
cockail di immagini femminili
Due poesie inedite di Duška Vrhovac
Commento di Giorgio Linguaglossa
Uno dei problemi comuni che la poesia e il romanzo europei hanno di fronte oggi è l’eccesso di realtà, l’iperrealtà, o di ciò che la maggioranza intende sia la «realtà» e il «realismo» che ne consegue. C’è in giro oggi in Eurolandia il timore dell’infezione della realtà, il timore di essere infettati dalla realtà, di non poterla raggiungere o di non volerla raggiungere, di non poter aggiungere nulla a quanto è stato già detto e scritto. Il romanzo e la poesia del Novecento sono ormai alle spalle, cos’altro resta da fare ad un poeta europeo di oggi che parla e scrive in una lingua di un piccolo popolo come Duska Vrhovac che scrive in serbo?. Il problema è tanto più grande quanto più la comunità dei parlanti di un poeta si restringe, e Duska Vrhovac è un poeta particolarmente sensibile a questa problematica, lei che appartiene ad un piccolo popolo guarda all’orizzonte europeo. Problematica ben viva in Europa tanto più in quanto oggi la poesia è chiamata a svolgere non più un ruolo di «supplenza», «specifico», diciamo, di «nicchia» entro le coordinate stilistiche delle letterature di appartenenza, quanto invece un «ruolo assente», «una funzione inesistente». Ed appunto questa, credo, è la sua funzione, che la poesia non corrisponde mai ad una espressione esistenziale immediata, ma è data sempre nella mediazione delle mediazioni. Voglio dire, e la Vrhovac lo dice con me, che anche una «funzione inesistente» ha, per paradosso, una sua legittimità ed un suo valore. Oggi in Europa accade che alla poesia non venga conferita alcuna funzione socialmente identificabile, ma questo, credo, è anche la sua forza. Anche i Dipartimenti di letteratura contemporanea se ne stanno alla larga dalla poesia. Accade che nell’epoca del disincanto e della stagnazione economica e spirituale oggi non si chieda più nulla ad un poeta. E il poeta, per contro, non chiede più nulla al lettore È questa la crisi, di ruolo e di identità, che un poeta europeo di oggi deve affrontare. Duska Vrhovac ne è consapevole, lei che si muove tra Belgrado e Roma, avverte come l’eco di una minaccia: che la più grave accusa che si muove oggi alla poesia è che essa sia una attività onanistica, turistica, olistica. Accusa non del tutto infondata a giudicare dalla poesia che viene prodotta oggi in Europa, poesia che ha il timbro e il sapore di una saponetta, con tutti gli ingredienti e i profumi eufuistici al loro posto. Ecco spiegata una poesia come quella che Duska Vrhovac scrive passeggiando per le strade di Roma: una poesia fintamente turistica, che narra degli «sconvolti turisti» che passeggiano a «via Del Corso». La composizione comincia in sordina, come una poesia simil turistica del tipo di quella che si scrive in Eurolandia; man mano che la poesia progredisce si cambia il colore, si alza il tono, si amplia l’orizzonte, si cambia discorso, si assume un lessico quasi sacrale. Da un minus ad un majus. Fino al peana finale che sembra quasi una partitura di parole per un coro, una sacra rappresentazione, l’incitamento a scrivere poesia perché non ancora tutto è perduto. C’è un’ultima possibilità, un’ultima tenzone da affrontare. Poesia virile, dunque, questa di Duska Vrhovac, che ha alle spalle non solo la tradizione della poesia serba, ma quella europea, rivissute in modo singolare. Ed è questo, forse, il vantaggio di un poeta serbo rispetto alla nostra disincantata e disillusa tradizione poetica del presente, dove va di moda una cultura dell’ironizzazione, dello scetticismo e del disincanto,Duska, invece, rilancia: «I poeti sono i miei soli veri fratelli». (D.V.)

Duska Vrhovac Miami Airport 2008
Liberazione a via del Corso
Questo viola, come indurita goccia di dolore
fuggita dal pennello del pittore stanco,
cade sulle mie pupille annebbiate
e nella misteriosa veste del crepuscolo
avvolge Via Del Corso
Come mai qui, fra gli sconvolti turisti,
che, come la serpe la propria coda,
pescano se stessi sui resti dell’altrui storia,
vedo questi sodali di Kéri
dai visi con le tracce delle doglie
negli sguardi sguerci e agli angoli delle labbra?
Che siano diretti all’incontro segreto
con il Don Chisciotte di Farinelli
che in questi giorni mi sta alle costole
ripetendo all’infinito la stessa domanda:
come elevarsi in perpetuo e irreversibile volo
se come albero con le radici
con i tuoi fragili artigli sei incarnito nel suolo?
Passano degli Arabi, offrono meraviglie da poco
un gruppo di giovani emozionati con gli smartphone
fotografa una nota truccatrice
come passasse in persona Dante Alighieri.
Esaltata dal loro fervore
io dimentico il soffitto bucato
della mia casa belgradese
e leggera come il primo verso di un canto nascente
piano, recito a me stessa:
Salve a te Kéri László!
Salve Ezio Farinelli!
Questi esseri di sangue e carne
che portano i nostri nomi sono usurati
scompaiono, il che ci perseguita,
ma non siamo noi questi, amici miei,
noi siamo le nostre tele indistruttibili
e quei libri incombustibili e lettere, versi
come manciate di colori gettate sul viso del mondo.
Contro di noi nulla possono tutte le fabbriche del male
che lavorano non-stop
né i loro incendi o alluvioni
a scadenza infinita!
Con l’immagine e il verso, noi nonostante tutto
penetreremo tutti i bozzoli e le armature
come il guscio dell’uovo cosmico
da cui torneremo a rinascere.
Salve, a te Roma!
(Roma, 15 luglio 2015)

In città con Bukowski
Tutt’intorno carne
ossa
sangue
collegati da nervi assottigliati.
In alto
nell’arco del cranio
un’energia
che un tempo fu mente.
Nel vuoto
del torace
fischia il respiro stentato
dell’anima consunta.
Incallite le dita
sui secchi rami delle mani
battono
battono, battono.
Manca la gola
manca la voce
mancate voi
manco io.
Andiamocene altrove, Charles
le discariche cittadine sono colme
i manicomi sono al completo
anche al cimitero si stenta a trovare un posto.
*
Credo che per comprendere una poesia come quella della balcanica Duska Vrhovac sia importante partire da questa sua affermazione:
«Io vengo dallo spazio “buio” dell’Europa dove ad ogni generazione è garantita almeno una guerra ogni 20-40 anni; tutto il resto è incerto. E quindi la cultura è agli estremi margini. Per questa ragione anche il rapporto con la cultura era migliore in quello stato marcio e ormai distrutto, inadeguato e chiamato “comunista”, di quanto non lo sia in questo stato democratico che si sta arrampicando sugli specchi per raggiungere gli standard europei che l’Europa ha già superato, distruggendo se stessa nel senso culturale e culturologico».
Ovviamente, qui ci troviamo di fronte ad una diversa prospettiva. Una vera e propria deangolazione prospettica (almeno dal nostro punto di vista italiano) La Vrhovac guarda alla poesia da questo particolarissimo punto di vista, fatto di negatività e di positività, consapevolezza di provenire da una storia di guerre che si sono succedute ad intervalli regolari di tempo, e consapevolezza che alla poesia debba essere richiesta una parola (non di conforto, certo) positiva, esortativa, parenetica. Sta qui, credo, in questo dualismo e in questo spettro la posizione di partenza della poesia della Vrhovac. Sarebbe errato andare a cercare nella poesia della Vrhovac ciò che non c’è, caro Antonio Sagredo, nella sua poesia non ci sono e non ci saranno mai i giochi di parole, le acrobazie millimetriche della poesia che si fa qui in Occidente, nel nostro mondo disincantato e fuggitivo (sfuggente, fitto di vuoto a perdere). Con le sue parole:
Non devo più andare da nessuna parte,
tutti i viaggi possono cessare,
le fughe, le ricerche, ogni cammino…
*
Il diavolo ha da tempo compiuto il suo lavoro
*
Non più solo la morte ha occhi vuoti.
Anche la nostra vita ha ora occhi vuoti.
*
A questa mia unica vita
piccola e personale
quando penso
di rado
potrebbe andare molto bene
sarebbe anzi bella:
un po’ di primavera
erba
fiori
amori
una casetta
dei figli
un marito
un amante
dei parenti
amici
un grammo di carriera
bagliori
un briciolo di talento
giochi di parole
un anno dopo l’altro
occhiali sempre più forti
e anche se
la morte è certa
questa è la vita
qui sono
qui sono stata
ho intessuto un nido
e gli uccellini poi
il canto festivo
ed è così umano
gradevole
caldo
che quasi ti viene da piangere.
Eppure
caro mio
a questa mia vita
piccola e personale
quando ci penso
e mi fermo a guardare
tolti gli occhiali
mi lascio un po’ trasportare
e copro gli occhi con le mani
non mi aiuta neppure la morte certa:
da quando l’uomo esiste
caparbio e abile
mente a se stesso.
*
Inatteso
come un segreto
o una vendetta
per tutta la notte qualcuno
ha martoriato la mia anima
fredda la mano
ruggine il palmo
gli occhi vuoti
non terreni
come se non intuisse
che non sono morta abbastanza:
non lo sono
e non penso
di aprire gli occhi umidi
anche se è buio
e non si vede
né quello che sono
né quello che non sono.
*
Quando gli occhi s’incontrano
e si fissano
dimmi allora
la parola
che ti è rimasta in gola.
Sarà
che sono sfuggita alla morte
come se ci fossimo
riconosciuti ancora.
*
Non sei venuto.
Lo testimoniano il pane
il vino e la voce fievole,
il tavolo su cui tutto freme
nel suo restare confuso
davanti alla porta chiusa,
mentre mi consumo io,
e non la candela.
*
Vorrei scriverti una lettera
comincio e ci rinuncio
tu sai bene da quando.
Mi sembra sempre
che io stessa abbia
una conoscenza incerta
e pallida di ciò che vorrei dirti.
Per cui non dice nulla
ovvero niente di quanto desidero
che tu sappia veramente.
Sulla carta la parola è dura
ma io vorrei che tu la sentissi
ammorbidita, avvolta nel respiro.
Sulla carta ho paura che tu
non mi riconosca affatto
e ancor più che tu comprenda
il mio non saperti dire nulla.
da Quanto non sta nel fiato, (2015)

Duska Vrhovac
Duška Vrhovac, poeta, scrittrice, giornalista e traduttrice è nata nel 1947 a Banja Luka (Bagnaluca), nell’attuale Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, e si è laureata in letterature comparate e teoria dell’opera letteraria presso la Facoltà di filologia di Belgrado, dove vive e lavora come scrittrice e giornalista indipendente, dopo aver lavorato per molti anni presso la Televisione di Belgrado (Radiotelevisione della Serbia).
Con 20 libri di poesia pubblicati, alcuni dei quali tradotti in 20 lingue (inglese, spagnolo, italiano, francese, tedesco, russo, arabo, cinese, rumeno, olandese, polacco, turco, macedone, armeno, albanese, sloveno, greco, ungherese, bulgaro, azero), è fra i più significativi autori contemporanei di Serbia e non solo. Presente in giornali, riviste letterarie, e antologie di valore assoluto, ha partecipato a numerosi incontri, festival e manifestazioni letterarie, in Serbia e all’estero.
È autrice di tre volumi di racconti per bambini e per la famiglia dal titolo Srećna kuća (La casa felice) e anche ha pubblicato sei libri in traduzione serba: due libri di prosa e quattro libri di poesia.
Membro, fra l’altro, dell’Associazione degli scrittori della Serbia, e dell’Associazione dei traduttori di letteratura della Serbia, è attuale vicepresidente per Europa del Movimento Poeti del Mondo e ambasciatore in Serbia. Ha ricevuto premi e riconoscimenti importanti per la poesia, tra cui:
Majska nagrada za poeziju – Maggio premio per la poesia – 1966, Yugoslavia;
Pesničko uspenije – Ascensione di Poesia – 2007, Serbia;
Premio Gensini – Sezione Poesia 2011, Italia;
Naji Naaman’s literary prize for complete works – Premio alla carriera – 2015, Libano e il Distintivo aureo assegnato dal massimo Ente per la Cultura e l’Istruzione della Repubblica di Serbia.
Ha pubblicato i seguenti libri di poesia:
San po san (Sogno dopo sogno), (Nova knjiga, Beograd 1986)
S dušom u telu (Con l’anima nel corpo), (Novo delo, Beograd 1987)
Godine bez leta (Anni senza estate) (Književne novine i Grafos, Beograd 1988)
Glas na pragu (Una voce alla soglia), (Grafos, Beograd 1990)
I Wear My Shadow Inside Me (Forest Books, London 1991)
S obe strane Drine (Sulle due rive della Drina), (Zadužbina Petar Kočić, Banja Luka 1995)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua), (Srempublik, Beograd 1996)
Blagoslov – stošest pesama o ljubavi (Benedizione, centosei poesie d’amore), (Metalograf, Trstenik 1996)
Knjiga koja govori (Il libro che racconta), (Dragoslav Simić, Beograd 1996)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua) edizione ampliata, (Srempublik, Beograd 1997)
Izabrane i nove pesme (Le poesie scelte e nuove), (Prosveta, Beograd 2002)
Zalog (Il pegno), (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Zalog (Il pegno), edizione bibliofilo (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Operacija na otvorenom srcu (L’ operazione a cuore aperto), (Alma, Beograd 2006)
Za sve je kriv pesnik (La colpa è di poeta), (elektronsko izdanje 2007)
Moja Desanka (Lа mia Desanka), (Udruženje za planiranje porodice i razvoj stanovništva Srbije, Beograd 2008)
Postoje ljudi (Ci sono persone), edizione dell’autore (Belgrado 2009)
Urođene slike / Immagini innati (edizione bilingue), (Smederevo, 2010)
Pesme 9×5=17 Poems (poesie scelte in 9 lingue), (Beograd 2011)
Savrseno ogledalo (Lo specchio perfetto), (Prosveta, Beograd 2013)
Quanto non sta nel fiato, poesie scelte, (FusibiliaLibri 2014)
Isabella Collodi, acquaforte, Larga la foglia stretta la via
.
Marie Laure Colasson
Qualsiasi ierofania mi è ostile ed estranea.
Penso che la mia poesia sia afanica, apatica, drasticamente materica, diafana e diafanica.
L’arte che attraversa tutti i suoi momenti senza poter mai giungere a un’opera che esprima il positivo/negativo è l’arte di oggi, giacché non può mai identificarsi con alcuno dei momenti del positivo/negativo. Nella mia poesia non troverete mai un momento in cui si dice il positivo/negativo di una affermazione e né il positivo/negativo di una negazione. Affermazione e negazione facevano parte di quella metafisica che intendeva le parole che contenevano una intenzionalità verso […] una direzione verso […]. Nella mia poesia non troverete mai le «parole verso», che assumono la «potenza» della negazione o la «potenza» della affermazione, che intendono il reale come Nulla, e così sono quindi Nihil, nichilismo. Il termine Nulla non è ovviamente hegeliano ma post-heideggeriano, come post-heideggeriana è la conclusione del concetto dell’arte nella surmodernità. Come intendere e raffigurare il Nulla del Nuovo Nulla? Ecco, questo è il problema. Il nuovo nichilismo della surmodernità è fatto di Cose piene, di azioni, di merci, di clic su di un computer, di I like. Oggi la nuova metafisica che è la Tecnica non ci dà alcun nichilismo, non ci consegna alcun Nihil ma ci fornisce il Pieno in grandissima quantità: il Pieno dei markettifici, il pieno del negotium che ha sostituito l’otium. Tutto ciò non coincide con nessuna essenza dell’arte nel punto estremo del suo destino (hegelianamente inteso); l’essere dell’arte si destina all’uomo come un qualcosa che non può essere pronunciato, chiamato, definito (come pronunciare il Pieno?). Probabilmente, finché il nichilismo governerà segretamente il corso della storia dell’occidente, l’arte non uscirà dal suo interminabile crepuscolo, un crepuscolo pieno di Cose piene, ovviamente, che altro non è che il modo in cui il Nulla si manifesta come Pieno di Cose, come Pieno.
La bella interiorità? Beh, mettiamo le cose in chiaro e guardiamo le cose bene in faccia: tutta la pseudoarte dei giorni nostri ha il valore dei colori che giacciono al fondo di un lavabo sporco, è pattumiera con del miele intorno per attirare le api, e i gonzi.
Lettera di Giorgio Linguaglossa ad un giovane poeta sulla Musa (2018)
caro [Omissis],
penso che la Sua poesia riuscirà bene quando dismetterà qualsiasi postura neosperimentale, neometrica, neosonora o neoorfica e quando rinuncerà al gioco delle parole e tra le parole, quando rinuncerà a tutto, quando rinuncerà anche alla rinuncia… a quel punto soltanto potrà scoccare la poesia… la Musa, lo sa, è una Signora oltremodo timida, basta un nonnulla che si impensierisce e fugge, si sottrae, si scherma… del resto, tutti la guardano, tutti la bramano, la vorrebbero possedere… questa cosa del «possesso» è una vera barbarie, tutti i plebei dello spirito vogliono possedere la Musa, ma lei si trincera dietro il rifiuto, si rifiuta, ecco tutto, di apparire in pubblico, rigetta qualsiasi dono, qualsiasi impegno, qualsiasi obbligazione, è una fanciulla timida e solitaria, pallida, scarmigliata… vuole soltanto trincerarsi dietro una spessa coltre di silenzio e di oblio, rifugge la balbuzie dei letterati, la loro grassa ignoranza e supponenza, la loro triviale arroganza… e poi rifugge le poetiche di maggioranza, le trova triviali, ne è spaventata…
Marie Laure Colasson
“Baudelaire è il poeta che deve fronteggiare la dissoluzione della tradizione nella nuova civiltà industriale e si trova quindi nella situazione di dover inventare una nuova autorità: egli ha assolto a questo compito facendo della stessa intrasmissibilità della cultura un nuovo valore e ponendo l’esperienza dello choc al centro del proprio lavoro artistico. Lo choc è la forza d’urto di cui si caricano le cose quando perdono la loro trasmissibilità e la loro comprensibilità all’interno di un dato ordine culturale. Baudelaire capì che l’arte se voleva sopravvivere alla rovina della tradizione, l’artista doveva cercare di riprodurre nella sua opera quella stessa distruzione della trasmissibilità che era all’origine dell’esperienza dello choc: in questo modo egli sarebbe riuscito a fare dell’opera il veicolo stesso dell’intrasmissibile”.1
La situazione della poesia italiana alla fine degli anni sessanta, alla fine della rapidissima industrializzazione dell’Italia, era alquanto problematica, la poesia si trovava nella condizione di non poter contare sulla propria sopravvivenza, cioè la sopravvivenza non era affatto scontata nelle nuove condizioni di un paese industrializzato, la civiltà di massa era un dato di fatto inevitabile, e la poesia era diventata un manufatto evitabile, perituro, il suo linguaggio era diventato intrasmissibile (nell’accezione agambeniana). Montale tira le conseguenze di questo fatto storico e fa una poesia di piccoli choc quotidiani, utilizza il quotidiano per fare di esso un campo minato irto di mine-choc. Ma non porta fino in fondo questa idea che rimane nascosta dietro l’involucro dell’ironia e dell’autoironia, e dello scetticismo cosmico. Cioè fa un passo indietro proprio quando avrebbe invece dovuto fare un salto triplo mortale in avanti.
1 G. Agamben, L’uomo senza contenuto, 1970, p. 160
Isabella Collodi, La femme, incisione, 2019
Isabella Collodi, Topi di donna luna, incisione
Isabella Collodi, Mandala della stilita, china e acquerello, 40×40 cm.
Isabella Collodi, Mandala del virus, china e acquerello, 40×40 cm
.
Questa è la mia ultima poesia… sulla situazione della poesia attuale… da Les choses de la vie
42.
Eredia la Pompadour et Madame Colasson
montent dans un cyclopousse conduit
par une girafe qui chante un lied de Haendel
La blanche geisha arrive de l’île d’Osaka
munie d’une petite malle en fer blanc
transportant Tristan Tzara à cheval
La Pompadour offre à André Breton
son “amour fou” au delà des mots
Eredia vole à Lucio Mayoor Tosi
son parchemin lézardé pour lui raser la barbe
Gino Rago et Mario Gabriele cherchent
des détritus aux couleurs chatoyantes
pour vacciner Madame Colasson
Hasard des hasards ils se retrouvent tous
au café des “Deux Magots” autour
d’un guéridon bancal et s’assoient sur
des chaises déraisonnables
Breton vêtu de son kimono à fleurs de lotus
s’altère avec Tristan Tzara descendu de son cheval
et proclame que le dadaïsme s’enfouit
dans la joyeuse poussière des temps
Gino Rago le critique Linguaglossa et leurs amis
assis sur des marmottes en rupture de métastases
interviennent et déclarent
que le surréalisme est dépassé
depuis que les zèbres ont perdu
leur merveilleuse géométrie générée par Malévitch
Désormais la poésie passéiste
est amplement remplacée par
l’indigeste cuisine de la poetry kitchen
Le cheval et la girafe pris au dépourvu
avalent des gélules électriques de toutes les couleurs
et vont se promener dans la rues de St. Germain des près
*
Eredia la Pompadour e Madame Colasson
salgono su un risciò guidato
da una giraffa che canta un lied di Haendel
La bianca geisha arriva dall’isola di Osaka
munita di un piccolo baule in ferro bianco
che trasporta Tristan Tzara a cavallo
La Pompadour offre ad André Breton
il suo “amour fou” al di là delle parole
Eredia ruba a Lucio Mayoor Tosi
la sua pergamena screpolata per radergli la barba
Gino Rago e Mario Gabriele cercano
dei detriti dai colori cangianti
per vaccinare Madame Colasson
Fortuna delle fortune si ritrovano tutti
al caffè dei “Deux Magots” intorno
a un tavolino traballante e si siedono su
delle sedie irragionevoli
Breton vestito con un kimono a fiori di loto
s’inalbera con Tristan Tzara sceso da cavallo
e proclama che il dadaismo se ne è fuggito
nella gioiosa polvere del tempo
Gino Rago e il critico Linguaglossa e i loro amici
assisi su delle marmotte in rottura di métastasi
intervervengono e dichiarano
che il surrealismo è superato
da quando le zebre hanno perduto
la loro meravigliosa geometria generata da Malevitch
Oramai la poesia passeista
è stata ampiamente rimpiazzata dall’indigesta
cucina della poetry kitchen
Il cavallo e la giraffa presi alla sprovvista
inghiottono delle capsule elettriche di tutti i colori
e vanno a passeggio per le vie di St. Germain des près
Pensare ad una essenza originaria della poiesis, l’abitare dell’uomo sulla terra, è quantomai fuorviante. Si può immaginare un’essenza della poiesis provenendo dal futuro, mai dal passato. Il compito urgente del nostro tempo è qui per Marie Laure Colasson quello di mettere in questione il «senso» stesso dell’opera poetica, che deve avvenire attraverso la «dimenticanza» della poesia della tradizione essendo essa intrasmissibile per eccellenza e contaminata dalla falsa coscienza; l’opera poietica torna così ad abitare il suo «luogo proprio», torna a parlare del luogo e dal luogo che conosce a menadito, con le persone, i sosia, gli avatar, e magari anche con le maschere, purché siano tutte «proprie» e non allotrie.
La poesia di Marie Laure Colasson abita il «proprio», e lo fa senza infingimenti e senza falsa coscienza. Per questo i suoi avatar sono degli Estranei familiari, sono i suoi doppi, i suoi sosia, i suoi fantasmi con cui l’autrice entra in colloquio familiare. L’opera autentica torna all’origine guardando al futuro, anzi no, provenendo dal futuro. Tornare all’origine significa qui andare avanti, fare una poiesis che abiti il futuro come luogo più proprio (e quindi il più estraneo). In tal senso, e solo in tal senso la poesia della Colasson è un’arte irrealistica in quanto realistica al massimo grado, in quanto inventa, trova il suo realismo a partire dall’irrealismo. Il realismo oggi è lo stato vegetativo permanente della poiesis. Oggi il realismo se vuole veramente assomigliare al reale deve diventare irrealismo al massimo grado, deve provenire dal futuro, non più dal passato. Deve dimenticare il passato.
(Giorgio Linguaglossa)