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Antonio Sacco, L’haiku come modello di approccio alla poesia

 

Antonio Sacco è nato a Agropoli nel 1984, scrive e compone versi nel cuore del Parco Nazionale del Cilento. Studioso di poesia, in particolare di poesia d’origine giapponese, ha pubblicato molti articoli in vari blog e riviste on-line dedicate al genere haiku. E’ membro di giuria del Premio Nazionale “L’Arte in Versi”, nel 2015 con Arduino Sacco Editore ha pubblicato la silloge di haiku In ogni Uomo uno haiku. Si dedica con passione e regolarità allo studio e alla composizione di poesie sia in metro prestabilito sia in versi liberi.

*

Scopo di questo articolo è analizzare la possibilità di concepire il genere haiku come un modo di approccio alla poesia in generale, in particolare alla poesia in versi liberi. Prenderemo in considerazione gli aspetti caratterizzanti di uno haiku cercando di applicarli alle poesie in versi liberi, valutando un ipotetico criterio di approcciare a quest’ultimo modo di fare poesia attraverso il genere haiku. Introdurremo l’idea dello haiku come “atomo poetico” ossia l’unità poetica di base dal quale possono originarsi altre forme liriche. Nell’ultima parte di questo articolo focalizzeremo l’attenzione sul rapporto fra il genere haiku e come questo può costituire un modo di rapportarsi alla realtà.

Lo haiku come modello di approccio alla poesia

L’impianto in cui è strutturato uno haiku, oltre al metro prestabilito in 5/7/5 sillabe nei tre versi, prevede, nella maggior parte dei casi, la giustapposizione o, comunque, il collegamento di due immagini distinte presenti nel componimento stesso. E’ quello che viene generalmente indicato col termine di toriawase, la quale può essere ulteriormente suddivisa in due diversi sottotipi: la torihayasi (stacco semantico) e il nibutsu sogheki (ribaltamento semantico). Chiariamo prima di tutto con un esempio il concetto di toriawase (giustapposizione d’immagini):

shibui toko

haha ga kuikeri

yama non kaki

*

kaki di montagna:                                                (v. 1 prima immagine)

è la madre a morderne

le parti aspre                                                         (Vv. 2-3 seconda immagine)

(Kobayashi Issa – da “Haiku: il fiore della poesia giapponese”; Mondadori 1998)

Figure haiku di Lucio Mayoor Tosi

pseudo haiku di Lucio Mayoor Tosi

Nel sottotipo di toriawase chiamata torihayasi le immagini proposte si armonizzano fra loro, quasi sostenendosi a vicenda, un esempio di questo caso particolare di toriawase lo possiamo ritrovare in questo componimento del Maestro Basho:

uyu no hi ya

bajo ni koru

kageboshi

*

giorno d’inverno:

gelata sul cavallo

la mia ombra

(da Haiku: il fiore della poesia giapponese; Mondadori 1998)

Per quanto riguarda l’altro sottotipo di toriawase, il nibutsu sogheki, troviamo che le due immagini fornite entrano in aperto contrasto fra loro, quasi scontrandosi fra esse. Grazie allo stacco (kire) il flusso ideativo subisce un repentino e brusco cambio, un esempio particolare di questa tecnica è data da questo componimento di Ikenishi Gonsui:

uo hanete

mizi shizuka nari

hototogisu

*

il guizzo di una carpa

l’acqua torna piatta –

un cuculo Continua a leggere

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CHIARA CATAPANO, Dalla DISFANIA ALL’INDICENZA della PAROLA POETICA L’ORIGINALITÀ come NOSTOS (RITORNO) ALL’ORIGINE con POESIE di D. H. LAWRENCE, GIORGIO LINGUAGLOSSA, STEVEN GRIECO-RATHGEB, SAFFO, GUIDO GALDINI, KATARINA FROSTENSON, GIOVANNI BOINE, DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO, CHIARA CATAPANO, IOULITA ILIOPOULOU, LUCIO MAYOOR TOSI

Foto Karel Teige_1

[Karel Taige] le Disfanie hanno creato uno spazio propizio: uno spazio, cioè, dove le categorie di sacro/profano… mescolano…

La lettura di Disfanie di Steven Grieco-Rathgeb ha avuto in me l’effetto di chiarire un fatto centrale, su cui la «nuova ontologia estetica» da tempo si interroga, e in cui – a volte – si dibatte caparbiamente cercando l’approdo di partenza, l’attacco. Perché si dice, sappiamo da dove veniamo, non sappiamo dove andiamo: ma alle volte è l’apparire del presente-futuro che c’illumina la strada alle spalle.
Ciò che mi si è chiarito, riguarda il che cosa si intendesse per poesia ancorata nel Novecento, cosa la rendesse tale – nonostante i tentativi di spiegazione. Capivo, ma non comprendevo. La testa argomentava, la pancia non assimilava. Cosa rende una poetica foriera di venti nuovi?
Lì dove il pensiero mal digerito s’inceppava, le Disfanie hanno creato uno spazio propizio: uno spazio, cioè, dove le categorie di sacro/profano (nell’approfondimento del regista Mani Kaul, di cui s’è già più volte parlato sull’Ombra delle Parole) mescolavano le rispettive acque dolci e salate.
Ma cosa dunque è successo?

Figure haiku 1 Lucio Mayoor Tosi

pseudo Haiku di Lucio Mayoor Tosi

Nel post successivo a quello in cui presentavo le Disfanie, si antologizzavano alcune poesie di Guido Galdini. Ho scritto, in un commento a Galdini, quanto segue:

“Galdini non scrive poesia al presente, ma per parlare del presente. Dunque d’un millimetro soltanto, si lascia scappare l’attimo. E quell’attimo, scivolato nel “è stato”, si declina in morale, suo malgrado.
Due esempi:

sfida la figlia che sta sbocciando:
più attillati i calzoni, più spietate le ciglia,
più indiscreta l’abbronzatura del volto
ma lo sguardo si approssima troppo in fretta,
malgrado l’indulgenza dei cosmetici,
a una foglia che novembre ha deciso
di non dare il permesso agli altri mesi di cogliere.

*

hanno trovato il cane che si era perso
nella campagna dalle parti del cimitero,
lo tengono legato
a un guinzaglio di corde di tapparella;
ora aspettano l’arrivo del padrone,
e intanto provano a farselo un po’ amico
è soltanto da azioni come questa,
contate a minuzie, a miriadi, a infinità,
che alla fine di tutte le rincorse
forse anche il mondo potrà essere salvato.

In entrambi i componimenti, la chiusa cerca una via di fuga nel senso ultimo, nel riappropriarsi dell’eterno fuggente. Questo chiudere il discorso che sbocciava, ripiega di quel tanto che basta le poesie perché il lettore senta che qualcosa gli è stato tolto: e dunque la possibile astrazione nella descrizione del reale, diviene narrazione e la tensione cade”.
Cosa può oggi dire il poeta, senza che il presente vissuto divenga immancabilmente presente narrato?
Non gli resta che l’ “indicenza”, non può che lasciare alla parola l’auto-disvelamento. Altrimenti avremo la morale. Altrimenti saremo scivolati nell’attimo passato, non saremo più a dire l’accadere, ma lo staremo descrivendo.
La poesia che oggi non si ponesse questo problema – se dovessimo fare un paragone con le arti figurative – ci apparirebbe come un dipinto impigliato nella tela.
Il verso avrà dunque tolto la parola al poeta.
Non si tratta perciò di svelare alcun mistero, ma di lasciarlo emergere: soffermarsi nel ventre polifonico della realtà, e ascoltare.
La poesia deve poter raggiungere, attraverso le tempeste dei rapporti umani, delle profonde disarmonie, il nucleo luminoso della parola: attraverso la confusa sovrabbondanza delle parole raggiungerne il nucleo, il seme luminoso. Cantare il silenzio dentro la parola, che significa illuminarla.
In questo il poeta impara che originale è chi affronta il percorso verso il nuovo come nostos, ritorno ab origine (per dirla in forma d’ossimoro): ove la parola nuda si riempie del presente perché il poeta non cerca di piegarla, ma le permette di risuonare.
Non è forse sempre stato così, per ogni tempo? Cosa ci fa dire a distanza di secoli che i versi di Saffo

“il prato delle cavalle
è in germoglio di fiori primaverili,
dolce soffia la brezza…”

ἐν δέ λείμων ἰππὀβοτος τέθαλε
ἠρίνοισιν ἂνθεσιν, αἰ δ’ἂηται
μέλλιχα πνέοισιν Continua a leggere

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