Mosca, monumento dell’epoca sovietica al missile nucleare
.
Petr Štengl nasce nel 1960 a Praga, dove tuttora vive. Ha studiato da tipografo ed è poeta ed editore. Dal 2006 è anche redattore capo della rivista di poesia contemporanea Psí víno (Vite vergine). I suoi testi sono apparsi su varie riviste ceche (anche online) e nelle sue due raccolte edite: Co říkal Zouplna (Cosa ha detto Zouplna), 2005 e 3+1, 2010. Da quest’ultima raccolta sono tratti i testi che qui presentiamo.
Intervista a Petr Štengl
Quando ha iniziato a scrivere poesie, e perché ha scelto questo genere letterario e non, ad esempio, i racconti, visto che i suoi testi mostrano una chiara struttura narrativa?
Sono sempre stato attratto dalla narratività. Ho iniziato a scrivere poesie, in maniera seria, convinta e con un certo interesse soltanto ben oltre i trent’anni. Non ho mai sentito di avere una robustezza letteraria tale da poter scrivere in prosa, che, tra l’altro, richiede tempo e concentrazione. Al momento, però, sto cercando, con un certo sforzo, di scrivere un testo prosastico, anche se non riesco a trovare tempo sufficiente per terminarlo.
Quando divenne redattore capo della rivista di poesia Psí víno (Vite vergine), alcuni componenti della redazione la abbandonarono, non condividendone il nuovo punto di vista: una poesia che non vuole essere “un distillato dell’esperienza e dell’identificazione metafisica personale”. Perché, secondo lei, una tale poesia è necessaria nella Repubblica ceca? Pensa che anche in altri paesi abbia lo stesso peso o significato?
La poesia ceca era addormentata, come la povera Rosaspina, e con lei l’intero regno poetico. Era venuto il momento di raggiungerla, facendosi strada tra il roveto, e risvegliarla. Provi ad andare in una qualsiasi libreria e, nel reparto (sempre più piccolo) dedicato alla poesia, provi a scegliere, ad esempio, cinque raccolte a caso e dia una scorsa alle diverse poesie. In questo modo ho trovato la risposta alla sua domanda.
Penso che la poesia nella quale credo funzioni in maniera universale e quindi anche altrove mantenga la stessa valenza. L’importante, come sempre, è cosa il lettore si aspetta dalla poesia e se sia davvero il compito della poesia quello di soddisfare delle aspettative. La poesia ha forse un significato diverso per il poeta e per il lettore? E c’è qualcosa che differenzi il lettore dal poeta? Io non riesco a vedere nessuna differenza.
Considera la scena poetica ceca fortemente frammentaria o piuttosto uniforme?
La scena poetica ceca è diffusamente sparpagliata. È segmentata in gruppetti affini o antagonisti, che comunicano tra di loro sporadicamente oppure si incontrano solo casualmente. Ogni rivista ha la sua cerchia di simpatizzanti e sostenitori, così come ogni sito internet, club o circolo letterario. Non c’è nulla che li unisca. Non cercano (tranne rare eccezioni) di comunicare o collaborare tra di loro. Da un certo punto di vista, ciò è un bene, in quanto, così facendo, l’arena poetica si sottrae, almeno limitatamente, ad una certa uniformità; d’altro canto, però, è una cosa abbastanza triste, in quanto i gruppi contrapposti non riescono ad instaurare una discussione comune. In parole povere, è un po’ la filosofia del “chi non la pensa come noi è contro di noi”. E il nemico, naturalmente, bisogna zittirlo e sotterrarlo.
Quali sono, secondo lei, le differenze principali tra la sua rivista e gli altri giornali e riviste di poesia cechi?
Inizierei col dire che nella Repubblica ceca le riviste e i giornali letterari si dividono in due categorie: quelli a basso costo con uscite trimestrali e quelli ad alto costo con uscite più frequenti (quindicinali). Questa circostanza permette ai quindicinali, ad esempio, di poter portare avanti le polemiche.
Dal punto di vista della concezione e dei contenuti, naturalmente, le riviste sono profilate abbastanza distintamente, ed è facile sapere cosa aspettarsi da ognuna di loro. Uno dei redattori precedenti di Psí víno la caratterizzò come un punk tra le riviste poetiche. Forse anche per questo motivo ha preferito, poi, lasciare la redazione.
Riesce a scorgere oppure si aspetta la nascita di una nuova corrente nella poesia ceca?
Spero che una tale corrente stia iniziando a nascere. La maggior parte dei redattori della nostra rivista sono anche autori e le loro opere iniziano a svincolarsi dalle varie classificazioni, nelle quali, di solito e con una certa predilezione, viene divisa la poesia. Le vari categorie di tale classificazione iniziano ad essere insufficienti. Ma ci sono anche numerosi altri autori – e anche loro sfuggono a qualsiasi classificazione – i quali stanno già preparando la strada per quelli che, mi auguro, aspettano impazienti sulla linea di partenza. Tra gli altri potrei citare Pavel Ctibor, Vojtech Vaner oppure Filip Specian.
I suoi testi sono come una confessione personale, scettica e spesso cupa, ma alla fine l'(auto)ironia mette il sigillo ad ogni sua narrazione, evitando che il finale appaia eccessivamente negativistico.
È difficile per me dare un giudizio sui miei testi; forse li definirei delle tragicommedie.
Spesso lei scrive e descrive, in maniera più o meno velata, la vita durante il regime totalitario comunista. Perché crede che sia tuttora attuale una riflessione su quel periodo?
Quando si cresce e si trascorrono i migliori anni dell’adolescenza in qualsiasi tipo di ambiente, nessuna circostanza, nessun regime, pur se totalitario, può rubare l’atmosfera di quel periodo.
Allo stesso tempo, nei ricordi affiorano necessariamente le varie sfumature di quell’epoca. La storia si ripete in circoli e, com’è noto, senza passato né futuro. I peggiori sono poi i fautori del colpo di spugna sul passato. Un approccio assolutamente da fronteggiare. Basti pensare a quanto accadeva negli anni 1970 nella confinante Germania, quando i Tedeschi decisero, coerentemente, di fare i conti con il proprio passato nazista. Forse, se non ci fosse stata la RAF, non avrebbero mai deciso di farlo.
Petr Štengl
.
Poesie di Petr Štengl
Una volta, quando eravamo piccoli,
nostra madre ci portò a uno spettacolo sulla piana di Letná, dove c’era un enorme
tendone e dentro una gigantesca balena. Tutta morta. “Guardate che bocca enorme
che ha, e quant’è grossa!” guardammo stupiti.
Era tutt’altra cosa di quando nostra madre ci portò all’ospedale a trovare
il nonno che stava morendo e io a fatica lo riconobbi sul lettino. Talmente era tutto
pelle e ossa. Piccoletto. La balena era certamente meglio.
Viaggiavano insieme ogni mattina,
e quindi i conducenti e noi pendolari li conoscevamo già. Non ci sorprendeva
perciò il suo strillare e le grida. La camicia però l’aveva
sempre pulita e perfettamente stirata, come se sua madre, che
era sempre in piedi un po’ più in là, cercasse di stirarla meglio che poteva. Poi
iniziò a viaggiare da solo e sulla camicia si vedeva che la temperatura del ferro da stiro
segnalava ormai un freddo cane. Controllava se gli autobus erano in orario,
e se qualcuno ritardava, gli abbaiava dietro. Poi iniziò ad abbaiare al mondo
intero, ma sembrava piuttosto un ululato. Oramai viaggiava tutto trasandato
scapigliato e sporco.
E poi successe quella cosa con gli accalappiacani. Ora non c’è nessuno
che controlli i conducenti e quelli fanno i comodi loro.
* * *
Ci sbronzavamo come quei ganzi
dei libri. Alcuni di noi scopavano anche come ganzi. Avevamo le loro stesse
depressioni, i loro stessi complessi. Alle tre del mattino ci mettevamo i fiammiferi negli occhi e la sveglia alle cinque
per riuscire a prendere la prima metro e andare a sfacchinare. Cosa cazzo c’era che non andava?
* * *
Nell’angolo sotto al letto,
in fondo, vivevano dei folletti. Avevano gli occhi di spille
di vetro giallo e si facevano vedere soltanto quando ero solo. Non avevano paura della torcia.
Quando sfregavo un fiammifero scappavano via. Mamma s’arrabbiava
per i fiammiferi bruciati sotto il letto. Per sicurezza mi coprivo fino al mento
con la coperta. Loro si mettevano seduti sul suo bordo e osservavano come mi addormentavo. Sotto il cuscino nascondevo una scatola di fiammiferi. L’agitavo. Correvano
a nascondersi sotto il letto. Mamma aveva paura che diventassi un piromane.
* * *
Abitavamo al quinto piano
di un palazzone di dieci. Di fronte c’era una casa di cinque piani, quindi vedevo bene
sia i piccioni sul tetto, sia quella donna che nella finestra di fronte metteva la gamba
sul radiatore del riscaldamento. I colombi mi piacevano e anche quella gamba. Passavamo
ore intere alle finestre. Io fissavo quella gamba nuda con l’uccello in mano. Il coniglietto ad acquerello, appeso alla parete della camera del bambino, pelava la sua carota.
* * *
Lentamente brucio una foto dopo l’altra,
nella stufa c’entra tutta Varna e anche Spalato, l’intero Mar Nero, i cortei del primo maggio
e anche un vecchio tram, quello che si guidava con la manovella, la casa col giardino,
ereditata dai suoi parenti, tutto l’autobus con i gitanti e persino il tramonto sul Sahara. Questa sì che è una vera cremazione. Prima il muggito, che forza!, poi il tubo sbianca e il fuoco inghiotte con gusto le fotografie con le date e le lettere sul retro. Mentre moriva non c’era nessuno vicino a lei, al crematorio, invece, erano tutti allineati come ad una rassegna. È naturale, visto si sono ritrovati tra le mani una casa da due testoni. Riuscirono a farsi uscire anche una lacrima e a smoccolare il fazzoletto. Al mattino il paracenere è ricolmo. Vado a svuotare tutta quella sua vita anche con la casa. Sul pacciame.
* * *
Va a finire che ti vendo al circo,
mi diceva mia madre, ma, ad ogni modo, tenendole la mano, la seguivo ubbidiente a Letná verso il tendone illuminato. Il clown era quello che mi faceva più paura. Sicuramente nasconde da qualche parte una gabbia piena di bambini col moccolo! Per sicurezza comunque applaudivo anche a lui. Durante la pausa andammo a vedere gli animali. In una gabbia angusta era sdraiato un orso. Non si muoveva. Forse era morto. Dietro c’era una gabbia enorme coperta da un tendone. Per un attimo vi intravidi da una fessura dei ditini che si agitavano.
Poi vennero solo i cavalli. Giravano sempre in tondo accompagnati dallo schiocco della frusta.
Mi innamorai della cavallerizza con la tutina turchese e le orlature dorate.
Poi mia madre mi vendette al clown.
* * *
Il mio disegno
dei soldati sui carri armati coperti di lillà, risplendente di un bel dieci
scritto in rosso, era appuntato sul cartellone del mio primo anno della scuola d’obbligo. L’anno
dopo arrivarono gli stessi soldati con gli stessi carri armati. Sul cartellone era appuntato il mio disegno di un vaporetto, senza il dieci. Ma l’anno subito dopo sul cartellone era di nuovo appuntato il mio disegno dei soldati sui carri armati, coperti di lillà, e un bel dieci scritto in rosso.
I soldati mi riuscivano meglio del vaporetto.
* * *
Tornare dal lavoro
nell’appartamento vuoto
accendere l’abat-jour
un lungo DVD porno
il breve culmine gioioso
ripulire tutto
Andare a guardare nel frigo
è completamente svuotato
scendere in strada
al negozio di alimentari
Il riflettore del locale dei divertimenti
rastrella il cielo
solletica il basso ventre delle nuvole
il rombo dei motori si avvicina
finalmente il primo bombardiere
* * *
La mattina cerco almeno
di far spuntare sul mio volto
qualcosa che somigli a un sorriso
Di pomeriggio mando un’offerta
per aiutare le vittime del terremoto
dall’altra parte del mondo
Il resto della giornata lo trascorro a casa
finché non cessa lo spasmo dei muscoli mimici
* * *
Il fine settimana passato con la lametta e il polso
la settimana passata con una manciata di sonniferi
il fine settimana successivo poi lunghissimo
La vista dal tetto del palazzo di periferia
In dispensa le patate intuirono di poter cogliere
l’occasione e iniziarono a germogliare
* * *
Si sforzava di mangiare quanta più frutta e verdura possibile
e di limitare i grassi
A volte l’artrosi non gli consentiva di correre dietro al tram
Con serietà e responsabilità si scervellava
su chi votare
Acquistò una macchina per fare esercizi
ma era circondato da figure sempre più perfette
Inviava offerte per aiutare le vittime del terremoto
e dallo psichiatra andava soltanto una volta al mese
Per principio in città usava solo i mezzi pubblici
e faceva la raccolta differenziata correttamente
Quante altre cose dovrò elencarvi
prima che lui lo capisca
* * *
Nella valle un noce
quello piantato da mio padre
Entrò in convento e non generò più
Sotto la corona spoglia si scurisce l’anello
la terra inghiotte la sua amarezza
Qui cominciò il viaggio di Orfeo
Io verrei con te fino alla fine del mondo!
Vuoi farmi felice
ma io lo so
che dovresti fermarti davanti al noce
* * *
È statisticamente provato
che gli sceneggiatori di Hollywood
riescono a far piangere più persone
che i produttori di gas lacrimogeno
Sì nemmeno un ciglio resterà asciutto
nelle file per i lavatoi pubblici