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 Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del secondo novecento, La Crisi del discorso poetico, di Giorgio Linguaglossa, Quale è l’esperienza della realtà? di Carlo Michelstaedter, Dopo il Novecento, La poesia kitchen di Mario M. Gabriele, Poesie da In viaggio con Godot, Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria,

Giorgio Linguaglossa

 Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del secondo novecento. La Crisi del discorso poetico

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. Occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini per trovare una soluzione a quella crisi. È questo il punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. Qualche anno prima, nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario». (T.W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. Einaudi, p. 76)

Quello che oggi ci si rifiuta di vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche.

Davanti a questa rivoluzione in progress che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino ai capelli, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha tascabilizzato la metafisica (da un titolo di un libro di poesia di Valentino Zeichen, Metafisica tascabile, del 1997, edito ne Lo Specchio), ha scelto di non prendere atto del «sisma» del 18° grado della scala Mercalli che ha investito il mondo, di fare finta che il «sisma» non sia avvenuto, che nel Dopo Covid tutto sarà come prima, che si continuerà a fare la poesia di nicchia e di super nicchia di sempre, poesia autoreferenziale, chat-poetry.

Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente: «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto», «declinando il futuro» come scrive Mario Gabriele. Che non è una cosa che possa essere convocata in una formuletta valida per tutte le stagioni.

Il problema della crisi dei linguaggi post-montaliani del tardo Novecento, non è una nostra invenzione ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederlo probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica».

Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Io invece penso a qualcosa di dissimile, ad una poesia che possa durare  soltanto per il presente, per l’istante, per il soggiorno, mentre prendiamo il caffè, o mentre saliamo sul bus, i secoli a venire sono lontani, non ci riguardano, fare una poesia «fur ewig» non so se sia una nequizia o un improperio, oggi possiamo fare soltanto una poesia kitchen, che venga subito dimenticata dopo averla letta.

Per tutto ciò che ha residenza nei Grandi Musei del contemporaneo e nelle Gallerie d’arte educate, per il manico di scopa, per il cavaturaccioli, le scatolette di birra, gli stracci ammucchiati, i sacchi di juta per la spazzatura, i bidoni squassati, gli escrementi, le scatole di simmenthal,  i cibi scaduti, gli scarti industriali, i pullover dismessi con etichetta, gli animali impagliati. Non ci fa difetto la fantasia, che so, possiamo usare il ferro da stiro di Duchamp come oggetto contundente, gettare nella spazzatura i Brillo box di Warhol, la macarena e il rock and roll…

Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria

«Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria. Non è un fiorellino da mettere nell’occhiello della giacca: è un modo di pensare, di vedere il mondo in cui ci troviamo: un mondo confuso, denso, contraddittorio, illogico. Cercare di dire questo mondo in poesia non può quindi non presupporre un ripensamento critico di tutti gli strumenti della tradizione poetica novecentesca. Uno di questi – ed è uno strumento principe – è la sintassi: che oggi è ancora telefonata, discorsiva, troppo concatenata e sequenziale, quasi identica a quella che è prevalsa sempre di più fra i poeti verso la fine del secolo scorso, in particolare dopo l’ingloriosa fine degli ultimi sperimentalismi: finiti gli eccessi, la poesia doveva farsi dimessa, discreta, sottotono, diventare l’ancella della prosa.»

Rebus sic stantibus, dicevano i latini con meraviglioso spirito empirico. Che cosa vuol dire: «le cose come stanno»?, e poi: quali cose?, e ancora: dove, in quale luogo «stanno» le cose? – Ecco, non sappiamo nulla delle «cose» che ci stanno intorno, in quale luogo «stanno», andiamo a tentoni nel mondo delle «cose», e allora come possiamo dire intorno alle «cose» se non conosciamo che cosa esse siano. (Steven Grieco Rathgeb, 2018)

«Essere nel XXI secolo è una condizione reale», ma «condizione» qui significa stare con le cose, insieme alle cose… paradossalmente, noi non sappiamo nulla delle «cose», le diamo per scontate, esse ci sono perché sono sempre state lì, ci sono da sempre e sempre (un sempre umano) ci saranno. Noi diamo tutto per scontato, e invece per dipingere un quadro o scrivere una poesia non dobbiamo accettare nulla per scontato, e meno che mai la legge della sintassi, anch’essa fatta di leggi e regole che disciplinano le «cose» e le «parole» che altri ci ha propinato, ma che non vogliamo più riconoscere.

Carlo Michelstaedter (1887-1910) si chiede: «Quale è l’esperienza della realtà?». E cosi si risponde:

«S’io ho fame la realtà non mi è che un insieme di cose più o meno mangiabili, s’io ho sete, la realtà è più o meno liquida, è più o meno potabile, s’io ho sonno, è un grande giaciglio più o meno duro. Se non ho fame, se non ho sete, se non ho sonno, se non ho bisogno di alcun’altra cosa determinata, il mondo mi è un grande insieme di cose grigie ch’io non so cosa sono ma che certamente non sono fatte perch’io mi rallegri.

…”Ma noi non guardiamo le cose” con l’occhio della fame e della sete, noi le guardiamo oggettivamente (sic), protesterebbe uno scienziato.
Anche l’”oggettività” è una bella parola.
Veder le cose come stanno, non perché se ne abbia bisogno ma in sé: aver in un punto “il ghiaccio e la rosa, quasi in un punto il gran freddo e il gran caldo,” nella attualità della mia vita tutte le cose, l’”eternità resta raccolta e intera…
È questa l’oggettività?…».1]

Molto urgenti e centrate queste osservazioni del giovane filosofo goriziano che ci riportano alla nostra questione: Essere del XXI secolo, che significa osservare le »cose» con gli occhi del XXI secolo, che implica la dismissione del modo di guardare alle «cose» che avevamo nel XX secolo; sarebbe ora che cominciassimo questo esercizio mentale, in primo luogo non riconoscendo più le «cose» a cui ci eravamo abituati, (e che altri ci aveva propinato) semplicemente dismettendole, dando loro il benservito e iniziare un nuovo modo di guardare il mondo. La nuova scrittura nascerà da un nuovo modo di guardare le «cose» e dal riconoscerle parte integrante di noi stessi.

Dopo il novecento

Dopo il deserto di ghiaccio del novecento sperimentale, ciò che resta della riforma moderata del modello sereniano-lombardo è davvero ben poco, mentre la linea centrale del modernismo italiano è finito in uno «sterminio di oche» come scrisse Montale in tempi non sospetti.

Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967). Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo dell’experimentum per approdare ad una sorta di poesia che faccia a meno delle categorie del novecento: il pre-sperimentale e il post-sperimentale oggi sono diventate una sorta di terra di nessuno, in un linguaggio koinè, una narratologia prendi tre paghi uno; ciò che si apparenta alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una terza vita ma come fantasma, in uno stato larvale, scritture da narratologia della vita quotidiana. Se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi: Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista?, ma è la sua metafisica che oggi è diventata irriconoscibile. La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio,  con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista, come schiettamente modernista è la poesia di Elio Pecora, da La chiave di vetro, (1970) a Rifrazioni (2018), di Anna Ventura con Brillanti di bottiglia (1976) e l’Antologia Tu quoque (2014), di Giorgia Stecher di cui ricordiamo Altre foto per un album (1996) e Maria Rosaria Madonna, con Stige (1992), la cui opera completa appare nel 2018 in un libro curato da chi scrive, Stige. Tutte le poesie (1980-2002), edito da Progetto Cultura di Roma. Il novecento termina con le ultime opere di Mario Lunetta, scomparso nel 2017, che chiude il novecento, lo sigilla con una poesia da opposizione permanente che ha un unico centro di gravità: la sua posizione di marxista militante, avversario del bric à brac poetico maggioritario e della chat poetry dominante, di lui ricordiamo l’Antologia Poesia della contraddizione del 1989 curata insieme a Franco Cavallo, da cui possiamo ricavare una idea diversa della poesia di quegli anni.

«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».1

Le strutture ideologiche post-moderne, dagli anni settanta ai giorni nostri, si nutrono vampirescamente di una narrazione che racconta il mondo come questione «privata» e non più «pubblica». Di conseguenza la questione «verità» viene introiettata dall’io e diventa soggettiva, si riduce ad un principio soggettivo, ad una petizione del soggetto. La questione verità così soggettivizzata si trasforma in qualcosa che si può esternare perché abita nelle profondità presunte del soggetto. È da questo momento che la poesia cessa di essere un genere pubblicistico per diventare un genere privato, anzi privatistico. Questa problematica deve essere chiara, è un punto inequivocabile, che segna una linea da tracciare con la massima precisione.
Questo assunto Mario Lunetta lo aveva ben compreso fin dagli anni settanta. Tutto il suo interventismo letterario nei decenni successivi agli anni settanta può essere letto come il tentativo di fare della forma-poesia «privata» una questione pubblicistica, quindi politica, di contro al mainstream che ne faceva una questione «privata», anzi, privatistica; per contro, quelle strutture privatistiche, de-politicizzate, assumevano il soliloquio dell’io come genere artistico egemone.
La pseudo-poesia privatistica che si è fatta in questi ultimi decenni intercetta la tendenza privatistica delle società a comunicazione globale e ne fa una sorta di pseudo poetica, con tanto di benedizione degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.

(Giorgio Linguaglossa)

1 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017

La poesia kitchen di Mario M. Gabriele

L’estraneazione è l’introduzione dell’estraneo nel discorso poetico; lo spaesamento è l’introduzione di nuovi luoghi nel luogo già conosciuto. Il mixage di iconogrammi e lo shifter, la deviazione improvvisa e a zig zag sono gli altri strumenti in possesso della musa di Mario Gabriele. Queste sono le categorie sulle quali il poeta di Campobasso costruisce le sue colonne di icone in movimento. Il verso è spezzato, segmentato, interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo, è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote»; i simboli, le icone, i personaggi sono solo delle figure, dei simulacri di tutto ciò che è stato agitato nell’arte, nella vita e nella poesia del novecento, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story… sono flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano icone-flashback… non ci sono né domande, come invece avviene nella poesia penultima di Gino Rago, né risposte, c’è il vuoto, però.

Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale il pensiero sconnesso o interconnesso a un retro pensiero è ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali. Lo stile è quello della didascalia fredda e falsa da comunicato che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi. Mario Gabriele scrive alla stregua delle circolari della Agenzia dell’Erario, o delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli raffreddati dal senso chiaro e distinto. Proprio in virtù di questa severa concisione referenziale è possibile rinvenire nei testi, interferenze, fraseologie spaesanti e stranianti.

Tutto questo armamentario retorico era già in auge nel lontano novecento, qui, nella poesia di Gabriele è nuovo, anzi, nuovissimo il modo con cui viene pensata la nuova poesia. È questo il significato profondo del distacco della poesia di  Gabriele dalle fonti novecentesche; quelle fonti si erano da lunghissimo tempo disseccate, producevano polinomi frastici, dumping culturale, elegie mormoranti, chiacchiere da bar dello spot culturale. La tradizione (lirica e antilirica, elegia e anti elegia, neoavanguardie e post-avanguardie) non  produceva più nulla che non fosse epigonismo, scritture di maniera, manierate e lubrificate.
Mario Gabriele dà uno scossone formidabile all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto. È un risultato entusiasmante, che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana.

1] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica Joker, 2015 pp. 102-103 (prima edizione, 1913)

Mario M. Gabriele da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017)

4

La cena fu come la voleva Lilly:
un tavolino con candele e fiori
e profumo Armani.
Le chiesi come stava Guglielmo.
-Di lui- disse, è rimasto un segnalibro
nella notte di San Lorenzo.
Monika, più sobria dopo il lifting,
prese la mano di Beethoven
per un tour Vienna – Berlino.
Declinando il futuro di Essere e Avere
le gote di Miriam si fecero rosse.
Sui muri della U2
splendeva il museo di Auschwitz.
Averna era suggestiva con l’abito blu.
In un angolo giocatori d’azzardo
puntavano sull’eclissi lunare.
-Allora, posso andare, Signora?-
disse la governante.
-Ho chiuso tutte le porte e le finestre.
Può stare tranquilla-.
Raccogliemmo il riverbero di luce
nella stanza con profumo di violetta, e ligustro.
Una serata all’aperto, come clochard
e nessuna chiatta o pagaia alla riva
se non la fuga e il ritorno dopo il check-up.
E’ stata lunga l’attesa nell’Hospital day.
Il truccatore di morte
si è creata una Beautiful House
a pochi passi dal quartiere San Giovanni.
A Bilderberg la povertà si arricchisce di nulla.
Tomasina rivede i conti
con le preghiere del sabato sera.
Un giorno verrà fuori chi ha voluto l’inganno.
Se metti mano all’album vedi solo ologrammi.
Un quadro di Basquiat al Sotheby’s di Londra
ha dato luce all’Africa Art.
Bisogna rimetterla in piedi la statua caduta.

5

Il surrealismo, cara, l’abbiamo riscoperto
una sera d’agosto passando in via Torselli.
Erano i barattoli di Warhol
e le tazzine di Keith Haring
più che di un artista sconosciuto;
né sapevi, chiusa com’eri
nel tuo mondo di griffe ed evergreen,
che quella collezione fosse il meglio dell’Art Now
presentata dai signori Baxster
nella Galleria di Jan Buffett.
Ora solo un colore sopravvive in noi,
ed è autunno, prèt à porter.
Lucy seguiva il pensiero di Dennett e Florenskij.
-Perché fai questo?- le dissi.
C’è una stagione per la frantumazione
e una per la resurrezione!
Suor Angelina aveva in mano
le anime degli ottuagenari.
–La sepoltura dei morti? si chiese.
-Parlatene tra voi se vi va bene-.
E rimanemmo tutto il pomeriggio
in una riva all’altra,
facendo il giro del faubourg,
tra vecchie palme, e cipressi ammutoliti,
leggendo i libri della Biblioteca di Alessandria.
Il brahmano disse di stare alla larga dagli embrici.
Erika invitò i sapienti di Villa Serena
ad un cocktail party con brioche e gin-tonic,
perché parlassero della Vocazione di Samuele
e degli Oracoli di Balaam.
La mia anima è una barca,
senza mare e né sponde.
Ci fermammo sotto i portali.
Una voce si levò dal coro.
Iene e leoni fuggirono dal bosco.
Tacquero i muti e i sordi
e quelli che vennero con amore e afflizione
a seguire il flauto magico di Hamelin,
gli oroscopi di Madame Sorius.

6

Di te non seppi più nulla
se non fosse stata per una lettera
col timbro UK. Cambridge 2016.
– Egregio Signore,
Miss Olson non è più tornata da noi.
Le spediamo una chiave.
Lei saprà a quale porta appartiene-.
Ora ci tocca trovare l’armadio
e la buhardilla, escaneando fotos,
aprendo file e digital cameras.
Caro Adelfio non leggo più le Fetes Galantes.
E’ un peccato lo so.
E’ come dire che la Olson ha una casa a Portogruaro.
Padre Mingus accetta i cadeaux quando viene a Natale.
Osako ha buttato una vita
per togliere le spore di Nagasaki.
La stanza è clemente
quando escono i vermicciattoli dal muro.
Non ti lascerò andare, mia streghetta del Sud
che hai vestito le pagine bianche di perifrasi varie.
Raymond Queneau ha fissato l’istante fatale.
La domestica di turno ha percezioni notturne,
contatti paranormali. Ghosth!
Fu splendida Cathy quando riferì
di aver trovato nei ripostigli schizzi di Walterplatz,
un ritaglio della strage di Ustica
su una pagina londinese del Daily Mirror.
L’estate la passeremo a Pratolungo
ascoltando la voce dell’acqua,
leggendo Samson Agonistes. Continua a leggere

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Elio Pecora Poesie da Rifrazioni, Lo Specchio, Mondadori, 2018 pp. 150 € 18 – con un preambolo di Pier Aldo Rovatti da Abitare la distanza e una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 

Gif tenere il punto

la scrittura poetica non può essere ridotta a «episodio»

Scrive Pier Aldo Rovatti:

«La scrittura e la sua scena non possono essere ridotte a episodio. La ripresa del problema filosofia/letteratura ha senso se ci aiuta in una “chiarificazione”, per dir così, del linguaggio e della scrittura  in rapporto alla pratica filosofica. Considerazioni sul tempo interno della scrittura (l’interruzione, la pausa, il silenzio ecc.) rientrano in questo ambito problematico, in cui è importante che avvenga uno scambio di informazioni e di esperienza tra chi scrive di filosofia e chi opera nel campo del discorso letterario. Non mancano, per altro, esempi recenti e recentissimi di tale scambio, e per tutti potrebbe valere l’importanza che ha avuto Maurice Blanchot nell’ambito della più significativa comunità filosofica del dibattito francese contemporaneo.

Prendiamo alcune affermazioni da Deleuze: “È attraverso le parole, in mezzo alle parole, che si vede e si ascolta”, “Lo scrittore, come dice Proust, inventa nella lingua una nuova lingua, in qualche modo straniera. Scopre nuove potenzialità, grammaticali o sintattiche”.1] Il filosofo è uno scrittore? Sì se consideriamo che la sua pratica è una pratica di scrittura, e se poi siamo disposti a riconoscere che la scrittura, in ogni caso, (quindi anche nel caso del filosofo) non è un semplice uso del linguaggio, ma un “intervento” nella lingua e quindi un’attività di spostamento e trasformazione. Un lavoro di scoperta e di invenzione: più precisamente – e mi riferisco alla metafora deleuziana della lingua straniera – un lavoro di spaesamento; la produzione, nella scrittura stessa, di un effetto freudiano di perturbamento (o di Unheimlich). Che lo sappia o no – sembrerebbe di poter dire -, chi scrive di filosofia è impegnato a dar luogo a variazioni linguistiche che tolgono una presunta chiarezza, familiarità e prossimità alle parole. Il suo compito, nello scrivere, sembrerebbe piuttosto quello di produrre una distanza; ma “produrre” non è poi la parola giusta, e forse sarebbe meglio dire, rendendo la parola un po’ più straniera, abitare una distanza. Deleuze parla anche di “delirio” (sempre sul punto di diventare una malattia), e ricorda Beckett, che a sua volta diceva che bisogna fare dei buchi nel linguaggio perché solo con quest’opera di trivellazioni il linguaggio manda fuori quel che sta annidato, imboscato in esso. Ma se il filosofo crede (ed è opportuno che lo creda) di dover e poter scrivere il pensiero, cosa possono allora significare questa distanza e questi buchi? e che ne è allora del pensiero nella scrittura?»1]

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

È che anche la scrittura poetica non può essere ridotta a «episodio», pur se dell’«episodio» ne conserva tutte le caratteristiche, anzi, che si presenta come rappresentazione di un «episodio», senza esserlo, senza volerlo in alcun modo rappresentare o legittimare, perché non è compito della poesia volerlo. È che la migliore poesia che si fa oggi è priva di scrittura critica, non c’è più un linguaggio critico che può sostenerla e condurla verso il tragitto della lettura, perché anche quel linguaggio è stato esautorato e defenestrato dagli «idiomi di accompagnamento» che sembrano così ben scritti e accuditi da fare invidia ad un critico intonso. Non sappiamo neanche quale linguaggio impiegare per questo tipo di «poesia», che non appare né troppo «in» né troppo «post», è una scrittura che sta a mezzo, né di qua né di là, una scrittura impigrita da uno strascico di antica nobiltà denominativa. Ma è proprio quella sovrana pigrizia, quella paresse e grazie ad essa che la scrittura poetica di Rifrazioni può brillare nella sua aura di sobria caducità, perché accetta senza rancore di essere parola della caducità, parola dell’indebolimento del senso, parola dell’indebolimento dell’essere. L’indebolimento delle parole si rivela chiaro in quell’aggettivo posto a ridosso della parola «dio», intendo «frecciuto», con quel quasi vezzeggiativo che è già un diminutivo che va a collimare con un altro aggettivo «indebolito», quello «sfiacchito», poco più giù, addebitato al «corpo». Forse una certa manutenzione negligente del verso la può fare soltanto chi ha il verso nel proprio registro di classe, quasi una nobile pigrizia dello stile:

Non v’è un tempo per l’amore. Il dio frecciuto
può presentarsi non chiamato all’uomo vecchio
e nel corpo sfiacchito fortemente accenderlo.
Ma se l’impenitente non soggioga poi
l’oggetto amato, una pena senza scampo
fa strenua e balbettante la resa.

Leggiamo un’altra poesia:

Non si tratta più di accordare lo strumento
ma lasciarlo vibrare, ora solo sfiorandolo,
ora percuotendolo in una furia irriflessa.
un poco appressarsi a quel che mancava.
… Come andare dietro un’ombra senza chiedersi
di dove provenga. in quella toccarsi.

È ovvio che qui «lo strumento» non è più la lingua, «non si tratta più di accordare lo strumento», intendo la negligenza della distanza dalle parole… perché il linguaggio non accetta di essere «accordato», manipolato, manomesso, il linguaggio va accettato per quello che è, con i suoi rumori, le sue zone franche, le sue zone di silenzio, con i suoi gorghi semantici; soltanto «sfiorandolo» quello «strumento» potrà offrire i suoi significati, e «percuotendolo» «in una furia irriflessa». Il simulacro, la deità che presiede a questo rito è Dioniso. Ascoltiamolo:

Di quale Dioniso parla se da questo stambugio
si promette un desiderio sconfinato.
Quel dio di doppiezze pianse anche lui
e da quel pianto germogliò l’uva che inebria.

Gif saluto dalla nave

si promette un desiderio sconfinato

Dioniso è il dio dell’ebbrezza, del «desiderio» che muove tutte le cose, quel «desiderio» che viene evocato dalle parole e attraverso le parole, che viene portato dalla superficie e che conduce nella dimensione dell’ascolto profondo, nella dimensione della «distanza». Abitare il «desiderio» è già stare dentro una stanza, dentro una distanza, un girare intorno al «desiderio», viverlo dall’esterno e dall’interno al contempo. Dioniso è anche il dio che scuote dall’interno la fredda scrittura di Apollo, che è la scrittura della ricomposizione delle tensioni introdotte dal «desiderio». Un’altra parola chiave del libro, oltre a «desiderio» è «inquietudine», inquietudine e «rifrazioni» sono tre parole, l’una presuppone le altre, e tutte e tre contribuiscono a stabilire la Grundstimmung, la tonalità dominante del libro, perché la poesia, come dice Steven Grieco Rathgeb «è un luogo non una strada», ma noi non sappiamo mai se la strada condurrà in un luogo; è questa l’aporia massima: imboccare una strada sapendo che essa raramente ci porterà in un luogo. Una fredda scrittura apollinea vivificata dalla inquietudine della facoltà desiderante. È il desiderio che muove la poesia che è quella cosa che si scrive nelle intertemporalità, in quegli attimi di sospensione dal giogo del quotidiano, negli «interludi», e questo è forse il modo migliore per carpire il segreto del quotidiano. Il desiderio tende l’arco dello stile. Balugina la consapevolezza di «un altro tempo [che] corre in questo tempo», che la poesia la si fa e la si trova negli interstizi tra le temporalità. Leggiamo una poesia significativa:

Un altro tempo corre in questo tempo
che contiamo a minuti:
è l’ansa dove il sogno della mente
non conosce durata,
la parola che tenta se stessa
esatta, svelata.

*

Precipita lì ora, pure è la sola eternità
nella quale attestarsi.

Dove non è tanto importante la rima in «ata» del terzultimo con l’ultimo verso, quanto la apparente negligenza di infilare la rima proprio nel finale di stanza, quasi con noncuranza, quasi con stupore, come qualcosa di cui potremmo anche fare a meno: la rima che non sai più dove metterla, e che allora la metto in ultimo come per trarmi d’impaccio. In fin dei conti, la rima ha oggimai perduto la sua antica nobiltà denominativa, la sua gioia di vivere, la gioia del suono, quello che resta è quasi un impaccio, un incespicare, appunto, su una rima non necessaria, non voluta, non cercata. E in questo trattare le cose importanti con la massima noncuranza, proprio qui risiede un elemento di distinguibilità della scrittura poetica di Pecora. È qui la sua classe di scrittura, che sa di antico, come in certi verbi («adduce») che invece nel contesto della sua poesia diventa un verbo nuovissimo, o in certo lessico usurato che viene ripescato e riutilizzato, ma senza alcun riguardo per la scrittura ricercata, anche a costo di poterlo sembrare. Anche certe frasi assiomatiche sembrano dei logaritmi assiologici, e invece sono semplicemente dichiarazioni di indugio, di negligenza, di non belligeranza. Questo stile logaritmico mixato con una negligenza figlia dello stile colloquiale è il marchio peculiare della scrittura di Pecora: il poeta dice cose importanti come tra le righe di un discorso mezzo cancellato, di un discorso interrotto e ripreso e, infine, abbandonato per la via.

V’è un’ora della notte quando il sonno, che fino allora
ha retto il suo oscuro governo, d’improvviso si squarcia
nella veglia. Subito, uno dietro l’altro, come torme
di cani affamati si presentano i pensieri più cupi,
le minacce più funeste. E ogni ardire si sfalda.
Del passato non resta nemmeno una stilla di bene,
non v’è rimedio al peggio che spinge da ogni parte:
cova in ogni parola, si nasconde dietro ogni faccia. E solo
se riesci a trovare la forza di accendere la lampada,
di tornare alla pagina del libro lasciato prima
che il sonno t’avvolgesse, solo allora arriverai
a risillabare la speranza. (Trapela dalle imposte
socchiuse la prima luce dell’alba, livida, incerta.)

Forse la poesia è questo frangersi e rifrangersi di «rifrazioni», questo incrociarsi di raggi rettilinei che, attraversando i corpi, si propagano in altri raggi distorti. Elio Pecora prende a prestito dalle leggi dell’ottica questo singolare fenomeno che noi tutti abbiamo sotto gli occhi in ogni momento del dì.2]
C’è in questa scrittura poetica quasi una reticenza psicologica, un «dolore frammentario», una incertezza, una frammentazione del dolore, un voler pensare in pensieri e un non volere pensarli, una oscillazione tra pensieri diversi che albeggiano e si spengono, quasi un indebolimento dei pensieri. C’è un ingombro di oggetti e di pensieri che pensano gli oggetti di cui «la nostra giornata si riempie»; c’è questo mistero delle cose che sembrano allontanarsi o rintanarsi «nel buio odoroso di un armadio, fra mucchi di vecchie carte,/ nella tasca interna di una giacca da portare in lavanderia». Il discorso sugli «oggetti» diventa scivoloso. Il discorso sugli oggetti è un discorso sulla alterità, e allora il discorso slitta, oscilla, imbocca percorsi litoranei, laterali, obliqui attraverso i quali si può giungere alla meta di essi senza eludere l’aporia che li abita e che abita in noi, perché se il discorso poetico non costruisse questi cunicoli, queste vie indirette e oblique allora non ne verrebbe mai a capo, di quelle aporie, intendo, che giacciono al fondo del nostro rapporto con gli oggetti e con le cose. L’unico modo che il discorso poetico ha è quello di attraversare la vita degli oggetti, nella certezza che disporsi al raggiungimento della meta sarebbe un proposito illusorio e fuorviante. Continua a leggere

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