dulie
Et sombre sombre fleuve je me rappelle
Les ombres qui passaient n’étaient jamais jolies

I miei amici alla fine…

I miei amici alla fine mi hanno tutti confessato che mi disprezzano
A grandi sorsate mi ubriacavo di stelle
Mentre dormivo un angelo ha sterminato
gli agnelli i pastori nei tristi ovili
Certi finti centurioni asportavano l’aceto
Gli straccioni ballavano ridotti male assai dal ricino
Stelle del risveglio io non ne conosco nemmeno una
I becchi del gas pisciavano le fiamme al chiar di luna
Becchini sonavano a morto coi boccali di birra
Ricadevano alla luce delle candele ricadevano e dunque sia come dev’essere
Colli di camicia su fiotti di gonne impolverate
Puerpere in maschera festeggiavano la loro purificazione
Un arcipelago sembrava quella notte la città
Le donne chiedevano l’amore e la dulìa
Oh fiume scuro scuro io sì me lo ricordo bene
Nelle ombre che passavano non c’era mai bellezza

Nuit rhénane

Mon verre est plein d’un vin trembleur comme une flamme
Écoutez la chanson lente d’un batelier
Qui raconte avoir vu sous la lune sept femmes
Tordre leurs cheveux verts et longs jusqu’à leurs pieds

Debout chantez plus haut en dansant une ronde
Que je n’entende plus le chant du batelier
Et mettez près de moi toutes les filles blondes
Au regard immobile aux nattes repliées

Le Rhin le Rhin est ivre où les vignes se mirent
Tout l’or des nuits tombe en tremblant s’y refléter
La voix chante toujours à en râle-mourir
Ces fées aux cheveux verts qui incantent l’été

Mon verre s’est brisé comme un éclat de rire

Notte renana

Questo bicchiere è colmo della fiamma di un vino che già trema
Sentite la canzone lentissima lentissima del battelliere
Che racconta di aver visto sotto la luna sette donne
Che torcevano i loro capelli verdi e lunghi fino ai piedi

Su sorgete e cantate più forte e ballate un girotondo
Perché non possa più sentire la canzone del battelliere
Mettetemi vicino tutte quante le ragazze bionde
Dallo sguardo immobile e dalle trecce ripiegate

Il reno è ubriaco il reno dove si specchiano le vigne
Tutto l’oro notturno vi scivola tremando per rispecchiarsi
La voce canta sempre come un rantolo morente
Quelle fatine dai verdi capelli che incantano l’estate

Il mio bicchiere si è infranto come lo scoppio d’una risata

Da Calligrammi

Il pleut

Il pleut des voix de femmes comme si elles étaient mortes même dans le souvenir

C’est vous aussi qu’il pleut merveilleuses rencontres de ma vie ô gouttelettes

Et ces nuages cabrés se prennent à hennir tout un univers de villes auriculaires

Écoute s’il pleut tandis que le regret et le dédain pleurent une ancienne musique

Ecoute tomber les liens qui te retiennent en haut et en bas.

Piove

Piovono voci di donne come se fossero morte perfino nel ricordo

Piovete anche voi meravigliosi incontri della mia vita, o goccioline!

E quelle nuvole impennate già iniziano a nitrire un universo intero di città auricolari

Senti se piove mentre il rimpianto e lo sdegno piangono insieme una musica antica

Ascolta cadere i legami che ti tengono su, che ti tengono giù

Mutation

Une femme qui pleurait
Eh! Oh! Ha!
Des soldats qui passaient
Eh! Oh! Ha!
Un éclusier qui pêchait
Eh! Oh! Ha!
Les tranchées qui blanchissaient
Eh! Oh! Ha!
Des obus qui pétaient
Eh! Oh! Ha!
Des allumettes qui ne prenaient pas
Et tout
A tant changé
En moi
Tout
Sauf mon amour
Eh! Oh! Ha!

Metamorfosi

Una donna che singhiozzava
Eh! Uh! Ah!
I soldati che passavano
Eh! Uh! Ah!
Un custode di chiusa che pescava
Eh! Uh! Ah!
Le trincee che biancheggiavano
Eh! Uh! Ah!
Granate che scoreggiavano
Eh! Uh! Ah!
Fiammiferi che non si accendevano
E tutto
È così tanto cambiato
In me
Tutto
Salvo il mio amore
Eh! Uh! Ah!

SCÈNE NOCTURNE DU 22 AVRIL 1915

Gui chante pour Lou

Mon ptit Lou adoré Je voudrais mourir un jour que tu m’aimes
Je voudrais être beau pour que tu m’aimes
Je voudrais être fort pour que tu m’aimes
Je voudrais être jeune jeune pour que tu m’aimes
Je voudrais que la guerre recommençât pour que tu m’aimes
Je voudrais te prendre pour que tu m’aimes
Je voudrais te fesser pour que tu m’aimes
Je voudrais te faire mal pour que tu m’aimes
Je voudrais que nous soyons seuls dans une chambre d’hôtel à Grasse pour que tu m’aimes
Je voudrais que nous soyons seuls dans mon petit bureau près de la terrasse couchés sur le lit
de fumerie pour que tu m’aimes
Je voudrais que tu sois ma sœur pour t’aimer incestueusement
Je voudrais que tu eusses été ma cousine pour qu’on se soit aimés très jeunes
Je voudrais que tu sois mon cheval pour te chevaucher longtemps longtemps
Je voudrais que tu sois mon cœur pour te sentir toujours en moi
Je voudrais que tu sois le paradis ou l’enfer selon le lieu où j’aille
Je voudrais que tu sois un petit garçon pour être ton précepteur
Je voudrais que tu sois la nuit pour nous aimer dans les ténèbres
Je voudrais que tu sois ma vie pour être par toi seule
Je voudrais que tu sois un obus boche pour me tuer d’un soudain amour

SCENA NOTTURNA DEL 22 APRILE 1915

Gui canta per Lou

Mio piccolo Lou vorrei morire un giorno che tu mi amassi
Vorrei essere bello perché tu mi amassi
Vorrei esser forte perché tu mi amassi
Vorrei essere giovane giovane perché tu mi amassi
Vorrei che la guerra ricominciasse daccapo perché tu mi amassi
Vorrei afferrarti perché tu mi amassi
Vorrei sculacciarti perché tu mi amassi
Vorrei farti male perché tu mi amassi
Vorrei che ci trovassimo noi due soli in una stanza d’albergo a Grasse perché tu mi amassi
Vorrei che fossimo soli nel mio piccolo ufficio proprio vicino alla terrazza
sdraiàti così sul letto da fumeria perché tu mi amassi
Vorrei che tu fossi la mia sorellina per amarti incestuosamente
Vorrei che tu fossi stata mia cugina perché ci fossimo amati giovanissimi
Vorrei che tu fossi il mio cavallo per cavalcarti a lungo a lungo a lungo
Vorrei che tu fossi il mio cuore per sentirti sempre in me
Vorrei che tu fossi il Paradiso o l’Inferno secondo il luogo di destinazione
Vorrei che tu fossi un ragazzino per essere il tuo precettore
Vorrei che tu fossi la notte per poterci amare al buio
Vorrei che tu fossi la mia vita per essere tutto tuo
Vorrei che tu fossi un proiettile crucco per uccidermi di un amore fulminante

Da Lettere a Lou

Il y a

Il y a des petits ponts épatants
Il y a mon cœur qui bat pour toi
Il y a une femme triste sur la route
Il y a un beau petit cottage dans un jardin
Il y a six soldats qui s’amusent comme des fous
Il y a mes yeux qui cherchent ton image
Il y a un petit bois charmant sur la colline
Et un vieux territorial pisse quand nous passons
Il y a un poète qui rêve au ptit Lou
Il y a une batterie dans une forêt
Il y a un berger qui paît ses moutons
Il y a ma vie qui t’appartient
Il y a mon porte-plume réservoir qui court qui court
Il y a un rideau de peupliers délicat délicat
Il y a toute ma vie passée qui est bien passée
Il y a des rues étroites à Menton où nous nous sommes aimés
Il y a une petite fille de Sospel qui fouette ses camarades
Il y a mon fouet de conducteur dans mon sac à avoine
Il y a des wagons belges sur la voie
Il y a mon amour
Il y a toute la vie
Je t’adore

C’è

C’è una fila di piccoli ponti meravigliosi
C’è il mio cuore che batte per te
C’è una ragazza triste sulla via
C’è un piccolo delizioso cottage in giardino
C’è un gruppo di sei soldati e tutti dico tutti si divertono da matti
C’è il mio occhio che va in cerca della tua immagine
C’è un boschetto grazioso sulla collina
E un vecchio soldato della milizia che piscia mentre passiamo noi
C’è un poeta che pensa al suo piccolo Lou
C’è un piccolo Lou delizioso in quella Parigi grande grande
C’è una batteria nella foresta
C’è un pastore che pascola le pecorelle
C’è la mia vita che appartiene a te
C’è il mio astuccio portapenne che corre che corre
C’è un filare di pioppi tenero tenero
C’è tutta la mia vita passata che è proprio tutta passata
C’è un dedalo di stradine a Menton dove ci siamo amati
C’è una ragazzina di Sospel che frusta i suoi compagni
C’è la mia frusta d’ordinanza nel mio sacco d’avena
C’è una torma di bagasce belghe sopra la strada
C’è il mio amore
C’è tutta l’esistenza
E ti adoro

Mario Fresa, nato nel 1973, ha esordito nel 1999 sulle pagine di «Specchio della Stampa», presentato da Maurizio Cucchi. Altri suoi testi in poesia e in prosa sono stati pubblicati sulle principali riviste culturali italiane, da «Caffè Michelangiolo» a «Paragone» a «Nuovi Argomenti», e in varie antologie, tra le quali Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004). Anticipazioni del suo nuovo libro di prose-poesie sono uscite su «Smerilliana» (2014), con un saggio di Valeria Di Felice, e su «Quadernario» (2015), a cura di M. Cucchi. Tra le sue ultime raccolte di poesia: Alluminio (introduzione critica di Mario Santagostini, 2008), Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», 2008), Uno stupore quieto (prefazione di Maurizio Cucchi, La collana, Stampa, 2012; menzione speciale al premio Internazionale di Letteratura Città di Como), Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con disegni di Mattia Caruso, 2015). Ha curato l’edizione critica del poema Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo di Gabriele Rossetti (Carabba, collana “I Classici”, 2012), e la traduzione del De cura rei familiaris di Bernardo di Chiaravalle (Società Editrice Dante Alighieri, 2012). Firma la rubrica Sguardi sulla rivista «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», di cui è redattore.

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Sabino Caronia POESIE SCELTE  La ferita del possibile (Rubbettino, 2016) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – La metafisica della presenza, il diario di una assenza – La novecentizzazione dello stile

Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi: L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000); ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo  (Edizioni Associate, 1995). Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000). Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore, 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio EdiLet, 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia, 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura, 2013). Del 2016 è La ferita del possibile (Rubbettino).

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Originariamente, il titolo di questa raccolta doveva essere Diario di una assenza, dove il centro semantico della significazione era l’«assenza» e il «diario» indicava semplicemente la scansione temporale delle occasioni perdute. In un secondo tempo, Sabino Caronia optò per il titolo definitivo, La ferita del possibile,  dove il carico semantico principale viene a trovarsi sulla parola chiave: «la ferita», e il carico secondario sulla parola seguente: «del possibile». Dunque, il «diario» come narrazione temporalmente scandita delle «ferite». Una ontologia del «cuore», filtrata dalla coscienza letteraria dell’autore, e quindi una ontologia estetica altamente stilizzata, quasi a correzione e integrazione della significazione secondaria.

Dopo Derrida sappiamo che la «metafisica della presenza» richiama le nozioni di «presenza» e di «presente» e, al contempo, quella di «assenza» e di «assente», tutti concetti fondamentali della metafisica correlati a quello di «fondamento», che sarebbe crollato con il venir meno delle categorie di «originario» e di «sostanza». Oggi un poeta che voglia poetare sull’assenza con lo stile del Novecento non può fare altro che novecentizzare lo stile. Qui c’è, in nuce, tutta l’operazione di Sabino Caronia, una operazione che vuole ricucire gli strappi che il Novecento ha apportato allo stile del Novecento, con quell’endecasillabo sinuoso con gli accenti tonici al loro giusto posto, le pause al loro giusto posto, con l’endecasillabo ristabilito al centro della scena della forma-poesia.

Per Derrida, «Scrivere significa ritirarsi. Ma non nella tenda per scrivere, ma dalla scrittura stessa. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparlo o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola. Essere poeta significa saper lasciare la parola. Lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto […] Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

Scrive Nietzsche: «Noi lo abbiamo ucciso – voi e io!.. Chi ci ha dato la spugna per cancellare l’intero orizzonte?… Dove ci muoviamo? Non cadiamo forse continuamente?… Indietro, e di lato, e in avanti – da tutte le parti?».

Incredibile a dirsi, l’«assenza» nel nostro mondo post-contemporaneo si è indebolita, non sappiamo più che cosa sia «assenza» e cosa sia «presenza», entrambe ruzzolano e rotolano da tempo come la famosa nietzschiana “X” che va verso la periferia dello spirito, un rotolare senza fine con una serie di cadute senza fine: in avanti, indietro, di lato, a destra e a sinistra, una caduta non più verticale ma »orizzontale» come scrisse Tadeusz Rozewicz in una sua famosa poesia degli anni Sessanta. Non più il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo del libro di Tommaso Moro (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale, Utopia, ma un viaggio nel non-luogo della «assenza» che non ha più senso dire che sia esistente o immaginario. Ambiguità di un non-luogo debole in via di un indebolimento senza fine. È questo il senso del viaggio nella «ferita del possibile» di Sabino Caronia. Rigorosamente parlando, il viaggio in un non-luogo è, appunto, un non-viaggio, al culmine del quale affiora la certezza: «Dio non c’è», che, per un autore di formazione cattolica, è il massimo del disvelamento e dell’angoscia.

Dio non c’è, me lo dice il suo silenzio,
l’infinita speranza e l’infinita
disperazione che mi porto dentro,
inchiodato alla tua piccola croce.

(Pitture di Mario M. Gabriele)

Le citazioni, implicite ed esplicite, di cui sono costellate queste poesie, sono il modo con il quale Caronia novecentizza con lo stile ciò che il Novecento ha cancellato e rimosso, un modo come un altro per rimarcare l’«assenza» di cui la citazione e il frammento sono la chiave con il loro codice genetico e il loro corredo di significati e di significanti nobili ma irrimediabilmente decaduti e defraudati.
Mi piace ricordare che questo libro esce a cento anni di distanza da un altro libro fondamentale per la poesia italiana, Il porto sepolto di Ungaretti, edito nel 1916. Durante questi cento anni del «secolo breve» sono intervenute tre guerre mondiali: la prima, la seconda, la guerra fredda, ed adesso ci troviamo in mezzo alla quarta guerra fatta «a pezzi», per usare una frase di papa Francesco, in altri continenti, per committenti invisibili e distruzioni invisibili. Molto probabilmente, con la fine del Novecento è finita anche la letteratura, sostituita con l’intrattenimento mediatico e il narcisismo di massa, con prodotti di secondarietà, filmografie e scenografie, cose già viste, già udite. Ciò che resta, sono i rottami, i frammenti e i relitti stilistici di una antica tradizione che si è dissolta. Sabino Caronia ci canta un «canzoniere», sommessamente, con una punta di rastremata nostalgia e di malinconia, appunto, questa fine che non vuole finire, il lungo addio del «secolo breve».

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Sabino Caronia La ferita del possibile (2016)

C’è chi su questa nera terra dice
che la cosa più bella sia una torma
di cavalieri ed altri invece dice
sia una flotta o un esercito schierato.
Questo è quello che dice tanta gente,
ma io dico invece sia l’amato bene

.
Io per te sono vivo

Io per te sono vivo e di te sola
scapigliata poesia soltanto vivo.
Tu dai luce alla notte e con il fuoco
del tuo cerino accendi la mia fiamma.
Tu dai voce al silenzio e, se tacessi,
sento che griderebbero le pietre.

Come un fiume

D’altro no, non ho voglia che d’amare
e te, te sola, basti a questo cuore,
nient’altro cerco, nessun altro amore,
a una valle un sol fiume può bastare.
Tu sei fatta per me della misura
della mia solitudine infinita,
altra cosa non chiedo dalla vita
ch’avere in te la mia tana sicura.
Con te fuggire voglio il mondo intero
vivendo insieme d’un solo pensiero
e non vedere con gli occhi del cuore
che quel che di te spero ogni minuto
e d’un tempo a tua immagine vissuto
sempre al riparo di ciascun dolore.

Occhi chiari

Sei tu la sola che dai dubbi amari
puoi salvarmi e dal buio che m’inghiotte,
son quegli occhi tuoi grandi così chiari
che a te vicino non si fa mai notte.
Se il tuo sguardo mi fosse luce amica,
stella cometa che mostra la via,
svanirebbe ogni mia paura antica
e il buio mi farebbe compagnia.

Diario di un’assenza

È il vuoto che tu lasci la mia vita.
No, non manca la sedia, ma il tuo posto,
e più manca la voce e più il silenzio
dell’averti qui accanto, di quei grandi
occhi perduti lontano nel tempo.
Anche la chiara luce della luna
solitaria di te nel buio splende.
Tutto intorno è il diario di un’assenza.

.
Un no di lei

Un no di lei lo preferisco ai mille
e mille sì di tutte le altre donne
e le sue impertinenze amo e il suo sguardo,
freddo come il più freddo degli inverni,
ed amo l’odio che mi porta ed amo
pure, con esso, il male che mi fa.

 

(Sabino Caronia)

In ogni voce

Mi basterebbe solo un tuo sorriso,
incontrare il tuo sguardo, anche per poco,
poterti dire, ahimè, quanto somiglia
al gelo della morte la tua assenza.
Se tu mi manchi, sai, tutto mi manca,
ogni umana, celeste compagnia,
e in ogni voce invano la tua voce
cerco, perduta, come stella in cielo.

.
L’azzurro

Chiedi perché la bella età si celi
o nei tempi futuri o nei passati,
chiedi qual cara illusione ornati
l’abbia coi suoi cristallini veli,
per qual virtù sian di zaffiro i cieli
e in dolci lapislazzuli stemprati
i monti e, in pura calma addormentati,
sian mari e laghi a quel color fedeli.
Così chiedi e una voce in te sussurra:
“Non l’orizzonte è azzurro ed i profili
familiari dei monti e non è azzurra
la gioventù, l’amore o la speranza,
la pargoletta gioia o i puerili
sogni del cuore: azzurra è la distanza”.

.
La promessa

Ho promesso alla rosa che tenevi
come un piccolo cuore tra le dita
quella sera che andando sorridevi
da un altro tempo a me, da un’altra vita,
di rinascere al giorno e di fiorire
a nuova luce, a nuova primavera,
ma questa notte non vuole finire,
il buio cresce e l’anima dispera.

.
Il distratto

.

Lo so, c’erano nuvole stamani,
ma in su non ho guardato. Tutto il giorno
non ho visto che facce e pietre e tronchi,
e le porte per dove, avanti e indietro,
andavano le facce, senza posa.
Guardavo da vicino, non alzavo
gli occhi da terra. Ora s’è fatto buio
e le nuvole, no, non le ho vedute.
Che domani ci pensi. L’altro giorno
guardavo lassù in alto e una ragazza,
di là dalla ringhiera d’un terrazzo,
con la testa lavata e sulle spalle
solo un asciugamano, si passava
uno, due, venti volte tra i capelli
il pettine. Le braccia erano rami,
agili e forti, d’un albero grande.
Saran state le quattro, e c’era vento.

.
Tu dichiarami amore

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Tu dichiarami amore e non spiegarmi
quello che a noi non è dato spiegare.
In questa breve, orribile esistenza
solo compagno ci sarà il pensiero?
E mai nessuno poi che ci rimpianga,
che senta, quando sia, la nostra assenza?
No, non spiegarmi nulla, non occorre,
tu dichiarami, amore, solo amore.
La salamandra sfida tutti i fuochi
e mai non prova paura o dolore.

.
La piccola croce

Dio non c’è, me lo dice il suo silenzio,
l’infinita speranza e l’infinita
disperazione che mi porto dentro,
inchiodato alla tua piccola croce.
Tutto passa e dilegua, ogni apparente
grandezza passa e passa ogni fortuna,
fuori o ben dentro l’occhio di una qualche
lungimiranza silenziosa.– Quale?-
– grido, suor Kafka – Quale?- Il tuo martirio
forse è una strada aperta anche al più fiero
degli aguzzini e a me, che qui ti prego,
aggrappato alla tua piccola croce.

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Questo amore

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Questo mio amore è un bambino malato
che a letto, tutta notte, sconsolato,
vaneggia tra le mani della sorte,
e al bordo di quel letto c’è la morte.

 

(Sabino Caronia e Paolo di Paolo)

Fiore di luce

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Fresco fiore di luce in un giardino
di tenebra la prima stella appare
e rischiara la notte nel cammino
come fosse una barca in mezzo al mare.

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La porta del cuore

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Per te ho socchiuso la porta del cuore,
che se volevi ci potevi entrare,
per te ho pianto e gridato di dolore,
ma tu purtroppo avevi altro da fare.

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Di là dalla speranza

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No, non scusare me, scusa il mio amore
che per cielo e per terra ti ha cercato,
inquieto, infaticabile, ostinato,
di là dalla speranza e dal dolore.

.

A distanza

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A distanza, dai luoghi che traversa
l’ansia d’averti, come sai, ti chiamo
ed una gioia sento in me diversa
a cui mi arrendo come pesce all’amo.
Tutta la vita in fondo è cosa persa,
l’inganno di un inutile richiamo,
la filastrocca bella e un po’ perversa
che ci seduce con il suo “ti amo”.
Pure resta un ricordo, l’usignolo
che cantava nel bosco tutto solo
e l’ombra che scendeva nella sera
dalle tue ciglia, muta ombra severa,
e gli angoli incurvava della bella
bocca altera e distante come stella.

.
Paesaggio

.

L’eternità nel tempo e il provvisorio
profumo della morta ora lontana
riconosco nel sasso di giarrana,
nel fiore teso come un ostensorio.
Forse nel solitario orto conchiuso
è la meta del viaggio che ho smarrita
quando cercai nel mondo e fui deluso
di trovare la morte nella vita.
Qui, dove poco indugia il giardiniere,
il desiderio in me sento fiorire
come fiore che cresce sullo stelo
e sono l’uomo che volle guarire,
sfidando anche la collera del cielo
ed ora è santo, ed era cavaliere.

 

.

Villa d’Este

Cipressi, malinconici cipressi
di Villa d’Este, vi rivedo ancora,
sempre uguali per me, sempre gli stessi,
foschi, diritti e muti come allora.
Ecco che il sole filtra fra gli spessi
rami e una strana luce li colora
di paradisi non a noi concessi
che il cuore incanta e l’anima innamora.
E tu ritorni, come fosse ieri,
tutta assorta nei tuoi freschi pensieri,
e, come ieri, ti rivedo ancora
passare, così in cielo azzurra stella
immutabile passa ed incompresa,
alta, lassù, di viva luce accesa.

.
La nave di cristallo

Vorrei partire ed andare lontano
con te, sulla tua nave di cristallo,
verso l’isola bella delle fiabe
dove mai non s’invecchia e non si muore
e dove solamente si è fedeli
alle luci lontane e alle canzoni.

.
In nessun luogo

Quando nessuna parola più giova,
in nessun luogo, da nessuna parte,
e più non c’è speranza, e non c’è amore,
sfondiamo il grigio muro che separa
il nostro breve sogno dalla vita
e andiamo avanti verso l’assoluto.

.
La stanza

Altra cosa non chiedo dalla vita
che una stanza per me dentro al tuo cuore,
piccola, niente lusso, ma pulita,
poco spazio mi basta e poco amore.
Un oceano di stanze interminato
è l’immenso palazzo del tuo cuore,
non lasciarmi di fuori col passato,
non chiudere la porta al mio dolore.

.
La passeggiata

Anima mia leggera,
va’ a Parigi, ti prego,
e con la tua candela,
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se mai Dina per caso
è ancor viva tra i vivi.
Deluso in questo giorno
da Parigi io ritorno.
Ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai, sottile,
e la spilla, gentile,
che sul petto brillava
e un poco s’appannava.
Anima mia, sii brava
e va’ in cerca di lei.
Tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada.

.
Il sole del mattino

Quella camera sì che la ricordo!
A sinistra la porta e il mobiletto
marrone, di buon legno, coi cassetti,
di fronte il bianco armadio con lo specchio
e l’altro mobiletto, pure bianco,
poi, lì, a destra, di lato, la finestra
e giù, di fuori, il bel lampione nero
sul marciapiede, tra gli alberi spogli.
Al centro della stanza c’era il letto,
il grande letto colore del cuore.
Poveri oggetti, ci saranno ancora?
Al centro della stanza c’era il letto
e lo lambiva il sole del mattino.
Quel mattino, le sette: quel saluto
come per pochi giorni. Ahimè, quei giorni,
quei giorni, ormai, son divenuti eterni.

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LA POESIA di PABLO PICASSO E LA QUESTIONE DELLA METAFORA nell’interpretazione di Valerio Gaio Pedini con una scelta di poesie di Pablo Picasso

picasso donna seduta

picasso donna seduta

 Rileggendo  le poesie di Pablo Picasso ho fatto mentalmente una panoramica della poesia italiana del ‘900 e mi sono reso conto di una vistosa lacuna stilistica. Soprattutto nel secondo Novecento è mancata la capacità di utilizzare le qualità comunicative della metafora, anzi, quest’ultima è stata indicata come un corpo estraneo da estirpare dalla poesia, come un orpello, trattata alla stregua di un abbellimento lessicale, un retorismo da evitare a tutti i costi. Ritengo questo fatto un errore grave che ha inciso sulla poesia italiana privandola di un elemento insostituibile del linguaggio poetico. Pregiudizio grave che sarà gravido di conseguenze negative sul piano stilistico per la poesia italiana.

Picasso, da pittore, non ha pregiudizi verso l’immagine, anzi, lui vede il linguaggio poetico come una funzione dell’immagine. Per il pittore spagnolo la metafora è ragguagliata alla immagine, ed entrambe sono impiegate come «fotogrammi» degli «oggetti», alla stregua di una macchina da presa che inquadra gli oggetti e li duplica nel fotogramma; la poesia è vista da Picasso come uno scorrimento di fotogrammi nel montaggio. È una procedura poetica che mette al centro la rappresentazione, la sovrapposizione, il montaggio delle immagini.

La responsabilità maggiore di questa incapacità della cultura poetica italiana ad intendere la funzione e la natura della «immagine» e della metafora è da rinvenire, a mio avviso, nella egemonia che la poesia del Pascoli ha esercitato sulla poesia italiana del primo e secondo Novecento, nel Gruppo 63, nello sperimentalismo di Zanzotto e nella  poesia della linea lombarda. La poesia italiana si avvierà in una via poetica epigonica di matrice lineare-fonetica di derivazione dalla poesia pascoliana. Privata della metafora e dell’immagine che, notoriamente, si sottraggono o mal si adattano ad un pentagramma sonoro di matrice lineare e unidirezionale, la poesia italiana del secondo Novecento si avvierà su un pedale basso lessicale e stilistico che finirà per appiattirla su un piano esclusivamente «comunicativo». La ricerca della «comunicabilità» a tutti i costi renderà un pessimo servizio alla poesia italiana del secondo Novecento. Nemmeno con il primo emetismo si viene a capo di questa vistosa omissione; una poesia come quella di Ungaretti è intuitivo-epifanica ma non riesce a creare una metafora dell’immagine. E tuttora il vuoto è vistoso. Questo vuoto della metafora e dell’immagine ci pone degli interrogativi. Mi chiedo se la poesia italiana sia in grado di formulare una diagnosi critica di questo quadro «patologico». Per il momento, la risposta non può che essere negativa. La più totale omissione è sotto i nostri occhi. E la poesia italiana, a parte eccezioni di pregio che pur ci sono, conserverà una matrice  fonosimbolica unilineare .

Comunque, tornando a Picasso, bisogna dire che la sua poesia è incentrata sul principio del contrasto. Cito Picasso, “l’arte deve trovare, non cercare”, e se l’arte non trova allora vuol dire che la ricerca è fallita. Leggiamo una poesia di Pablo Picasso:

IL CIGNO

Il cigno sul lago a modo suo fa lo scorpione

 Che sorpresa. Solo un verso, un piccolo verso, un miserrimo verso, eppure che immagine, che parallelismo e, come dire, che trovata! Lo si vede il cigno nel lago con il collo inarcato, che si  riflette nell’acqua e appare come uno scorpione pronto a pungere la preda, ad attaccarla e farla soccombere. In questo modo l’aspetto paradisiaco del cigno diventa un’immagine di una incredibile virulenza estetica. E qui si trova una esemplificazione del principio del contrasto nella sua essenza. Eppure non ci sono ribaltamenti bruschi, c’è soltanto un’immagine fotografica.

Picasso  era pittore anche nella poesia, fa pittura in poesia. Ecco, se dovessi indicare una debolezza della poesia italiana del secondo Novecento, direi che essa non ha saputo fare poesia mediante la pittura. Non ha imparato nulla dalla pittura del secondo Novecento. Non ha imparato nulla dalle scoperte della fisica dei quanti. Nel secondo Novecento è sì operato esclusivamente su una piattaforma descrittiva e narrativa sostanzialmente quantitativa, ma è restato fuori dell’interesse della poesia italiana il problema della metafora e dell’immagine.

La poesia di Picasso invece è un esempio vistoso di una poesia che fa perno sulle stratificazioni architettoniche delle immagini. Arriva per una sua via tutta particolare, allo «sguardo sincipitale» teorizzato da Osip Mandel’stam. Una sorta di caleidoscopio in miniatura, un brillante gioco di illusionismi. La poesia di Picasso è ricca di decostruzioni. Osserviamo:

OFELIA

Ofelia cade in un bicchier d’acqua e annega

 

Picasso Jacqueline Roque

Picasso Jacqueline Roque

Gnomismo del paradosso. Picasso utilizza uno gnomismo tipico e lo smonta, e lo rimonta a suo piacimento, tratta le immagini come dei meccani, tratta l’assurdo come normalità. Ma non vi è nulla di assurdo, poiché l’annegamento di Ofelia è trattata come un dato realistico. Oppure:

IL PARTO

La donna che partorisce grida come i vetrai

 Si procede su parallelismi apparentemente sconnessi: cigno-scorpione e via discorrendo, fino ad arrivare a questa che è l’apice della poesia di Picasso. Cosa significa? Che corrispondenza vi è tra una donna che partorisce ed un vetraio? Ce lo dice Picasso: l’urlo. Sì, ma cosa significa? Penso alla rottura delle acque e della forma originaria del vetro. Eppure no, è lo sforzo genetico, lo sforzo della creazione. E allora lì si vede la madre e il vetraio paonazzi che si sforzano di dare origine, di dare vita: compiere un’opera. Questa è una metafora visiva che ci collega subito all’anima dell’arte poetica.

In Italia non avviene nulla di così forte. Ungaretti s’illumina d’immenso ma manca della metafora visiva! E una poesia senza metafora visiva rischia di essere scipita, piatta. L’ermetismo fa una poesia contestualizzata, chiusa dentro i propri asfittici confini stilistici, non riesce a cogliere l’importanza di una metafora visiva (e sonora). Picasso, di origine genovese, è l’unico poeta-pittore ad aver elaborato una poesia delle immagini. Una poesia deve contenere uno sguardo che osserva un oggetto, e l’oggetto viene trasposto e decontestualizzato dagli altri oggetti. Come disse Picasso: “l’artista è anzitutto un uomo politico del suo tempo”.

La poesia italiana del Novecento (compresi il futurismo e il crepuscolarismo), farà deliberatamente a meno della metafora. Ma è nel secondo Novecento che i risultati estetici di questa lacuna saranno visibili: la poesia italiana risulterà canonica, istituzionale, volontaristica, lessicalmente impoverita. Alcuni poeti isolati tenteranno uno sviluppo della metafora visiva, penso a Dino Campana e ai suoi Canti orfici (1914), ma si tratterà di casi isolati. Oggi il mio riferimento va alla poesia di un Antonio Sagredo, questa sì, «inclassificabile» secondo gli schemi di una poesia undirezionale lineare; penso alla poesia del «frammento simbolico» di Giorgio Linguaglossa, alla poesia «rallentata» di Steven Grieco-Rathgeb, alla poesia di «citazioni» e di «frammenti» di Mario M. Gabriele, ma anche alla poesia di Francesca Diano, a quella di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi etc. In questi poeti del tardo Novecento e di questi anni, la metafora visiva non è solo un atto di resistenza alla visione cloroformizzata, normalizzata, ma anche e soprattutto una «nuova visione» degli «oggetti» e del «mondo».

A mio avviso, solo con l’idiosincrasia verso la visione cloroformizzata degli oggetti e con la belligeranza stilistica si potrà fare una poesia esteticamente non educata.

 (Valerio Gaio Pedini)

picasso Sogno

picasso Sogno

(Poesie tratte da Scritti di Pablo Picasso, a cura di Mario de Micheli, SE)

IL MIRACOLO

Il miracolo che il torero frigge
nella piazza del peperone
la precisione del volo attraverso la nuvola
che il cristallo infrange
con la sua cappa.

ESTATE

Passa l’estate
fetta di melone che la cicala accende
e trascina nella sua ferita
la cappa dell’espada.

Il VESTITO DEL TORERO

Al torero
con l’ago più sottile che la nebbia inventò
cuce un vestito di lampade
il toro.

IL TABACCO

Il tabacco avvolto nel sudario
vicino a due banderille rosa
spira i suoi disegni modernisti
sul cadavere del cavallo
e al fuoco del suo occhio
scrive sulla cenere
l’ultima sua volontà.

picasso quote

LA PERSIANA

La persiana sbattuta dal vento
uccide i cardellini in volo
i colpi macchiano di sangue
la spalla della stanza
ascolta passare il candore
la morte porta in bocca aroma d’armonium
e la sua ala tira la corda del pozzo.

I CARDELLINI

I cardellini sono l’aroma
battente con la sua ala il caffè
che riflette la persiana nel fondo del pozzo
e ascolta l’aria passare
nel silenzio della candida tazza.

L’AROMA

L’aroma ascolta passare i riflessi
che il cardellino sbatte giù nel pozzo
e offusca nel silenzio del caffè
il candore dell’ala.

LA FANCIULLA

Fanciulla
bel falegname che inchiodi le assi
con le spine delle rose
non piangere una sola lacrima
se vedi sanguinare il legno.

Picasso quote 1

PREPARATIVI

Lo facciano pure dove vogliono il loro festino i topi
purché non mangino il piccione nel nido
purché non mettano bandiera e lampioncini nelle piaghe
purché il mattino dopo non sia tutto un pianto
quello che si deve fare
è sguinzagliare i cani perché li uccidano
e al punto in cui siamo comprare mobili
non fa niente se l’allegria non nasce
nello stesso momento
in cui s’avvolgono nacchere in risate
e colori di festa in motivi di chitarra
quello che si deve fare
è coronarsi di rose ed esser felici
di vedere le cose laide belle così come sono
e gettar loro la cappa e vestirle di complimenti
e portare la tavola già imbandita di fiori
e cantare e gridare che arriva
e preparare il letto che tra le lenzuola
nasconde l’arcobaleno.

*

lingua di fuoco sventaglia il suo viso nel flauto la coppa
che cantando corrode la pugnalata dell’azzurro
così grazioso
che seduto in un occhio del foro
iscritto nel suo capo adorno di gelsomini
aspetta che gonfi le vele il pezzo di cristallo
che ammantellato nel fendente a due mani
gocciolando carezze
divide il pane fra il cieco e la colomba color lilla
e assale con tutta la sua cattiveria le labbra del limone in fiamme
il corno contorto
che spaventa coi suoi gesti di addio la cattedrale
che sviene fra le sue braccia senza un olé.
mentre scoppia nel suo sguardo la radio di prima mattina
che fotografando nel bacio una cimice di sole
si mangia l’odore dell’ora che cade
e trapassa la pagina che vola
distrugge il rametto che porta infilato nell’ala che sospira
e la paura che sorride
il coltello che salta dalla gioia
lasciando ondeggiare ancora oggi come vuole e in qualsiasi modo
al momento esatto e opportuno
sull’orlo del pozzo
il grido della rosa
che gli getta la mano
come un’elemosina.

(28 novembre 1935)

Valerio Gaio Pedini

Valerio Gaio Pedini

Valerio Pedini nasce il 16 giugno del 1995, di otto mesi, e viene tempestivamente scambiato nella culla: il misfatto viene subito scoperto. Esattamente 18 anni dopo, Valerio, divenuto Gaio, senza onorificenze, decide di organizzare il suo primo evento culturale ad Artiamo (gastrite e l’epilessia e quasi nessuno ad ascoltare); nell’intermezzo ha iniziato a recitare, preferendo l’espressività del teatro di ricerca rispetto al metodismo popolare e a scrivere, uscendo, in collaborazione col circolo narrativo AVAS – Gaggiano, nelle antologie Tornate a casa se poteteRigagnoli di consapevolezza e Ma tu da dove vieni?. Nell’ottobre del 2013 inizia il progetto Non uno di meno Lampedusa, insieme ad Agnese Coppola, Rossana Bacchella, Savina Speranza e ad Aurelia Mutti. A dicembre conosce Teresa Petrarca, in arte Teresa TP Plath, con cui inizia diversi progetti artistici: La formica e la cicalaEssence e Pan in blues e in jazz. Sta lavorando ad una monografia filosofica: Maggiorminore: la disperazione dei diversi uguali. A Maggio 2014 è uscita la sua prima raccolta poetica, con IrdaEdizioni: Cavolo, non è haiku ed è stato inserito nell’antologia Fondamenta Instabili (deComporre Edizioni) e, successivamente, sempre con deComporre Edizioni, uscirà nelle antologie Forme LiquideScenari ignoti e Glocalizzati.

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Alfonso Berardinelli, La Poesia del tardo Mario Luzi, c’è da chiedersi che cos’è l’essenza, che cosa si deve intendere con questa parola. C’è l’essenzialità di Ungaretti, ma c’è anche quella di Montale. E Saba è poco essenziale? E Giovanni Giudici?

alfonso_berardinelli

alfonso berardinelli

(da Il Foglio 23 gennaio 2014) Si commemorano quest’anno i cento anni dalla nascita di Mario Luzi, morto nel 2005. E’ stato il più precoce, dotato, produttivo e colto dei poeti ermetici che ebbero come maestri Ungaretti, Campana, Mallarmé, Novalis. Negli ultimi tre decenni della sua vita e soprattutto, mi sembra, da quando cominciò ad aspettarsi il premio Nobel (che invece fu assegnato a Dario Fo) Luzi diventò ancora più prolifico, si investì del ruolo di “grande poeta”. Dopo il suo libro migliore, “Nel magma”, uscito nel 1963, la “verticalità” del suo stile e il suo esistenzialismo spiritualistico lo hanno spinto sempre più verso un poeticismo quasi involontariamente enfatico, dilatato, cosmologico, che aveva origine nella sua formazione tardosimbolista.

Leggendo l’articolo che domenica scorsa Carlo Ossola ha dedicato a Luzi sottolineandone il carattere di poeta morale e civile, mi sono venute in mente le mie precedenti impressioni. Se si escludono alcune zone della sua opera, Luzi tende a pensare troppo in grande, in generale e al cospetto dell’assoluto per essere un poeta propriamente morale e civile. Il fatto che come uomo e cittadino abbia sofferto per la situazione italiana, non significa che fosse capace di esprimere in poesia questa sofferenza, come hanno saputo fare, con un linguaggio più sobrio, i suoi coetanei Vittorio Sereni e Giorgio Caproni. Basterebbero le citazioni fatte da Ossola per capire che la sensibilità di Luzi si perde, o meglio vuole ingrandirsi e sublimarsi, in una nebbia di entità indeterminate, in un labirinto di allusioni e metafore che risultano nobilmente retoriche. Parla di “forza interiore” necessaria all’uomo, dice che “il volto della verità è stato offeso: per errore per ignoranza per inerzia per viltà” (la mancanza di virgole, più che esprimere un crescendo di esasperazione, aggiunge enfasi e toglie concretezza). Parla di “una vita formale, eterna” (su vita, forma ed eternità si potrebbe, o dovrebbe, costruire un’intera filosofia, mentre qui si capisce appena l’accostamento). Esorta i lettori e l’umanità intera: “Trasformatevi dolorosamente / nella vostra incipiente divinità” (suggestiva allusione a un’etica teologica da precisare).

mario luzi

A sua volta Ossola aggiunge astrazione ad astrazione dicendo che Luzi “come tutti i grandi poeti del Novecento ha mirato all’essenza”. Ora c’è da chiedersi che cos’è l’essenza, che cosa si deve intendere con questa parola. C’è l’essenzialità di Ungaretti, ma c’è anche quella di Montale. E Saba è poco essenziale? E Giovanni Giudici (che Ossola ha studiato) con i suoi versi umili e quotidiani, cattolici e comunisti, ha mirato o no all’essenza? Ha raggiunto il bersaglio? In letteratura e in particolare in poesia, quella dell’essenzialità è forse (con quella di realtà) una delle nozioni più sfuggenti e controverse. Ogni stile ha la sua idea di ciò che è essenziale. Ogni stile ha la sua fisica e metafisica più o meno implicite.

Mi sembra che Luzi, forse immaginando di essere sulle orme di Montale, abbia preso invece tutt’altra strada, si sia sollevato in volo verso l’inconoscibile e abbia perso, in tutti i suoi ultimi libri, che non sono pochi, la distinzione tra fisico e metafisico, tra l’esperibile e il sovrasensibile. Ungaretti (su cui Ossola ha scritto un libro) è il poeta più “essenziale” del Novecento, eppure le sue poesie di guerra (le migliori) sono sommamente circostanziate: di ogni testo si precisa il luogo e la data di composizione. Poi, con il suo secondo libro, ha inventato l’ermetismo perché non sapeva più con precisione che cosa dire.

Ed ecco i versi di Luzi che dovrebbero toccare l’essenza, mentre si limitano a nominarla: “Le nazioni non meno dei singoli / disimparano l’amore della sostanza, dimenticano / quel giro stretto di vita e volontà / che ne molò i lineamenti, ne definì l’essenza”. Mi sembra che non poca poesia poeticizzante e poeticamente nulla scritta da diversi autori più giovani, sia dovuta all’influenza di questo Luzi che vola verso l’assoluto e nomina categorie morali senza mostrare situazioni morali: che vede la vita e il mondo come “putiferio della mortalità” e il potere politico come “eterna satrapia”. Siamo nel solenne e nel vago, mi pare.

Molto meglio un articolo che Luzi pubblicò sul Messaggero il 7 gennaio 1991 e che Piergiorgio Bellocchio scelse subito per ripubblicarlo sulla nostra rivista “Diario, numero 9”. Qui Luzi parla come uomo e cittadino e non si preoccupa di fare il poeta: “Sto studiando se e come sia possibile ancora associare la condizione di italiano e quella di persona civile. Con tutti gli sforzi della buona volontà non ci riesco. Per troppo tempo la carità patria mi ha fatto velo ed ho lasciato, come altri, che lo facesse. Ma, evidentemente, non si può andare oltre un certo limite; poi l’indulgenza si trasforma prima in indignazione e rivolta, infine in sconforto e vergogna quando ci accorgiamo che, non arginata da nessuna decente e rispettata statualità, la disgregazione sociale è divenuta barbarie (…). Non ci sono solo i Sindona, i Gelli e tutta una generazione di politici che sembra avviata a una tremenda catastrofe a testimoniare lo sfracello italiano; ci sono anche i subalterni che alla loro ombra hanno trafficato, corrotto, commesso arbitrii e soprusi; e ci siamo noi che siamo riusciti a sopravvivere in questo marasma come pesci nell’acqua sporca (…). Non solo, ma ne abbiamo più o meno consapevolmente assimilato il criterio, quasi a confermare l’idea di Machiavelli che in uno stato inefficiente la naturale perfidia umana dilaga”.

Sembra proprio che la riflessione morale e un vero, non retorico moralismo abbiano bisogno di un po’ di prosa. Il più bel libro di Luzi, “Nel magma”, era un libro di situazioni, il più prosastico con i suoi lunghi versi metricamente poco definibili. E’ a quel punto che Luzi aveva trovato la giusta forma per “spingere più oltre (…) la captazione del reale e l’identità di prosa e poesia – nell’unicum della lingua”, come scrisse in una lettera a Sereni del 12 maggio 1963. Il poeta ermetico era diventato (come succederà anche a Montale con “Satura”, nel 1971) un poeta che cerca la sua epigrafe più adatta in una satira di Orazio: “… nisi quod pede certo / differt sermoni, sermo merus: se non fosse per la misura dei versi, questa non sarebbe altro che prosa”.

Dopo quel libro Luzi ha invertito la sua direzione di marcia, è tornato a quella che Orazio nella stessa satira (la quarta del primo libro) chiama “ispirazione geniale e divina” e “voce capace di toni sublimi”. Quando ha cercato di far fruttare la sua cultura ermetica giovanile dilatandola in un’epica spirituale della vita divina, quando ha voluto accendersi di un sacro fuoco, quando in epigrafe ha cominciato a mettere san Giovanni, Dionigi Areopagita e i Veda (quando ha cominciato a pensare al Nobel, se volete) Luzi ha perso la misura di poeta morale e civile e si è smarrito in una retorica frenesia da veggente.

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