La speranza e la tenebra (Anemone Purpurea, II edizione, 2007, pp. 288, Euro 13) è un corposo e potente romanzo storico di Aldo Onorati, pubblicato da Corrado Lampe nel 1997, ambientato a Roma e nei Castelli Romani, in un arco di tempo che va dal 1900 al 1965, attraverso le vicende private e pubbliche del personaggio protagonista, Felice Fortunati. Onorati adotta un procedimento narrativo eterodiegetico (la scrittura veicola una voce “fuori campo”, esterna ma non estranea al mondo descritto) con focalizzazione interna ai personaggi (gli accadimenti sono colti in coincidenza con il loro punto di vista). Felice Fortunati è un personaggio-Novecento: nasce infatti insieme al “secolo breve”, la notte di capodanno. È figlio di contadini, viene educato e cresciuto dalla terra, in mezzo alle voci di una natura ancora incontaminata, in una dimensione per cui uomini, animali e cose sono tutti sullo stesso piano biologico ancestrale. Poi però l’Eden infantile e villereccio comincia a venarsi di crepe, e sorgono i primi “perché?” di Felice. La ruota di un carretto schiaccia la testa a Fido, il suo amato cane, compagno inseparabile di giochi: e Felice si chiede «che male aveva fatto Fido?». Dalle trasparenze dell’idillio emerge il volto crudele della natura: «un giorno, mentre portava il granturco alle galline, assisté a uno spettacolo orripilante. Una lucertola, ipnotizzata, stava entrando nelle fauci di una lunga serpe. La striscia verde cupo aveva puntato gli occhi negli occhi della vittima. E, con la freddezza irrevocabile della necessità, uccideva una vita per alimentare la propria». Poi irrompe la bufera della grande Storia, con lo scoppio della prima guerra mondiale: i ragazzi cadono al fronte e Felice si chiede: «che sono nati a fare?». Poi, nel 1918, scoppia l’epidemia della Spagnola, che miete vittime in ogni famiglia. Felice, toccato personalmente giacché perde la madre, si chiede disperato: «Perché tanta povera gente? Che male ha fatto?». Di seguito, Felice viene accusato ingiustamente di omicidio, e finisce carcerato 5 anni…
Insomma, ironia del nome, Felice Fortunati ne passa di tutti i colori. È l’eterna epopea degli umili che in lui si ripropone e rappresenta; quelli verso i quali sembra maggiormente accanirsi, forse perché più deboli, la dolorosa assurdità che domina il mondo. Anche le domande di Felice sono, per motivi diversi, “assurde”: perché si nasce e si muore? cos’è questa forza arcana e assoluta che spinge le cose alla vita e le riproduce con irrazionale volontà? cos’è il «palpito cieco» che costringe gli esseri a vivere con reciproco danno? perché dunque il «disegno maligno della natura, la quale si allea con gli empi e distrugge i propositi degli uomini buoni»? perché il mondo sta in mano ai malvagi? perché punisce continuamente i giusti? perché dà tutto a chi ha già tutto? perché è così contorto l’animo umano, questo «buio fondale» senza strade certe?
Ci troviamo dinanzi la “maturazione alla vita” di Felice, per cui tra le chiavi del libro c’è anche, plausibile, quella del Bildungsroman. Felice sonda cioè, attraverso la propria umile esperienza storica, la stortura primordiale della creazione, corrotta dal “peccato originale” e inquinata dal Male in ogni piega. L’uomo è sintesi emblematica di questo stato di cose: altrove Onorati lo definisce «dio minore fuso a satana», che però è in grado di volare «senz’ali»: capace delle più bieche abiezioni e, al contempo, degli slanci più mirabili e sublimi. Viene subito in mente il “Discorso sulla dignità dell’uomo” di Giovanni Pico della Mirandola. Ma il libero arbitrio individuale è come schiacciato da forze insormontabili, agenti nelle circostanze cosmiche e storiche che ne determinano il corso dentro l’esistenza. Così Felice: la giustizia lo toglie dal carcere dov’era ingiustamente detenuto, ma la risorgente ingiustizia lo porta ad essere perseguitato dai fascisti, in particolare il suo “alter ego” in negativo, l’antagonista Cassione Loffa, il “caporale” di turno (direbbe Totò) che lo prende di mira per futili motivi. Felice, peraltro, non è tipo da scoraggiarsi facilmente: è un idealista puro che – anzi – non recede mai. Non come l’ex compagno di carcere Saverio, che pure ne ha acceso la passione politica. Saverio ha mollato, è sceso a compromessi: «Il confino dopo, il carcere prima…. A un certo momento mi son detto: il mio sacrificio non cambia niente». È qui la radice del male, il passaggio critico da cui origina la stortura. I malvagi prevedono e confidano che i probi, vessati onniparte dall’ingiustizia, a un dato punto rinuncino per stanchezza a esercitare il bene, giudicandolo ormai inefficace. Si rinuncia al bene perché ci si sente disperati, soli, isolati, insignificanti, e si percepisce vano il proprio contributo in un mondo che sta e va da tutt’altra parte. Si rinuncia al bene quando ci si accorge che perseguendolo si fa il danno proprio e talvolta anche quello altrui, mentre chi persegue il male non solo non paga la colpa, ma spesso ne ottiene straordinari benefici.
Felice è disilluso, ma non per questo privo di speranza, di fiducia nella possibilità della giustizia, dell’uguaglianza, della fraternità. Nel mondo c’è il continuo «trionfo del male sul bene, della mediocrità sul valore, della furbizia sulla trasparente intelligenza, del compromesso sulla chiarezza». Ma non ci si può rassegnare a credere che vinca sempre il malvagio. Felice sa e sente che occorre sempre e comunque reagire, farsi coraggio, lottare per la verità, per l’avvento di un mondo pulito, libero da intrallazzi, da marciume, corruzione, ipocrisia; un mondo capace di dare onore al merito vero, quando invece le capacità individuali servono per lo più a «farsi strada nella vita, cioè ad accaparrarsi un giro di potenti». Il mondo «non è fatto né per i geni, né per i santi, ma per i furbi», scrive Onorati: è questa l’amara verità.
Fra tutte le disgrazie che affliggono Felice, ce n’è una davvero immedicabile: la seconda guerra mondiale gli porta via per sempre il figlio Tranquillo. Così, benché incapace di odiare e incline a comprendere e giustificare tutti, stavolta Felice dà colpa al regime fascista e sente l’esigenza, anzi il dovere morale, di rifarsi per tutte le ingiustizie patite. La “vendetta” non sarà violenta, ma costruttiva e operativa, etica. Decide di entrare nel vivo della lotta politica: darsi da fare per una nuova società, lottare per un domani migliore. A partire dalla piccola ma ugualmente importante realtà locale: il suo paese. Felice crede nell’uomo, prima che nel cittadino: «Prima di chiedere a un uomo la tessera politica, chiedetegli la coscienza». È l’individuo che fa santo l’ideale, non viceversa. Felice intende il politico come “saggio servitore” dell’elettorato: concezione ingenua agli occhi del mondo, poiché da sempre la politica è un gioco sporco e intricato di compromessi e opportunismi. Felice scopre sulla propria pelle che «la morale è una cosa, la politica è un’altra: è calcolo, non sentimentalismo»: Machiavelli docet. La prassi politica, tranne eccezioni scomode e isolate, è interesse privato mascherato da interesse pubblico. I politici sono diabolici sofisti della comunicazione e abili mistificatori dell’etica: promettono qualunque cosa pur di ottenere il voto, cioè il potere, e il privilegio economico e sociale di gestirne le potenzialità. D’altra parte, se l’elettorato stesso vede nel politico un “dispensatore di favori” ad personam, che cosa attendersi da chi tiene il coltello dalla parte del manico ed è messo nelle condizioni di approfittarne? La libidine del potere è la perfida Eva che provoca la cacciata dall’eden incorrotto dell’Idea. Un conto l’idea, un conto la sua applicazione pratica tra gli ingranaggi e gli infiniti vincoli del mondo… Esempio tipico del politico-camaleonte, disposto e, anzi, favorevole ai compromessi, è lo spregevole Cassione Loffa. (Attenzione: è bene precisare che Onorati ha una visione complessa e aporetica dell’uomo, e perciò come narratore dà udienza alle opposte interpretazioni, al conflitto delle voci e dei pensieri. Anche il male ha le sue “ragioni”, e la luce, a sua volta, è autentica solo dal contrasto con la tenebra. Onorati lascia che parlino i fatti del racconto – spetta al lettore giudicare e ai personaggi stessi commentare l’evolversi della vicenda – poiché confida ancora nella parola come potente sintesi gnoseologica, e soprattutto grimaldello per la ricerca di una verità non data a priori, ma partecipata “in fieri”, dal concorso dialettico delle forze in gioco).
Cassione Loffa è spregevole, dunque, perché tale dimostra di essere attraverso il suo modo di pensare e agire. I fatti dicono che è un impostore, un infido, un opportunista, uno di quelli che restano a galla su ogni fiume, su ogni corrente. È il gran voltagabbana: prima è fascista, poi diventa gerarca prepotente; poi dopo la guerra si ricicla comunista (organizza sotto il nome di “camicie rosse” le sue vecchie camicie nere), poi ancora repubblicano… Il sistema si regge e sopravvive, generazione dopo generazione, su un tacito patto di connivenza generale e di omertà: nessuno ha il coraggio di dire che il re è nudo, dacché ciascuno, chi più chi meno, ha il proprio interesse a far finta di nulla. Dal romanzo emerge in negativo la gente, la folla, come un coro amorfo ma non neutro, a servizio del male e della sua distratta “banalità”. La maggioranza degli uomini è stolta: spesso, infatti, hanno ragione le minoranze. La folla è volubile e ingrata: con niente distrugge una persona e con niente la esalta… Basta poco per passare dagli altari alla polvere, o viceversa. Ecco allora i perniciosi “si dice” rimbalzati di bocca in bocca; le infondate immaginazioni; le maligne insinuazioni… e soprattutto le chiacchiere: «il mondo è abituato alla chiacchiere: chi la dice più grossa diventa priore».
L’entrata in politica di Felice coincide coi suoi primi problemi di vista: emorragie retiniche rischiano di renderlo cieco. Un disturbo evidentemente simbolico, quasi una compensazione psicosomatica al suo disperato bisogno di vedere le brutture del mondo per estirparle. Felice, malgrado tutto, riesce a diventare sindaco del suo paese. Vive tra la gente e vuole risolverne davvero i problemi: dedica anche 20 ore al giorno alla realizzazione dei suoi propositi di rinnovamento e moralizzazione della cosa pubblica. È un sindaco onnipresente; dunque di intralcio a coloro che vogliono fare il proprio comodo, e simpatico soltanto agli uomini liberi, non faziosi, non legati all’utile del momento. «Felice andava avanti, imperterrito, ostinato, sempre più convinto di stare nel giusto». Ma il vicesindaco Vivenzio lo avverte: «Non lo aggiusterai tu il mondo… che da millenni va a rovescio. Il mondo è una mola pesante; se ti ci metti contro ne vieni schiacciato inesorabilmente». Il percorso umano e politico dell’idealista Felice Fortunati si snoda così tra luce e cecità, speranza e tenebra, ostinata perseveranza e amara sfiducia. Ci sono momenti di sconforto in cui ammette che è impossibile cambiare il mondo imbrogliato, perché l’«imbroglio ha un miliardo di facce e ti imbroglia sempre», e allora starebbe quasi per mollare («è inutile combattere contro i mulini a vento… perché? per chi?»); ma poi non riesce a darsi per vinto, e continua, continua, perché sente che «la bellezza basta da sola a giustificare l’esistenza di una cosa» e che «il mondo non merita niente, ma io ti dico che il bene non è sprecato». L’ideale è tutto, anche se non c’è che ingiustizia, dolore, morte: «Il mondo è quello che è, ma guai a gettare le armi. Il male c’è ed è forte (…) ma chi non lotta per migliorare gli uomini, diventa alleato dei malvagi». Pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, dunque.
E tuttavia la chiusura del romanzo è cupa e sconsolata: la tenebra, da ultimo, prevale. Immobilizzato dalla malattia agli occhi, Felice resta vittima del sistema per cui «l’idea tra due fette di pane vale di più» poiché, per quanto giusta, senza “rendiconto” finirà per apparire sciocca e vana. La giunta del Comune viene travolta da uno scandalo di profitti illeciti. Felice, coerente fino in fondo, si dimette proprio quando potrebbe finalmente arricchirsi, spartendo sottobanco le porzioni o almeno le briciole del maltolto. E dà alle fiamme, sconfitto, il suo ultimo programma politico. Giusto in tempo per assistere alla fine della civiltà rurale, cioè al genocidio di un mondo di valori millenari: le terre lottizzate dal capitale, la natura fiorente ricoperta dal cemento e dal catrame, le acque e le arie inquinate, i canti dei contadini cancellati per sempre, il cancro dilagante del consumismo, i «visi impertinenti» dei nuovi figli dell’abbondanza… Ovvero il crepuscolo di una civiltà che Onorati registra – in parallelo con Pier Paolo Pasolini – attraverso molte sue opere, e soprattutto in quel capolavoro antropologico e letterario che è la Saga degli ominidi (1972).
Marco Onofrio
Aldo Onorati, dal saggio inedito “Discorso sulla libertà”
Per avere il pelo lucido e i lombi grassi, bisogna stare a catena e servire un padrone. Nessuno protegge i cani randagi. Nessuno getta ad essi un pezzo di pane, anzi: benché mansueti, sono scansati da molti e qualcuno li prende anche a sassate. I cani che latrano nelle ville patronali, al riparo e sicuri del proprio avvenire, suggeriscono ai loro fratelli selvatici di imitarli. Ma essi non possono farlo, perché sono nati così: non possono andare contro natura. Servi o liberi si nasce, non si diventa. Si diventa padroni, ma questo è il lato opposto di una stessa medaglia: il padrone è fondamentalmente un servo e il servo è un padrone in potenza. Gli uomini liberi non saranno mai né l’uno né l’altro. Ecco perché sono scomodi a tutti, combattuti ovunque senza tregua. Gli uomini liberi però sono la coscienza del mondo. Il loro destino è salire in croce, bruciare sul rogo, bere la cicuta, andare in esilio, subire l’umiliazione del sopruso, la persecuzione o – quel che è peggio – la condanna calcolata del silenzio. La storia, tuttavia, li riabilita e li porta come esempio, magari per servirsene e continuare a opprimere i “nati liberi”. Questo è il loro destino. E la loro grandezza.
Aldo Onorati, nato ad Albano di Roma nel 1939 è scrittore, dantista, storico della letteratura e autore di versi. Ha insegnato Lettere negli istituti superiori e ha condotto corsi di specializzazione in «Tecnica del verso». Ha pubblicato quasi tutte le sue opere con Armando editore, presso cui ha lavorato per un certo periodo come curatore dell’Ufficio stampa. È stato direttore editoriale e di collane di critica. Giornalista, ha collaborato per decenni ad «Avvenire», «L’Osservatore Romano», «Il popolo», «Giornale d’Italia», «Specchio economico», «Giornale di Brescia» etc., ed anche alla RAI-TV, III programma, «Dipartimento scuola educazione». Ha diretto numerosi organi di stampa, fra cui «Terza Pagina», «Intervite oggi» e «Quaderni di filologia e critica».
Fra i suoi libri di narrativa più conosciuti, Gli ultimi sono gli ultimi che fu scoperto da Carlo Levi e tradotto in Coreano, Esperanto, Francese etc.; Nel Frammento la vita, VI edizione; La sagra degli ominidi (VII edizione), che Domenico Rea ha prefato in IV ed., Lettera al padre (VI ediz.), il recente Le tentazioni di frate Amore, già in II ristampa con Tracce di Pescara e Il sesso e la vita con Edilet, prefato da Marco Onofrio, il quale ha riproposto Onorati come poeta in un’originalissima opera da lui scritta e divulgata (Il mistero e la clessidra, Edilet).
Le sue liriche sono raccolte in Tutte le poesie, Anemone Purpurea 2005. Fra i saggi critici, spicca Dante e l’omosessualità, in cui Onorati rivede l’atteggiamento della critica riguardo il giudizio dell’Alighieri sugli omosessuali; inoltre, Il crepuscolo del Novecento, I cinque pilastri della stoltezza (Armando 2003), Dante, Petrarca, Boccaccio e Boiardo ed Ariosto e molti altri. Importante è la supervisione e il saggio critico di post-fazione che Onorati ha fatto al libro di Louis La Favia sulla scoperta di un inedito di Dante: «Chanzona ddante» (Longo, Ravenna 2012).
La sua autorità di dantista lo porta a commentare il sommo Poeta in Italia e all’estero. Di recente, la Presidenza Centrale della Società Dante Alighieri gli ha conferito, al Vittoriano di Roma, il diploma di benemerenza con medaglia d’oro «Per la profonda conoscenza dell’Opera dantesca, al punto di diventare testimone nel mondo della Divina Commedia». È in via di pubblicazione con la stessa Società un’ampia sinossi critica dei 34 canti dell’Inferno.
Le sue opere di poesia e di narrativa sono state tradotte in 16 lingue, fra cui Coreano, Esperanto, Francese, Inglese (Ultima «Incontro con Zaccaria Negroni», X ed.), Spagnolo, Portoghese, Romeno, Tedesco, Russo (la silloge «Domande assurde» è apparsa prima a Mosca, tradotta e prefata da Evghenij Solonovich, e poi in Italia), Cinese, Polacco etc.
Ha diretto una collana di ecologia da Armando, scrivendo alcuni libri di successo per le scuole: «Ecologia, Cassandra del Duemila». Al presente collabora a “Pagine della Dante” e a «Leggeretutti».