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Verso la pop-poesia, da La partenza degli Argonauti (2013) di Giorgio Linguaglossa a Storie di una pallottola di Gino Rago, passando per I platani sul Tevere diventano betulle (Progetto Cultura, 2020)

Gino Rago I platani sul Tevere

Spunti e osservazioni di Gino Rago

Peccato che il mio libro abbia visto la luce proprio al centro del tunnel delle nostre vite sospese… Volendo tracciare una sorta di scheda tecnica de I platani sul Tevere diventano betulle (Ed. Progetto Cultura, Roma, 2020) segnalerei che il mio recentissimo libro poetico consta di 5 Sezioni, in ciascuna delle quali affronto temi ben individuati, direi imprescindibili al modo ‘nuovo’ o se si vuole al modo “altro”di tentare di far poesia con lo sguardo teso verso nuovi paradigmi estetici e verso nuove basi ontologiche.

– Nella Sezione 1 mi confronto con il Vuoto, con il Tempo, con lo Spazio, con gli scampoli, con gli specchi, con gli stracci, con la plastica, con le piazze-agorà.

– Nella Sezione 2 stabilisco una sorta di dialogo a distanza con alcuni dei poeti-fiaccole sul mio nuovo cammino poetico (Tranströmer, Rózewicz, Herbert, Linguaglossa, Pessoa, Kristóf, Mandel’stam, Achmatova, De Palchi, Pecora, A.A.Alfieri, M. Gabriele, Seifert, L. M. Tosi, E. L. Manner, U. De Robertis, Brodskij…).

– Nella Sezione 3 mi confronto con il tema davvero arduo di Lilith, la prima compagna di Adamo…

– La Sezione 4 è tutta dedicata, in forma di epistolario, all’incontro con la poesia di Ewa Lipska.

Per Giorgio Linguaglossa, lo dice nel retro di copertina come meglio non si potrebbe: «Il risultato è uno stile da Commedia che impiega il piano medio alto e quello medio basso dei linguaggi, con gli addendi finali di continui attriti semantici e iconici, dissimmetrie, dissonanze, disformismi, disparallelismi… il principium individuationis è fornito dalla peritropè (capovolgimento) di un attante nell’altro, di una «situazione» in un’altra, di un luogo in un altro.
Una autentica novità per la poesia italiana».

– La Sezione 5 merita un’attenzione a parte, vi si affaccia il ‘metodo mitico’.

Nella Sezione 5 del mio libro affronto il tema incentrato sul Ciclo di Troia, sulla storia scritta dai vinti e non più dai vincitori. Pronuncio la mia parola sulla sorte delle donne quando sono ridotte a bottini di guerra.
Nelle liriche, l’orrore si focalizza nella prospettiva delle vittime,dei loro corpi umiliati, spogliati delle loro identità.

Ilio in fiamme dunque è da intendere come luogo archetipico del saccheggio, della distruzione, dei crimini di guerra, della deriva di una terra devastata e di un popolo calpestato.

Il destino dei vinti, né omerico, né euripideo, viene seguito nell’articolazione di una sorta di sfilata di tre figure femminili emblematiche:
Andromaca, Cassandra e soprattutto Ecuba, su cui incombe il trauma della partenza verso un altrove di schiavitù e miseria, nella certezza che nessun tribunale di guerra potrà mai riparare la catastrofe di queste in cui i fantasmi del mito «ripetono e insieme rappresentano le atroci esperienze di vite offese e di corpi violati», al di là dei confini dello spazio e del tempo, perché il mito antico è metodo per dare significato e forma alla caotica, altrimenti indicibile realtà del presente. Da qui, il «metodo mitico», nel poemetto espresso per “frammenti”.

Cinque Sezioni, diverse per temi e per lingua, che sono 5 libri poetici diversi ma che confluiscono in uno stesso volume poetico. Questo aspetto del mio libro è stato acutamente colto, interpretato ed espresso, come meglio non era possibile fare, da Giorgio Linguaglossa nella intensa nota critico-ermeneutica che appare come retro di copertina del libro:

«Nella poesia di Gino Rago è rinvenibile una magistrale sicurezza di andamento processuale, una autentica novità per la poesia italiana. Il segreto di questa procedura risiede nello stile gnomico-colloquiale: un mix di parlato e colloquialità nello stile di una missiva indirizzata ad un interlocutore reale o non-reale mixato con dei linguaggi da bugiardino, un mix di didascalie cliniche, di prodotti commerciali, quasi dei referti medici in stile gnomico, un compositum che utilizza un linguaggio giornalistico leggero che confligge con lo stile gnomico e aforistico. Il risultato è uno stile da Commedia che impiega il piano medio alto e quello medio basso dei linguaggi, con gli addendi finali di continui attriti semantici e iconici, dissimmetrie, dissonanze, disformismi, disparallelismi… il principium individuationis è fornito dalla peritropè (capovolgimento) di un attante nell’altro, di una «situazione» in un’altra, di un luogo in un altro.

Il libro è diviso in cinque Sezioni, ciascuna delle quali è composta con un movimento e una tonalità diverse dalle altre, ogni sezione è composta da una lessicalità individuale, e tutte insieme rimandano alla parentela relazionale del principio della concordia discordante, della oppositività di tutto con tutto. Nulla a che vedere con gli antiquati principi della ontologia novecentesca che puntava le sue fiches sulla roulette della ambiguità dei linguaggi e sul pluristilismo; qui non c’è convergenza di stili ma semmai c’è «divergenza», «difformità» tra varie morfologie di linguaggi disparati…
Qui siamo in un nuovo demanio concettuale del fare poesia».

Giorgio de Chirico, Il ritorno di Ulisse (1973)

Tornando alla Sez. 4 de I platani sul Tevere diventano betulle, devo confidare che l’adozione dell’epistolario non è un espediente direi “tecnico”, ma una scelta estetico-formale.

Ho adottato la forma della lettera nella mia conversazione immaginaria con Ewa Lipska da un lato, per arginare o scansare il rischio delle trappole, dei trabocchetti beceri e insidiosi che l’Io poetante è stato ed è sempre in grado di spargere sul percorso del poeta del ‘900 e del post ‘900; dall’altro, per l’apertura degli occhi che ho ricevuto da Andrea Emo e dalla lettura di alcuni brani delle sue riflessioni filosofiche proposte da Giorgio Linguaglossa su numerose pagine de L’ombra delle parole.

Andrea Emo scrive: «La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presente mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé.[…]».

Ho cercato subito di fare “mia” questa idea di Emo nel mio recentissimo fare poetico, sia nella Sez. 4 de I platani sul Tevere…, sia nei polittici successivi al libro e fino ad estenderla alle recentissime esperienze della pop-poesia (o della top-poesia, secondo il suggerimento di Milaure Colasson) in forma di Storie-di-una-pallottola).

Rinnovo i miei ringraziamenti a Giorgio Linguaglossa per i sentieri nuovi che ha saputo e sa indicarci per una poesia “altra” rispetto a quella novecentesca, oserei dire a partire da una composizione poetica congedata nei giorni lontani dell’anno 2013, e dintorni, che propose come “La partenza degli Argonauti*

*da Giorgio Linguaglossa, Dopo il Novecento – Monitoraggio della poesia italiana contemporanea , Società Editrice Fiorentina, 2013.

Una poesia che trova l’ispirazione nell’opera omonima di Giorgio De Chirico, del 1909, La partenza degli Argonauti e che ri-propongo in distici:

giorgio-de-chirico-La partenza degli argonauti

Giorgio De Chirico, La partenza degli argonauti, 1909

Giorgio Linguaglossa

La partenza degli Argonauti

«Ci sono degli uomini sulla spiaggia»
«Sì, ci sono degli uomini»

«Ma che ci fanno quegli uomini sulla spiaggia?
giocano a palla? giocano a tennis?»

«No, non giocano né a palla né a tennis»

«E allora, che ci fanno quegli uomini sulla spiaggia
accanto alla nave dalla snella chiglia?»

«Oh, non fanno nulla. Sono e non sono»

«E che ci fa quel tizio che li accompagna con la tunica bianca
mentre suona la lira?»

«Ma quel signore è il poeta Orfeo che suona la lira!»
«Canta anche il signor Orfeo mentre che suona?»

«Sì, il signor Orfeo canta anche»
«E che cosa dice il signor Orfeo nel suo canto?»

«Dice che gli uomini stanno partendo»
«Stanno partendo?»

«Sì».
«E per dove?»

«Chissà chi lo sa»
«E lui sa?»

«No, lui non lo sa, ma canta»
«Canta ciò che non sa?»

«Sì»

«Ma è un bugiardo il signor Orfeo
se non sa quel che dice… dovremmo mandarlo

in esilio il signor Orfeo, bandirlo per sempre
dalla città! non credi?»

«Oh no, non credo, il signor Orfeo ha soltanto un compito
che deve limitarsi ad eseguire. Tutto qui»

«E quegli uomini lo sanno che Orfeo è un mentitore?»
«No, gli uomini non lo sanno…

E non lo devono neanche sapere!»
«E adesso, è pronta la nave?»

«Sì, adesso è pronta»

giorgio-de-chirico_ritorno

Giorgio De Chirico, Ritorno di Ulisse 1968

Gino Rago

Ulisse in vestaglia

Ulisse è in vestaglia, spiccia tra le stoviglie
della reggia.
[…]
“Spio la vita dalle fenditure
a distanza neutra dagli eventi.

Estraneo a me stesso annuso il giorno
con le certezze d’un rabdomante

taglio il percorso della luce quando rimbalza
dalle bottiglie al cuore.”
[…]
“Chi davvero sei?”
[…]
“Sono in vestaglia,
navigo da libro a libro,

sbaglio i vettori della rosa dei venti,
sa, non sempre indovino la stella polare,

schivo a fatica scogli,
fingo naufragi,

mi invento qualche approdo di fortuna,
lo vedi anche tu…

L’Odissea?, è una grande bugia”

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Poesie di Gino Rago, Chiara Catapano, Mauro Pierno, Lorenzo Pompeo con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Scala con ombra

la poesia ha a che fare più con l’illusione e l’abbaglio piuttosto che con le categorie della certezza e della verità. L’illusione è lo specchio della verità, anzi, è la verità che si guarda allo specchio.

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Nelle poesie che seguono si tocca un vulnus problematico della «nuova ontologia estetica». I poeti presentati hanno abbandonato alle ortiche la moda delle parole che parlano dell’«io» e delle sue adiacenze e del «tu»; la poesia ricomincia daccapo, alla maniera di Lucrezio, dal De rerum natura, in Gino Rago, alla maniera della disconnessione sintattita e sintagmatica di Mauro Pierno. Riprende a tessere il filo del discorso poetico dall’origine, dal nulla, dal vuoto, dalla mancanza di senso.

L’essere, ed è questo l’enorme problema della metafisica, sfugge alla predicazione, non risponde al predicato, non rientra nel linguaggio nel quale sembra, tuttavia, in qualche modo, anche risiedere come all’interno di una dimensione illusoria (come un palazzo fatto di specchi che si riflettono l’un l’altro), nella quale l’io pensa di esserci; ma, allora questo è il luogo di un grande abbaglio se l’io della percezione immediata crede ingenuamente in ciò che vede e sente. Ed è appunto questo ciò che fa il linguaggio della poesia: far credere in quel grande abbaglio. Ma è, per l’appunto, un abbaglio, una illusione. Per questo la poesia ha a che fare più con l’illusione e l’abbaglio piuttosto che con le categorie della certezza e della verità che filosofi come Platone ed Eraclito non potevano accettare perché avrebbe messo in dubbio ciò su cui si edifica il mondo dell’edificabile, il mondo dei concreti e delle certezze, del nomos e del logos, parole altisonanti che all’orecchio della Musa invece suonano false e posticce. L’illusione è lo specchio della verità, anzi, è la verità che si guarda allo specchio.

L’io, per quanto manifesto, reperisce altrove il suo statuto ontologico: nella sua mancanza costitutiva, che lo costituisce come impalcatura del soggetto.
L’io mento, è la vera dimensione dell’io penso.

L’abbaglio, l’illusione, l’illusorietà delle illusioni, lo specchio, il riflesso dello specchio, il vuoto che si nasconde dentro lo specchio, il vuoto che sta fuori dello specchio, che è in noi e in tutte le cose, che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso, che dialoga con se stesso.
Il mondo dell’innominabile, delle petizioni cieche in quanto prive di parole che stanno nell’inconscio, una volta raggiunto il Realitätprinzip, e cioè la dimensione propriamente linguistica, ecco che indossa l’abito di parole. Ma non sono quelle le parole che la petizione chiedeva, sono altre che la petizione non aveva previsto, né avrebbe mai potuto immaginare.

La petizione panlinguistica propria delle poetiche del Novecento scivolava invariabilmente nell’ombelico autoreferenziale, in quanto diventata ipoteca panlinguistica. Il linguaggio poetico, in quanto potenza del rinvio, fame inappagata di senso per via della stessa logica differenziale che vedeva nel gioco dei rinvii la sua sola consistenza, si autonomizzava, si chiudeva su se stesso e diventava linguaggio che si ciba di linguaggio. Una dimensione auto fagocitatoria. Nella dimensione auto fagocitatoria scivola inevitabilmente ogni petizione panlinguistica.

Che lo si voglia o no, la poesia del novecento e del post-novecento, è stata colpita a morte dal virus del panlogismo, sconosciuto ad altre epoche e alla poesia di altre civiltà.
Nulla è più disdicevole dell’atteggiamento panlogistico proprio delle poetiche privatistiche e post-privatistiche che pretendono di commutare una ipoteca linguistica in petizione di poetica, in intermezzo ludico facoltativo.

C’è sempre qualcosa al di fuori del discorso poetico, qualcosa di irriducibile, che resiste alla irreggimentazione nel discorso poetico. Ecco, quello che resta fuori è l’essenziale.
L’unica sfera in cui si dà Senso è nel luogo dell’Altro, nell’ordine simbolico.
Allora, si può dire, lacanianamente, che «il simbolo uccide la “Cosa”».

Il problema della «Cosa» è che di essa non sappiamo nulla, ma almeno adesso sappiamo che c’è, e con essa c’è anche il «Vuoto» che incombe sulla “Cosa” risucchiandola nel non essere dell’essere. È questa la ragione che ci impedisce di poetare alla maniera del Petrarca e dei classici, perché adesso sappiamo che c’è la «Cosa», e con essa c’è il «Vuoto» che incombe minaccioso e tutto inghiotte.

È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica», solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta, solo una volta estrodotto il soggetto linguistico che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono, cartesianamente, Essere e Pensiero, quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito». Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica.

Nella poesia di Mauro Pierno c’è qualcosa, anzi, ci sono moltissimi oggetti «in venditori, in portaborse, fruttivendoli, operai, salumieri, dottori,/ artisti, direttori politici- lavoratori insomma,», ma in realtà c’è il vuoto, puoi toccare con mano la mancanza di senso come struttura significativa profonda del reale.

La poesia di Lorenzo Pompeo, in memoria del padre, è la più tradizionalmente classica, è una elegia priva di elegismo, fredda, distaccata, con alcune parole della antica patria metafisica (clessidra, il carillon, la musica), ma ci sono anche fraseologie stranianti (la mano del dentista), ci sono interrogazioni, il tutto in una orchestrazione sonora acromatica e asintomatica.

Foto man who wear hat

Il poeta ama la nascita imperfetta delle cose

Gino Rago

Il Vuoto non è il Nulla

Preferiva parlare a se stesso, temeva l’altrui sordità.
“L’intenzione dello Spirito Santo è come al cielo si vada,
non come vada il cielo”.
[…]
A Pisa tutti tremarono.
Il poeta ama la nascita imperfetta delle cose. Come fu.
In principio…
Il poeta lo sa.
È nei primissimi istanti dell’universo materiale.
Non c’è lo spazio, non c’è il Tempo,
non si può vedere nulla,
perché per vedere ci vogliono i fotoni,
ma in principio i fotoni non ci sono ancora.
Né si può ‘stare’, perché per stare ci vuole uno Spazio;
nessuno può ‘attendere’ (o ‘aspettare’),
perché per poter attendere o aspettare ci vuole un Tempo.
[…]
In principio, nei primissimi istanti… è solo il Vuoto.
Il Vuoto, soltanto che non è il Nulla.
È un Vuoto zeppo di cose.
È come il numero zero.
Lo zero che contiene tutti i numeri.
I negativi e positivi che sommati giungono allo zero.
In Principio…
Nei primissimi istanti il Vuoto. E il Silenzio.
Ma il silenzio che contiene tutti i suoni.
Il silenzio di Cage.
E l’universo della materia?
Viene dalla rottura della perfezione.
[…]
È stata l’imperfezione a produrre questa meraviglia?
Sì. Il Tutto viene dalla imperfezione.
Ma i paradigmi nuovi faticano a lungo prima d’essere accettati.
Finché Luce non si stacchi dalla materia opaca,
ma se la luce si distacca esistono i fotoni, il moto, l’attrito,
il tempo e lo spazio, l’uomo che scrive la vita,
la poesia che si espande dal vuoto che fluttua.

Ulisse in vestaglia

Ulisse è in vestaglia, spiccia tra le stoviglie
della reggia.
[…]
“Spio la vita dalle fenditure
a distanza neutra dagli eventi.
Estraneo a me stesso annuso il giorno
con le certezze d’un rabdomante
taglio il percorso della luce quando rimbalza
dalle bottiglie al cuore.”
[…]
“Chi davvero sei?”
[…]
“Sono in vestaglia,
navigo da libro a libro,
sbaglio i vettori della rosa dei venti,
sa, non sempre indovino la stella polare,
schivo a fatica scogli,
fingo naufragi,
mi invento qualche approdo di fortuna,
lo vedi anche tu…
L’Odissea?, è una grande bugia”

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Stefania Pavan, saggio su Odissej Telemaku  (Odisseo a Telemaco) di Iosif Brodskij – La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo).

Testata azzurro intenso

Laboratorio gezim e altri

Realizzazioni grafiche di Lucio Mayoor Tosi

da http://www.collana-lilsi.unifi.it/upload/sub/libro%20pavan/pavan_libro_collana.pdf

Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.

Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.

Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(1972, traduzione di Giovanni Buttafava)

ОДИССЕЙ ТЕЛЕМАКУ

Мой Tелемак,
Tроянская война
окончена. Кто победил – не помню.
Должно быть, греки: столько мертвецов
вне дома бросить могут только греки…
И все-таки ведущая домой
дорога оказалась слишком длинной,
как будто Посейдон, пока мы там
теряли время, растянул пространство.

Мне неизвестно, где я нахожусь,
что предо мной. Какой-то грязный остров,
кусты, постройки, хрюканье свиней,
заросший сад, какая-то царица,
трава да камни… Милый Телемак,
все острова похожи друг на друга,
когда так долго странствуешь; и мозг
уже сбивается, считая волны,
глаз, засоренный горизонтом, плачет,
и водяное мясо застит слух.
Не помню я, чем кончилась война,
и сколько лет тебе сейчас, не помню.

Расти большой, мой Телемак, расти.
Лишь боги знают, свидимся ли снова.
Ты и сейчас уже не тот младенец,
перед которым я сдержал быков.
Когда б не Паламед, мы жили вместе.
Но может быть и прав он: без меня
ты от страстей Эдиповых избавлен,
и сны твои, мой Телемак, безгрешны.

Testata azzurra

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Questa poesia è stata scritta da Brodskij nel 1972 ed è senza dubbio una di quelle che maggiormente ha attirato l’attenzione dei critici. Ljudmila Zubova ha analizzato con molta attenzione Odissej Telemaku (Odisseo a Telemaco), mettendone in rilievo i numerosissimi riferimenti intertestuali: con altre poesie dello stesso Brodskij e quindi con la sua biografi a, pur evitando interpretazioni semplicistiche; con altri poeti russi; con poeti italiani; quello che invece è restato alquanto nell’ombra, o non è stato sufficientemente messo in luce che dir si voglia, è l’intertesto greco e latino. Questo articolo di Zubova, preziosissimo e denso di suggerimenti, fornisce sin dall’inizio la tesi interpretativa, all’interno della quale viene quindi analizzata la poesia.

La poesia «Odisseo a Telemaco», scritta nel 1972, quando Iosif Brodskij fu costretto ad emigrare, parla dell’esilio come destino e tira le somme dell’esistenza già trascorsa. Zubova prosegue citando le famosissime frasi di Brodskij sul proprio interesse verso il tempo e quello che il tempo fa all’uomo, come metafora di quello che il tempo fa allo spazio e al mondo. In tal senso, aggiungiamo, è logico dedurre che il tempo sopravanza la storia, narrazione di cui gli uomini sentono la necessità per illudersi di comprendere e quindi dominare il tempo.

Irina Koval’ëva, a sua volta, dedica alcune pagine a questa poesia nel saggio209, dove sottolinea la novità e l’importanza dell’intertesto con la poesia di Umberto Saba Lettera e porta un nuovo rimando alla poesia del 1910 di Kavafi s Itaca, utilizzata da Brodskij con inversione del significato dei motivi.

Brodskij ha tradotto Itaca assieme a Šmakov, anzi sarebbe forse meglio dire che Šmakov ha tradotto Kavafi s e che Brodskij ha curato soprattutto la redazione della traduzione quando l’amico era già gravemente malato210. Brodskij ha anche tradotto svariate poesie di Umberto Saba, poeta che ammirava moltissimo, e tra queste anche Lettera. A proposito di Saba, vanno però fatte alcune osservazioni: la poesia di Saba che rimanda più direttamente a Odissej Telemaku è invece e più probabilmente Ulisse che, ad una prima lettura, si presta ad essere interpretata come una metafora della vita, cammino difficilissimo che va sempre e comunque affrontato ed accettato. Si può anche ricordare come Saba, a causa delle leggi razziali del 1938, dovette lasciare Trieste per Roma e quindi per Milano, e ritornò a Trieste solo nel 1948; le origini ebraiche erano tratto comune sia di Brodskij che di Saba e hanno contribuito a rendere ancora più complicato il loro viaggio esistenziale.

Odissej Telemaku è del 1972; Ljudmila Zubova collega la poesia alla certezza dell’emigrazione coatta; Irina Koval’ëva rileva il possibile intertesto con la poesia 1972 god (anno 1972); né l’una né l’altra rilevano che Brodskij ha forse pensato di scrivere questa poesia in forma di lettera come testamento per il figlioletto Andrej, che sarebbe quindi adombrato nella figura di Telemaco. La prima variante della poesia è dei primi mesi del 1972; il poeta la rivede qualche mese dopo, quando è già negli Stati Uniti211. Senza voler entrare nella sfera del privato brodskiano in modo imbarazzante, sono noti l’attaccamento che in quegli anni egli ha nei confronti del primo figlio e il dispiacere perché costui non porta il suo cognome. Soprattutto la seconda parte della poesia, gli otto versi che la concludono, sembrano un lungo e doloroso saluto al figlio che deve abbandonare e che non potrà seguire da vicino né veder crescere: «Расти большой, мой Телемак, расти» (Diventa grande, mio Telemaco, grande), esorta il figlio a crescere, in senso fisico e metaforico; «Лишь боги знают, свидимся ли снова» (Solo gli dei sanno, se ci rivedremo), la nota è accorata e dolente, il dolore trattenuto e non urlato di un padre che forse sarà per sempre separato dal fi glio; «Но может быть и прав он: без меня / ты от страстей Эдиповых избавлен, / и сны твои, мой Телемак, безгрешны» (Forse, egli ha ragione: senza di me / sei preservato dalle passioni di Edipo, / e i tuoi sogni, mio Telemaco, sono innocenti), i riferimenti all’intertesto antico greco, che spiegano chi sia «egli», saranno esaminati più avanti, qui leggiamo solo la speranza, che lenisce il dolore del distacco, che dall’assenza del padre al figlio possa derivare del bene.

Testata viola

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Passando all’analisi di Odissej Telemaku, cercando di tenere presente il mondo culturale dei miti classici, va notato come Brodskij scelga il nome Odisseo e non la variante latina Ulisse. Odisseo sarebbe stato generato da Sisifo che, per vendicarsi del furto della propria mandria di bestiame sull’istmo di Corinto da parte di Autolico, ne Odissej Telemaku  sedusse la figlia Anticlea; costei era già sposa di Laerte l’Argivo, padre ufficiale del bambino nato da quell’unione. Appunto le circostanze del concepimento ne spiegano l’astuzia e il soprannome di Ipsipilo, forma maschile di Ipsipile. Ora, Sisifo, nome interpretato dai Greci come ‘molto saggio’, è una variante greca di Tesup, il dio ittita del sole, che si identifica con Atabirio, il dio solare di Rodi cui era sacro il toro. Odisseo significa ‘iroso’ e si riferisce al volto rosso del re sacro. Allo scadere del termine concesso al re sacro, dopo che egli ha regnato per cinquanta mesi lunari come marito della grande sacerdotessa, venivano celebrati i giochi, sia Nemei che Olimpici.

Ulixēs, invece, è la variante latina, parola formata probabilmente da vulnus = ferita e ischia = cosce, con allusione alla cicatrice prodotta da una zampa di cinghiale, che la vecchia nutrice riconosce quando egli torna a Itaca dopo il suo lunghissimo viaggio. Odisseo si è procurato questa ferita alla coscia proprio durante una visita al padre Autolico. Le riflessioni sui nomi Odisseo/Ulisse permettono sia di escludere un ruolo qui dominante della letteratura latina sia di altre narrazioni, più moderne, del viaggio di Ulisse, quali ad esempio quella di Joyce, che Brodskij conosceva molto bene.

Le medesime riflessioni inducono, soprattutto, a prendere le distanze, a considerare con maggiore attenzione e cautela, la tesi invalsa secondo la quale tre precedenti poesie di Brodskij formino, nel loro complesso, il protesto di questa: Ja kak Uliss del 1961, Pis’mo v butylke (La lettera nella bottiglia) del 1964, Proščajte, mademuazel’ Veronika (Addio, mademoiselle Veronica) del 1967213.

La poesia è ancora una volta imitazione di una lettera, scritta da Odisseo al figlio Telemaco; la convenzione poetica, l’esistenza del genere, permette di accettare la mistificazione di una lettera che forse non raggiungerà mai il proprio destinatario. Chi scrive è Odisseo, il primo verso è formato dal normale inizio di una lettera: «Мой Телемак» (Mio Telemaco) e il secondo verso rispetta anche visivamente la composizione di una lettera, poiché esso inizia alla riga successiva e dopo uno spazio lasciato bianco, esattamente dopo la virgola: «Троянская война / окончена. Кто победил – не помню» (La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo). Odisseo, colui che ha escogitato lo stratagemma che ha posto fine alla guerra di Troia, non ricorda chi sia stato il vinto e chi il vincitore. Questi versi, apparentemente assurdi, sottolineano il lunghissimo lasso di tempo già intercorso dalla fine della guerra, da quando la nave di Odisseo ha lasciato le coste di quella Tracia dove la tradizione colloca l’antica città di Troia; il viaggio durò dieci lunghissimi anni, inaccettabili e incomprensibili a guardare la distanza relativamente breve che separava la città dall’isola di Itaca.

Testata polittico

alcuni poeti della NOE, grafica di Lucio Mayoor Tosi

A proposito del viaggio di Odisseo, della sua durata e del ritorno, Zubova osserva che:

Il ritorno di Odisseo, secondo l’antico sistema mitosimbolico corrisponde alla vittoria sulla morte, alla resurrezione, al ritorno dal mondo dei morti. Il «vello d’oro» di Odisseo acquisisce, in tal modo, il senso di vittoria sulla morte, sul naturale principio retrivo, privo di creatività del mondo materiale.

Zubova segue la lezione di Jerzy Farino, da lei citata, dove lo studioso affronta la narrazione del viaggio di Odisseo/Ulisse come motivo che più di ogni altro lega la poesia di Puškin a quella di Mandel’štam; a questa tesi fondamentale lo studioso aggiunge una digressione che prende succintamente in esame anche la poesia di Brodskij, e sottolinea la particolarità per cui il suo è un Odisseo che non fa ritorno a casa.

In realtà, bisogna invece ricordare che il ritorno dal viaggio nel sistema mitopoietico non corrisponde soltanto alla vittoria sulla morte, quanto alla rinascita ad una nuova vita, alla vita di adulto, e in tal senso ci si trova sovente di fronte ad un’azione rituale e non solo ad una narrazione; ancora più importante, il viaggio e il raggiungimento della meta è topos del viaggio dell’anima, del suo peregrinare lungo il cammino impervio della conoscenza. La conoscenza, meta suprema dell’uomo, isola irraggiungibile: «Pàntes ànthropoi toù eidenai orégontai phýsei» (Tutti gli uomini tendono per natura al sapere).

La poesia, come già osservato, si apre con i primi due versi che, anche graficamente, ricordano una lettera e, soprattutto, una lettera molto personale, familiare, che inizia con quell’aggettivo possessivo «мой» (mio) denso di amore. È vero, come sostiene Zubova, che l’uso dell’aggettivo possessivo prima del nome proprio non pertiene alla norma del vocativo russo e denota quindi un evidente significato di possesso; in questo caso, però, bisogna  ricordare la grande tradizione di epistolé e epistulae nelle letterature greca e latina, persino Dante e Petrarca, che Brodskij conosce molto bene, sono stati autori di Epistulae, scritte in latino in conformità alle leggi della retorica.

Onto brodskij

grafica di Lucio Mayoor Tosi, Brodskij

Odissej Telemaku

I pis’ma (lettere) in Brodskij rappresentano un documento umano, notevole in sé come segno di confessione, che costruisce davanti al lettore il sé del poeta e dell’uomo. Sono un documento poetico per intendere la biografia umana e artistica del poeta; sono una testimonianza artistica di vita spirituale, che modella anche l’immagine dei corrispondenti; sono materia personale che diviene materia di poesia e di riflessione metafisica; sono modello di stile e disciplina classiche.

Odisseo è, comunque, un principe greco, un guerriero che ha partecipato alla lunghissima guerra contro Troia, una guerra che ha sconvolto e interrotto la sua vita e questo evento costituisce il primo argomento della lettera: «Троянская война / окончена. Кто победил – не помню» (La guerra di Troia / è terminata./ Chi ha vinto, non ricordo). Odisseo sa che la guerra è terminata ma, il che ci appare assurdo, non ricorda il nome del vincitore: greci o troiani? La tradizione non ci consegna un Odisseo immemore di chi abbia vinto la guerra estenuante, poiché è stata proprio la sua astuzia ad escogitare lo stratagemma che vi ha posto fine. Si apre un ventaglio di ipotesi.

I due versi possono voler indicare il lunghissimo lasso di tempo già intercorso dal termine della guerra, da quando Odisseo ha lasciato sulla sua nave e assieme ai suoi compagni le coste dell’Asia Minore. Odisseo è stanco e provato dal viaggio che sembra non avere fine, le speranze di un ritorno a Itaca si sono affievolite e il risultato bellico non ha importanza, l’evento non è più tanto significativo da dover essere conservato nella memoria dell’eroe. Opportuno, a questo punto, ricordare che Odisseo è un eroe anomalo nell’epos antico-greco: il suo valore di guerriero, ma soprattutto la sua forza, non sono messi in dubbio, basti ricordare come ha saputo tendere l’arco e quindi sterminare i Proci dopo il ritorno ad Itaca; la sua caratteristica principale è però l’astuzia, non il coraggio e la curiosità intellettuale in lui non coincide propriamente con l’esperienza culturale; l’Iliade non ci tramanda episodi rilevanti sul coraggio di Odisseo, consegna invece alla nostra memoria culturale un eroe dall’astuzia eccezionale, quella stessa astuzia che lo sorregge durante il viaggio di ritorno e gli permette di riacquisire il posto e il ruolo che gli spettano. Non a caso, egli è protetto da Atena e non da Ares. Continua a leggere

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Gino Rago UNA POESIA INEDITA Le sonagliere dei mirti vanno verso il porto – con due commenti  di Chiara Catapano e Mariella Colonna

grecia La contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide. 1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs

La contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide. 1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) e Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)   Email:  ragogino@libero.it

 

 Commento di Chiara Catapano

Come onde pesantemente sullo scafo della vita: commento trasversale ai versi di Gino Rago “Noi siamo qui per Ecuba”

Noi non siamo qui per Menelao.
Né siamo qui per Elena

 È con una negazione che s’apre il lungo canto dei vinti di Gino Rago: negazione che è la sorte stessa dei vinti, orrido aperto sotto la loro memoria. Per Ecuba noi siamo qui, non c’importa delle vergini, non ci interessano le schiave adolescenti per il nostro letto:

Noi siamo qui per Ecuba,
la sposa ormai prona al suo destino

Siamo qui in forze, e neppure Elena che scatenò la guerra ora ci riguarda quanto la regina della città perduta. Menelao non degna d’uno sguardo la moglie-bottino: anch’egli è lì per Ecuba. “La casa dell’amore si sfarina”, per tutti. C’è la casa concreta dei Troiani, c’è quella lontana cui fare ritorno per i Greci: ma ogni cosa muore in guerra, perché ciò che tiene in vita, in guerra, è la guerra stessa. Simone Weil ha chiamato l’Iliade Il poema della forza: “Si tratti di servitù o di guerra, sempre, tra gli uomini, le sventure intollerabili durano per via del loro stesso peso, e così dall’esterno sembrano facili da sopportare. Durano perché privano delle risorse necessarie a uscirne. Nondimeno, l’anima segreta della guerra brama la liberazione; ma la liberazione stessa le appare sotto una forma tragica, estrema, sotto la forma della distruzione.” Eccolo il destino cui Ecuba si sottomette, ecco il peso che sorregge le vite di vincitori e vinti. Nessuna fine più moderata, continua la Weil, sarebbe tollerabile perché ancora più esposte alla memoria del tragico rimarrebbero le nude spoglie degli uomini, i resti intollerabili di vincitori e vinti. Tombe scoperchiate. Più tollerabile che siano i morti tra noi, così possiamo continuare ad amare.

Tutti noi dal nostro osservatorio fatto di millenni e di distanze siamo qui per Ecuba: dimenticato il canto dissennato di Cassandra, risuonino infine le sonagliere di mirto. Abbiamo bisogno d’una schiava, d’un bottino illustre, della tenerezza della vecchiaia per tenerci in vita. Non ci commuove tanto neppure il grido ultimo di Astianatte, non seguiremo Andromaca in Epiro.

Ogni verso nel canto Noi siamo qui per Ecuba trascina dentro una morte infinita. Gino Rago forza il mito per intesservi intorno un destino di ineludibile atrocità. Mai la schiava si libererà – non diventerà la nera cagna di Ecate, non avrà la sua tomba in fronte all’Ellesponto – : prosegue il viaggio, sonagliere di mirto ne scandiscono i passi. E il mirto purifica – purifica dalle azioni commesse e subite. Purifica ad un livello altro, l’uomo resta e pasce il suo destino.

Sono versi che non assolvono e non lasciano scampo, a nessuno di noi, dentro la nostra trincea fatta di millenni e distanze. Nessuna immunità, nessun vaccino, nessun oblio.

grecia scena di un banchetto

scena di un banchetto

    Commento di Mariella Colonna

 Il risuonare delle sonagliere e il rumore delicato delle fronde di mirto mosse dal vento sono il preludio musicale con cui Gino Rago ha voluto presentare l’episodio finale delle vicende di Ilio e ricorda ai greci la vittoria, ai troiani la sconfitta. Il Poeta si china sugli sconfitti a cui vanno la sua mente e il suo cuore.

Il ciclo di Troia si conclude con il dramma dei personaggi che abbiamo imparato ad amare grazie alla forza primordiale e senza tempo che il mitico cantore di Troia ha loro conferito. Ettore, il più forte dei guerrieri troiani, sconfitto per vendetta e torturato da Achille, è umiliato anche da morto, il suo corpo straziato non viene restituito alla Madre che ha perso ormai tutti i suoi figli, non può ricevere onorata sepoltura insieme alle sue armi, non può essere pianto, è preda degli uccelli. Ormai siamo dentro il cerchio sacro della tragedia che il Poeta sembra tracciare con una mano invisibile, ispirato dallo scudo di Ettore in cui riposerà la vittima più vittima di tutti gli altri caduti in guerra: il piccolo Astianatte gettato, su consiglio di Ulisse, dalle mura di Troia e ricomposto da amorevoli mani dentro lo scudo del padre morto da eroe.    Invisibili ma più che mai presenti sono i tanti morti che pesano sul cuore di Ecuba a cui viene a mancare la parola, insieme ai vivi che hanno perduto la propria ragione di vita: Andromaca.Né più moglie né madre. Ecuba è immersa nel silenzio, ma i suoi pensieri gridano: ella è in parte distrutta, senza vita, eppure fieramente la sua anima di Regina resiste ad ogni possibile oltraggio, ma ecco che, appena giunge come schiava all’Isola del suo peggiore nemico, un Poeta le fa un omaggio imprevisto: Sei bella. Sei bella come una Regina / con quei capelli tutti inghirlandati. / Slegali. Trema tutta la terra / se ti vanno a sfiorare / le caviglie alate…

Quel Poeta è senz’altro Gino Rago. Un’idea grande, la sua, d’inserire la propria presenza, a millenni di distanza e in contemporanea sul piano dell’essere, nell’evento mitico di cui narra… E certo lo fa per sottolineare e accompagnare il momento in cui la grande Regina vinta, che ha perduto il marito Priamo, i numerosi figli, il prediletto nipote, la sua Troia, approda schiava ad Itaca; il Poeta che la canta oggi era, è presente allora e si esprime verso di lei come un amante nei confronti dell’amata…eppure Ecuba è anziana, lacerata dal dolore, affranta, non parla più che a gesti. Ci si può innamorare di una donna avanti negli anni e sconfitta dal dolore, che esiste soltanto nell’immaginazione o nella memoria? Il Poeta non pone limiti all’amore, lo sente al di là e al di sopra di tutto: l’amore è ontologicamente vincente rispetto alle armi, quindi Ecuba è sconfitta soltanto dalle armi, ma è vittoriosa nell’amore. Che cosa contano gli anni di fronte al fatto che ella dimostra più coraggio di tutti gli eroi messi insieme, che da schiava si muove e parla ancora come una Regina, che porta nella mente e nel cuore tutti i suoi morti, gli affetti, i valori di una città che per ben dieci anni ha resistito all’assalto dei greci ed è stata sconfitta soltanto da una trovata astuta  del nemico?

C’è un’antologia di poesia contemporanea di Giorgio Linguaglossa che ha un titolo suggestivo, Com’è finita la guerra di Troia non ricordo. Forse anche per questo Giorgio non ricorda: la guerra di Troia non è mai finita con la vittoria dei greci perché una donna troiana coraggiosa ha amato ed è stata amata più della famosa Elena e perché un troiano figlio della dea Venere si è messo sulle spalle il vecchio padre, ha preso per mano il figlioletto Ascanio ed è partito per mare, con i compagni rimasti in vita, sulle navi sopravvissute all’incendio: e, dopo molteplici tribolazioni e un lunghissimo viaggio, ha fondato Roma. Questo secondo la leggenda e la leggenda, sappiamo, contiene sempre un elemento di verità. La guerra di Troia è simbolo di tutte le guerre in cui necessariamente alla gioiosa vittoria dei vincitori si affianca la desolazione dei vinti: in questa poesia di  Gino Rago che grazie alla memoria senza tempo ci raccoglie tutti nell’Isola di Ulisse, Ecuba, l’anziana Regina, è così bella nell’essere che non si può collocare tra i vinti, ma tra coloro a cui la sorte ha offerto una possibilità di riscatto. La sua dimora non è più la reggia di Troia, ma una casa semplice che immaginiamo bianca sullo sfondo del mare, sopra un’altura, tra profumi di erbe selvagge, in mezzo ad un’armonia di suoni, diversa, ma non meno attraente delle sonagliere dei mirti: qui ci sembra di sentire al vivo i “campani” delle capre condotte al pascolo sul prato di smeraldo (notare la raffinatezza del prezioso colore in un ambiente di pastori a cui fa riscontro l’azzurro che circonda Itaca) e su tutta l’isola sembrano rimbalzare e avvolgerci questi suoni così evocativi da superare qualunque musica, soprattutto se li associamo al rumore del mare e del vento che si diverte a sconvolgere, qua e là, gli arbusti della macchia mediterranea. Ecuba dialoga con il pastore e rammenta che fu la capra Altea a dare latte a Zeus ancora in fasce. L’antica Regina, vissuta in mezzo allo sfarzo e agli onori dovuti al rango, sa adattarsi ad una vita semplice, a contatto con la natura, si è perfino abituata al suo padrone, ne indovina i pensieri e le emozioni: porta in sé un tesoro inestimabile di memorie ed è simbolo di tutte le donne, troiane o di qualunque luogo e tempo, che hanno dovuto subire la violenza ma, dentro, non si sono lasciate piegare dai violenti.

In mezzo alla vivida natura, al sole e al mare Ecuba è colpita da un venticello marino che rappresenta l’elemento di chiusura e apertura del cerchio sacro in cui si muove, insieme a tutti noi, la vicenda della Regina ridotta in schiavitù: ella ricorda  che, a Troia, non scorre più lo Scamandro, che le due fonti si sono essiccate, non risuonano gioiosamente come una volta, la sua città i cari morti sono lontani, ma lei ne stringe i corpi e li fa rivivere nel suo grembo, nel suo cuore. Anche noi, se vogliamo entrare nella dimensione poetica del personaggio, siamo invitati ad entrare nel cuore di Ecuba e nella mente-anima del Poeta dove tutto avviene senza… avvenire, o meglio è anche se non è più e dove l’immaginazione di Omero, in cui sopravvivono gloriosamente frammenti di storia, è fatta rivivere dalla potenza evocativa della Nuova poesia.

Versi incisi nel marmo della Nuova Cattedrale poetica dove tutti possono ritrovare il senso del sacro o almeno diventare custodi del limen entro il quale ciò che avviene acquista un significato più profondo, più umano in senso universale e quindi condivisibile da tutti in ogni momento o luogo della terra.

Qui la quadrimensionalità  si apre a nuove dimensioni dell’essere e del linguaggio. Grazie a Giorgio Linguaglossa che ha aperto questa nuova stagione poetica e a Gino Rago: egli ci ha offerto lo spunto per tornare alla poesia omerica e a tutti i poeti che credono davvero nella Poesia non come esercizio letterario, ma come una forza che abbraccia tutto l’essere e ci aiuta a comprendere perché siamo su questa terra, mater dolorosa: non è possibile spiegarlo soltanto a parole, bisogna viverlo per capire e, per viverlo, bisogna essere aperti all’amore. L’amore è un’apertura infinita, è assumere in sé il dono della Vita e il suo mistero.

                (Roma, gennaio 2017)

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Gino Rago
Le sonagliere dei mirti vanno verso il porto

Ettore senza scudo quasi a cibare i corvi.
Astianatte nella Pietas di braccia senza carne.
Andromaca. Né più moglie né madre.
Ecuba ora perde la parola. Non emette
un’onda la sua voce. Le rimane solo il gesto.
Il linguaggio dei segni volge sulle schiave
e a sé soltanto dice: «Nella terra di quali uomini
sono giunta? Sono selvaggi, senza giustizia,
o nella mente serbano e nei gesti
anche un esile rispetto degli dèi?».

Nell’Isola di Ulisse un poeta scioglie il canto
per la forestiera giunta come schiava:
« Sei bella. Sei bella come una Regina
con quei capelli tutti inghirlandati.
Slegali. Trema tutta la terra
se ti vanno a sfiorare
le caviglie alate…». Un pastore (o un dio
greco) a Ecuba offre una ricotta calda.
Non guerrieri più all’orizzonte ma capre.
Soltanto capre sul prato di smeraldo.
«Ogni campano cerca la sua capra, ogni capra
il suo campano. Duecento strumenti
antichi come il pane. L’Isola è una cassa
di risonanza fra l’altopiano e il mare».
Ecuba fa sue le parole del pastore.
(Rammenta che fu la capra Altea
a dare latte a Zeus ancora in fasce).
Ma un refolo salmastro tormenta la sua chioma.
Muore lo Scamandro fra i due accampamenti.
Si essiccano le fonti. Non è più lieto il timbro
delle due sorgenti sotto Troia.
E’ troppo mesto il cuore in esilio.

Le sonagliere dei mirti vanno verso il porto.
Odisseo tace. Beve a una coppa. Scruta il ventilabro.
I flutti lo richiamano. Lo invitano alla sfida.
Ecuba osserva il suo padrone. Ne avverte i palpiti.
Ne conosce i fremiti. Ne indovina i piani.
Ma Ilio è perduta. La sua città la inonda di ricordi.
E nelle mani stringe le carni sempre vive dei suoi morti.

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chiara-catapano

Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Si laurea nell’ateneo tergestino in filologia bizantina. Vive per alcuni anni tra Vienna, Atene e Creta, approfondendo così i suoi studi sulla cultura e la lingua neogreca. Collaborazioni recenti: Fondazione Museo storico del Trentino: assieme al dott. Andrea Aveto dell’Università di Genova e allo scrittore Claudio Di Scalzo: riedizione dei “Discorsi militari” di Giovanni Boine, nell’ambito di uno studio sull’autore portorino. Per Thauma edizioni: ha curato l’edizione di “Per metà del cielo”, della poetessa slovena Miljana Cunta (trad. Michele Obit). Per l’Istitucio Alfons el Magnanim CECEL – Consejo Superior de Investigaciones Cientìficas, rivista “Anthropos” numero di febbraio 2015, l’articolo: “Sopra la rappresentazione transmoderna del sé”.

Con Giulio Perrone esce a giugno 2011 la sua prima raccolta “Apice stretto” in “Verso libero- antologia poetica a cinque voci” con prefazione di Letizia Leone. +A ottobre 2011 esce la sua raccolta “La fame” edita da Thauma Edizioni. A novembre 2013 pubblica la raccolta “La graziosa vita” (Thauma edizioni) dialogo sulla tomba di Giovanni Boine, uscita sotto l’eteronimo di Rina Rètis – opera dedicata allo scrittore portorino.

Ha collaborato fino al 2013 con l’associazione culturale “Thauma” di Pesaro, per la cui casa editrice è stata curatrice. Ha curato per il Comune di Bolzano, assieme alla regista Katia Assuntini un cortometraggio nell’ambito di un progetto d’integrazione delle giovani ragazze immigrate: in particolare ha coordinato il lavoro di traduzione per una giovane poetessa pakistana. Cortometraggio poetico basato sul poemetto inedito “Alìmono”, in collaborazione con gli artisti pugliesi Iula Marzulli, Marianna Fumai (RecMovie) e Gaetano Speranza: prima proiezione il 26 dicembre 2016 al Lecce Film Fest.

Collabora con la compagnia teatrale Fierascena, fondata dall’attrice e regista Elisa Menon. Sue poesie e prose poetiche sono apparse in riviste, siti e blog letterari- Catalogo della mostra personale di Jara Marzulli (http://www.jaramarzulli.it/Come bocca di pesce i pensieri”; “Di là dal bosco”, ed. Le voci della Luna, 2012; Le voci della Luna, rivista: n. 55 “L’inutile bellezza, il senso di colpa nella poesia di Maria Barbara Tosatti”, marzo 2013; n. 56 “L’artista primordiale, omaggio a Odysseas Elytis”, luglio 2013.

“A Topolò, questa dolce sera…”, e “Oggi a Udine è risorto un poeta”  apparsi sul sito ufficiale del poeta Gian Giacomo Menon, voluto e curato dal giornalista Cesare Sartori. http://www.giangiacomomenon.it/testimonianze/oggi-udine-e-risorto-un-poeta/ Intervista sul sito “World War IBridges”, 

http://www.worldwarone.it/2015/12/rediscovering-italian-intellectualsnew.html?m=1 “Giovanni Boine: la punta dell’iceberg”, nel blog di Alberto Cellotto, LibrobreveHa presentato nell’ambito del Festival Trieste Poesia” la raccolta “La graziosa vita”, presso lo storico caffè San Marco. Presentazione-intervista con Michele Obit, presso il Festival internazionale “Stazione Topolò”, luglio 2014.            

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Mariella Colonna

Mariella Colonna.  Sperimentate le forme plastiche e del colore (pittura, creta, disegno), come scrittrice ha esordito con la raccolta  di poesie Un sasso nell’acqua. Nel 1989 ha vinto il “Premio Italia RAI” con la commedia radiofonica Un contrabbasso in cerca d’amore, musica di Franco Petracchi (con Lucia Poli e Gastone Moschin). Radiodrammi trasmessi da RAI 1: La farfalla azzurra, Quindici parole per un coltello e Il tempo di una stella. Per il IV centenario Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina è stata coautrice del testo teatrale La follia di Giovanni (Premio Nazionale “Teatro Sacro a confronto” a Lucca), realizzato e trasmesso da RAI 3 nel 1986 come inchiesta televisiva (regia di Alfredo di Laura). Coautrice del testo e video Costellazioni, gioco dei racconti infiniti in parole e immagini (Ed.Armando/Ist.Luce) presentato, tra gli altri, da Mauro Laeng e Giampiero Gamaleri a Bologna nella Tavola Rotonda “Un nuova editoria per la civiltà del video” ha pubblicato, nella collana “Città immateriale ”Ed.Marcon, Fuga dal Paradiso. Immagine e comunicazione nella Città del futuro (corredato dalle sequenze dell’omonimo film di E.Pasculli), presentato nel 1991 a Bologna da Cesare Stevan e Sebastiano Maffettone nella tavola rotonda sul tema “Verso la città immateriale: nell’era telematica nuovi scenari per la comunicazione”. Nel 2008 ha pubblicato Guerrigliera del sole nella collana “I libri di Emil”, ediz. Odoya. Nell’ottobre 2010 ha pubblicato, con la casa editrice Albatros “Dove Dio ci nasconde”.  Nel febbraio 2011 ha pubblicato, presso la casa editrice. Guida di Napoli “Due cuori per una Regina” / una storia nella Storia, scritto insieme al marito Mario Colonna. Un suo racconto intitolato “Giallo colore dell’anima” è stato pubblicato di recente dall’editore  Giulio Perrone nell’Antologia “Ero una crepa nel muro”; nel 2013 ha pubblicato “L’innocenza del mare”, Europa edizioni; nel 2014 “Paradiso vuol dire giardino”, ed Simple; nel 2016 coautrice con il marito Mario di “Mary Mary, La vita in una favola.”

 

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