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La nuova patria metafisica delle parole – Una poesia di Steven Grieco Rathgeb da Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) – Lettura dei primi due versi di una poesia di Steven Grieco Rathgeb di Giorgio Linguaglossa – La crisi del Soggetto novecentesco e la nuova ontologia estetica

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Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com

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La crisi del Soggetto novecentesco e la nuova ontologia estetica

Come potrà il Soggetto parlare di se stesso se esso non è più il Soggetto ma un soggetto? Come potrà il Soggetto validare il proprio discorso se non infirmando il discorso che va facendo nel mentre che lo asserisce? È ancora possibile un discorso non-assertorio da parte del soggetto scollegato e spodestato da se stesso? Sì, è ancora possibile.

Questa «positività» del proposizionalismo poetico che promana come un lezzo dalla poesia assertoria e suasoria del novecento epigonico deriva dalla illusione di voler ancora imbastire un discorso poetico fondato sulla illusoria illusione del Soggetto legiferante, del Soggetto egemone (a pendio elegiaco o post-sperimentale fa lo stesso).
Io invece ritengo altamente proficuo un discorso poetico che fondi quella «positività» sullo zoccolo duro del «negativo», della «mancanza», della «traccia», della dis-locazione, dello spaesamento, della estraniazione.

Il fonatore dunque non coincide più con il locutore.
Il soggetto problematizzato si rivela essere il soggetto retorizzato. Qualcuno parla, sì, non è il soggetto ma un «Altro» che parla.

La filosofia moderna sostiene che il soggetto è indicibile. La poesia e il romanzo fanno di questo indicibile il senso stesso del discorso poetico e narrativo. Qui si rivela una antinomia del discorso poetico e romanzesco, ma è una antinomia fruttuosa che darà i suoi frutti migliori nella poesia europea da Herbert a Tranströmer.

La traccia dell’origine, in Derrida, funzionerà esattamente come un che di originario: esso si produce occultandosi e manifestandosi in Altro. Con la conseguenza che il linguaggio poetico e il linguaggio narrativo subiranno le conseguenze di questa non-adeguazione dell’originario a se stesso attraverso un Logos di un non-originario che si comporta tale e quale al logos dell’originario.

I linguaggi poetici veramente vitali saranno quelli, a mio avviso, che accetteranno di misurarsi con la non-adeguazione del discorso poetico all’originario, che si metteranno la coscienza in pace rispetto a questo problema accettandolo come il terreno negativo dal quale ricostruire l’infranto a partire dalla frammentazione.

La narrativizzazione della poesia moderna, quella che è stata chiamata da un autorevole critico «la poesia verso la prosa», altro non è che un riflesso della crisi del logos che si vedrà costretto ad accentuare il carattere assertorio e suasorio del demanio «poetico» con la conseguenza di una sovra determinazione della «comunicazione» nell’ambito del discorso poetico e narrativo.

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Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar/ radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano

La riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una problematizzazione intensa intorno alla de-fondamentalizzazione del soggetto. Oggi, in un’epoca di crisi economica e spirituale, mi sembra che i tempi siano maturi affinché vi sia una ripresa della riflessione intorno alle successive tappe della de-fondamentalizzazione del soggetto. L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante.

Oggi anche la poesia non può non investigare con nuovi strumenti espressivi gli aspetti della attuale fase della crisi spirituale.
Oggi una nuova ontologia estetica non può non prendere a parametro del proprio comportamento proprio questa de-fondamentalizzazione del soggetto. E ripartire da lì.

Sulla veranda: Meena e Beena Mathur

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

Scrive René Char: «Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro». Continua a leggere

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Seamus Heaney Morte di un naturalista e altre poesie,  Lo Specchio, Mondadori, 2014 pp. 118 € 17 traduzione di Marco Sonzogni, Commento di Donatella Costantina Giancaspero

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Seamus Heaney (Castledawson, 13 aprile 1939 – Dublino, 30 agosto 2013), Premio Nobel per la Letteratura nel 1995, Seamus Heaney (1939- 2013) è nato nella contea nord irlandese di Derry. Dal 1976 ha insegnato letteratura inglese al Carysfort College di Dublino. Nel 1984 è stato nominato “Boylston Professor of Rhetoric and Oratory” presso la Harvard University. Tra il 1989 e il 1994 ha ricoperto la cattedra di poesia a Oxford. A partire dalla raccolta d’esordio, Morte di un naturalista (1966), ha pubblicato numerosi titoli di poesia. Tra i più recenti: Veder cose (1991), The Spirit Level (1996), Electric Light (2001), District e Circle (2006), Catena umana (2010). Mondadori – Lo Specchio. Sempre per Mondadori nel 2016 è uscito un “Meridiano” delle poesie di Seamus Heaney.

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Commento di Donatella Costantina Giancaspero

 Il Meridiano riunisce due corpose antologie d’autore: la prima è relativa agli anni 1966-1987, mentre la seconda è stata approntata dal poeta appositamente per il Meridiano e pubblicata postuma da Faber nel 2014. Sono dunque presentate senza soluzione di continuità tutte le poesie scelte da Heaney come pietre miliari del suo cammino poetico: quasi cinquant’anni di versi con cui Heaney ha esplorato in profondità le corde della natura umana, raccontando la responsabilità di scelte individuali e collettive.

 Morte di un naturalista, la prima raccolta del poeta irlandese recentemente edita in Italia da Mondadori (2014) per la cura e traduzione di Marco Sonzogni, risale al 1966, opera in seguito rivisitata e pubblicata da Faber and Faber a Londra nel 2014, rappresenta il punto più alto della poesia di Heaney. Nella poesia di Heaney si ha un legame tra la memoria simbolizzata e il quotidiano presentificato, è questa la cifra che racchiude tutta l’opera di Heaney: ricorrono i toni pacati con la crudeltà dei gesti del quotidiano. Le rime (alternate, baciate, interrotte e riprese etc.), le paronomasie, le allitterazioni, le assonanze costituiscono l’ossatura sonora della sua poesia nel senso più pieno della classica poesia modernista novecentesca. Peraltro, la figuralità della storia e la riflessione sulla storia sembrano lontane e aliene dalla sensibilità del poeta irlandese ma sono introiettate nelle «cose».

La natura occupa un posto preponderante nella poesia di Heaney, fa da contraltare alle vicende degli uomini quasi come un correlativo oggettivo delle loro tempeste psicologiche. Un correlativo «positivo» del «negativo» della storia degli uomini. Nella poesia di Heaney il «positivo» si nutre direi naturalmente del «negativo». Ritornano nella poesia di Heaney le metafore, i personaggi, i luoghi e i simboli della sua famiglia rurale: «il rozzo scarpone», «la vanga», «mio nonno», «mio padre»,  la «torbiera di Toner» etc. Questa spiccata fedeltà e attenzione ai luoghi della memoria e ai luoghi ancestrali della sua Irlanda cattolica trasmette alla poesia di Heaney ben più di una sfumatura localistica, una lentezza esasperata pur nella orchestrazione fono simbolica di tipo conservatrice;  non a caso la critica anglosassone ha parlato, con un’enfasi propriamente non del tutto positiva, di «regionalismo» a proposito della sua poesia, rimarcandola presenza di questo elemento retrò nella sua poesia. La questione non è del tutto peregrina, anzi la ritengo fondata: se da un lato questo attaccamento alle radici della contrada familiare conferisce alla poesia di Heaney una terrestrità quasi terragna, con un che di primordiale, dall’altro ha finito per limitare il raggio simbolico delle sue «figure», ed ha finito con l’avere un riflesso limitante anche sulla portata innovativa della sua poesia, che rimane probabilmente l’ultimo avamposto di un modernismo europeo tipico di un certo novecento, quello, per intenderci, alieno dall’assorbire il portato critico delle post-avanguardie europee.

In questa accezione, la mia sensibilità estetica affinata dalla adozione della «nuova ontologia estetica», si rivela estranea alla sensiblerie di questa poesia, la ritengo un prodotto della fase terminale del modernismo europeo ancorata ad un concetto di poesia come pentagramma sonoro, oserei dire un concetto più pasternakiano, piuttosto che mandel’stamiano o eliotiano di poesia.

Digging

Between my finger and my thumb
The squat pen rests; as snug as a gun.
Under my window a clean rasping sound
When the spade sinks into gravelly ground:
My father, digging. I look down
Till his straining rump among the flowerbeds
Bends low, comes up twenty years away
Stooping in rhythm through potato drills
Where he was digging.
The coarse boot nestled on the lug, the shaft
Against the inside knee was levered firmly.
He rooted out tall tops, buried the bright edge deep
To scatter new potatoes that we picked
Loving their cool hardness in our hands.
By God, the old man could handle a spade,
Just like his old man.
My grandfather could cut more turf in a day
Than any other man on Toner’s bog.
Once I carried him milk in a bottle
Corked sloppily with paper. He straightened up
To drink it, then fell to right away
Nicking and slicing neatly, heaving sods
Over his shoulder, digging down and down
For the good turf. Digging.
The cold smell of potato mold, the squelch and slap
Of soggy peat, the curt cuts of an edge
Through living roots awaken in my head.
But I’ve no spade to follow men like them.
Between my finger and my thumb
The squat pen rests.
I’ll dig with it.

Scavare

Tra il mio pollice e l’indice
la tozza penna, comoda come una pistola.
Da sotto la finestra, un suono aspro e netto
quando la vanga affonda nella terra ghiaiosa:
mio padre, che scava. Mi affaccio e guardo
finché la sua groppa tesa nello sforzo tra le aiuole
s’abbassa, si rialza vent’anni addietro
curvandosi ritmicamente tra i solchi di patate
dove stava scavando.
Il rozzo scarpone andato sulla staffa, il manico
saldo contro l’interno del ginocchio a fare leva.
Sradicava gli alti ciuffi, affondava la lama lucente
per sparpagliare le patate novelle che raccoglievamo
stringendole con piacere fredde e dure fra le mani.
Per Dio, il mio vecchio la sapeva maneggiare, la vanga.
E così il suo.
Mio nonno tagliava più torba in una giornata
di ogni altro nella torbiera di Toner.
Una volta gli portai del latte in una bottiglia
con un tappo di carta abborracciato. Si raddrizzò
per bere, poi si rimise subito al lavoro,
fendenti e affondi lenti, gettandosi le zolle
sopra la spalla, andando sempre più giù
dove la torba era migliore. Scavare.
L’odore freddo del terriccio sulle patate, il risucchio e lo schiaffo
della torba impregnata, i tagli netti di una lama
su radici vive mi si ridestano nella mente.
Ma non ho vanga per seguire uomini come loro.
Tra il mio pollice e l’indice riposa
la tozza penna.
Scaverò con questa.
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