Il fatto che Dante, nel suo De vulgari eloquentia, già definisse come tristiloquium la parlata romana, quando era appena sconcio del latino e non aveva ancora maturato quegli elementi fonici e lessicali che poi ne avrebbero stigmatizzato il carattere ruvido e burbanzoso per cui non riuscì mai lingua regionale, probabilmente indica che il Poeta si riferisse a effetti della pronuncia, della cadenza e della recitazione, che erano specchio di un’originaria e ben evidenziata disposizione della plebe romana. Questo essenziale aspetto della lingua restò sempre emblematico dell’ambiente, vieppiù perfezionandosi nel tempo, accolto e tramandato in letteratura in modi e a scopi molto differenti, fra i quali qui vogliamo considerare, per peculiari analogie d’intenti e di procedimenti d’ordine estetico, quelli che si rilevano nei testi del Belli e di Pierpaolo Pasolini, che, a distanza di un secolo l’un dall’altro, scrivono, in sostanziale continuità di simpatia e di raffigurazione, di una lingua e una gente che son tutt’uno, non avendo la gente altro che la lingua come mezzo di azione e, di conseguenza, come prova – o illusione – di identità. Procediamo a un confronto.
La definitiva valorizzazione del Belli, finalmente poeta etico e civile, con fatica sottratto a un’inveterata lettura da preti e goliardi sperimentata come piacere occulto e masturbatorio, ha fatto sì che ormai se ne possa esporre l’immagine completa e a tutto tondo, senza gli equivoci che nel passato hanno contribuito a sacrificarla con purghe, messe all’indice e un più o meno conscio ma sempre inopportuno pudore critico.
Se infatti per tutto il periodo dei papi-re (nel caso Cappellari e Mastai Ferretti) le ragioni dell’emarginazione e della riduzione del Belli a poetastro comico e licenzioso (l’autore dei Sonetti, naturalmente) si scorgono ben nette nei contenuti (per la denuncia aperta di una tirannide quanto mai scellerata e in cattiva fede poiché spacciata in nome e in grazia di Dio) e al tempo stesso nella provocazione di forme dissacranti, volgari e oscene, nel tempo che corre dal 1870 alla pubblicazione degli studi di Giorgio Vigolo nel 1952, non sono i motivi politici del passato a isolare l’autore, ma il lessico procace e perentorio che ormai da tutti viene considerato necessario ad un dire che esprime il genio e il severo rigore intellettuale di un artista di altissima qualità.
Nel Belli tutto è lingua, tutto si brucia per divenire magma originario di materia verbale, dotato di forza ostensiva immediata e diretta di una realtà barbarica cui somiglia, e al contempo si fa canto galoppante, martellamento ritmico su bronzo che attrae la psiche allo stadio precoscienziale, ai primordi indistinti delle passioni, a un pathos ineludibile di natura che solo l’arte attinge e governa in modo da renderlo leggibile alla coscienza. E l’intenzione esplicita del poeta ci mostra il parlare prescelto in funzione esclusiva, scartando sia qualunque forma ufficiale che ogni altra meno sconcia modalità, non solo come mezzi insufficienti a una resa adeguata, ma anche e soprattutto come strumenti di vera e propria, odiosa contraffazione, ingannevoli “a priori” se utilizzati rispetto alla specifica esigenza di fare un monumento alla plebe romana, in cui la plebe stessa si presentasse e si specchiasse fino all’orrore di sé.
Il Belli vuole esporre, non commentare, ed espone la plebe esponendo lingua, la lingua più rozza possibile che si trovi a testimoniare la vita di un genere umano che la possa parlare (o meglio si direbbe tirare addosso, vomitare, sputare e via discorrendo): una registrazione della natura come sarebbe il verso di un animale, l’eco roca di un rantolo, di un respiro, filato in versi che, nella cadenza etnica endecasillaba del parlare romano, paiono giustapporsi, farsi da soli. E un parlare di classe, non un dialetto dovuto a qualche “pattern “ culturale come i tanti vernacoli che hanno il crisma di un comune sentire municipale, e in questo ricorso a una lingua che non è sua, e in quanto tale meglio predisposta a trasformarsi in pura materia sonora nelle mani al poeta, il Belli agisce in una posizione che deve ritenersi privilegiata, maneggiando in funzione significante le parole così come uno scultore lavora il marmo in forme compatte e continue, libero dunque – il Belli – dalle ipoteche che gravano sull’uso del dialetto come «lingua del cuore».
Per tale valenza la lingua speciale del Belli, sconciata due volte rispetto ad un italiano onde si generava, per corruzione, quel dialetto ben poco individuato, come corpo linguistico strutturato, che a Roma si poteva considerare un fiorentino messo in bocca romana (data la forte toscanizzazione subita dal dialetto urbano medio), si definisce meglio come antilingua, espressione felice che è stata usata, nel libro Belli epico e popolare (Roma 1980), da un trascurato quanto eccellente studioso: Raniero Sabarini, accompagnato, almeno nella firma, dal fidato sodale Fiorenzo Nappo.
Se fu Giorgio Vigolo il primo ad aprire la strada ad una lettura adeguata del nostro poeta, fondando tante ipotesi successive che variamente avrebbero messo in luce la tempestività storica e la sensibilità etica in cui si compongono tutte le ambivalenze e le ansie personali dello scrittore, fu Sabarini l’ultimo a sviscerare, con novità e sapore di argomenti, seguendo la traccia lasciata da Carlo Muscetta, gli aspetti che fanno del Belli un autore europeo e rivoluzionario di gran rilievo, ideale continuatore della letteratura democratica dell’illuminismo, precursore dello straniamento di Brecht e dell’ironia di Hasek, frequentatore di una comicità intrinseca all’impiego dell’antilingua, con risultati di critica complessiva della cultura e dell’ideologia: specillando nel corpo dell’antilingua, Sabarini si mostra, come già il Belli, biclasse e bilingue per via di speciale empatia, in quella condizione unica e sola che permette di entrare con competenza all’interno di un dire paradossale, di un fare linguistico tutto performativo, imagine sonora di un ambiente che non si può annunciare in altro modo, perché altro non ha che l’interiezione – di cui l’imprecazione è una variante – per avvisare della sua sofferenza, che nella fattispecie sostituisce – o, se paia più giusto, costituisce – esistenza e presenza.
Che cos’è l’antilingua? L’opposto della lingua, evidentemente; e, come questa serve a veicolare valori organici sedimentati e condivisi in una società, attraversandone tutte le classi in un continuum culturale omogeneo, così quella serve a negarli, a rappresentare solo stati umorali, che inevitabilmente sono estremi, aggressivi e amari, latori di cinismo e istinto animale, risarciti soltanto da tutti i gradi del sarcasmo e l’osceno, lo spazio vitale del comico che accompagna la continua denuncia come unica reazione esistenziale a forze minacciose incontrollabili. La lingua copre vizi e difende interessi che la plebe non ha; I’antilingua è la prova, la stessa voce della disperazione e del dolore, un rantolo superbo, rassegnato ma mai riducibile a qualche consenso genuino.
Quest’antilingua, dunque, non è un dialetto (né perciò è autore dialettale il Belli), ma – si è detto – è una voce, raccolta dal poeta come folclore (di tipo urbano – è chiaro – e del tutto alieno da ogni visione romantica del fenomeno), nel modo in cui da altri si è proceduto a inventariare il canto popolare, quello più puro, senza età né autore, e spesso senza luogo o testo certo, che dilata all’intero mondo dei vinti le verità intuite nell’ignoranza. Non per nulla lo stesso Gioacchino Belli definì la favella del suo poema idioma romanesco e non romano, idiotismo continuo, effetto di abnorme sconciatura, deformazione instabile e arbitraria fermata solo nella registrazione della pagina scritta. Così, catturata la fluida e incisiva parlata dei luoghi più sordidi e ignobili della città, è in grado di esibire una sua “figura “ in cui convergono potentemente significato e significante: le descrizioni sono dirette e corpose, i giudizi sommari, espressi con nettezza e brevità, convenzioni e finzioni sono aggredite dall’irruzione dell’oscenità e dell’irriverenza più’ volgari che rompono le attese precipitando l’ascoltatore verso uno straniamento in grado di condurre al contatto intimo con la realtà sottesa alle parole; e d’altro canto dure allitterazioni, amalgami serrati e vigorosi di sibilanti e . suoni rotacizzati con effetti aspri e rochi, in traduzione acustica degli ambienti e degli umori guasti della città, dove pur “antivive” la maggior parte degli abitanti, i malestanti dell’Urbe. Di tale figura si può indovinare il colore: un livido grigio diffuso, talvolta avvivato da lampi sanguigni evocati indirettamente, soprattutto da vesti e da processioni (mettiamo il rosso che c’è in “cardinale “). Sono toni barbarici, primordiali, con rimandi all’inconscio e, in definitiva, epici e popolari – si diceva -, intendendosi l’epica in quella forma capovolta e istintiva attinente a gruppi che vivono senza essere mai soggetti della propria avventura, anche per ciò avvertita come sventura.
Tutto questo, che è frutto d’arte squisita, si potrebbe riuscire a verificare in qualunque sonetto, ma forse nessuno sarebbe efficace allo scopo quanto il seguente, che si riferisce alla prima delle manifestazioni sanfediste organizzate in risposta ai moti popolari liberali del 12 febbraio 1831: circa quattromila pezzenti furono fatti scendere, il giorno 21, dal quartiere Monti a piazza San Pietro, concedendo a una loro rappresentanza di trasportare in processione il papa. Il sonetto – per dirla con Sabarini – con un semplice elenco di soprannomi e una terzina che ne mostra un gesto, si fa ad un tempo «compiuto trattato di storia, di sociologia e di psicologia politica collettiva»:
UNO MEJJO DELL’ANTRO (n. 379, 27 gennaio 1832)
Miodine, Checcaccio, Gurgurnella,
Cacasangue, Dograzzia, Finocchietto,
Scanna, Bebberebbè, Roscio, Panzella,
Palagrossa, Codone, Merluzzetto,
Cacaritto, Ciosciò, Sgorgio, Trippella,
Rinzo, Sturbalaluna, Pidocchietto,
Puntattacchi, Freggnone, Gammardella,
Sciriàco, Lecchestrèfina, er Bojetto,
Manfredonio, Chichì, Chiappa, Picozza
Grillo, Chiodo, Tribbuzzio, Spaccarapa,
Fregassecco, er Ruffiano e Mastr’Ingozza.
Cuesti sò li cristiani, sora crapa,
C’a Ssampietro stacconno la carozza,
E se portonno in priscissione er Papa. Continua a leggere