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ROBERTO BERTOLDO da La profondità della letteratura (Mimesis 2016 pp. 330 € 24) Estratti dal libro:  il Bello, il Vero, Leopardi, Autenticità, Coscienza, Metafisica, Poesia, Essere, Tempo, Verità, Sperimentalismo,  Surrazionalismo,  Nullismo,  Nichilismo assiologico, Postcontemporaneo. Le categorie del nostro tempo, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia straniera Hebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofia AsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.

Bibliografia:

Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010;

Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011; Il popolo che sono, Mimesis Hebenon, 2016.

Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011. Pergamena dei ribelli Joker 2011, La profondità della letteratura, Mimesis 2016.

«Oltre la verità cartesiana, e i suoi effetti, non c’è alcuna verità che sia al contempo empirica e logica, senza appigli analitici, quegli appigli che portano all’altro tipo di verità, che va per la maggiore: quella ipotetica.

Mirare alla comprovazione dativa degli oggetti esterni è stato l’obiettivo diciamo ontologico. L’esito purtroppo è, al di là di ogni dubbio, solo ontico, cioè “ti penso dunque esisti”. Sì, se guardo o tocco la matita, cioè un dato esterno, la matita esiste e, se guardo e tocco, io, cioè il dato interno, non solo esisto ma sono, al di là di ogni dubbio. E se avvaloro l’io, se gli comprovo come causa effettiva dell’io funzionale ma la natura di questo io, per me materiale, è solo ipotetica), avvaloro anche il suo pensare, vedere, toccare. Di più non ci è dato avere come prova verace dell’ipotesi».1

R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 319

Il Niente

«La dialettica è tra niente ed entizzazione: è il Niente, ovvero l’essere, che vuole entizzarsi; in questo impasse dialettico si trova la condizione ontologica degli enti». «L’essere… è il Niente, l’assenza dell’Ente; e questo NiEnte è, per postulato, la Materia».1

R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 25 e 27

Leopardi. Il Bello. Il Vero.

Riguardo all’affermazione che «tutto il vero», che in base agli assunti leopardiani è il presente, «è brutto», perché infelice, è evidente che se il futuro è più bello del presente, ossia del vero, per via dell’immaginazione e il passato per via del ricordo, l’operazione di immaginare e di ricordare si compie nel presente, che quindi è per forza il momento in cui si vive il piacere, ed inoltre «allo sviluppo ed esercizio dell’immaginazione è necessaria la felicità o abituale o presente o momentanea».1 E ancora: «Io spero un piacere, e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere».2 È vero che leopardi distingue tra ciò che si chiama piacere e ciò che è piacere e poco dopo aggiunge che il piacere provato nel presente non soddisfa ed è solo un accenno del piacere che si ritiene di poter provare in futuro, è tuttavia innegabile che il piacere se lo si proverà sarà un vissuto giocoforza presente: «l’attività, massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile».3

Poi Leopardi sostiene, contraddittoriamente, che l’uomo è infelice senza il vero, che è il presente; e, pur giudicando il presente brutto, o comunque non bello, dice spesso che il bello e il brutto sono relativi, connessi alla convenienza, alle abitudini, ecc. Il fatto è che la conclusione sillogistica «tutto il vero è brutto» si compone su una ambigua dissociazione tra bello e piacevole. Dice Leopardi in modo chiaro che suoni, voci, sapori e odori appartengono «al piacevole o dispiacevole ma non mica al bello né al brutto»,4 però spesso questa chiara distinzione viene da lui trascurata, al punto che gli oggetti belli dell’immaginazione e del ricordo non sono proprietà solo della vista, sino a consistere anche in qualche cosa di astratto e addirittura di piacevole. 5

1 Zib., 28 febbraio 1821 [1703]

2 Zib., 20 gennaio 1821 [532]

3 Zib., 12 febbraio 1821 [649]

4 Zib., 30 settembre 1821 [1748-1749]

5 R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 227

La bellezza

«Il bello è un obiettivo irraggiungibile, come l’anarchia, l’amore, ecc., e l’arte è uno strumento come l’anarchismo, l’innamoramento, ecc. Sono gli strumenti ad essere concreti, gli obiettivi sono utopici o generici e comunque modellabili».

«La ricerca del bello da intendersi come resa della datità… è più importante della sua realizzazione (…) La bellezza quindi non è inutile anche se è un’invenzione. In fondo, tutte le invenzioni dell’uomo sono utili, magari non l’utilità che può avere un piatto…» 1

«La bellezza, considerata intrinseca o dipendente da forma o da funzione, proporzione, simmetria, armonia, verità, autenticità, purezza, perfezione morale, commozione, anche profondità, ecc., è sempre un abbaglio».2

1 R. Bertoldo op. cit. p.287

2 Ibidem p. 313

Autenticità

«La solitudine di uno scrittore è determinata proprio dalla sua autenticità, ossia dalla sua singolarità».1

«La verità corrisponde all’autenticità».2

 1 R. Bertoldo op. cit. p. 291

2  Ibidem. 297

 Coscienza

«Certo: la coscienza si nutre di inconscio, ma ciò che più conta è che l’inconscio si nutre di prodotti della coscienza e li reimmette, rivestendoli di sé, all’interno della coscienza. Ci sono pregiudizi nella coscienza, c’è un circolo vizioso che complica il giudizio quanto è complicata ogni creazione. La separazione tra inconscio e coscienza non è netta, né chiara, non si riesce a sapere dove inizia l’uno e dove inizia l’altra».1

1 R. Bertoldo  op. cit. p. 228

Metafisica

«Quando si critica la metafisica, si tende a dimenticare che la sua natura è tanto ontologica quanto fenomenologica (metafisiche dell’infinito), fenomenica (metafisica del tutto) e trascendente (metafisica della totalità). L’Essere rappresenta il campo ontologico, il darsi dell’Essere o darsi ontologico il campo della fenomenologia materialistica, il darsi dativo, il solo non metafisico, costituisce nel suo aspetto sensoriale il mondo fenomenognomico».1

Poesia

«La poesia deve restare una forma di espressione connessa all’uomo e ai suoi bisogni». «La poesia sorge, come ogni arte e ogni dato, in questo luogo dell’autenticità, dove il mondo fenomenologico e il mondo fenomenico… si incontrano e fondono la materia circoscritta…»

«La poesia deve restare una forma di espressione connessa all’uomo e ai suoi bisogni. La poesia è l’arte più elevata…».2

Essere

«L’Essere… è il Niente, l’assenza dell’Ente; e questo Niente è, per postulato, la Materia. Ma anche il Nulla è, a maggior ragione, assenza dell’Ente, quindi NiEnte. In base a queste due premesse, risulterebbe, per via del sistema di equazioni, che l’Essere, ovvero, la Materia è Nulla. Si può negare questa conclusione sostenendo che il NiEnte non è propriamente Nulla, in quanto nel NiEnte c’è comunque la sostanza dell’Ente, però in base all’assunto leopardiano che l’Infinito è il Nulla, un materialista che consideri appunto la Materia infinita – sappiamo che ci sono anche materialisti esclusivamente empirici come molti illuministi – non può che constatare la Materia, sostanza dell’ente, come Nulla, sia che si annulli sia che non si annulli. Così il Nulla ontologico coinciderebbe con il Nulla ontico ovvero il NiEnte. L’annullamento di ogni valore trascendente derivabile dal particolare nichilismo ontologico leopardiano determina tra l’altro la vita fenomenica come valore imprescindibile. In sostanza, poiché per Leopardi l’infinito è uguale al nulla, che la materia non s’annulli mai (materialismo metafisico) o che si annulli (chiamo questo materialismo ‘afisico’) non c’è differenza riguardo gli effetti assiologici. La vita che vale nulla, per via del niente a cui gli enti sono destinati, è in pratica tutto ciò che si ha, l’unica cosa che si possiede, da questo discende il suo estremo valore».3

Tempo

«Riguardo il tempo, la sua natura ontologica è percepibile fisicamente. Ciò vale anche per la materia ma non per lo spazio, la cui acquisizione è puramente logica».4

«La certezza è l’esito di un accertamento, quindi riguarda solo ciò che può essere accertato, dunque la realtà, ossia tutto ciò che viene recepito».4bis

Verità

«La verità è un’ipotesi perché non ci può essere verità obiettiva».5

1 R. Bertoldo La profondità della letteratura Mimesis, 2016, p. 17

2 Ibidem, p.23

3 Ibidem, p. 27

4  e 4bis Ibidem, p.32

5 Ibidem, p.37

 Sperimentalismo

«Lo sperimentalismo è fallimentare proprio per questa sua ansia di novità, esso può essere indipendente dalla propria epoca, manca quindi di contenuto. Una novità prettamente formale non può attecchire e se la si applica in modo posticcio denuncia tutta la pacchianeria del suo autore». «Gli orizzonti di attesa sono l’emblema del vitalismo artistico mal riposto. Creare per la massa significa aderire all’ottusità». 1

«Le opere d’arte, per Adorno, non coincidono però con ciò che manifestano, ossia la verità, sia perché sono qualcosa in più di essa, e mettiamoci pure la pretesa bellezza e il piacere che ne consegue, sia perché ne sono la velatura. Quindi il godimento estetico non può essere l’unico fine dell’arte». 2

«L’opera d’arte, malgrado i fenomenologi, non è un numero ma “un constructum“, cioè un “artificio psicologico”, per usare le parole di Derrida quando rileva l’originalità di Husserl. L’opera ha senso, come tutte le espressioni che prediligono quello che gli psicologi chiamano “linguaggio interno”. Questo linguaggio deriva dalla trasformazione del linguaggio esterno, personalmente ritengo che l’interiorizzazione sia favorita dalla delusione verso la collettività e dal grado di autismo presente nella persona. La caratteristica iù interessante del linguaggio interno è la “predicatività assoluta, in quanto la predicatività genera suggestione. Nel linguaggio interno, quindi, il senso predomina sul significato. E “il senso della parola, come ha mostrato Paulhan, rappresenta l’insieme di tutti i fatti psicologici che compaiono nella nostra coscienza grazie alla parola”. Il senso è allora al di là delle singole parole e anche al di là dell’espressione concettuale che le riunisce». 3 «”Proprio nel significato della parola sta il centro di questa unità che chiamiamo pensiero verbale”». (cit. Lev S. Vygotskij)                                                                        

1 op. cit. p. 175

op. cit. p. 172

3 op. cit. p. 163

Surrazionalismo e surrealismo

«La cultura borghese, razionalistica sin nelle sue irrazionalità, ha prodotto il nichilismo al posto delle divinità nobiliari e, con esso, la letteratura fenomenologica in sostituzione di quella ontologica. La gnoseologia, avvalsasi nel medioevo dell’ontologia e nell’età moderna della fenomenologia… oggi, a farsi garante della borghesia, scade in prodotto predeterminato» 1

Nel simbolismo i sensi deragliano ma la ragione è vigile, nel surrealismo a deragliare è l’immaginazione (la freddezza creativa di molti epigoni ha poco a che vedere con certe creazioni di Eluard, Breton o Aragon, ma pure  in questi istitutori è evidente l’autoimposizione onirica e dell’automatismo), nel surrazionalismo non si deraglia ma ci si lascia coinvolgere dai sensi e dalla ragione.

Quando per la prima volta parlai di ‘surrazionalismo’ non sapevo che questo termine, sia pure con intuizioni più generiche, l’avesse coniato Gaston Bachelard. Io lo usai per difendere la mia poesia da quanti, con superficialità, la giudicavano surrealista. Non ho certamente niente contro il surrealismo, anche se non lo amo, ma la mia poesia percorre la vena postsimbolista. Io giudicavo la mia poesia ‘surrazionale’ perché è sempre nata da un attrito tra immagini diverse di natura simbolica sorgenti in concomitanza di emozioni e analisi […] Ebbene questa condizione è ‘surrazionale’, non è determinata né dal deragliamento della ragione né da automatismi psichici ma c’è sempre un controllo delle valenze dell’immaginazione (meglio dell’intuizione), appunto della sua razionalità compositiva.

La poesia surrazionale, che è  magari anche di altri ma è difficile dirlo da fuori in quanto riguarda più il produrre che il prodotto, non ha niente di divino e di magico, è invece l’esito di una concentrazione razionale ed emotiva di carattere, posso dire, filosofico […] Sono approdato a quella che ho chiamato ‘fenomenognomica’, una filosofia scettica che concede all’uomo solo, ma è tanto, l’immanenzione, cioè questa forma di attraversamento che produce una sorta di comprensione fisica che la poesia… esprime, almeno in me, mediante ciò che ho chiamato ‘tonosimbolismo’ […] Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione, manifestata, almeno in me, mediante un simbolismo anche tonale»2  

Sul nullismo come avversario del nichilismo «Il nullismo è il superamento del nichilismo assiologico»

«Il nulla non è un vuoto, non è un annullamento, in quanto il vuoto e l’annullamento lasciano un’attesa o un ricordo. Il vero nulla è il mai. L’altro nulla, quello che da sempre in un modo o nell’altro trattiamo, è relativo, secondo prospettiva: è il contrario del nostro obiettivo. Per il materialista il nulla è uno scopo eterno, eternamente posticipato […]

Ciò che è divertente, è che noi spesso sosteniamo la non pensabilità del nulla nello stesso tempo che giudichiamo le parole un semplice simbolo delle cose. Se una parola non è mai il suo referente come si può sostenere che il solo pensarlo rende il nulla un qualcosa? Se la simbologia sostanziasse i referenti allora dio esisterebbe davvero e non solo verbalmente. In realtà non è così, le idee sono semplicemente metareali e si può parlare del nulla senza ipostatizzarlo «Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.

Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti. Il guardare verso e attraverso le finestre che non c’erano ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle con proprietà terapeutiche improbabili. L’uomo deve badare da sé una volta per tutte al proprio mondo.

Di fronte al mondo, date le spalle al nulla […] Il nullista non crede alla possibile percezione della pura oggettività, neppure a ben vedere può credere sicuramente al nulla. Il nullista, che è tale solo dopo aver attraversato, e portato con sé, il nichilismo, s’adegua alla propria percezione della verità, non alla verità.

Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.

Per il nullista il mondo è autosufficiente, non così per il nichilista che ancora fa subire al mondo la sua provvisorietà […] Il nullista si è emancipato dalla delusione per il nulla trascendente e da punto di vista ontologico il nulla è per lui l’indefettibilità dell’essere (ovvero della materia come sostanza), il nulla è che non ci sarà mai annullamento ontologico.

Sul Postcontemporaneo

La modernità riguarda grosso modo il periodo che va dall’età umanistico-rinascimentale alla fine dell’Ottocento; il postmoderno, altra categoria storica, corrisponde quasi in toto (nella sua debolezza) al decadentismo, che è invece una mentalità, ancora in auge; il postmoderno forte, col quale indico semplicemente il postmoderno liberatosi dal decadentismo, e che indico una cultura che attualmente sembra, solo perché il presente spesso la rigetta, propria del futuro (per questo lo chiamo anche postcontemporaneo), è l’accettazione del progresso gnoseologico e del modello epistemologico contemporaneo che l’età moderna si ostina, a parte eccezioni, a rifuggire per codardia e interesse».3

Non dobbiamo liberarci solo dalla metafisica ma anche e soprattutto, in quanto la fonda, dal linguaggio metafisico. Il concetto di ‘senso’, per esempio, legato a finalità, almeno intenzionali, è un concetto teleologico. In realtà tutto ha senso, ogni cosa ha senso in sé, grazie a sé. Il senso del mondo è il mondo. Avere senso non è un rimandare ad altro da sé ma un essere sé, essere. Il nostro senso è esserci».4

«Le categorie di Moderno, Postmoderno e Postcontemporaneo sono da me intese come categorie esclusivamente storico-scientifiche. Il moderno ha come modello la scienza di Newton, il postmoderno grosso modo quella di Einstein. Non avrei usato il brutto termine postcontemporaneo se non mi fossi accorto che il postmoderno descritto dai filosofi veniva ad identificarsi in pratica col decadentismo filosofico, che è la cultura tanto dei nostalgici quanto dei detrattori del moderno… Il postcontemporaneo… corrisponde almeno alla luce delle attuali idee scientifiche, al nullismo e ai suoi sviluppi».5

«L’Io è frammentato, ma i suoi frammenti sono interattivi e trovano la loro unità individuale nel progetto e collettiva nella storicità dei metodi. L’Io non può rinunciare a questa unità progettuale ed epistemologica se vuole dare un senso alla sua vita senza scopo, se vuole difendere – in una difesa titanica, e questa è la sua grandezza etica – le forme dal fluire inarrestabile della materia. Questo è il suo senso: resistere il più possibile e aiutare le altre forme a resistere il più possibile contro l’inevitabile nulla ontico e l’indifferente materia (la ‘natura matrigna’), smettendola di rinviare ad un dopo e oltre (il mondo metafisico) o di farsi sedurre, alla stregua dei nichilisti attivi, da una indebita appropriazione e distruzione del mondo fenomenico».6

1 Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura Mimesis, 2011 p. 137

2 Ibidem pp. 250, 251

3 Ibidem pp. 26-29

4 Ibidem p.31

5 Ibidem p.236

6 Ibidem p. 240

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Il Vuoto

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Questa riflessione di Roberto Bertoldo viene a porsi nel momento in cui la credibilità della letteratura e della poesia toccano il punto più basso, è proprio in questo punto che il poeta piemontese rilancia con forza il pensiero di una poesia e di una letteratura che sappiano farsi carico della loro responsabilità estetica. Il mondo frammentato, o ridotto  in frammenti non è una invenzione dell’Ombra delle Parole, è dall’inizio del secolo breve che la problematica era nell’aria e che coinvolgeva altri problemi filosofici e politici.

A proposito dei «frammenti», ecco quanto scrive Mario Praz in ordine all’opera di esordio di Eliot: «Nel 1922, in The Waste Land, Eliot aveva dato espressione al consapevole disorientamento di un’epoca che, iniziatasi colla prima guerra mondiale, può dirsi duri tuttora e non si saprebbe meglio definire che col titolo di un volume dell’Auden, The Age of Anxiety, l’epoca dell’ansia. The Waste Land chiudeva il suo barbarico edificio con alcuni frammenti di poeti del passato, vestigia di una nobile e secolare tradizione di cultura, e con la dichiarazione: “Con questi frammenti io ho puntellato le mie rovine“. The Waste Land voleva essere insomma un edificio di bassa epoca deliberatamente eretto sull’Ultima Thule del pensiero europeo, proprio al limite della desolazione incombente che minacciava di travolgere ogni traccia d’una cultura secolare».

Nel mondo post-metafisico dell’“organizzazione totale” fondata sulla tecnica, ogni cosa ha un posto definito, coincidente con la funzione strumentale assolta all’interno del sistema. Anche il linguaggio assolve questo compito, tecnicizzandosi. L’uomo interroga gli enti come oggetti esterni da cui determinare il senso dell’essere: il loro e il proprio. Ma la metafisica, così intesa, conduce all’oblio dell’essere, che si nasconde anziché rivelarsi, e all’utilizzo strumentale degli enti nell’orizzonte del mondo tecnicizzato. Anche l’uomo, segue la stessa sorte, diventa “ente”, oggetto, cosa, strumento. Il pensiero si riduce a servizio del sistema: strumento fra gli altri per la soluzione di problemi interni alla “totalità strumentale” in atto nelle società contemporanee. Occorre dunque ripristinare il contatto con le sorgenti dell’essere.

L’analitica esistenziale di Essere e tempo (1927)

L’analitica esistenziale di Essere e tempo (1927) aveva individuato l’ontologia come destino e compito dell’uomo. Noi siamo l’ente che si interroga sul problema dell’esserci dalla prospettiva opaca del Dasein, la “deiezione” dell’esser-ci, dell’essere gettati in mezzo al mondo. Un modo per superare l’impasse di una metafisica che, per consunzione di principio, tradisce il proprio andare “oltre”, è fare dell’esistenza umana una manifestazione dell’Essere, che in essa si rivela e insieme si nasconde. L’Essere è la totalità che emerge da ogni singola cosa del mondo. È l’origine fondante che regge gli enti all’interno, e ne apre la soglia ontologica, cioè la luce entro cui l’ente si fa visibile in quanto è. L’Essere è il bordo non aggirabile della comprensione. Non spetta all’uomo cercare l’Essere, o tentare di conoscerlo. L’uomo non può far altro che abbandonarvisi e accettare le rivelazioni di cui l’Essere stesso prende iniziativa. L’Essere si manifesta per illuminazioni che accadono e, accadendo, si consegnano all’uomo. Tali rivelazioni avvengono attraverso il linguaggio poetico.

In questi ultimi anni la poesia italiana

In questi ultimi anni la poesia italiana ha mostrato segni di un cambiamento, di rinnovamento, si sono verificati dei ripensamenti sulla eredità che il secondo Novecento ci ha lasciato. Questo lo ritengo un fatto positivo. Personalmente, mi ritengo coinvolto in questo processo di rinnovamento della poesia italiana, forse certe mie affermazioni possono suonare apodittiche e eccessivamente taglienti, ma credo che sia necessario, in questa contingenza stilistica della poesia italiana, essere ed apparire categorici, anche con il rischio di essere fraintesi.

Il richiamo a Tranströmer era necessario, la prima opera di Tomas  Tranströmer, 17 poesie, risale nientemeno al 1954 e da noi quelle poesie sono state tradotte dall’encomiabile Enrico Tiozzo soltanto da pochi anni. Il fatto è che un ritardo così cospicuo di un libro così rivoluzionario ha determinato e contribuito alla provincializzazione della poesia italiana sempre più chiusa entro i suoi asfittici recinti. Credo che sia necessario, oggi, riproporre il problema del «cambio di paradigma», ritrovare i nostri progenitori di una poesia «diversa»; sono convinto che cercare strade nuove sia un dovere imprescindibile per la nuova poesia italiana. I poeti nuovi ci sono, basta cercarli e saperli leggere: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb, Antonio Sagredo ed altri che non nomino, la loro poesia è da tempo indirizzata in nuove esplorazioni e direzioni di ricerca, ed è talmente «diversa» da quella cui siamo abituati che rischia di passare inosservata.

Ad esempio, la «sospensione della temporalità», l’accelerazione e il rallentamento del tempo interno di una poesia» (secondo la teoria espressa in questa rivista da Steven Grieco-Rathgeb) che la «nuova poesia» persegue è una condizione preliminare della praxis poetica. In tal senso, la poesia occidentale può e deve far propri alcuni assunti di posizione poetica presente negli haiku giapponesi e, conseguentemente, nei tentativi di scrivere haiku «occidentali». La sospensione, il rallentamento e l’accelerazione della temporalità sono dei modi per introdurre una «rottura» della stabilità temporale e introdurci in una condizione di instabilità. Una condizione di disequilibrio che apre un varco nella memoria profonda e consente di riallacciarci alla condizione primaria della nostra psiche, agli «oggetti profondi» (le «posate d’argento» di Tomas Tranströmer) che giacciono e si depositano nel fondo della condizione stabile del nostro sottosuolo, una dimensione libera da quella illusoria credenza nella stabilità e nella continuità spazio temporale della nostra vita quotidiana. Leggiamo due versi fulminanti di Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è più nero.

Il nuovo concetto di «tempo» di cui Prigogine dà il trionfale annuncio nell’opera From Being to Becoming (1978), ci dice di un «secondo tempo», non più parametro (come nella fisica classica) ma operatore di una descrizione probabilistica, il «tempo interno». Continua Prigogine: «la giustificazione di questo punto di vista sta nell’osservazione che la natura, così come appare intorno a noi, è asimmetrica rispetto al tempo. Tutti noi invecchiamo insieme! E nessuno ha ancora osservato una stella che segua la sequenza principale a rovescio». L’obiettivo polemico è dato dalla critica alla tradizione occidentale «centrata sul tempo» e l’immagine «senza tempo» della fisica classica irretita dal modello platonico della Verità eterna e atemporale. Non a caso la storia della filosofia da Kant a Whitehead sarebbe segnata dallo sforzo di rimuovere questo ostacolo mediante l’introduzione di un’«altra realtà», il «mondo noumenico», gli «oggetti eterni» etc.. Tuttavia la meccanica quantistica e relatività generale sono portatrici di «una negazione radicale dell’irreversibilità temporale».

Ora, sta di fatto, che ciascuno di noi nella esistenza quotidiana sperimenta in sé un «tempo interno» che è diverso dal tempo interno di un altro essere vivente. Il «tempo interno» quindi è una realtà ontologica che non può essere dimenticata in sede di ontologia, perché ciascuno di noi lo sperimenta quotidianamente, ed esso esiste, pur non esistendo un tempo sovrano e unidimensionale. Il «tempo», per Prigogine, rappresenta il «filo conduttore» che consente di articolare a tutti i livelli le nostre descrizioni dell’universo. Resta però oscura la sua origine: «Come potrebbe sorgere da una realtà essenzialmente atemporale questo tempo creatore che costituisce la trama delle nostre vite?».
Si ripropone così il tema agostiniano del «prima» della Creazione. E il problema della ragion sufficiente dei processi unidirezionali come il tempo nel quale viviamo.
Ecco, io direi che la «nuova poesia» ci costringe a riparametrare il nostro «tempo interno» con il «tempo esterno» e a rimodulare la nostra sensibilità nei confronti del «mondo».

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Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, critica della poesia, filosofia

Giuseppina Di Leo POESIE INEDITE da “Incerte” con un Appunto dell’autrice e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “Le poesie ruotano intorno al tema della memoria, quasi che la parola scritta possa consentire la ripresa di un dialogo interrotto”; “la frammentarietà della forma è un tutt’uno con la frammentarietà della memoria“; “Le parole in quanto figlie legittime di Mnemosyne, vengono attecchite dall’oblio della Memoria”; “L’eventologia estetica”

Nasco a Bisceglie (Bt) nel 1959; frutto della mia tesi di laurea (2003) è il saggio bio-bibliografico su Pompeo Sarnelli (1649-1730), dal titolo: Pompeo Sarnelli: tra edificazione religiosa e letteratura (2007). Ho pubblicato i seguenti libri di poesie: Dialogo a più voci (LibroitalianoWorld, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010); Con l’inchiostro rosso (Sentieri Meridiani Edizioni, 2012); la plaquette Il muro invisibile (LucaniArt, 2012). Numerose poesie e scritti vari sono ospitati su riviste, antologie, blog e siti dedicati alla poesia. Dilettandomi di pittura, ho partecipato a collettive d’arte.  Alcune poesie sono state musicate dal M Giovanni Castro ed interpretate dal soprano Monia Massetti.

Appunto di Giuseppina Di Leo

 Caro Giorgio,

un procedimento in divenire, così realizzo mentalmente parlando di queste mie poesie. Le poesie brevi risalgono agli anni 2009-2011, altre sono recenti. Ma tutte ruotano intorno al tema della memoria, quasi che la parola scritta possa consentire la ripresa di un dialogo interrotto.

Caproni, a proposito di Res amissa, diceva che «la poesia muove spesso da un fatto quotidiano e perfino banale», come era stato, nel suo caso, la perdita di una lettera di un «carissimo amico». Può darsi allora che la poesia sia possibile solo in presenza di un assente? Che potrebbe essere il luogo, il volto o il tempo.  A volte succede che il pensiero stesso si atomizza e ci si dimentica la ragione stessa che aveva dato luogo ad una materia come la scrittura. Quando questo avviene, il fine da perseguire cambia direzione in corso d’opera, in modo che di quel fine non ne resta traccia. O meglio, il pensiero iniziale si perde lungo il tragitto in altri percorsi, i quali si moltiplicheranno ancora generando così una serie svariata di nuovi intrecci. L’idea del viaggio, altro tema a me caro, è parte del processo di trasformazione.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia «tra Atene e Gerusalemme», «tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione». «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».

Roberto Bertoldo a proposito del suo concetto di «surrazionalismo»: «La poesia resta una creazione oltre la ragione e la realtà, però passa nel corpo dell’autore, attraverso di esse. La ragione che va oltre la ragione assume in sé quegli “integratori emotivi” che la qualificano. Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione» (R.B. Nullismo e letteratura p. 251 Mimesis).

La poesia di Giuseppina Di Leo si pone nel solco dell’orizzonte posizionale della perdita della memoria, fenomeno del tutto nuovo e contemporaneo che noi stiamo da tempo indagando. Essa si presenta subito come una tessera scollegata dal tutto, come frammento di un tutto andato disperso e dimenticato. Leggiamo un verso incipitario:

I ragazzi sono di là. Prendo a leggere Elicura,

Si dà per scontato che c’è una situazione eventica isolata e scissa, priva di causa e di nesso logico. Qualcosa che è stata perturbata da qualcosa d’altro, dalla intervenuta rimozione della memoria. E il discorso poetico diventa franto, deturpato, franoso.

Io direi che la frammentarietà della forma è un tutt’uno con la frammentarietà della memoria. Le parole in quanto figlie legittime di Mnemosyne, vengono attecchite dall’oblio della Memoria, e chi parla di Spirito del mondo o di Spirito della storia dovrebbe essere interdetto dagli uffici pubblici. Il modo nel quale oggi si dà Mnemosyne è un modo frammentato, graffiato, le parole diventano isotopi che, durante la traslazione dalla memoria alla pagina scritta, perdono qualcosa, si impoveriscono, diventano cronotopi di antiche parole. Le parole sono enti speculari alla frammentarietà ontologica del nostro modo di vivere.

La frammentarietà della forma
per dire la non-possibilità di «leggere
il reale, di parlare al reale». Vige
la «forma informe» del verso libero
per poter parlare
a una realtà che non può più essere
rappresentata, ma solo citata.
La poesia non rappresenta più nulla.
Della realtà coglie i frammenti. La poesia.
Del nulla dice tutto quello che sa.

bello angelo androginoIl verso si è finalmente liberato di se stesso, ed è diventato qualcos’altro che fatichiamo a riconoscere. Ecco perché è così difficile, oggi, distinguere la poesia dalla prosa. È per via della libertà, quella libertà che i poeti si sono conquistata, che hanno pagato a duro prezzo durante il Novecento e che ancora stanno pagando. Quella antica libertà oggi si è tramutata nella peggiore delle reclusioni: la reclusione del verso liberato, cosiddetto «libero», in realtà zoppo e frammentato. Fatto sta che quel verso, rectius, quel frammento di verso, quel relitto malmostoso, ci parla molto meglio di quanto potrebbe fare un verso sinuoso e rotondo, un verso compiuto, ammesso che esista e sia possibile, oggi, scrivere un verso rotondo e compiuto! Nel verso informale e franto di Giuseppina Di Leo c’è una inevitabile frammentazione, quella frammentazione che è quasi un singhiozzo metrico, una aritmia del battito metrale che, come una oloturia, si nutre della «cancellazione» della memoria e dei vuoti dell’esistenza, quasi che fosse un avvoltoio che becca le carni dei cadaveri dell’esistenza. Nel mondo frammentato e tellurico di oggi, il poeta non può adire ad altro se non al frammento, alla interruzione, alla cancellazione, alla amnesia, alla ametria, alla diplopia, alla distopia quali elementi costitutivi della «solidità» ontologica della «nuova» ontologia estetica. Ma probabilmente è errato parlare di ontologia estetica, la poesia è evento, come ci ha insegnato Carlo Diano, un accadimento assolutamente singolare che ha significato solo per me e per nessun altro. Quanto più fragile è l’ossatura di questa eventologia estetica, tanto più vigorosa e forte sarà la vita della poesia. Paradossale. Così, la fragile barchetta di carta della poesia di Giuseppina Di Leo potrà forse varcare il mare del futuro. È incredibile, ma penso che si vada più spediti verso l’ignoto del futuro con la fragile barchetta di carta di Giuseppina Di Leo che non con i piroscafi dei poeti che fanno altisonanti dichiarazioni di fede poietica. Non era Rilke che nei Quaderni di Malte Laure Brigge raccomandava di rimuovere il ricordo perché «neppure i ricordi sono esperienze»?. E allora cosa sono le esperienze? Cosa sono gli eventi della poesia? Di cosa tratta la poesia? Giuseppina di Leo non può dare nessuna risposta, perché non la sa, può soltanto individuare l’evento: i ricordi sono scomparsi per loro conto per lasciare spazio all’evento della poesia. Incredibile, no?

da Incerte (inediti)

I ragazzi sono di là. Prendo a leggere Elicura,
l’oralitor, «in ossequio all’importanza che hanno
la recitazione e l’oralità nella cultura poetica
del suo popolo ».
Elicura mi sta accompagnando.
*
Lungo un altro percorso
nello stesso paesaggio scoperto
eguale importanza
hanno parola e silenzio.
Lo spazio obbligato necessario
da sondare.
Permettere alla memoria di ritornare.

*

Resto a guardare
per riflettere. E portare indosso
domande senza risposta. Anni passati
a riproduzione casuale in bianco e nero.
Se un sentire c’è, dentro è un sentimento.
Senza finzioni per l’oggi.
Faccio un passo indietro, mentre intorno
tutto gira come vento.

(2009 / 2016)
*

Bislacca, come una tenebra
partorita d’inverno, un’ombra
sfugge la mano. Ogni sole riluce
su fogli spazientiti di sonno.
Occhi di vento marciscono in bottiglia;
domande precipitano da torri tarocche.
D’inverno si annida il fiume del ricordo.
In giostra brulica in fondo la strada.
Volteggia scemando il carteggio d’amore.

(2010)
*
Quest’aria preserale di fine gennaio
è un gioco di dadi. La veste viene scommessa
tra le quattro mura domestiche del nulla.
Se mi addormento un nome nuovo
paurosamente cercherò d’imparare.

(2010)
*
Fino a quando avvertirò lo stacco?
Manca l’illusione di vita.

(2009)
*

Ma in realtà la scelta più saggia da farsi
sarebbe quella di vivere se stessi
in solitudine. Sto riprendendomi il mio tempo,
concetto dimenticato che torna amico.
Il mio tempo. In solitudine. Essere soli
vuol dire dimenticare, tornare
al punto del proprio limite
essere in sé, tornare con sé. Oltre
sono con me dentro la parte
più appartata, sconosciuta: sono dentro-
in-me. Riesco a sentirmi persino
felice.
Che il vecchio venga spazzato via:
volti nomi articoli famosità fumose poeti.
Spazzati via come foglie, bruciati come ossessi.
Evviva! Riesco a sentirmi
più intima di ago nella carne.
Viva!
E nessun dolore: nessun dolore, nessuno.
Niente. Nessuno.

(2009)
*

Provo il piacere della mia femminilità,
calda nel sangue la voglia pulsa.
Vino dolce da bersi a sorsi
piccoli piccoli, da gustare a morsi.
Liberato il desiderio padrona l’ossessione.
L’anima scivola dolcemente dal dolore.
*

Nell’invadenza delle ore d’ombra
senza suono, unita al silenzio della sera,
nessuna alba finge. Interiore,
silenziosa davanti alla notte.
Lieve il passo.
Il mondo ritorna un pensiero convesso
Il senso di colpa smerlato nel trabiccolo.
Lucida follia. Cuprea voglia.

(2011)

 

La nudità dell’aria apre spiragli
blu cobalto in sfondo nero fumo.
Un senso di tristezza stempera
insieme a ciò che l’ha portato ad essere
interminabili attese diventate tristi.
Anch’esse.
Fiore da preservare nel suo seme.

2011)

*
La luce del sole liquida pagine nel bianco.
Prendere le restie forze è ciò che bisogna fare.
Dalle mani ai piedi. Sollevarle.

(2011)
*
Quanta luce stamani intorno
su di me. Immensa
voglia rovesciata dentro.
Non saprei esprimere
una pace tormentata.
La ricerca che non trova pace.
2012

*
Cieca d’amore
m’ invaghisco e mi lascio prendere.
Dovrei forse cambiare?
Questi miei forse è un bene che si ripetano
sempre uguali, originali ogni volta.
Peccati da museo dell’innocenza.
Ripeto a me stessa avvertimenti
che non vorrei osservare mai.

Oscena è tutta questa luce
quasi una carezza
dopo una cattiva azione.
Imparare a soffrire senza soffrire
a ridere senza ridere.
Possibilmente
accettare quanto ci viene dal mondo.
Annullare la presunzione di cambiarlo.
(2009)

*
Enorme è la luce in questa stanza.
Parola e silenzio.
Ascolto come arte da imparare.
C’è dolore in tutto questo.
Mi urlano parole d’amore a bassa voce.

*
Certe volte il tempo sfora su se stesso
quasi avesse altro da confidare:
il momento di un altro, un momento
differente dal medesimo. Il tempo
estraneo a quello unico.
A quello stesso mio.
*
Gli istinti più feroci.
Basta poco in fondo
per tradire.
Tradire!
Che parola romantica!
(2011)

*
L’idea

A me piace molto
trovare posto per altri libri.
Ne vado alla ricerca
incessantemente: sposto di qua
faccio un po’ d’ordine di là
intanto che sfilo tra pile
muschio, campanule e qualche
tordo addormentato. Li sistemo
anch’essi su di un’altura
dove il fagiano becchetta
qualche foglia di scarola.
Volendo immaginare
il senso di questo cercare mio
lo vedrei alla maniera del restare
di certi anacoreti.
E intanto accosto
l’intransigenza della parola
stessa
al parallelo tra
volere
potere.

Sì, viaggiare significa forse restare.
Un restare pigiati insieme
a tanti altri di cui non importa:
se sapremo, mai ne ricorderemo i nomi.
E giù, più in basso andando,
ne verrebbe un altro controsenso
il dadaismo della contrizione
nella descrizione del dolore.
E mancare persino di speranza.

Restare, esser fogli da tenere in grembo.
Una voce, due voci, un quartetto
esser fogli, senz’altro chiedere.

Temere la mano che – ohi! – ruppe il mio naso
in cambio di un occaso (oibò!)
o la parlantina veloce di chi non ha tempo.

Con la leggerezza dei sassi.
Restare. Fogli, appesi ad un ramo.
E andare lontano
dove restare fogli
per sempre. Vorrei. – Alé!

(2015)

*
Quello della memoria è un sogno dimenticato.
Sulle ali dorme
finché, sveglio, velocemente vola.
Il prima, un attimo dopo, non c’è mai stato.
Nulla ricorda. Fino al punto in cui
dove avesse sostato non gli importa.
Sveglio. La ragione ne tenta i passaggi
nei quali a lei sola sembra possibile tornare.
Questioni di attimi.
Un vortice appena.
Ancora.
(2016)
*
a Mimmo Nappi

Si risolvono male le questioni di cuore
quando sopraggiunge la notte.
Un giorno diverso, così vedremo il mondo,
abbacinati, senza poter guardare. Il mondo
si farà una percezione dei sensi
o più semplicemente non esisterà più.
Sarà un po’ come dormire o correre
impauriti. Se dormiremo
ci prenderà il sonno profondo del tempo.
E sarà un tempo senza ritorno
per noi che appena fanciulli,
specchiati sul filo d’acqua lucente,
sentiremo il cielo tra le ciglia.
Vaga senza una meta il pensiero
in questo giorno triste. Eppure
io non credo alla morte del sole,
né penso la luna possa lasciarlo
scomparire mai, né io vorrei finire
il filo corsivo del dubbio.
La notte più nera
è nella paura di perdersi, per questo
penso non vero nel suo assoluto,
il nero della notte.
Di una notte è la linea ondeggiante.
Il filo corsivo del silenzioso sapere.

(13 genn. 2016)
*
L’indivisibilità del silenzio.

Il silenzio è un monolite
situato in un paesaggio
in cui si è persa la parola.
Anche i silenzi richiedono ascolto.

(2014)

*
La frammentarietà della forma
per dire la non-possibilità di «leggere
il reale, di parlare al reale». Vige
la «forma informe» del verso libero
per poter parlare
a una realtà che non può più essere
rappresentata, ma solo citata.
La poesia non rappresenta più nulla.
Della realtà coglie i frammenti. La poesia.
Del nulla dice tutto quello che sa.

05/06 nov. 2015 – Leggendo la nota di Giorgio Linguaglossa sul post della poetessa irachena Dunya Mikhail (in pari data)

Si risolvono male le questioni di cuore
quando sopraggiunge la notte.
Un giorno diverso, così vedremo il mondo,
abbacinati, senza poter guardare. Il mondo
si farà una percezione dei sensi
o più semplicemente non esisterà più.
Sarà un po’ come dormire o correre
impauriti. Se dormiremo
ci prenderà il sonno profondo del tempo.
E sarà un tempo senza ritorno
per noi che appena fanciulli,
specchiati sul filo d’acqua lucente,
sentiremo il cielo tra le ciglia.
Vaga senza una meta il pensiero
in questo giorno triste. Eppure
io non credo alla morte del sole,
né penso la luna possa lasciarlo
scomparire mai, né io vorrei finire
il filo corsivo del dubbio.
La notte più nera
è nella paura di perdersi, per questo
penso non vero nel suo assoluto,
il nero della notte.
Di una notte è la linea ondeggiante.
Il filo corsivo del silenzioso sapere.

*

Andavo da mia madre dopo il lavoro

Andavo da mia madre dopo il lavoro,
le spalmavo una crema omeopatica contro il tempo,
manuale di serenità del pomeriggio scalda sedia.
Sul tardi, tornava di soppiatto un ritmo scolpato
in serra protetta di terra d’odio; tre simbolici ‘sì’
erano tre simboli doppi ciascuno di sé:
lo specchio da infrangere dopo la caduta,
guadato in un sorriso a strazio.
Un fastidio sentivo allora, la presenza di bocche voraci
di rimando pizzicavano la mia carne, come
sorgenti moti in simbiosi. Il suo sguardo sereno
diventava improvvisamente severo, più spesso
triste e malinconico, quasi che nell’aria
si condensassero parole di chissà quali
individui: nella loro inutile presenza pur
mortificavano la sua persona per ricordarle
i tristi eventi che avevano segnato la sua giovinezza.
(A violenza subita, non ritorna il sereno.) Ma poi
passava, e tutto si traduceva in una battuta o in un fare.
Ciò che vedevo era il risultato di una serie infinita
di apporti, la trama di una fitta ragnatela
di rapporti che erano causa ed effetto di uno stato.
Era tuttavia un guardare e non capire il cosa o
il perché di ciò che nei suoi occhi vedevo.
L’analfabetismo di mia madre, il suo non poter
essere altro della brava massaia per sempre, questo sì
era ciò che vedevo e il tarlo che la tormentava
era chiaro in quel suo quotidiano ripetere:
– Ah, se sapessi leggere, scriverei un romanzo!

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Francesca Tuscano POESIE SCELTE da Thalassa, Mimesis-Hebenon, Milano 2015 – Poesia surrazionale, sovrassatura di toni – Poesia connotativa – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

foto donna con corvoFrancesca Tuscano è nata il 7 settembre 1964. Ha lavorato come burattinaia, insegnante (di russo e di italiano), archivista e traduttrice. Ha scritto di storia della musica russa e italiana, di teatro russo del Novecento, di traduzione dal russo (in Italia), di rapporti tra cultura italiana e cultura russa, e di letteratura italiana contemporanea (in particolare, di Alvaro e Pasolini). Ha scritto i libretti delle opere – Incontro (tratta da Occhi sulla Graticola di Tiziano Scarpa, musica di Fausto Tuscano), La canzone del re (musica di Fausto Tuscano) e Parole-morte (ispirata all’opera di Lovecraft, musica di Juan García Rodríguez). Ha pubblicato la raccolta di poesie M.Y.T.O., scritta con Damiano Frascarelli (Edizioni EraNuova, 2003), il pezzo per teatro Come si usano gli articoli ne “I diritti dei bambini”, scritto con Daniela Margheriti (Rubbettino, 2005) e La notte di Margot (Hebenon-Mimesis, 2007). Sue poesie sono state pubblicate in Terra e scrittura. Voci dalla cultura calabrese (Paideia, 2003) e Oro in tavola. Conversazioni e ricette sull’olio, di Grazia Furferi (Paideia, 2003). Ha tradotto e curato La fine del cinema? di Roman Jakobson (Book Time, 2009) e pubblicato La Russia nella poesia di Pier Paolo Pasolini (Book Time, 2010), Gli stagni di Mosca (lavitafelice, 2011).
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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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Il libro di Francesca Tuscano si presenta privo di prefazione, di postfazione e di risvolto di copertina, segno di una sfiducia nelle virtù della critica letteraria, segno di grande modestia ma anche della sicurezza nei propri mezzi espressivi. La poesia è nuda (al massimo può essere accompagnata da un corvo), se c’è, deve giungere al lettore con i propri mezzi, senza le stampelle di accompagno di una critica augurale e amicale, come oggi si usa. Mi sembra un ottimo segnale di presentazione. Francesca Tuscano mette subito le carte in tavola. Si presenta con una scrittura fitta, serrata, raddoppiata, intensificata che fa uso di figure retoriche come l’anafora, il frammento, la citazione, la ripetizione; una scrittura che preferisce l’intensificazione e l’accentuazione dei timbri e dei toni ed evita, deliberatamente le ralenti, il largo e l’andante. Circola in queste poesie una atmosfera sovrassatura di gridi soffocati e di esclamazioni intermesse, di sovra toni, di un lessico preferibilmente ultroneo con preferenza per il tono asseverativo, assertorio, quasi numinoso, una concentrazione di immagini e di lessemi in orchestrazione che si rinforzano a vicenda. Uno stile «surrazionale», per usare una dizione di Roberto Bertoldo, ovvero, sovratono, connotativo. Roberto Bertoldo a proposito del suo concetto di «surrazionalismo», scrive: «La poesia resta una creazione oltre la ragione e la realtà, però passa nel corpo dell’autore, attraverso di esse. La ragione che va oltre la ragione assume in sé quegli “integratori emotivi” che la qualificano. Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione»*  Oserei dire che la poesia della Tuscano fa largo impiego di «integratori emotivi», quegli emoticon letterari che costituiscono l’ossatura e il DNA della poesia metafisica; e lo fa con grande perizia e felicità espressiva:
.
Lo scarto, il relitto hanno la densità translucida della perla ingiallita.
Il loro valore è nell’essere ancora, malgrado la fine.
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Una scrittura sicura di se stessa, che sa come presentarsi al lettore, senza giochi di parole e senza ironia. Fin qui il bene di una scrittura complessa, incalzante, ardimentosa, il che non è poco in tempi di malthusiano perbenismo da refettorio e conformismo poliziesco. A volte, è proprio quell’eccesso di assertoricità che finisce per  nuocere, a scapito della leggerezza, della alternanza dei toni e della variazione delle note del pentagramma, ma è una annotazione da fare in punta di penna; la Tuscano fa poesia sfruttando le capacità lessematiche di pochi nuclei semantici e metaforici, punta su quelli fino alla fine, senza indugio, con caparbietà, una scrittura che vuole scuotere e coinvolgere il lettore, lo vuole indurre in responsabilità.

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* R.Bertoldo Nullismo e letteratura p. 251 Mimesis, 2012

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francesca tuscano

francesca tuscano

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Poesie di Francesca Tuscano da “Thalassa” Mimesis-Hebenon, 2015
(a Lucina)

.
Rientrare nell’origine del silenzio.
Attendere il ritmo del fiore di carne.
Ascoltare le palme unite che stringono la cosa comune.

Qui c’è il mare che si allarga a cerchi
nello spazio indefinito dell’immanenza.

Puttane dolcissime, che con il sorriso della carne
indicate il ritorno – se fossi viva vi benedirei,
con il segno obliquo dell’acqua.

***

Un giorno si leverà la polvere gialla a dirci che il nostro secolo è finito.
Molti, i più, saranno ancora chiusi tra i muri dei finti diari di narciso.
Alcuni, pochi veramente pochi, correranno dietro ad uno straccio nero.

È stato un tempo come un altro, questo, e senza ruderi da lasciare.

Se si sezionasse la vittima dell’angelo voltato, si vedrebbe sotto pelle
pulsare un ridicolo cuore a forma di ombelico. Un feto nel feto,
che sorride della fine che si chiude nel principio, felice della sua morte insulsa.

Più ad est, nelle terre della devastazione, la vita ha smesso di essere storia.

***

Brucia i mattoni il sole. E tu sorridi, con lo sguardo idiota dell’amore.

Io aspetto, nel terzo cerchio della prospettiva inversa, e conto gli spilli
infilati nella rossa rosa tatuata sulla schiena dell’addio.

Dicono sia sogno di molti tornare nella caverna da cui tutti uscimmo.

Camminarono svelti i passanti del domani, certi della loro esistenza.
Ma io mi disperdo in angoli e frattali, sicura che nessuno guarderà a questa nuova luna.

***

Lo scarto, il relitto hanno la densità translucida della perla ingiallita.
Il loro valore è nell’essere ancora, malgrado la fine.

Questa notte non si contano più le cicale. Non si contano gli occhi.

Nel terzo cerchio il nulla insegue le ombre dei sensi.
Mai più, mai più noi sapremo quanto lontana è l’ultima fuga nel ventre.

***

francesca tuscano Thalassa cop

.

Labile è il limite tra la necessità del vivere e il desiderio di morire.
Labile quanto questa diffusa luce inconsistente.

Mi guarda la tortora, nel buio dell’edera.
I suoi occhi invitano al viaggio più delle ali dell’albatro ferito.

***

Beato l’ultimo che ignora di essere il primo.
Beato il santo idiota che non possiede né cieli né terre.
Beato colui che ha dato la giustezza al nulla.
Beato il ventre che non ha voluto il ritorno del feto.

Beata la notte che anticipa il giorno, seguendo la lama del coltello.

***

Ho attraversato ponti ed attese.
Ora mi fermo di fronte alla casa dell’esilio.
Molte vittime crea l’incuria del tempo,
e molti inutili carnefici si illudono –
non è umano il potere del dolore.
La rivolta è solo in questo,
in questo urlo contro i colpevoli Lumi,
che ancora gridano giustizia senza guardare il cadavere
e l’incolpevole fetore della sua eredità organica.

Guardo alle spalle per trovare l’ombra che non ho,
e trovo il mare, e la sua morte voluta,
e la sua vita incolpevole.

Nuda, nuda, nuda passerei per queste strade,
come fece Godiva, e i suoi sciolti capelli innocenti.

***

La retorica delle madri e dei padri insiste nell’ombra del regno perduto.

Non esiste che una maledizione, e piccoloborghese – incistirsi nell’utero
beato del “sì”. Cercare il perdono (per la colpa mai avuta)
nell’approvazione di piccoli padri e piccole madri crudeli,
accecati dai loro piccoli specchi. In poche zolle di terra finisce la gloria
della tolleranza. In molte lune di traverso si perde la preghiera del feto.

Nel silenzio si affilano i coltelli. Beato chi è diverso, e i suoi umili occhi di sasso.

***

Tu l’hai saputa la vita altra che ti cresce dentro.
Un tempo guardavo al mio ventre come al segno sbagliato.
Ma ora so, e anche tu me l’hai detto, che non c’è ventre
che non conosca la vita, quando dentro di sé fa cadere l’ultimo seme sprecato.

Nulla di vivo. Nulla di morto. Solo occhi che guardano occhi.
E la pelle che ancora racconta dell’ultimo passo sulla via del ritorno.

***

Lungo il fiume di pietra, che oggi attende la pioggia feroce,
tu hai raccolto il luppolo dolce, e altre erbe vive.

Esce a stento il respiro, mentre al fiume ora guardo
e alle rive di fango. Anche qui ho ascoltato le allegre menzogne

del dopo. Ma si perda il dolore, dentro l’angolo grigio
alla svolta del ponte. Niente semi dispersi dietro l’ultima barca.

Tu lo sai quante noi noi abbiamo guardato, mentre all’alba
sbattevano contro l’argine buio e cadevano a pezzi, nel vuoto.

Ma che ad altre ora succhino il sangue. Che ad altre
regalino specchi ingialliti. Noi sappiamo dell’anima dolce

che non vuole riflessi. Ora udire la voce lontana
è ascoltare il grido di un’altra. Il silenzio del corpo ci ha detto

che è peccato sognare nel sogno di un sogno di un sogno.

.

francesca tuscano JakobsonRoma

La Bellezza di Roma è quella dell’assassino.
Quella che rende colpevoli, anche nell’assenza.

Come ascoltare le retoriche colpe altrui, come le altrui virtù,
quando il silenzio accompagna le rovine di chi non fu che l’ombra
che vive ancora della solitudine del marmo?

Non sono questi i tempi dell’agonia delle statue.
Roma non è che un nome, nel cronotopo del vuoto.

***

Se nel mio mare è il dolore
(ormai lo so, non si guarisce, e questo è un bene),
in queste colline è il logos
(che deve essere, e anche questo ho imparato).

Ma è nello spazio, che non separa e non unisce,
è nel nulla del movimento tra le colline e il mare,
la giusta disperazione della vita.

***

Non pensavo all’odore dell’ombra,
né al rumore dell’argine asciutto.
Pensavo all’inutile suono del viaggio.

Se solo nel buio posso ora guardare a ciò
che mi ha fatto di terra e di sale,
è perché l’immagine è un andare di luce.

E lungo la strada raccolgo le pietre
che servono all’alba, per segnare ogni orma.

Cantavamo giustizia, e ci hanno accecati,
con spilli sottili ed infetti. Come il loro pensiero.

***

Dicono fosse avvenuto. Lei era morta, lì.
Lo avevano visto solo i margini bianchi
dei fogli, e il marmo sporco dei binari.

Lui non voleva che lei piangesse.
Ma i gabbiani gridavano e Nessuno si specchiava
nella camera triste della stazione.

C’è un diritto nell’esilio. E un doppio che ci segue.
C’è Penelope, che non vuole partire.

Le tele le tesse chi le deve strappare.
I naufraghi raccolgono scarti, rari come diamanti.

***

Galleggiano i suoi grandi occhi vuoti. Cercano invano
lo slancio che manca all’imitatore virtuoso.

La bionda affastella i pieni ed i vuoti, e a margine
(vuoto) inserisce sue note preziose
(così si diventa poi degne di note).

Nei sensi immutati dissolti in parole
sta il pianto del servo che ha perso il padrone.

Si supplica, dentro, e fuori l’ellissi di alberi ed acqua
si gonfia del vento sospeso
che alza la falsa memoria
di questa città, svenduta come carne disfatta.

Esiste, nell’immagine solo, la viva bellezza del segno.
Allegoria è tutto il resto. E borghese.

(Roma 2014)

.

Francesca Tuscano_RussiaLontano

Sono solo le ultime nuvole, al limite dei rami,
è solo la strada del nulla degli uomini di fango.

Non è finito il tempo della maledizione della Parola.
Ancora, ancora non si può scrivere poesia.

I buoni propositi non possiedono l’eleganza
del cadavere, esposto nella fossa scoperta.

La vergogna non salda il corpo nudo al silenzio.
Lo sputo si è fatto mare, putridamente vuoto.

Leucò

Accanto al grido del corvo mi siedo a contare
quando agli uomini è preclusa la voce che ascolta.

Meglio così. Meglio contare questa pioggia obliqua,
e il suo andare capovolto, la sua certezza.

Nel tempo che anche a me è toccato, non esiste più voce.
E chi ne ha, guarda alla bianca pietra dell’eco, a denti stretti.

***

Là dove le nebbie s’acquietano,
volano le cornacchie senza orizzonte, all’ombra del grido.

Non seguire la donna che piange.
È l’ora della rabbia questa!
Dell’urlo, e del graffio sul melo.

Se il destino del fiume è lo scoglio di Leucò,
che la mia bocca sia solo canto e solo morso.

***

Le nebbie si alzano come un incendio.
Si contano uno ad uno gli aghi dei pini.

Vedo ancora e sento ancora il tuo arrivo,
e ancora conto i passi della tua partenza.

In una nuova solitudine, penso alla rivolta
che indica la strada disperata della pioggia.

Volevo offrirti una lingua perfetta, come una pistola.

Ma ho serrato i denti, soltanto, credendo
di ritrovarti un giorno, nell’acqua marcita
del grande fiume, che odora di merda e orchidee.

Il mio cuore, allora, diventato vecchio,
sarà incapace di tradire. Finalmente pronto
a rendere più giusta la mira, nel cielo bianco.

***

Vedo attraverso le quote di vento che mi sono toccate.
Non conosco il loro numero esatto, ma non serve saperlo.

Oggi la stanchezza ha raggiunto il limite del buio.
Non vedo più niente che si alzi dalla cenere.

Rotea la foglia contro il cielo dell’angolo da dove vedevo il sole del passato.

Quanta inutile morte accompagnerà anche questo giorno.
Di quanto pianto dovremmo piangere, se fossimo vivi.

Ma siamo cenere. E non è per questo.

***

Le notti si chiudono, nel silenzio a cui mi condanni.
Così si contano gli inviti dei balconi.
Così la melma impietrisce, nella ferita voluta.

Certo che altri occhi ci salveranno,
che altre mani avranno le certezze senza ritorno.
Ma a me non rimane che la tua spalla volta.

E allora scelgo strade che ancora ricompongano la carne,
che allontanino la punta del sasso dalla mano.
Che mi dicano – l’ombra non è che la luce, riflessa.

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Mimesis

Dagli occhi di Chlebnikov ho visto campane volare,
fluttuare dita come erba, ribollire acqua come salnitro.
Poi, ho letto di come ci si possa dare ragione senza scaltrezza,
convinti che basti poco a saltare la siepe di canne.

E allora, ho scelto il silenzio, e l’assenza dei nomi,
e la discrezione del dolore che non dimentica, per non farsi potere.

L’esperienza, si diceva, scivolando tra alfabeti, tra cose e parole.
Già, l’esperienza. Cosa su cui non si discetta se si è vivi.

Baroni saggi, cupe signore dagli abiti lunghi di color Deleuze,
vi prego, tornate ai vostri ombelichi, ed ai brillanti.

Ho visto rimpianti fuggire su strade di fango,
e nessuno a rincorrerli, fuorché il passero grigio.
Per questo ho smesso di leggere ciò che non è stato.
E alla morale di specchio ho offerto un chiodo sottile.

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